Resoconto sul WSF di Nairobi



World Social Forum di Nairobi (Kenya)
resoconto di viaggio di Ernesto Scelza, portavoce nazionale dell’Associazione per la Pace.

Partecipo al Forum Sociale Mondiale di Nairobi in rappresentanza della Provincia di Salerno e come portavoce dell’Associazione per la Pace. Certo: la Tavola della Pace e lo stesso Coordinamento nazionale degli Enti locali per la Pace e i Diritti Umani hanno sostenuto l’organizzazione del Forum e la partecipazione della numerosa delegazione italiana, ma sono qui, io come tantissimi, perché il Forum di Nairobi, mette al centro l’Africa. È la società civile mondiale che riparte da qui perché se un nuovo mondo deve essere possibile è da qui che bisogna cominciare. L’Africa è il nostro passato e il nostro futuro, è il luogo delle guerre dimenticate, della corruzione dei governi, delle colpe dell’occidente, del colonialismo e dei crimini delle politiche neoliberiste e delle multinazionali, della rapina delle immense risorse della terra, del 30% dei malati e dei contaminati di AIDS, della fame e della povertà, delle immense baraccopoli che assediano le capitali africane. È tutto quanto il peggio che i paesi sviluppati hanno mostrato e fatto, e anche il luogo da cui non può non ripartire il processo per la costruzione di un mondo diverso, un altro mondo possibile. Giusto, uguale, solidale. I n Africa si muore, si muore per tutto quello che nel nostro mondo non si pensa che si possa più morire: fame, malaria, ebola, AIDS. E si muore per le guerre. Le guerre combattute con le armi dell’occidente, sostenute dall’occidente, per interessi dell’occidente. Guerre tribali, guerre dimenticate, e guerre di interessi, guerre di potenza, guerre disegnate sullo scenario della grande e misteriosa geopolitica.
Ma l’Africa è la speranza, la scommessa.
Arriviamo all’alba all’aeroporto di Nairobi. Qui è estate, poco sotto la linea dell’Equatore, a 1600 metri di altitudine. Scendiamo dall’aereo e attraversiamo a piedi la pista. I colori tenui dell’alba fanno più vasto sopra di noi un cielo grande, attraversato da un numero infinito di uccelli dai colori accesi. Le operazioni di sbarco sono lente. Dobbiamo capire da subito che i ritmi di vita, e di lavoro, non sono quelli nostri, nevrotici ed esasperati, quasi più non umani. Qui mantengono il ricordo di un altro rapporto, felice un tempo, con la natura e col mondo. Mi colpisce subito il gran numero di persone impiegato alle piccole mansioni per il disbrigo delle pratiche. Una ragazza siede davanti al nastro che trasporta i bagagli, guarda il monitor del controllo ai raggi X, mentre si applica a curare la pulizia e l’igiene dei propri piedi. Appena fuori ci aspettano i bus che devono portarci negli alberghi: sembra un miracolo che riescano a camminare. Gli autisti, con calma, aiutano a sistemare i bagagli. Con calma eseguono le manovre per uscire dal parcheggio. Attorno a noi, oramai, il cielo comincia ad accendersi di rosa intenso e uccelli mai visti, dai becchi enormi e ci sfiorano con le grandi ali. In albergo attenderemo alcune ore per avere assegnate le stanze. Tanto che avremo appena il tempo di posare le sacche e muoverci per raggiungere la marcia di apertura del Forum. La marcia è partita da Kibera, uno dei grandi slums che assediano la capitale. Nairobi dovrebbe contenere circa 4 milioni di persone, ma i numeri, in Africa, non dicono la verità. Metà vive nelle baraccopoli, e solo un piccola parte riesce a guadagnare, non si riesce a sapere in quale maniera 70 scellini al giorno, meno di un dollaro al giorno. La marcia è una esplosione di vitalità. Siamo subito inghiottiti dagli africani, tante donne, tantissimi bambini. Delle presenze politiche, della composizione della marcia avrete certamente sentito dai reportage dei nostri corrispondenti e dalle televisioni: non vi dico nulla dei cartelli contro Bush, dei cammelli che ad ogni passo rischiano di sbattere a terra qualche marciatore bianco. Non vi dico nemmeno degli striscioni su “Un mondo senza AIDS è possibile”, adattamento africano della concreta utopia che da