articolo R. La Valle per un prossimo numero di Rocca



PER ROCCA 17 novembre 2007-11-19

 

LA GENESI DELLA VIOLENZA

 

“Gerusalemme, se tu avessi conosciuto ciò che giova alla tua pace!” Questo lamento di Gesù sulla città del suo cuore (Lc. 19, 42), insinua un’idea per nulla scontata: che il grande male sprigionatosi a Gerusalemme, che avrebbe poi portato la città alla rovina, non dipendeva dalla gravità dei peccati commessi, dalla mancanza di etica o da un ritrarsi della misericordia di Dio, ma dipendeva da una mancanza di conoscenza, da un difetto di intelligenza, dalla ignoranza di qualcosa che sarebbe stata invece necessaria perché la città potesse vivere in pace.

Si può porre la stessa questione per ogni città? C’è una domanda che in questi giorni angoscia l’Italia: da dove viene tanta violenza? Perché le tifoserie negli stadi si scagliano l’una contro l’altra, curva contro curva, e tutte le curve contro la polizia? Perché la folla che protesta, per buone o cattive ragioni, viene a trovarsi facilmente sul limite della guerriglia urbana? Perché tanto odio per gli stranieri, per gli immigrati? Perché tanta violenza privata, anche nel riparo di un condominio, nel sacrario della famiglia, nella promiscuità tra amici?  Perché tanta intimità con la morte, che dei ragazzi di fronte a una loro coetanea che muore tragicamente ne fanno un piccolo film horror e lo trasmettono su Internet? Non è una violenza concentrata in piccoli gruppi, come ai tempi dell’eversione, ma è una violenza diffusa, endemica, pervasiva, sotto pelle, sempre pronta ad esplodere.

Certo, dipende da molte cose: dai modelli importati dall’estero, dall’indurirsi della lotta per la vita, dalla crisi delle agenzie educative, a cominciare dalla scuola, dal passaggio della Chiesa a una fase di relazioni sociali litigiose.

Ma c’è una risposta che attiene proprio all’ignoranza, e anzi alla cecità, in cui la città è caduta riguardo agli effetti delle sue scelte politiche sulla vita comune.

Quando a partire dal 1992 si è cominciata la predicazione a favore della democrazia del conflitto, della governabilità senza lacci e laccioli, contro le vecchie mediazioni e “consociazioni”, quando si  è ficcato il sistema elettorale e politico nella camicia di forza del bipolarismo coatto, del maggioritario che nega le minoranze, e nella forma di un conflitto estremo, dove la vittoria degli uni comporta la fine degli altri,  nessuno si è reso conto  che non si instaurava solo un nuovo regime, ma un’altra cultura e un altro modello di convivenza sociale.

È bastato un quindicennio, con il potente concorso di tutti i mezzi di comunicazione sociale, ed ecco che la vecchia cultura è stata distrutta e si è affermata la nuova. Lo Stato è oggetto di odio, e dunque automaticamente la polizia che lo rappresenta. Il politico è motivato solo da un bieco interesse personale, e perciò la soluzione migliore è distruggerlo, anche moralmente. Il nemico politico, la classe avversa non sono solo quelli che hanno interessi e desideri diversi e tra loro contrastanti, ma quelli la cui stessa esistenza rappresenta la negazione degli altri. Se l’altro sussiste, io sono perduto. Se Prodi dura, Berlusconi scompare.

Che questo faccia funzionare il sistema politico, è oggetto di un separato giudizio. Ma che questo abbia fatto scendere per li rami, dalla cupola del sistema politico alla società tutta intera una cultura di inimicizia, di conflitto e di violenza, è un fatto. Non si può vivere ogni giorno in Senato sotto il ghigno dell’avversario politico o assistere in Televisione alla spietatezza del reciproco ludibrio, senza che intorno agli stadi e nelle periferie si faccia ricorso alle spranghe, ai tombini e alle catene di ferro.

Eppure avremmo dovuto essere vaccinati dal fascismo, che sul modello del potere aveva creato una cultura popolare giunta fino al razzismo, al culto della forza, ai miti della guerra e della conquista. Alla Costituente si volle un sistema che nella sua stessa idea fondativa fosse capace di dar luogo a una società diversa e a una cultura alternativa. Dopo sessant’anni si è preferito tornare ai “partiti unici”, alla ideologia della politica come rapporto tra nemici, alla irrisione per i “partitini” e per le posizioni delle minoranze, e all’idea che il potere pubblico sia un casinò, dove chi vince vince tutto e chi perde perde tutto. E finalmente siamo arrivati al progetto berlusconiano di un partito che incorpori l’intero “popolo italiano”, cioè del “popolo” che si fa partito, tutti gli altri venendo relegati e compressi nel “non-popolo”, nei “non-amati”, nei “non cittadini”. Certo, non è come il primo fascismo; ma già si potrebbe chiamare un “deutero-fascismo”. Conoscere vuol dire saperne prevedere le conseguenze, e non aspettare che si producano.

La proposta di Veltroni di uscire dal bipolarismo coatto, dal plebiscito obbligatorio per l’una o l’altra coalizione e dal premio di maggioranza che trasforma una rappresentanza parziale in una monarchia assoluta, è un passo verso la salvezza, è il primo tentativo di ristabilire un rapporto virtuoso tra conoscenza e azione politica. Speriamo che i bigotti delle sfide all’americana non lo impediscano.

                                Raniero La Valle