diario da beirut n 12



È vecchia e stanca Khadigeh, ma non rassegnata, almeno non di quella
rassegnazione sottomessa che spinge al silenzio. Ha la voce roca, il tono
basso e un volto ossuto scavato dagli anni; il corpo è minuto, le mani
ruvide e i lineamenti induriti ma negli occhi ha ancora una scintilla
quando parla della sua Terra lontana.
Lontana nel tempo, ma geograficamente così vicina che cinque anni fa -
quando l’esercito israeliano si è ritirato dall’occupazione del sud del
Libano - lei e suo figlio sono andati al confine per vederla, attraverso
una rete. Così come loro hanno fatto in molti quei mesi; dai campi
profughi di Sidone, Tiro, Beirut, Tripoli e Balbaak nei quali vivono da
decenni, centinaia di rifugiati si sono andati a riempire gli occhi di
lacrime e Terra di Palestina.

Terra rossa di ulivi e agrumi - dice Khadigeh - che non scorda quella
notte del 1956 quando è scappata con la sua famiglia lasciandosi alle
spalle la casa e i campi coltivati, cacciata da un’occupazione che la ha
resa profuga aprendo una cicatrice che non si è più chiusa. É cresciuta
negli accampamenti, spostandosi progressivamente dal sud al nord del
Libano e vedendo periodicamente la sua casa distrutta, i campi
smantellati, le terre bombardate. Ricorda il cambiamento delle abitazioni
da tende a baracche in lamiera, fino alle case in muratura.
I nomi dei luoghi sono numerosi, quelli comuni a molti della sua
generazione: Burj Al Shamale, Rashidaye, Ein El Hawe, Tall El Zaatar e poi
Sabra e Chatila. Qui si è trasferita con i sopravvissuti della sua
famiglia dopo l’assedio che ha portato alla distruzione di Tall El Zaatar,
campo palestinese in una collina della parte orientale e cristiano
maronita di Beirut. Era l’inizio della guerra civile, a breve la Green
Line divise la città in due parti.
I suoi genitori sono morti sperando ancora di riprendere possesso della
propria casa, abbandonata improvvisamente come per rientrarci dopo poco: è
stato duro dover accettare che la fuga era diventata esilio, condizione
permanente. Rimane la memoria dell’abbandono: della propria Terra, della
propria casa; gli anziani ne tramandano il ricordo e i giovani si
stringono al mito, le chiavi di casa e i vecchi atti di proprietà
conservati negli armadi – silenziosi - rivendicano un dato inopinabile:
quello di appartenenza, e con esso l’inalienabile diritto al ritorno.

Ho conosciuto Khadigeh Farhat un giorno che ero con Abu Maher nei corridoi
del Gaza Hospital, dove lei abita con suo figlio. Salivamo di piano in
piano, di scala in scala, dove io posizionavo  l’occhio elettronico per
registrarne i passaggi, le voci e i loro echi, i giochi dei bambini,
affascinato dalla luce – e dall’assenza di luce – delle vecchie corsie
d’ospedale.  Corridoi scuri, attraversati da riflessi rarefatti che
filtrano attraverso le porte; sostavamo, telecamera accesa, aspettando che
qualcosa accadesse, e “qualcosa” non si faceva mai attendere molto.
Eravamo al quarto piano, quando Samir - figlio di Khadigeh e cliente della
bottega di Abu Maher - ci invita ad entrare nella loro casa.

Un piccolo atrio si affaccia sul corridoio del piano, il passaggio è dal
buio alla luce che viene dall’unica finestra che illumina l’ambiente;
Khadigeh sorride, in piedi al centro della stanza, e fa cenno di
accomodarci. Un letto singolo alle sue spalle, alla parete la bandiera
della Palestina, la raffigurazione di una pagina del Corano e la foto di
un bambino.
Samir ha portato delle sedie di plastica sulle quali sediamo e così inizia
il rituale delle presentazioni e dell’ospitalità. La casa è di due stanze,
quella dove siamo e nella quale vivono e dormono, e un’altra piccolissima
adibita a cucina. Le pareti sono color ocra, verniciate di nuovo, la
mobilia povera ed essenziale comprende il letto, un tavolino basso ed un
armadio; una tenda divide i due ambienti e sulla parete è un manifesto sul
diritto al ritorno che riconosco, perchè disegnato dal mio amico e
collaboratore Abed Al Rahman.
È tutto ordinato e pulito, lo dico a Khadigeh che ne rimane contenta e
inizia a raccontare come era il palazzo quando nel 1987 lo hanno occupato,
la fatica di rendere abitabile una stanza che non aveva neanche le pareti.