anni ci muove. Ma vorrei trasmettervi la sensazione di orgoglio della presenza africana: delle donne, soprattutto. Lo sforzo per organizzare il Forum è stato enorme. I numeri lo dicono: un’intera area dentro e attorno ai complessi sportivi di Kazarani è stata disposta per ospitare migliaia di eventi grandi e piccoli del Forum,per accogliere un paio di centinaia di migliaia di partecipanti. L’aiuto c’è stato, dei cooperanti, dei volontari europei soprattutto e di alcuni governi, come quello italiano, che hanno dato contributi economici. Ma questo si presenta subito come un Forum dell’Africa e degli africani e non sull’Africa e i suoi problemi. D’altra parte è pur vero che il problema dell’Africa siamo noi, è stato ed è l’occidente, che ha reso povero un continente ricco. A tarda sera, ancora frastornati dai colori e dai suoni della marcia, ci ritroviamo in uno degli alberghi che ci ospitano per un primo incontro della delegazione italiana, la più numerosa. Inutile dire che i discorsi scontano preoccupazioni e aspettative che non registrano ancora le novità che potranno emergere solo dai lavori dei giorni seguenti. Ma è un utile riassunto delle questioni aperte sui grandi temi delle potenzialità dei movimenti, dei disastri delle politiche neocoloniali, dei limiti della cooperazione internazionale, delle colpe delle politiche dell’Europa, dei rischi delle strategie neoimperiali americane, del condizionamento delle strategie delle multinazionali. I perversi effetti degli aiuti umanitari e allo sviluppo, le resistenze dell’occidente all’annullamento del debito -quante volte dovranno pagarlo gli africani?
E poi i conflitti, le guerre, le pandemie. La povertà e la fame.
La mattina dopo andiamo a Korogocho, la sconfinata baraccopoli nella quale per 16 anni ha lavorato padre Zanotelli: father Alex, per tutti. Qui è prevista la celebrazione della messa da parte di padre Alex Zanotelli, il missionario comboniano che ha trascorso più di sedici anni qui, in questa discarica di un chilometro quadrato sulla quale vivono oltre 150mila persone. O forse 250mila: qui in Africa i numeri spesso non dicono nulla. Di certo c'è che il posto è terribile. La povertà è terribile. la tocchiamo con mano, la vediamo con gli occhi. Ci penetra con gli odori, le esalazioni che vengono su dalla terra impastata con le plastiche della discarica che affiorano sotto i nostri piedi. Lungo la strada di penetrazione a Korogocho una fila ininterrotta di baracche, alcune con scritte improbabili: hotel, piccoli spacci di merce misera. Molti vendono per pochi scellini barattoli pieni di carbone. Una donna impasta e frigge piccole pagnotte di farina di mais su un ripiano di legno ricavato da una vecchia porta. I bambini si affollano scalzi, emergendo dalle buche piene di rifiuti. Alcuni hanno tra i denti piccole bottiglie di plastica piene di colla, che aspirano. Con gli occhi spenti. Ma i più ci guardano con grandi occhi vivaci e ci urlano in cantilena: “how are you?” Il pullman ci lascia direttamente dentro la missione dei comboniani: non è consigliabile girare nella baraccopoli. La sera prima un gruppo di partecipanti al forum, che aveva preso un taxi per portarsi a Korogocho, era stato fermato e spogliato di tutto. Una imprudenza con il sapore della provocazione in una zona in cui i bambini muoiono letteralmente di fame, in cui quasi tutti quelli che riescono a farlo campano con meno di settanta scellini keniani al giorno. Meno di un dollaro al giorno, molto meno di un euro. Qui la percentuale di sieropositivi, compresi i bambini, raggiunge la metà della popolazione residente. Nel recinto della missione incontriamo Alex: è felice di ritrovarsi dopo anni tra il suo popolo. Che lo chiama per nome, Father Alex, e lo circonda, lo tocca, lo abbraccia. Alex parla loro in Swaili, mentre si avvia a celebrare messa coperto di paramenti con colori sgargianti e disegni africani. Tutta la sua messa, che celebra con i suoi fratelli, è una reinvenzione che accoglie spunti e sensibilità africani: si apre con un saluto al sole e procede con canti e ritmi