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A SINISTRA
Movimento Politico Antiliberista
BRINDISI

26 FEBBRAIO 2005
Nell'e-mail di oggi:
·        In questi giorni la morte di don Giussani ha suscitato molti
commenti. Michele Di Schiena, magistrato ed in passato a lungo consigliere
nazionale dell'Azione Cattolica proprio quando era forte lo scontro tra due
modi di concepire la presenza della Chiesa nel sociale, ha scritto un
articolo su: <>La Chiesa di don Giussani e quella del Concilio. Lo affido
alla lettura dei tanti amici di ispirazione cristiana che ricevono queste
e.mail ma anche a coloro che vogliono conoscere le dinamiche che nell'area
cattolica si sono sviluppate negli anni passati ma con contenuti ancora
oggi validissimi.
·         Ho ricevuto  e faccio girare una lettera che Niki Vendola scrisse
in memoria di Don Tonino Bello e che fu pubblicata su Mosaico di Pace di
aprile 2003: <>Sulle vie dell'utopia.

Giancarlo CANUTO - A SINISTRA - Brindisi


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LA CHIESA DI DON GIUSSANI E QUELLA DEL CONCILIO
Cordoglio, rispetto e, per i credenti, preghiera sono il giusto modo di
porsi di fronte alla morte di don Giussani, il sacerdote che certamente ha
lasciato una significativa «orma di pié mortale» sul cammino della Chiesa
cattolica, un cammino sorretto dallo Spirito ma attraversato, nello
svolgimento della sua vicenda storica, da profezie e da errori, da grandi
speranze e da ripiegamenti su interessi particolari, da aperture e da
chiusure, da testimonianze e da cadute. Nessuno che abbia seguito la vita,
il pensiero e le attività di don Giussani può mettere in dubbio la sua
grande Fede e la sua perfetta buona fede. Ma va detto con ruvida franchezza
che i frutti del suo servizio e del suo lavoro non sono stati sempre di
segno positivo ed hanno sovente provocato involuzioni e divaricazioni nel
laicato cattolico e talvolta nella stessa gerarchia ecclesiastica favorendo
la formazione di aree sostanzialmente impermeabili agli insegnamenti del
Concilio Vaticano II.
L'associazionismo promosso da don Giussani si è infatti distinto più per
l'esaltazione della sua identità dentro e fuori la comunità cristiana che
per la ricerca del dialogo e della comunione, più per la scelta di reazione
e di contrapposizione alla cultura laica (e segnatamente a quella di
sinistra) che per la capacità di cogliere in essa i «segni dei tempi», più
per la voglia di una baldanzosa "presenza" che per la fatica di una
lungimirante mediazione, più per le "opere" e gli "affari" che per la
preghiera e la missione, più per la inclinazione a dotare di potere
l'esperienza cristiana che per la sapienza di farne fermento capace di
lievitare nella società civile solidarietà e giustizia, più per la
commistione fra religione e politica che per la necessaria distinzione dei
due ambiti di impegno su una linea di coerenza ed al riparo da reciproche
strumentalizzazioni.
Si sono così fatte strada teorie e pratiche che hanno puntato
all'accantonamento dell'ecclesiologia del Concilio Vaticano II che riscopre
la Chiesa come «popolo di Dio» chiamato ad abbracciare l'intero mondo per
annunciare a tutti, in libertà e carità, il Vangelo di Cristo. Una
Chiesa-popolo che «non pone la sua speranza nei privilegi offerti
dall'autorità civile» e che utilizza per la sua missione «solo quei mezzi
che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti secondo le diversità dei
tempi e delle situazioni». Sono inoltre emerse scelte lontane dalla
sensibilità "pastorale" dello stesso Concilio che afferma il rispetto
dovuto all'autonomia delle realtà sociali e politiche, sottolinea la
doverosità dell'impegno rivolto ad eliminare le ingenti disparità
economiche e le conseguenti discriminazioni, denuncia l'arbitrio di gruppi
e nazioni che hanno in mano un eccessivo potere economico, sollecita la
promozione dei diritti umani fondamentali, condanna la guerra e chiede alla
comunità internazionale di costruire la pace facendosi carico della
condizione di quelle vaste regioni del pianeta che si trovano in uno stato
di intollerabile miseria. E queste distanze dal Concilio hanno determinato
nell'associazionismo cattolico sofferenze e lacerazioni non certo riparate
dal recente abbraccio, voluto dalla CEI, fra i vertici di Comunione e
Liberazione e dell'Azione Cattolica.
Ma come è possibile vivere la fedeltà al Vangelo senza opporsi, con la
critica più radicale, al liberismo ed a "questa" globalizzazione che sta
aggravando le disuguaglianze in tutto il mondo ed affamando la maggior
parte dell'umanità? Come è possibile non insorgere con tutte le proprie
forze e con la necessaria coerenza contro la guerra preventiva ed infinita
di Bush che semina morte e rovine e punta alla colonizzazione dell'intero
pianeta? Come si può essere testimoni di verità e giustizia assecondando
nel nostro Paese politiche in favore dei ceti privilegiati ed in danno
delle fasce sociali più deboli? Perchè si è stati vicini e si continua ad
esserlo ad uomini ed ambienti politici ossessionati dal potere e poco
sensibili agli interessi popolari? E come mai non si contesta per la sua
inattendibilità la sorprendente affermazione dell'on.le Berlusconi secondo
la quale don Giussani, interpretando a modo suo le sollecitudini celesti e
riprendendo una infelicissima sortita vaticana vecchia di settantacinque
anni e riferita a Mussolini, avrebbe definito il leader di Forza Italia
«uomo della provvidenza»? Domande queste destinate a restare senza
convincente risposta ma che vanno incalzantemente poste per favorire il
superamento di un malinconico passato specialmente nel momento in cui si
manifestano nella Chiesa i segni di una nuova primavera che vuole
rilanciare il Concilio e dare rinnovato vigore alle grandi domande di
liberazione e di pace.
Brindisi, 25 febbraio 2005
Michele DI SCHIENA



