R: [Mir-forum] Re: [MIR-Riconciliazione] Il capo di stato maggiore della Difesa alla Tavola della Pace



Mi permetto di citare "un" Gandhi, per aiutare la riflessione:

Gandhi, Mohandas Karamchand
(1868 – 1948)
Che cosa intendo per non-violenza" (23 marzo 1922)

(...)
La verità (satya) implica amore, e la fermezza (agraha) genera - e quindi ne è sinonimo - la forza. Perciò ho preso a chiamare satyagraha il movimento per l'indipendenza dell'India. Vale a dire: una forza che nasce dalla verità, dall'amore, dalla non-violenza.

Ahimsa è attributo dell'anima e, quindi, deve esser praticato da chiunque, in ogni faccenda della vita. Se non vien messo in pratica in ogni settore, non ha alcun valore pratico.
(...)

Siccome la dottrina della spada è così radicata nella maggior parte degli uomini, siccome il successo della non-collaborazione dipende soprattutto dalla rinuncia a ogni violenza dal principio alla fine, e siccome le mie tesi al riguardo determinano la condotta di un gran numero di persone, desidero precisare questi concetti nel modo più chiaro possibile.
Credo fermamente che, laddove non ci sia da scegliere che tra codardia e violenza, si debba consigliare la violenza. Perciò, quando il mio figlio maggiore mi chiese come si sarebbe dovuto comportare qualora fosse stato presente allorché io, nel 1908, venni aggredito e ridotto quasi in fin di vita (scappar via e lasciare che mi ammazzassero, oppure seguire il suo istinto e usar la propria forza fisica per difendermi), io gli risposi che sarebbe stato suo dovere difendermi, anche a costo di usare violenza.
Però credo fermamente che la non-violenza sia mille volte superiore alla violenza, che il perdono sia più virile del castigo. «Il perdono nobilita il soldato». Ma l'astensione dal castigo equivale al perdono soltanto allorché si ha il potere di punire; non ha senso, invece, quando proviene da una creatura impotente. Un topo non perdona il gatto nel momento in cui non può far altro che lasciarsi sbranare. Io, perciò, apprezzo il sentimento di quanti reclamano l'esemplare punizione del generale Dyer e dei suoi pari. Lo farebbero a pezzi, se potessero. Ma non credo che l'India sia impotente. Non considero me stesso una creatura impotente. Solo, intendo usare la mia forza e la forza dell'India per uno scopo migliore.
Non mi si fraintenda. La forza non deriva dalla capacità fisica. Proviene da un'indomita volontà. Uno zulu medio è in grado di sopraffare, in qualsiasi momento, un inglese medio, in un combattimento corpo a corpo. Però fugge di fronte a un ragazzino inglese, poiché teme la sua rivoltella o quelli che l'userebbero per lui. Teme la morte e perde coraggio nonostante la prestanza fisica. Noi in India potremmo anche renderci conto da un momento all'altro che centomila inglesi non debbono spaventare trecento milioni di esseri umani. In questo caso, certo, il perdono significherà il sicuro riconoscimento della nostra forza. Assieme al perdono illuminato verrà senz'altro a noi, come un'onda, una gran forza, e allora non sarà più possibile a un generale Dyer o a un Frank Johnson recare affronto all'India remissiva. Importa poco che, per il momento, io non riesca a inculcare il mio principio.



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Caro Alfonso,

accetta il mio dissenso. Tu torni al Kosovo, ed io ripropongo le riflessioni sofferte di allora e saluto con favore l’incontro nella sede di Libera.