neri. Prosegue con la benedizione dell’acqua e ha il suo culmine con lo scambio dei gesti di pace: ognuno lega al polso di chi gli sta vicino un filo verde. Gruppi di fedeli con una fascia e la scritta “St. John Church”, il nome della missione comboniana a Korogocho, si fanno carico di tenere l’ordine nell’arena sobriamente coperta che ospita migliaia di persone che continuano ad affluire. E di frotte enormi di bambini che si accalcano attorno a questi strani nuovi amici che vengono da Father Alex. Durante tutta la funzione ci sommergono di gesti affettuosi, toccano le nostre mani troppo pallide, tirano con delicatezza i peli che ci coprono le braccia. Quando faccio per offrire qualcosa ad una piccolissima vestita di stracci mi indica la bottiglietta d’acqua che avevo portato per reggere una giornata di caldo estivo all’equatore. Maji, mi chiede. La prende e la difende dagli altri bambini. Dopo aver bevuto, me la restituisce, ed è felice quando le mostro che può tenerla. Intanto Zanotelli ha pronunciato la sua omelia, tutta politica. Commenta la lettera di Paolo alla comunità di Corinto alla quale ricorda che erano giudei e pagani che con il battesimo sono diventati un unico corpo, che non può dividersi: ogni membro ha una sua funzione. Richiama l’impegno per una politica di eguaglianza e di giustizia. E ricorda che la predicazione di Cristo avveniva sotto il giogo di un impero, quello romano, come noi oggi siamo sottoposti alle vessazioni di un altro impero. Chiude, citando una frase del vescovo sudafricano Desmond Tutu che diceva che ai poveri –è vero- è riservata una torta in paradiso, ma vogliamo che una piccola fetta possano assaggiarla anche qui, in terra. Alla fine della funzione un gruppo di abitanti della baraccopoli ci invita alle loro case. Rose ci accompagna per il fitto intrico di viottoli di Korogocho. È una giovane donna aiuta nei lavori della missione. Il marito lo ha perso qualche anno fa, e vive con una figlia già grande e due bambini più piccoli. Lungo le stradine si aprono infiniti passaggi verso l’interno della baraccopoli. Qualche oca beve nei rigagnoli di scolo. Di tanto in tanto un cartello con l’indicazione di una missione, una baracca-scuola aperta tra altre baracche, un carretto con un mazzo di erba assai poco nutriente che qui tagliano a strisce sottili e cuociono: la chiamano, con termine Swaili “il tira fine settimana”, per risolvere un poco il problema di nutrirsi. La baracca di Rose misurerà due metri per due, ma è tenuta con un certo garbo, alle pareti di lamiera sino inchiodate le foto del marito e dei figli. Due piccoli divani recuperati dalla discarica sono appoggiati alle pareti. Rose è orgogliosa della sua casa. È il segno che riesce a tenere assieme la sua famiglia, che può farcela a dare un futuro ai suoi figli. La sua è la forza che abbiamo notato in tante donne africane. Sarà forse da loro che nascerà questo nuovo mondo possibile che è lo slogan dei Forum sociali mondiali. Torniamo alla missione dei comboniani dove si svolge un Festival dei bambini di strada. I ragazzi di Korogocho hanno allestito uno spettacolo straordinario. Una infinità di gruppi si alternano in canti e balli di incredibile bellezza. La vitalità che esprimono è contagiosa. Nessuno riesce a rimanere fermo sui gradoni di cemento della arena dove in mattinata si è svolta la cerimonia religiosa di Alex. Di tanto in tanto qualche ragazzo stravolto dalla colla si avvicina al palco. I suoi compagni lo invitano ad allontanarsi e consentire lo svolgimento della festa. Perché quella è la loro festa, un momento sereno nell’inferno della baraccopoli. La sera, in albergo, nessuno di noi se la sente di parlare. Abbiamo ancora, appiccicata addosso, la terra impastata di miseria di Korogocho. Quello che abbiamo visto esiste davvero. È davvero questo il mondo che abbiamo costruito. Questo è il nostro sviluppo, questo il prezzo che due terzi del mondo paga per consentire il nostro stile di vita, la civiltà di cui andiamo tanto fieri. Non ci sentiremo mai abbastanza in colpa per tutto questo.
Fatico ad addormentarmi.