Sulle vie dell'utopia.
Forse l'antica sentinella può finalmente risponderci
che la notte sta per finire.
di Niki Vendola
(lettera scritta in memoria di Don Tonino Bello pubblicata su Mosaico di
Pace di aprile 2003

Caro don Tonino,
in tutta sincerità non ho ancora fatto pace con la tua morte: non solo
perché la tua assenza brucia (e talvolta non riesco quasi a perdonarti per
quel salto senza rete che ti ha proiettato oltre l'orizzonte del nostro
sguardo). Ma perché dopo è stato davvero il finimondo. Come se, calato il
sipario della tua esperienza terrena, la storia umana si fosse avvitata in
una spirale nichilista e buia. Come se, a noi sopravvissuti, fosse
comminata la pena dell'esilio da noi stessi, dai nostri bisogni di verità e
di amore. È stato molto più di una solitudine e di uno smarrimento. Tu eri
volato, con le tue ali sfibrate dalle metastasi, nel cielo della
"ulteriorità" (ti rubo una parola che mi hai sussurrato l'ultima volta).
Noi invece di colpo eravamo scivolati giù nei dirupi del "pensiero unico",
in uno spazio interdetto alla profezia e alla carità, in un alfabeto
capovolto e levantino, in un universo di piccole patrie isteriche e
minacciose, dove anche lo spirito santo veniva arruolato come un gendarme
atlantico o un controllore orwelliano al servizio del New West. Era come
tornare nel cono d'ombra delle catacombe. Tu trasmutato in un'icona
rischiosamente consolante, noi pronti per i leoni del Colosseo globale,
della fiction seriale e della mass-mediocrità.
Sono passati come un lampo tutti questi anni e ancora sento il vento
tiepido di quel pomeriggio di aprile, sulla spianata in fronte al mare
azzurro di Molfetta, nella mestizia popolare di quella lunga, lenta,
indicibile cerimonia dell'addio. Dieci anni fa. Oppure ieri. O forse è ora.
Lo so, caro vescovo, tu intercettasti tra i primi il vento cattivo che
soffiava a Occidente. Sulla sequela di Cristo ci indicasti la Via Crucis
che portava a Bagdad e a Sarajevo, osando immaginare e poi incarnando - in
quella "festa di dolore" che ti fece solcare la terra ghiacciata e
incandescente di Bosnia - una traccia di "Onu dei poveri": che ancora oggi
è per noi una pietra angolare.
Ci raccontasti il malessere partendo dal benessere e dalle sue arti
marziali e dai suoi valori misurati in Borsa: non basta "consolare gli
afflitti", bisogna "affliggere i consolati", così ci provocavi. E le tue
non erano capriole semantiche o giochi di enigmistica. Sull'asse della tua
indignazione girava un intero mappamondo a forma di Golgota: e in ogni
povero cristo (disoccupato o immigrato, tossico o carcerato) tu vedevi la
"regalità" del dio vivente e ci ammonivi ad accogliere e a donare. Amore,
voce del verbo morire: non stavi alludendo a una spiritualità masochista,
ma alla sfida permanente della conversione: che è schiudersi agli altri,