Era la Pasqua del 1999, già 11 anni fa. La scrissi dopo un incontro traumatico dell'associazione Langer dove Barbara uscì in lacrime perché l'associazione non aderì alle manifestazioni contro l'intervento in Kosovo.
Ricordo solo che da Gandhi a Lanza Del Vasto a Capitini e a tutti i teorici della nonviolenza, questa è strettamente legata alla ricerca della verità e assai lontana da atteggiamenti dogmatici di chi ritiene di avere la verità in tasca. Questo comporta il farsi attraversare dalle contraddizioni tanto della vita quotidiana che della storia. Ho conosciuto Alex alle assemblee degli obiettori fiscali alle spese militari, sono un obiettore di coscienza ed ho svolto il servizio sostitutivo civile. Ricordo l'autentico trauma provato quando Alex chiese l'intervento armato in Bosnia. A tanti anni di distanza la riflessione all'interno dell'area nonviolenta non è ancora conclusa come dimostrano le legittime reazioni alle poche righe che ho pubblicato. Tutto questo vale anche come risposta ad Alberto L'Abate e al suo invito ad aderire alla campagna contro le guerre. Nulla in contrario, come non ho nulla in contrario a scendere in piazza contro Berlusconi. Mi chiedo a cosa serve se nell'uno o nell'altro caso non siamo in grado di presentare una alternativa percorribile qui ed ora e non nel nostro legittimo mondo ideale.
Grazie a chi avrà la pazienza di leggere.
Pietro

(Lettere a Barbara Grandi in occasione della discussione, all’interno dell’Ass. Langer, sulla guerra in Kosovo).

Cara Barbara,
è la notte di pasqua. La televisione ha appena trasmesso le prime immagini dei massacri che le milizie serbe stanno compiendo in Kosovo. Altre immagini ci mostrano decine di migliaia di profughi ammassati in strisce di terra delimitate da militari. C’è chi muore per il freddo. Un bicchiere d’acqua e un pezzo di pane significano salvezza, o meglio, sopravvivenza. In questo momento Belgrado e non so quali altri obiettivi sono sotto le bombe della Nato.
E’ possibile, in questa circostanza, provare a fare un discorso pacato ,di merito sul problema?
E’ molto difficile, ma è quello che voglio provare a fare. E’ un lusso che a questi chilometri di distanza ci possiamo e forse anche dobbiamo permettere.
Nominerò diverse volte Langer non per giustificare una posizione pro o contro intervento (mi ha dato fastidio chi ha citato parte di una frase per giustificare i bombardamenti, cancellando in un colpo tutta la sua storia e il travaglio che erano a monte di una posizione che chiedeva un intervento, in un preciso momento e a determinate condizioni, tra cui il mandato ONU, come mi ha dato fastidio chi ha citato il Langer costruttore di ponti per opporsi in maniera netta all’intervento armato dimenticando la sofferta posizione a proposito della Bosnia), ma per riprendere un nodo di riflessione che è politico e che riguarda tutta l’area pacifista e nonviolenta uno dei nodi principali che Langer ci ha lasciato, sul quale la riflessione e la discussione fino ad oggi è mancata, ma che non è più rimandabile.