Prima di dire del clima, delle impressioni e delle discussioni del Forum, vi dico della visita che nei primi giorni abbiamo fatto alla struttura per il recupero dei bambini di strada che padre Renato Kizito Sesana ha messo in piedi a Mdugu Ndogo, nella campagna di Nairobi. Qui sono ospitati circa 25 bambini di strada delle baraccopoli di Nairobi, soprattutto di Kibera. Il percorso di recupero, lento e difficile, dura alcuni anni e ricorda molto quello per il recupero dei tossicodipendenti che si attua nelle nostre comunità. I bambini sono quelli che si incontrano a milioni negli slums, e sono quelli che mostrano di essere disponibili a venir fuori dai terribili percorsi della marginalità di strada, dalla dipendenza dalla colla, dalla discarica, dalla piccola delinquenza e dalla prostituzione. Con loro si avvia un percorso di recupero che coinvolge la famiglia, quella famiglia ‘allargata’ tipica africana, si cercherà di responsabilizzare e coinvolgere, quando esistono e sono disponibili, i parenti più o meno prossimi dei bambini, che alterneranno periodi di residenza in comunità e di ospitalità in famiglia. Una famiglia che, si può immaginare, avrà anch’essa bisogno di sostegno. I bambini trascorreranno alcuni anni nella struttura di padre Kizito, frequentando la scuola primaria e cercando di acquisire un mestiere. Fino ai sedici anni. E poi, se tutto andrà bene, torneranno ad affrontare la dura realtà del sopravvivere in Africa. Quando ho visitato la struttura, ho ascoltato le testimonianze di alcuni ex bambini di strada oramai recuperati, ho sentito delle difficoltà di contattare pochi bambini da inserire nel percorso di recupero. Del tempo lungo di questo. Non ho potuto fare a meno di pensare: padre Kizito e i suoi volontari svuotano il mare con un cucchiaino. Tutti noi, probabilmente, attuando e sostenendo progetti di aiuti per l’Africa non potremo fare altro che questo: tentare di svuotare il mare con un cucchiaino. Tanto grandi sono le contraddizioni – le ingiustizie - che tocchiamo in questa parte di mondo, che non ci sono progetti di Enti locali e di associazioni che possano mutare qualcosa: eppure dobbiamo fare il possibile. Sappiamo che l’Africa muore, che gli africani muoiono, come miliardi di altri nel mondo per l’effetto dell’economia e della politica della parte sviluppata del pianeta, dell’Occidente, di quello che padre Alex definisce l’Impero. Sappiamo che è questo meccanismo che produce centinaia di migliaia di altri bambini di strada mentre padre Kizito tenta di recuperarne cinque, venticinque. Eppure non possiamo non fare nulla. Magari sarebbe il caso di prendere una buona volta i capi di stato e di governo e portarli qui, nelle baraccopoli di questa immane e sconfinata periferia dell’impero e dirgli: guardate cosa state facendo!

E invece, ogni decisione che prendiamo noi, qui, in questa parte di mondo, anche quella che sembra la più innocua e giusta (il sostegno alle nostre produzioni agricole in crisi, la promozione dei nostro prodotti, la diffusione delle nostre tecnologie, gli stessi grandi progetti di aiuto umanitario contro la fame) determina immediatamente in tre quarti del mondo miseria e corruzione e aumento insopportabile delle ingiustizie. E non stiamo parlando di guerre, di rapina delle risorse, di multinazionali, della geopolitica, delle logiche di potenza. Che pure ci sono eccome! Ecco, con questo spirito mi sono ritrovato a vivere le giornate di incontri del Forum. Che si è svolto dentro e tutto attorno ad un grande stadio nel pressi di Nairobi, al Kasarami MOI International Sport Centre. I luoghi di incontro erano centinaia, migliaia i seminari e i dibattiti programmati, e gestiti in maniera autonoma dalle associazioni e dai proponenti. Di continuo, le strade di accesso al MOI e i vialetti attorno allo stadio erano percorsi da piccoli cortei, di comunità africane soprattutto, che propagandavano le loro proposte. Rumorosamente. Anche la delegazione italiana aveva promosso molte iniziative, sulla condizione degli studenti, sulla difesa dei diritti dei lavoratori, sul diritto alla terra, sull’immigrazione, sulla riforma dell’Onu… Sull’Acqua.
L’acqua.
Si avvia ad essere la grande questione di questo millennio. La grande risorsa, la grande ingiustizia, la grande sfida. Già oggi, più di un miliardo di persone al mondo sono senz’acqua. Semplicemente: muoiono. Due miliardi e mezzo soffrono conseguenze sanitarie per la scarsezza d’acqua.