scacciare i fantasmi della paura delle diversità, conoscere e scambiare e
contaminarsi e donare. Fuoriuscire dal recinto del privilegio e
dell'egoismo, recidere il filo spinato del pregiudizio nutrito di
petrodollari, detronizzare la dinastia planetaria del profitto. Cambiare
registro, cambiare pelle al presente, farsi costruttori di strade e pontili
piuttosto che di muraglie e di barriere architettoniche. Con-dividere:
farsi compagni del mondo, farsi prossimo, coniugare i verbi della
conoscenza e della tenerezza per chi normalmente inchiodiamo al legno delle
nostre fobie e delle nostre pigrizie.
Lo so, don Tonino, persino l'immagine teologica della Trinità - fusione
perfetta di tre entità distinte - era per te l'icona di quella splendida
"visione" che hai colto nella più bella delle tue espressioni: convivialità
delle differenze. Come un infinito abbraccio dei popoli e delle persone,
delle fedi e delle culture. Questa, sui sentieri accidentati di Isaia, è la
filigrana della pace che cerchiamo. Sarà necessario, ovviamente, mutare le
nostre spade in aratri e le nostre lance in falci. E cioè cambiare in
radice modello di sviluppo e forma del potere: liberando la storia umana
dalla sua ipoteca di oppressione e di violenza, sradicando dalle nostre
lingue ogni codice di guerra, svuotandoci dell'odio che si è lungamente
sedimentato nei nostri consessi civili e nei nostri cuori.
Carissimo amico perduto e ritrovato ogni giorno, tu ci lasciasti in dono un
seme di passione (che è voce del verbo patire). Fummo confitti (non
sconfitti) dai chiodi del conformismo e della omologazione. Eppure
continuammo a coltivare quella charitas sine modo che ci sfida e ci
interpella, quei "pensieri lunghi" che quasi ci sospendono tra cielo e
terra. Continuammo, seguendo la tua ombra buona, a costruire piste di
"utopia": ecco, utopia è la parola che adoperano, con intenzioni di
scherno, i trafficanti di realismo, i farisei dei nostri giorni, i
burocrati dei silenti genocidi mercantili.
Ma a dispetto di tutte le realpolitik, di tutti i governi e di tutte le
cancellerie che ci dettano la lentezza delle loro tregue e la fretta delle
loro guerre, ora, gridiamolo don Tonino, ora è il tempo dell'utopia! Perché
avevi ragione tu: non andiamo verso la fine, ma verso un nuovo inizio. E io
volevo dire al mio pastore, mentre lo penso con nostalgia, che quel suo
seme, dopo un inverno fin troppo lungo, ha cominciato a germogliare.
Le oscure catacombe hanno figliato moltitudini di battezzati alla pace. È
vero: rombano già i motori della macchina holliwoodiana della "guerra
infinita". Ma ancora più forte si sente, a ogni latitudine del mappamondo,
il suono di una nuova coscienza. Forse l'antica sentinella può finalmente
risponderci che la notte non è più tanto lunga, che sta per finire. E così
sia.




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