intervista al sindaco di Taranto che ha esposto la bandiera della pace



Intervista al sindaco di Taranto Rossana Di Bello
(sarà pubblicata su Nuovo Dialogo, settimanale diocesano di Taranto)

"Lasciatemi vivere in un mondo dove non vi siano gli esclusi. Voglio vivere in un mondo dove gli uomini avranno diritto solo perché sono uomini senza altro titolo che questo, senza essere ossessionati dalle parole, dalla bandiera. Voglio che più nessuno tema di essere arrestato, perseguitato. Voglio che l'immensa maggioranza, la sola maggioranza, tutti possano leggere, ascoltare, realizzarsi": Pablo Neruda e l'idea della pace. L'iscrizione sulla scalinata di Palazzo di Città è monito e memoria. Attorno, la cornice di silenzio ne esalta i colori dell'anima, enfatizza i ritmi del cuore. Non è un caso che quella lapide fu fatta esporre nella casa comunale da Rossana Di Bello, appena eletta sindaco di Taranto; oggi, a trentatre mesi dall'insediamento sullo scranno di primo cittadino, un vessillo multicolore sventola dal suo balcone su piazza Castello. Al centro una parola pesante, imponente pur nel suo bisillabismo: pace. "L'idea l'ho copiata dal presidente del Consiglio regionale, De Cristofaro" - si schermisce il sindaco.
Le belle idee, gli esempi costruttivi, 'valgono' se qualcuno li imita; in sé hanno valore relativo.
Gesto simbolico, certo, ma ci aggrappiamo a tutto, anche ad una bandiera, a quella bandiera blu-celeste-viola-verde-gialla-arancione-rossa, in momenti crepuscolari come questi di fine-inizio millennio. Che quello straccio di stoffa colorata agiti l'aria, ne porti di nuova e spazzi via la malsana: non abbiamo bisogno di obici; piuttosto di comprensione e dialogo.
"Spero che la bandiera rappresenti un momento di riflessione per tutti: per godere di quel privilegio che abbiamo nel vivere senza conflitti; e poi perché possiamo ricordare nelle nostre azioni quotidiane che ci sono paesi che soffrono vivendo ancora adesso le conseguenze di una guerra", esordisce la Di Bello.
Siamo andati a sentire il sindaco per capire se, dopo l'esposizione del vessillo multicolore, avesse in serbo altre iniziative di promozione di una cultura di pace.

Pensando al suo pragmatismo non possiamo immaginare che quel gesto, seppure molto significativo, non si accompagni ad azioni concrete...
"Mi sono interrogata su questo aspetto ma l'attuale è un momento molto delicato in cui basta poco perché un'azione venga vista come un'invasione di campo rispetto a competenze specifiche; facendo sventolare la bandiera della pace abbiamo voluto dire la nostra, pur nella consapevolezza che le guerre non si fanno perché a qualcuno piace farle, ma ché talvolta si vengono a creare situazioni particolari per cui vanno tutelati interi popoli. Non dimentichiamoci che anche l'attacco dell'11 settembre è stato un atto di guerra vero e proprio, dei più deplorevoli, contro migliaia di innocenti. Chi passa da Palazzo di Città deve poter ripensare e godere di quello che abbiamo, dei privilegi di cui beneficiamo: la libertà, la democrazia, tutto quello che è stato conquistato a costo di molte vite dai nostri predecessori".

Suggerirebbe un'ottica diversa da cui vedere le cose?
"Non dovremmo pensare alla guerra in quanto tale, la cui opzione spetta a chi comanda - e ognuno di noi non può che sperare che la guerra non ci sia - ma a quale contributo si possa offrire nella quotidianità perché non ci creino quelle condizioni che portano ad uno scontro bellico. Ho vissuto la grande esperienza di un pellegrinaggio in Palestina. Stare lì vuol dire capire tante cose che la distanza - non solo chilometrica, forse per niente chilometrica - non ci permette di percepire. Siamo lontani culturalmente, nel sentire la religione... Dobbiamo anche interrogarci su come vivere la nostra fede con maggiore concretezza. Siamo certi che ognuno di noi è un vero cristiano? Io penso di no. Siamo tutti disposti a chiedere perdono dei nostri peccati, ma forse un'attenzione maggiore alle nostre azioni potrebbe portare ad una qualità migliore della vita che nel rapporto col prossimo si concretizzerebbe con lo smussamento di molti angoli e l'eliminazione - o perlomeno il ridimensionamento - di tante conflittualità. C'è tutto un mondo dietro gli esaltati che si schiantano sulle torri gemelle che chiede azioni diverse, chiede giustizia, attenzione e chiarezza su molteplici aspetti del loro sistema. Io sono convinta che nessuno abbia ragione al cento per cento come ritengo che nessuno abbia torto al cento per cento. Bene, queste sono riflessioni che devono appartenere alla società allargata e, proprio perché devono partire dal basso, interessano ciascuno di noi".