Cinquemila bambini muoiono ogni giorno per dissenteria.
L’Onu ha promosso un Forum mondiale, che si è tenuto lo scorso anno a Città del Messico, e un Consiglio mondiale dell’acqua. Il Forum di Città del Messico è stato fortemente condizionato dagli interessi delle multinazionali dell’acqua –in gran parte europee- interessate alla concessione di sfruttamento e alla distribuzione dell’acqua. Risultato: all’acqua non è stato riconosciuto lo status di diritto umano! Al Forum di Nairobi, sul problema sono intervenuti esponenti politici e dei movimenti. È intervenuto padre Zanotelli, che si batte con vigore per il diritto all’acqua come un diritto analogo a quello di vivere e respirare. È intervenuta la vice-ministra alla cooperazione internazionale Patrizia Sentinelli. Ha anticipato la decisione del governo di chiedere all’Onu di riconoscere l’acqua diritto umano fondamentale. Ha parlato della necessità che la politica non si allontani dai movimenti. Rendere pubblica, non statale, l’acqua significa preservare la democrazia: ha detto. Ha accolto il calendario di mobilitazione per il diritto all’acqua, a partire dalla manifestazione del 18 marzo a Bruxelles: “Saremo dove si lotta per l’acqua”! La Sentinelli l’abbiamo poi rivista la sera in un incontro che una parte delegazione italiana guidata da Flavio Lotti della Tavola della Pace aveva programmato con il delegato speciale del Ministro D’Alema per la Somalia. Anche in questa occasione ha ribadito: i governi hanno bisogno dei movimenti, ma anche i movimenti hanno bisogno dei governi. D’accordo! Il plenipotenziario per la Somalia ha descritto la situazione esplosiva in Somalia. Ha fatto emergere la responsabilità di chi ha sostenuto l’intervento delle truppe etiopiche in Somalia, del governo provvisorio che non assolve al suo impegno e punta a perpetuarsi, e degli Usa che hanno addirittura direttamente bombardato i villaggi sul confine con il Kenya. Ha affermato che è sbagliato considerare le Corti islamiche come legate al terrorismo fondamentalista: è oramai troppo facile assimilare agli occhi dell’opinione pubblica mondiale islamismo (di qualsiasi natura) e terrorismo. E ha ribadito che obiettivo della diplomazia italiana nell’area è quella di favorire una immediata conferenza di pace per restituire ai Somali la loro piena sovranità.
E così il Forum. Poi c’è stata la marcia che lo ha concluso.
Tra gli slums di Nairobi. Tanto da non poterci più togliere dagli occhi cosa è povertà. Ed è giusto che sia così. Prima di ripartire per l’Italia abbiamo potuto visitare la ‘Casa di Anita’, una struttura di recupero delle bambine di strada. È pensata sull’esperienza delle comunità di recupero dei bambini, ma presenta una caratteristica straordinaria: qui si ospitano famiglie regolari, anche con figli propri, che accettano di accogliere piccoli gruppi di bambine sottratte alla vita di strada. È una bella esperienza da sostenere. Ci hanno accolto con canti e balli, ci hanno offerto un pasto cui hanno lavorato per un paio di giorni. Abbiamo visitato le stanzette delle bambine. Abbiamo visto i loro occhi: felici. Lontano dall’inferno delle discariche. Poi siamo saliti sulle Hills a sud ovest di Nairobi, a 2200 metri, che si affacciano sulla Rift Valley: la grande valle che attraversa l’Africa dalla Somalia al Sud Africa. Dove sono stati rinvenuti i resti dei nostri più remoti antenati. Dell’Homo di Neanderthal, dell’Homo Sapiens. Dove è nata la vita sul pianeta, dove è nata la nostra razza umana, che è una –un unico corpo: dice Alex. In un pomeriggio di indicibile nitore, in questa estate equatoriale, tiepida sugli altipiani del Kenya, davanti a me si stendeva una valle bellissima. Ampia. Ho scorto il confine con la Tanzania: laggiù, in fondo. E i grandi laghi. E macchie grigie di animali che si spostavano lente.
Ecco, quello che vedo potrebbe essere un paradiso – pensavo.
Manca quel pezzetto di torta che spetta ai poveri, quella minima giustizia che si deve agli uomini, perché lo sia davvero. Per tutti.

Ernesto Scelza
Associazione per la Pace - www.assopace.org