E’ possibile, è giusto, o meglio, può essere necessario ricorrere alla forza delle armi in determinate circostanze?
La domanda non è nuova nel mondo della sinistra e neppure nell’area pacifista in genere ed è stato risposto di sì, a precise condizioni (rivoluzione, teologia della liberazione, subordinazione ad un diritto internazionale ecc.).
Questa domanda però diventa devastante, in quanto tabù, in un’area nonviolenta più ristretta e radicale di cui Langer faceva parte e alla quale sicuramente io, ma penso anche tu, facevo riferimento (Azione Nonviolenta, LOC, AAM Terra Nuova, Campagna OSM, ecc.). E’ una domanda devastante perché mette in gioco tutta la ricerca e la radicalità del pensiero. Come conciliare un possibile sì con l’obiezione di coscienza alle spese militari? Se a volte le armi possono servire, perché non finanziarle? Perché riconvertire l’industria bellica? Ecc.,ecc..
Infatti finora la risposta è stata categorica: no, il ricorso alle armi non può mai essere giusto.
Langer con la sua esperienza nella ex Juguslavia ha rotto questo tabù:
“Ecco perché occorre una credibile autorità internazionale che sappia minacciare ed anche impiegare –accanto agli strumenti assai più importanti della diplomazia, della mediazione, della conciliazione democratica, dell’incoraggiamento civile, dell’integrazione economica, dell’informazione veritiera…- la forza militare, esattamente come avviene con la polizia sul piano interno degli stati” Il viaggiatore leggero pag.284.
“Allora si dovrà aumentare consistentemente il numero e il mandato delle forze internazionali in Bosnia e confidare loro il compito non più di osservare e testimoniare soltanto, ma di liberare effettivamente gli accessi alle “zone protette” e proteggere realmente le città e le ragioni della convivenza (…) Nelle condizioni attuali, tuttavia, l’ONU dovrà chiedere a chi può –la Nato in buona sostanza- di svolgere tale compito. E non c’è ragione perché paesi come l’Italia o la Germania se ne sottraggano, se richieste dalle Nazioni Unite.” Il viaggiatore leggero pag.317.
Davanti a queste semplici, ma sofferte affermazioni c’è chi ha fatto finta di non sentire. C’è chi sostiene che è arrivato a dire questo perché stava male. C’è chi, addirittura, pensa e dice che Langer si sia ucciso per essere arrivato a queste conclusioni. Trovo queste osservazioni quanto meno superficiali se non addirittura stupide e offensive nei confronti di Langer. 
Come uscire quindi da questa contraddizione?
Io credo che ci può aiutare un altro concetto caro all’area eco-pacifista : il concetto di limite.
I nonviolenti non devono rinunciare alla loro carica utopica, profetica. Devono però imparare ad accettare i limiti che la Storia impone loro.
Cerco di spiegarmi con un esempio che all’ultima riunione non ha avuto molto successo.
Un buon medico omeopata è certamente colui che riesce a capire la persona che ha davanti ed a trovare i rimedi più efficaci a seconda delle circostanze. Ma un buon medico omeopata è anche colui che sa arrendersi, davanti a determinate situazioni, e restituire la parola alla medicina convenzionale, prima che possano verificarsi complicazioni anche gravi alla persona che vogliamo curare.
Questo non significa che la medicina omeopatica, in quanto concettualmente agli antipodi dalla medicina convenzionale, debba arrendersi e non continuare la propria strada.
Allo stesso modo per chi si riferisce ad un pensiero nonviolento si tratta:
1. di continuare nella ricerca, sperimentazione per una risoluzione nonviolenta dei conflitti senza abdicare a priori alle armi
2. di individuare il momento in cui è il caso di farsi da parte, constatata l’inefficacia della propria azione.
Per quanto riguarda il primo punto credo che sia fondamentale continuare la progettazione e sperimentazione di una strategia di Difesa Popolare Nonviolenta fino ad arrivare alla costituzione di un corpo di interposizione civile europeo a suo tempo proposto da Langer al parlamento europeo.
Per quanto riguarda il secondo punto va analizzata ogni singola situazione.
Nel caso specifico di questa guerra vanno sottolineate alcune cose.
Per dieci anni c’è stata in Kosovo una dirigenza pacifica che ha attuato nei confronti del regime di Milosevic una resistenza nonviolenta, completamente ignorata e non sostenuta dai paesi democratici europei. Data la situazione circostante credo che vada annoverata tra le esperienze storiche da citare a favore per la costruzione di una strategia di Difesa Popolare Nonviolenta, altrimenti ben prima ci saremmo trovati davanti alle scene tragiche attuali.
E’ altresì vero che da un anno o due è cresciuto un esercito di liberazione, l’UCK, in netto contrasto con la linea di Rugova. Se l’esercito sia stato promosso o fomentato da Berisha ha più o meno importanza. Sta di fatto che ha raccolto consenso tra la popolazione albanese del Kosovo esasperata dalla prepotenza e i crimini delle bande militari e paramilitari serbe.
Per questo considero la responsabilità più grande dell’Europa in questo specifico conflitto (senza rifarsi all’inizio della disgregazione della ex Juguslavia ) l’aver abbandonato Rugova a se stesso più che la decisione di bombardare oggi.
Nel momento in cui giovani universitari Kosovari si arruolano nell’UCK avviene la sconfitta della lotta nonviolenta.
E’ in quel preciso momento che io mi sento impotente e non vedo sbocco.
Ma data questa situazione, cosa fare?
Continuare a predicare una pace sconfitta dalla realtà lasciando che i forti massacrino i più deboli?
Perché, cerchiamo di non essere ipocriti, le immagini tragiche di questi giorni erano in programma, forse i bombardamenti hanno impresso una accelerazione, ma questi sono stati e sono i metodi di Milosevic. E questo era prevedibile che accadesse. E’ a questo punto che io faccio una scelta, forse vigliacca, sicuramente non priva di contraddizioni, sicuramente di lusso, che è quella di non scegliere, ma di passare la parola.
Come
il medico omeopata che per ragioni contingenti passa il paziente al medico convenzionale la nonviolenza politica deve avere l’umiltà di passare la parola alla politica tradizionale, compresa la possibilità di un intervento armato.

