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Cei, troppo tardi

di Franco Monaco

in “Europa” del 29 gennaio 2011

I moniti ecclesiastici all’indirizzo del premier hanno avuto grossomodo il tenore che mi attendevo.

Piuttosto un certo disagio lo ha suscitato in me il clima che li ha circondati. A monte e a valle. A

monte, un esorbitante carico di attese naturalmente di segno opposto: di speranza ovvero di

apprensione per una censura annunciata. A valle: le puntuali, troppo scontate e prevedibili reazioni

ad essi; l’ipocrita rimozione da parte dei supporter del premier («erano parole rivolte

indistintamente a tutti», si è osservato, mentendo e rasentando il ridicolo); la goffa rincorsa di tutti a

strattonare in un senso o nell’altro le parole degli alti prelati.

Le parole di riprovazione del cardinal Bagnasco per la condotta e lo stile di vita di Berlusconi sono

state oggettivamente e inusitatamente chiare e forti. Inutile girarci intorno o fingere di non avere

inteso.

Certo, esse sono state accompagnate da un ricercato equilibrismo, riscontrabile in quel riferimento

francamente forzoso ed eccentrico al dispiegamento dei mezzi di indagine da parte della

magistratura.

Un equilibrismo che riflette la propensione a interpretare la sacrosanta alterità/trascendenza della

parola della Chiesa rispetto alle parti politiche come ossessione della neutralità o dell’equidistanza.

Non sempre e di necessità la virtù sta nel mezzo. La profezia non può essere ostaggio dell’assillo di

posizionarsi fuori o a mezza strada tra le parti. Essa mal si concilia con il bilancino e dovrebbe

piuttosto conformarsi allo spirito del motto episcopale che si scelse il cardinale Martini: «pro

veritate adversa diligere» (in nome della verità non esitare a scegliere e amare le avversità e le

opposizioni, che vanno messe nel conto).

Ma, della prolusione di Bagnasco, va apprezzata la sostanza. Leggendola con attenzione per intero e

non limitandosi alla pagina saccheggiata dai media si ricava l’impressione che, in essa, centrale è

piuttosto l’allarme sul «disastro antropologico». Da tempo, nella riflessione della Cei, si rimarcava

la centralità della cosiddetta “questione antropologica”. Ma quella formula abitualmente

sottintendeva il riferimento ad altro ordine di problemi. Grosso modo: la concezione della persona,

il relativismo etico e, più in concreto, le insidie portate sul piano dell’etica familiare e delle

questioni bioetiche da culture e legislazioni di stampo libertario.

Nell’intervento in oggetto, invece, il disastro antropologico denunciato ha piuttosto a che fare con

l’ethos comune, con costumi e comportamenti, veicolati dalla cultura di massa. Un approccio più

concreto e meno ideologico dal quale, a mio avviso, scaturiscono tre quesiti per la Chiesa italiana.

Quesiti, diciamolo più esplicitamente, che mettono in discussione la linea seguita dai suoi vertici

negli ultimi venticinque anni. Dal convegno ecclesiale di Loreto del 1985.

Primo quesito: come si concilia la denuncia del limite allarmante cui si è spinto il degrado eticoantropologico

(appunto il «disastro») con la tesi (illusione?) a lungo coltivata che l’Italia

rappresenterebbe una positiva eccezione tra i paesi europei e occidentali nella tenuta di un ethos e di

buone tradizioni cristiane, specie sul versante dei costumi familiari? L’involgarimento della cultura

di massa (attestato da una tv il cui degrado non conosce eguali in nessun altro paese) e la stessa

colpevole indulgenza italiana verso i comportamenti degli uomini pubblici che lascia interdetto il

mondo intero sembrano smentire quell’autorassicurante rappresentazione di una positiva

“differenza italiana” sulla quale la Cei ha mostrato di fare affidamento in questi anni. E proprio sul

piano cruciale del rapporto uomo-donna, dei costumi di vita sessuali e familiari, dei modelli

proposti alle giovani generazioni.