Era finita la Guerra dei Campi e gli uomini di Amal - prima di ritirarsi
dall’assedio di Chatila - hanno rubato all’ospedale ogni sua attrezzatura,
rompendo e bruciando tutto quello che non era possible portar via. Amal
aveva occupato gli ultimi piani dell’ospedale, facendone postazione di
tiro sul campo.
Durante l’invasione israeliana del 1982 e la successiva Guerra dei Campi,
moltissime famiglie palestinesi avevano nuovamente perso la loro casa,
distrutta dalle bombe israeliane o dai mortai delle milizie sciite
libanesi; solo il 15% delle abitazioni del campo di Chatila rimasero in
piedi alla fine di quel periodo. Molti palestinesi avevano lasciato il
campo ed occupato alberghi e palazzi abbandonati o in costruzione a Hamra,
quartier centrale di Beirut ovest. Dopo il ritiro delle truppe di Amal i
rifugiati sfollati da Chatila iniziarono a farvi ritorno, trovando cumuli
di macerie al posto delle loro abitazioni, molte delle quali erano state
costruite immediatamente all’esterno di quel chilometro quadrato che
delimita i confini ufficiali del campo stabiliti dall’U.N.R.W.A. e
riconosciuti dal governo libanese. Ferreo e tempestivo arrivò il divieto
di ricostruzione all’esterno di quell’area, così la gente con l’aiuto di
alcune organizzazioni locali si mosse per trovare quella che doveva essere
l’ennesima soluzione abitativa provvisoria: l’occupazione del loro
ospedale messo in disuso dalla guerra, il Gaza Hospital.

È seduta sul letto Khadigeh, io di fronte a lei registro parole che
dolorose scaturiscono dai suoi ricordi. Abu Maher mi è accanto e traduce a
stento, mentre l’amarezza della disillusione non ha bisogno di alcun
interprete.

Vivevamo nel campo di Chatila, avevamo una casa di cinque stanze che nella
Guerra dei Campi è stata bruciata da quelli di Amal; siamo scappati coi
soli vestiti che avevamo addosso, abbiamo vissuto in un rifugio per cinque
mesi con una creatura nata da poco.
Questo era un ospedale, quando siamo arrivati abbiamo pulito e sistemato
tutto e adesso viviamo qua; come avete visto portiamo l’acqua da fuori,
non c’è acqua potabile e prima non c’era neanche l’elettricità, non
toglievano neanche la spazzatura. Potrebbero sfrattarci da un momento
all’altro e Dio solo sa dove ci buttano.

Il sibilo del motorino di una pompa dell’acqua entra dalla finestra e
riempie il silenzio che segue le sue parole; frequenza acuta, rumore di
fondo costante nei campi palestinesi dove anche l’acqua corrente – ma non
potabile - è stata una conquista.
La narrazione diventa più confidenziale, Khadigeh si rivolge ad Abu Maher
e il rancore dell’impotenza non si cela nella voce.

Noi in Palestina abbiamo le nostre case e i nostri terreni, qua cè il
nulla per noi, quella specie di case che avevamo ce le hanno bruciate.
Credete che siamo contenti di stare qua? Io no, di vivere in queste
condizioni; quanto dovremo sopportare ancora?
Sono uscita dalla Palestina nel 1956, quanto mi resta ancora da vivere? Da
qui potrebbero cacciarci da un momento all’altro, ho smesso di chiedermi
se un giorno tornerò.

È Youssef a fare la domanda, la conversazione tra loro prosegue noncurante
della telecamera ed io ne sono testimone. Non parlo arabo, mi abbandono
agli sguardi e al suono della voce, all’atmosfera empatica che ormai
pervade la stanza.

Dove andresti se potessi andar via di qua, torneresti in Palestina?

In Palestina dove? – incalza lei -  Non ho più niente la, la stanno
distruggendo giorno dopo giorno…dove potremo tornare?! Quanti anni sono
passati?

Cercando di ricordare da quanti anni è stata cacciata da casa, Khadigeh
guarda verso la parete, alza il braccio e ora si rivolge a me, indicando
il poster di Abed che ha disegnato al centro la chiave di una porta.

Da quanti anni siamo andati via, guarda la! In queste condizioni oggi è
sempre meglio di domani.

Si è fatto tardi, finiamo di sorseggiare il tè e Khadigeh ripone il
vassoio nella cucina semibuia, illuminata da un unico neon e senza affacio
all’esterno. Siamo di nuovo in corridoio e poi nelle scale del Gaza
Building, è ormai sera e con Abu Maher scendiamo da lui per mangiare
qualcosa con la sua famiglia.
L’aria è fresca, ovattata una musica arriva da una delle tante finestre
dell’ospedale che si affacciano nel cortile, dove ora sediamo. Sono
pensieroso e Abu Maher se ne accorge, lascia il tempo al silenzio.

Vedi, la nostra speranza è quella di tornare nella Terra dalla quale siamo
stati dispersi dopo il 1948: è un diritto sacro per tutto il popolo
palestinese.
Non si può permettere a nessuno di metterlo in discussione, ogni
palestinese ha il diritto al ritorno nella Terra dalla quale ci hanno
cacciato, e noi continueremo a lottare per ottenerlo.

Da Beirut, 7 settembre 2005
Kinoki mrc

Questo racconto fa parte del diario di lavorazione di un progetto di
documentazione a lungo termine; se non volete più riceverlo vi prego
comunicarlo e scusare il disturbo.
Il dvd di un documentario di 26 minuti, girato negli stessi luoghi e
preparatorio a questo, è in vendita ad euro 15 a copia per
auto-finanziamento.

Per informazioni:
Marco Pasquini
Autoproduzioni Abbasso il GradoZero
marco at izona.it