Ed è chiaro che non è questa la mia politica ed è una concezione diametralmente opposta di risoluzione dei conflitti.
Tale e quale la differenza tra omeopatia ed allopatia.
Il fatto che poi neppure la guerra sia efficace per risolvere questa drammatica situazione non può che ulteriormente disperarmi.

La valutazione sull’efficacia del tipo di intervento adottato apre un altro capitolo sul quale sinceramente mi sento poco attrezzato per una discussione. A lume di naso intuisco che per essere efficace l’intervento aereo doveva essere 
accompagnato ad un intervento di terra. Ma qui il discorso si fa ancora più complicato e lungo.

Come puoi immaginare questa lettera sta avendo un lungo e tormentato travaglio, i giorni passano e non è più la notte di pasqua. E’ trascorsa una settimana intera e questi sabato e domenica sono stato a Forlì con Giovanni e Luigi all’incontro organizzato per definire le finalità della fondazione Alexander Langer. Come era prevedibile ciò che sta succedendo in Kosovo e l’intervento Nato sono stati occasione di ripetute e sofferte discussioni.
Parlando dopo pranzo con Franco Travaglini del paragone tra tipo di medicina e tipo di intervento lui lo ha continuato con le seguenti parole:- Un buon medico omeopata è colui che, esaurita la gamma dei rimedi a lui più congeniali, si rimbocca le maniche ed in prima persona opera da medico chirurgo convenzionale.-.
Questa affermazione mi ha colpito e mi ha aiutato in qualche modo a capire il senso di paralisi che mi sento addosso in questi giorni.
E’ vero che un medico omeopata è comunque un medico e porta con se un bagaglio di preparazione che gli può consentire un passaggio diciamo di strategia.
Questo non è altrettanto vero per buona parte dell’area pacifista e nonviolenta che, nata e cresciuta in contrapposizione alla logica militare, ne conosce le conseguenze nefaste, ma sostanzialmente ne ignora le regole.
Adesso capisco ed apprezzo di più il tentativo, fatto da Edi (e chi con lui) a Bolzano, di iniziare un dialogo con rappresentanti militari non guerrafondai per un confronto sulla risoluzione dei conflitti.
D’altro canto, se ben ricordo, i più grandi studiosi e teorici della difesa popolare nonviolenta (Gene Sharp) conoscono la strategia militare ed hanno contatti con teorici militari.
Forse anche in questa circostanza si tratta di costruire un ponte.

Altro punto drammaticamente alla ribalta è la, speriamo momentanea, contraddizione Diritto (nazionale ed internazionale)-Diritti Umani.
Un argomento forte del movimento pacifista di questi giorni è:- l’intervento Nato non risponde ad alcun mandato dell’Onu che con questa mossa viene definitivamente affondato, anzi l’intervento non corrisponde neppure al regolamento Nato in quanto nessun territorio dell’Alleanza è stato attaccato. Per quanto riguarda l’Italia, inoltre, c’è un problema di incostituzionalità -.
Dall’altro lato si giustifica l’intervento per difendere i diritti umani di centinaia di migliaia di Kosovari di etnia albanese, costantemente discriminati, perseguitati, disumanizzati, se così si può dire, fino a giungere al vero e proprio genocidio di questi giorni.
Anche qui: se da una parte è difficile pensare che siano le bombe a difendere i diritti umani dall’altra non possiamo appellarci all’Onu attuale quale garante di una legalità internazionale. Il meccanismo di veto del Consiglio di Sicurezza è profondamente antidemocratico. Un organismo di governo mondiale futuro non potrà fare a meno di un sistema di decisione a maggioranza. Se per ipotesi (che mi rendo conto lasciare il tempo che trova) questo organismo oggi esistesse, avrebbe preso la decisione di intervenire (in quanto i paesi in disaccordo sono la minoranza, ma con diritto di veto). Forse per il movimento pacifista sarebbe stata una guerra più “giusta”?
Ma, senza fare ipotesi, la guerra del Golfo in quanto benedetta dal consiglio di sicurezza, era più giusta?
Allora non possiamo lasciare massacrare un popolo in nome di un diritto internazionale paralizzato dall’evolversi della Storia. Si tratta invece di ricostruire un diritto internazionale che parta effettivamente dai diritti dell’uomo a tutte le latitudini e longitudini del globo, dal Ruanda al Kosovo, dal Kurdistan al Tibet ecc. ecc.
Il discorso si sta facendo lungo e mi rendo conto di rischiare di perdere la bussola.
Provo
a concludere cercando di elencare le cose che credo siano utili in questo frangente e quelle assolutamente dannose.