Questa riflessione di cui lei parla potrebbe essere sollecitata attraverso qualche iniziativa formativa?
"Credo che da questo punto di vista il Papa stia facendo un'opera incredibile. Si pronuncia in continuazione invocando la via del dialogo rispetto a quella delle armi..."

Ma non ritiene che questa 'santa' parola sia sempre meno ascoltata? Sembra che per mantenere un cattolicesimo di facciata siamo tutti bravi a plaudire al suo pronunciamento; poi i comportamenti non sono consequenziali...
"Intanto meno male che c'è. È importante che qualcuno parli; come pure ho molto apprezzato gli ultimi scritti del nostro arcivescovo, quello su cattolici e democrazia ad esempio, che hanno sollecitato una riflessione in me e in tutta l'amministrazione che si è tradotta in un commento e in una discussione. Certo, non sono ascoltati dalla maggioranza: per questo occorrono ulteriori azioni che, portate avanti da un contesto che non è legato alle istituzioni, abbiano il respiro profondo della consapevolezza collettiva contro certi rischi.
Il momento che stiamo vivendo deve imporci di abbandonare le appartenenze. In pochissimi vogliono la guerra: molti la subiscono, tanti non la capiscono..."

E allora cosa fare?
"Ci siamo interrogati a lungo: qualunque azione deve essere concordata, innanzitutto con la Chiesa; magari capire quello che sta avvenendo perché anche la più apartitica delle iniziative non venga strumentalizzata politicamente; o interpretata come un atto di presunzione da parte di una piccola realtà che crede di cambiare le politiche del mondo".

Il concetto di pace non può disgiungersi dall'educazione alla pace: pensa che l'amministrazione che governa possa impegnarsi per mettere in cantiere qualche iniziativa di educazione per i giovani organizzando, ad esempio, incontri periodici nelle scuole sulla pace?
"Questo sicuramente: credo che un nostro impegno sia quello di investire sui giovani, perché i nostri errori non siano condivisi dalle nuove generazioni. La mia è stata molto bella perché caratterizzata dai tanti sconvolgimenti del '68: ricordo benissimo che da ragazzina trattavamo con devozione il simbolo della pace, che era impresso dappertutto. Avevo un medaglione di latta con quel simbolo. Ora mi sembra che ci sia un ritorno di quel momento storico che ci ha formato a certi valori, all'attenzione a certe problematiche. Fornire la nostra esperienza ai giovani, agli studenti, perché si evitino nuove guerre in futuro, perché le conflittualità si leggano in altro modo, contrapposto al ricorso alle armi, mi sembra tutto sommato possibile. Quel movimento che c'è stato a cavallo tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 ha prodotto tanto in termini di formazione e di partecipazione; poi... si è vissuto di rendita.
Abbiamo spesso utilizzato la scuola per lanciare messaggi positivi alle nuove generazioni come la promozione del senso civico, l'attaccamento alla propria città..."

Le sue parole, i suoi gesti, sono stati spesso ben accolti dai movimenti pacifisti di Taranto. Forse sono maturi i tempi per la creazione di una consulta per la pace.
"Ci sono diversità di fondo tra chi ha responsabilità di governo e chi ha libertà piena di parola, ma ho verificato che ci sono moltissimi punti di convergenza.
Sono sempre favorevole a tutte quelle situazioni, per piccole che siano, che creano contributi alla civiltà. Foss'anche che rimanessero circoscritte al nostro territorio, come riflessione ai nostri giovani, lo leggerei come fatto molto positivo".

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