Si pensi all’idea-forza sottesa al Family day, quella di un popolo impregnato dei valori familiari di

matrice cristiana cui si opponeva un legislatore succube di una elitaria ideologia laicista ostile alla

famiglia.

Secondo interrogativo. È difficile negare che le gerarchie cattoliche italiane, in questo arco

temporale, abbiano decisamente accresciuto la loro influenza sulla politica, in concreto su governo,

parlamento e legislazione. Un’influenza teorizzata ed esercitata non per mera volontà di potere

(sarebbe ingeneroso leggere in questa chiave la linea a torto o a ragione intestata al cardinale Ruini

con l’alto avallo di Giovanni Paolo II) ma mossa dal nobile proposito di arginare e, se possibile,

invertire il trend della scristianizzazione della mentalità e del costume.

Dopo venticinque lunghi anni tuttavia non è fuori luogo, sine ira ac studio, interrogarsi sul bilancio

di quella strategia politico-pastorale. Se le severe parole di Bagnasco sul disastro antropologico

hanno un senso esse suggeriscono un rendiconto piuttosto critico. È da chiedersi se l’enfasi sulla

Chiesa quale forza sociale e sul ruolo pubblico trainante del cattolicesimo in Italia con il loro

corollario di un attivismo delle gerarchie sul fronte politico abbia pagato sul terreno che più

dovrebbe premere alla Chiesa, quello appunto della qualità cristiana di persone e comunità, nonché

del tessuto etico della convivenza.

Terzo ed ultimo interrogativo. Per esperienza diretta e ravvicinata possiamo asserire (Prodi ne sa

qualcosa) che i vertici della Cei a quelli della nostra parte politica non hanno fatto sconti. Se non

vogliamo indulgere all’ipocrisia, ci è lecito osservare che, con i nostri avversari, essi sono stati più

di manica larga? E che la giusta cura delle gerarchie di marcare la propria distanza da tutte le parti

politiche non si è concretata poi in una esatta equidistanza? Si può onestamente sostenere che un

tale accreditamento offerto alla destra berlusconiana, così diversa dalle destre liberali europee, abbia

dato frutti? I fatti (e le parole di oggi del presidente Cei) sembrerebbero dire di no. Forse – ma

questa è conclusione mia – la catastrofe morale prima che politica sotto i nostri occhi dovrebbe

suggerire una correzione di giudizio e di condotta.

La riassumo per titoli: 1) l’Italia è messa peggio di altri, altro che “differenza positiva” di un paese

nel quale resisterebbe una solida radice cattolica; 2) non solo la scristianizzazione ma, di più, il

degrado morale e civile si sono semmai spinti oltre ogni limite immaginabile; 3) il vettore di tale

devastante mutazione antropologica è riconducibile non già alle leggi alle culture e alle forze

politiche di stampo laicistico-libertario ma a una pervasiva e corrosiva (in)cultura della

mercificazione di persone e cose veicolata dai media e sedimentata negli anni; 4) la politica, per

definizione, da sé sola non basta a contrastare tali fenomeni degenerativi, ma certo essa semmai

coopera ad acuirne la portata se affidata al dominus di una formidabile macchina del consenso che

tanto ha contribuito a quella deriva etico-antropologica, incarnandola, rivendicandola ed esaltandola

con i suoi comportamenti; 5) il brusco risveglio che segue alla lunga parentesi di un’illusione ci

suggerisce una domanda conclusiva: non era forse più saggia e lungimirante la via imboccata dalla

Chiesa italiana nel dopo Concilio e messa in mora a metà anni ottanta? Una linea ispirata a due

idee-forza: quella di una Chiesa che davvero tenga fede al primato dell’evangelizzazione e della

formazione cristiana delle coscienze in un paese scristianizzato non meno di altri (visto che la

scorciatoie politiche non pagano); e la scommessa fiduciaria su una politica affidata a laici cattolici

“adulti” (sì, proprio loro) pur diversamente dislocati e non a un patto siglato al vertice con uomini e

forze compiacenti ma manifestamente agli antipodi di una visione cristiana della vita. Uno scambio

che, con il tempo, si è rivelato un pessimo affare.