Cose da fare:
1. Organizzare una solidarietà concreta con la marea di vittime di questa assurda storia. E’ una cosa che sta avvenendo spontaneamente sia a livello di volontariato, sia a livello istituzionale. E’ un buon segnale, uno dei pochi in questi tragici giorni.
2. Mantenere vivi contatti con le forze pacifiche dei fronti diversi; è l’indispensabile seme per una futura ricostruzione di legami, di convivenza.
3. Lavorare alla costruzione di un diritto internazionale basato in primo luogo sui diritti dell’uomo e svincolato da legami di subordinazione economica o militare.
4. Lavorare alla costruzione di un corpo di interposizione non armato da utilizzare nella prevenzione dei conflitti (e l’esperienza del Kosovo ha tanto da insegnarci), ma anche come strumento di vera e propria lotta nonviolenta.
5. Iniziare un dialogo con il mondo militare per disegnare una scala di interventi volti a prevenire e risolvere i conflitti, dove l’intervento armato è utilizzato come ultima spiaggia , il tutto coordinato quanto meno a livello europeo. 
Cose da non fare:
1. Dividersi tra “filo serbi” pacifisti e “guerrafondai” interventisti.
Solo nel dialogo, può ancora esserci una speranza per la costruzione di un mondo migliore, con un minore tasso di violenza, con la possibilità di vivere senza ricorrere alla forza delle armi.
Si tratta di passare da una logica di conflitto tanto cara ad una certa sinistra ad una logica di lenta costruzione.
E per fare questo bisogna sapersi ascoltare a vicenda più che gridare forte la propria verità.
Potrà allora capitare di cogliere verità (senza virgolette, dice Carlo Ginzburg) in cose dette per sbaglio o appena sussurrate (nel bisbiglio, dice Erri De Luca), tra parole confuse e piene di contraddizioni.
Se riusciremo a liberare la nostra mente da pregiudizi offriremo terreno adatto affinché possa crescere qualcosa, in termini di pensiero, anche un po’ più strutturato e più consono ad accompagnarci negli anni confusi che abbiamo davanti.

Ti abbraccio forte Pietro 


Da: MIR-Riconciliazione@yahoogroups.com [mailto:MIR-Riconciliazione@yahoogroups.com] Per conto di alfonsonavarra@virgilio.it
Inviato: mercoledì 12 maggio 2010 10.17
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Oggetto:
R: [Mir-forum] Re: [MIR-Riconciliazione] Il capo di stato maggiore della Difesa alla Tavola della Pace

 

grazie enrico, mi fa particolarmente piacere il tuo consenso.
Ma
apprezzo anche il dissenso, quando mi sembra provenire da posizioni
sincere e ben meditate...
Una parabola buddhista sui ciechi e
l'elefante ci ricorda che la verità ha molte facce e i nostri limiti di
uomini ci impediscono di coglierla nella sua totale complessità
Ciò non
toglie che sia nostro dovere ricercarla e - come diceva Gandhi - fare
"esperimenti" con essa...

----Messaggio originale----
Da: e.pey@libero.
it
Data: 11-mag-2010 2.57 PM
A: <energia@rossovivo.net>,
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riconciliazione@yahoogroups.com>, <semprecontrolaguerra@googlegroups.
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forum] Re: [MIR-Riconciliazione] Il capo di stato maggiore della Difesa
alla Tavola della Pace

Mi sento d'accordo con Alfonso Navarra.
Enrico
Peyretti, Torino

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alfonsonavarra@virgilio.it
To: fermiamo-il-fuoco-
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azione@unfuturosenzatomiche.org ; energia@rossovivo.net
Sent:
Tuesday, May 11, 2010 2:08 PM
Subject: [MIR-Riconciliazione] Il capo
di stato maggiore della Difesa alla Tavola della Pace

