ILVA: morire di precariato



Il suo sogno, lo inseguiva a occhi aperti raccontandolo ai suoi compagni di
lavoro, era quello di portare Addolorata e Anna, la sua compagna e la loro
figlioletta, via da qui. Lontano da queste similcase di via Machiavelli,
scatoloni lunghi e piatti, marrone sporco, accovacciati tra panni stesi,
bambini e cumuli si spazzatura, nella parte più degradata dei Tamburi, uno
dei quartieri più popolosi e popolari di Taranto.

Viveva lì, in coabitazione con la futura suocera, accantonando lira su lira
per il matrimonio e un bel bilocale coi servizi. «Ci pensi quant'è bello a
casa tua, con tua moglie e tua figlia?», ripeteva ad Angelo, uno dei suoi
amici più intimi. Ma Marco Perrone, operatore d'esercizio dell'Ilva, non ce
l'ha fatta. Il suo sogno è stato stritolato, come la sua gamba, da un nastro
che continuava a correre tra gli ingranaggi nonostante lui ci fosse caduto
addosso. Prima, l'orrore dell'amputazione; poi, dopo sofferenze lunghe e
atroci, la fine. Un nastro terribile che s'è portato via anche i progetti
d'Addolorata, vedova prima d'essere moglie, e quelli su cui lui e lei
insieme fantasticavano per l'inconsapevole Anna. L'orgoglio del lavoro in
fabbrica, del posto quasi sicuro in una grande azienda siderurgica, per
Marco, è durato soltanto cinque mesi, da marzo a luglio per 870 euro al
mese, quanto più o meno stabilisce il contratto di formazione e lavoro:
cinque mesi di stipendio e la morte a 29 anni. Ora ci saranno le inchieste,
la carta bollata, gli avvocati capaci di disquisire a favore e contro sulle
responsabilità di quel precipitare sopra il nastro in movimento. Forse Marco
ha avuto un capogiro. Forse ha fatto una manovra che non doveva fare. Forse.
Chissà? Ma da nessun documento emergerà la causa vera di quella morte che si
aggiunge ad un elenco troppo lungo e troppo poco considerato. Da tutti.
«Può restare qui un mese, tutti le diranno in privato quel che dico io, ma
non troverà nessuno di noi che, nome e cognome, le dica la verità sulle
morti all'Ilva. All'Ilva si muore di precarietà e di ricatti». Giovanni è
giovanissimo, ha studiato, è colto. Anche lui lavora all'Ilva. Il suo nome,
come quello sopra di Angelo, è falso. Falso perché all'Ilva c'è paura,
precarietà e ricatti, impossibili a dimostrare, sempre vaghi e impalpabili,
per chi lavora all'Ilva, sono un pericolo devastante. Mi spiega meglio
Giovanni: «All'Ilva siamo più di dodicimila ma oltre seimila sono precari.
Hanno contratti di formazione e lavoro, o di altro tipo, che hanno tutti una
caratteristica: non c'è alcuna certezza che alla fine di questo periodo di
precariato scatta l'assunzione, quella vera e propria, con tanto di articolo
18. La direzione della fabbrica tiene questi seimila sotto pressione. Il
termine giusto e indimostrabile è: sotto ricatto. Ti chiedono di fare un
lavoro pericoloso che non dovresti fare? Tu puoi rifiutarti, ma passi subito
per un rompicoglioni e l'assunzione s'allontana. Nessuno osa protestare per
quel che ti chiedono. Anzi c'è una gara perversa a fare di più, a restar
zitto, a non osare. Marco, per esempio, è caduto mentre faceva un lavoro da
solo. Avrebbe dovuto essere assieme ad un altro suo compagno. Forse avrà
fatto una manovra affrettata, per non bloccare la macchina, per non far
notare che non riusciva a trarsi d'impaccio, da solo e rapidamente come si
pretende. Ed è morto». Quel che è certo è che l'azienda non paga mai: morti
e infortuni gravi non sono mai incidenti strutturali, dipendono sempre dalla
colpa e dalla responsabilità della vittima. Del resto, spiega Giovanni, il
contratto di formazione dovrebbe formare, insegnare il mestiere. «Non esiste
neanche. Vieni subito gettato in un lavoro vero e proprio. Le ultime leve di
ragazzi non hanno trovato più gli anziani o ne hanno trovati pochissimi.