L'esercito italiano oggi professa una IDEOLOGIA PACIFISTA ma la cosa
seria la dice il generale Mini: prima definivamo un tempo di guerra,
oggi viviamo il tempo della guerra. E come Orwell in 1984 la chiamiamo
pace.
Flavio Lotti dovrebbe "rimproverare" al generale Caporini le
donne e i bambini che arrivano da morti e da feriti nell'ospedale di
Emergency. Anzi arrivavano perchè quell'ospedale di testimoni scomodi è
stato fatto chiudere nel modo che sappiamo...
L'ideologia pacifista
però non è ancora stata adottata dalle potenze leader della
coalizazione in Afghanistan che chiamano "guerra" quell'intervento...

Non accettano la nostra ipocrisia di forza armata che sta nella
retrovia per reggere il sacco ai massacri altrui (sotto protezione
iraniana, finchè dura).
Io non lo vedo Flavio Lotti fare domande
scomode con spirito di verità.
Immagino piuttosto una riedizione del
1999, quando il Nostro accolse con tutti gli onori D'Alema - tutti i
riflettori mediatici bene accesi - che aveva le mani grondanti di
sangue dei bombardamenti "umanitari" su Belgrado fatti per difendere
(sic) gli albanesi del Kossovo!
Dialogare è importante, va fatto
anche con i militari, ma va fatto - ripeto - su basi di verità. Ed un
dialogo serio è come la carità: essa è autentica quando non si fanno
risuonare le trombe pubblicitarie dinanzi a sè...
Auguri a chi va
fare da comparsa alla sceneggiata mediatica della Perugia-Assisi.

IL GENERALE E IL PACIFISTA 11/5/10
Il capo di stato
maggiore della Difesa Vincenzo Caporini. alla vigilia della marcia
Perugia-Assisi, incontra oggi pomeriggio il direttivo della Tavola
della pace, l'associazione più nota tra i pacifisti italiani

da
"Lettera 22" - Ritanna Armeni, Emanuele Giordana

Martedi' 11
Maggio 2010

Che il generale Vincenzo Camporini, capo di stato
maggiore della Difesa, vada nella sede di Libera, l'associazione contro
le mafie di Don Ciotti, non è cosa che accada tutti i giorni. Ma c’è un’
altra più importante notizia. Ci andrà per incontrare, alla vigilia
della marcia Perugia-Assisi, il direttivo della Tavola della pace,
l'associazione più nota tra i pacifisti italiani, quella che organizza
da qualche lustro la camminata pacifista forse più nota al mondo. Il
diavolo e l'acqua santa? Una provocazione? O semplicemente il segno che
i tempi stanno cambiando?
Aver accettato l'invito dei pacifisti
italiani, o almeno di una rappresentativa parte di quel mondo, indica
che qualcosa è cambiato, che due mondi fino a ieri diversi e
antagonisti si annusano e si vogliono conoscere. Quel che ne verrà
fuori – se scontro o dialogo – si vedrà.
L'incontro di lunedì è
solo un segno dei tempi. Se i pacifisti italiani si interrogano sui
militari, è evidente che anche i soldati non sono più quelli di un
tempo. Lo rivela l'inchiesta che inizia con questo articolo.
Tutto
è nato da uno zaino. Lo zaino di un soldato in partenza per l’
Afghanistan. Lo aveva aperto davanti a noi in aeroporto per tirarne
fuori guide, romanzi, saggi sul paese che stava per raggiungere in
“missione di pace”. Quello zaino rompeva uno schema e cancellava uno
stereotipo. Chi lo portava non era il militare rozzo e incolto che
avevamo visto in tanti film di guerra, carne da macello e inconsapevole
esecutore di scelte tragiche, inviato in un paese di cui non conosceva
nulla.
E allora sono cominciate le domande . Chi era allora il
soldato che andava in guerra nel mondo globalizzato dove i conflitti
sono asimmetrici e l’esercito in divisa si scontra con nuovi spesso
inafferrabili nemici? Chi era il militare che non deve più difendere i
confini nazionali dall'invasore ma - se mai - deve tutelare interessi
economici planetari o – stando alle parole degli stessi militari -
valori universali, quali pace, convivenza civile, sicurezza globale? E
ancora: quanto è diverso il militare di oggi, che sceglie un lavoro cui
accede per concorso o riceve una paga cospicua se impiegato all’estero,
da chi era costretto alla leva obbligatoria? E – infine - che
differenza c’è fra le battaglie di ieri, che per dirla con Fabio Mini
definivano un “tempo di guerra”, e quelle di oggi che si svolgono “nel
tempo della guerra”?
Se si guarda alle Forze armate italiane le
differenze in pochi anni sono diventate talmente profonde che si parla
senza reticenze di una rivoluzione. Lunga, silenziosa in gran parte
sconosciuta, ma imponente. Lo affermano con una punta di orgoglio
generali e soldati. Lo conferma lo stesso Vincenzo Camporini che, pur
avendo le doti del grande comunicatore, certamente non ama la retorica.
E che ammette; “I cambiamenti dall'89 sono stati tanti che si può
parlare di rivoluzione” .
Naturalmente l’affermazione può essere
accolta con diffidenza. Le guerre ci sono e, per quanto un esercito
possa essere cambiato, ci sono le vittime. Spesso innocenti. Tuttavia
il cambiamento, per quanto sicuramente denso di limiti e ambiguità, è
evidente. Quel soldato carico di libri e la testa piena di curiosità,
che parte “in missione di pace” sia pure in una zona di guerra, ha un
volto ed un’ ideologia diversa da quella del passato. E allora, con
tutta la prudenza e quella vigile diffidenza che deriva da una cultura
antimilitarista e pacifista così largamente diffusa nel mondo e in
Italia, vale la pena di indagare quel cambiamento. E per non farsi
ingannare dalle sensazioni, cominciare dai dati oggettivi.
Fino al
1989 le Forze armate costituivano una barriera difensiva nel caso di
una invasione dell’Armata rossa. La guerra, per quanto fredda,
richiedeva un esercito e un nemico. Dopo il 1989 il nemico però
scompare e la difesa del suolo patrio non può più essere il collante
ideologico delle Forze armate. Era necessario un nuovo ruolo, una nuova
ideologia, comportamenti diversi dal passato. Il cambiamento è stato
per così dire obbligato dal rivolgimento del mondo. L’esercito del
passato è crollato col muro di Berlino.
In secondo luogo dal 2004
è cambiato l’arruolamento. Non più di leva obbligatoria, tributo che
ogni giovane – maschio – doveva pagare. La scelta del servizio militare
è diventata volontaria. Chi la compie soprattutto al sud è spinto dalla
disoccupazione. Ma alla ricerca del lavoro si aggiunge quella del
ruolo: il desiderio di trovare senso e ordine alla propria esistenza.
“I giovani – affermano i comandanti - vengono da noi spesso perché non
hanno altre possibilità, ma ci restano perché trovano un luogo nel
quale coltivano interessi e ideali”.
Il terzo cambiamento
strutturale è il livello culturale di chi sceglie di lavorare nelle
Forze armate. I soldati, laureati o diplomati, conoscono le lingue,
hanno interessi e spirito critico. Vengono addestrati, ma non solo, all’
uso delle armi. Li affiancano psicologi e insegnanti di lingue. Una
leva di giovani molto diversi da quelli che, secondo Angelo Del Boca,
durante la guerra di Libia “ vedevano gli avversari come bestie”.

Ma la vera novità è costituita da un collante ideologico che permea la
vita nell’esercito. Paradosso dei paradossi il collante ideologico è
oggi la pace Il militare italiano si vive e si concepisce come soldato
di pace. Questa è la sua missione, il motivo per cui, carico di libri,
va in Libano, in Afghanistan, Kossovo. Conquistare la pace, preservarla
conservarla, difenderla: è da questa convinzione, non sappiamo quanto
profonda o imposta, sicuramente proclamata, che discendono
comportamenti e approccio sul terreno. Da questa convinzione nasce la
cosiddetta “diversità italiana” e il nocciolo duro di quella che è
chiamata “rivoluzione”. E’ in effetti che cosa ci può essere di più
rivoluzionario rispetto ai millenni passati di un soldato che non ha
nemici e dice di lottare per la pace?

anche su Il Riformista

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