Qualche rapida nozione e via a lavorare come tutti gli altri. Protesti?
Sarebbe una forma di suicidio rispetto al lavoro».
Fa una piccola pausa Giovanni, e continua: «Ma lo sa che tra i precari non
si ammala mai nessuno? Ma proprio nessuno. L'hanno scritto anche sul
giornalino della fabbrica (tutti articoli non firmati tranne quello del
segretario della Fiom, ndr). Perché? Perché chi si ammala si mette in ferie
in modo che la malattia non risulti sulla sua cartella. Se non sei
rompicoglioni ma sei malaticcio non è che cambi molto. Poi può capitare che
hai finito le ferie e ti ammali un'altra volta. E così accade d'incontrare
ragazzi con un febbrone da cavallo che si presentano a lavorare puntuali
come scoppiassero di salute». Scrive C.R. sulla Nuova fabbrica, notiziario
Fiom-Cgil: «Diminuiscono i casi di malattia e le adesioni agli scioperi, ma
aumentano gli infortuni (quelli denunciati) e la produzione. Possibile che
nessuno si sia chiesto come mai nel periodo del contratto a termine nessuno
mai si ammala?». Già, perché non se lo chiede nessuno? Rivela una storia
drammatica e amara, Giovanni: «Due mesi fa Marco scivolò su una serie di
sassetti, dei minerali sparsi per terra, mentre faceva una manovra
complicata. La caviglia gli si gonfiò a vista d'occhio. Lo pregammo in
ginocchio perché si mettesse in malattia. Ma lui, niente. Neanche a
parlarne. Andò un attimo al pronto soccorso per farsi vedere e li pregò di
non dir nulla. Per fortuna il giorno dopo era di riposo, qualche giorno di
ferie e si riuscì a creare una copertura di quattro giorni per rimettersi a
posto; o quasi. Ecco, si vive così all'Ilva».
«Lei dirà: i precari e vabbene, ma gli altri seimila? Gli altri seimila -
continua Giovanni imperterrito - hanno, in una percentuale altissima, ma
proprio altissima, un figlio, un nipote o un parente precario, arrivato lì
perché magari la fabbrica ha riconosciuto che il padre, zio o quant'altro ha
ben meritato. Lo sanno tutti che va così, anche i sindacati. Puoi metterti a
rompere rischiando di ributtare sulla strada e senza lavoro tuo figlio che
in una situazione di grande disagio sociale si guadagna 870 euro la mese con
la prospettiva - se si comporta bene lui, se ti comporti bene tu -
dell'assunzione?».
Nella chiesa di San Francesco lunedì pomeriggio c'era commozione. La
compagna di Marco stupita e distrutta, la madre, le sorelle, fratelli e
cognati. Una scena struggente dominata dal volto severo del padre, capoturno
in pensione dell'Ilva: ha dedicato tutta la vita alla fabbrica che ora gli
ha rubato il figlio. L'Ilva ha deciso, come in altri casi analoghi, di
pagare il funerale. Provvederà, non si sa in che termini, anche a far
sentire la propria solidarietà ai familiari. Ci sono i volti impietriti dei
ragazzi e degli uomini dell'Ilva. Chissà quanti di loro tra rabbia dolore e
indignazione si saranno sorpresi a pensare che sarebbe potuto capitare a
loro. Nell'azienda c'è un detto duro: «All'Ilva la sicurezza, prima di
tutto, devi organizzartela da solo».
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Articolo di Aldo Varano, tratto da "l'Unità" on line
[http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=18357
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