Tra uomini e animali



Tra uomini e animali
lanfranco caminiti

"Saddam trattato come un animale": era il titolo di un quotidiano che
riportava la notizia della conferenza-stampa del cardinale Martino,
responsabile di Giustizia e pace, in cui si illustrava ai giornalisti il
prossimo messaggio di inizio anno del papa; in quell'occasione, il
cardinale Martino aveva espresso delle opinioni sulla guerra, dopo
l'arresto del dittatore iraqeno e le immagini televisive che avevano fatto
il giro del mondo. Più precisamente, il cardinale aveva detto con
riprovazione e disgusto: "trattato come una vacca". La dichiarazione di
Martino mi lasciava perplesso, l'analogia pure. Non ultimo perché suonava
molto "occidentale-centrica", con una involontaria disattenzione verso
religioni che delle vacche invece considerano, come di molti altri animali,
la sacralità, quando non la deità. Ma conosco parecchie persone che
trattano con amore e rispetto il proprio animale domestico, e che non
riserverebbero a Saddam neanche una briciola di questi loro sentimenti, che
avranno trovato perlomeno strana quella dichiarazione.
La chiesa, si sa, non ha una grande considerazione spirituale degli
animali, ferma a una distinzione aristotelica tra il mondo umano e quello
animale. Ma condivide questa diffidenza verso gli animali con tutta la
tradizione del pensiero razionalista, a cominciare dal "Cogito ergo sum"
cartesiano. Gli animali, tutt'al più, sono nuda forma di vita. Ma essere
nuda vita non presuppone l'anima, anzi, è stata proprio la riduzione
dell'esperienza umana alla nuda vita che ha consentito l'annientamento di
esseri umani, e un generale imbarazzo o indifferenza o muta complicità
quando se ne aveva notizia. Insomma, l'analogia usata dal cardinale
indicava una degradazione dell'essere umano - qualunque esso sia - a quello
animale, ma dando quasi per scontato - nel senso magari d'uno sforzo
semplificativo per essere compreso dall'interlocutore - che per quello
animale potesse non esserci pietà umana e compassionevolezza. Anzi, il
disagio per la condizione umana degradata a quella animale nasce dal
profondo disprezzo per la condizione animale. E, probabilmente, era proprio
questo il senso delle immagini che avevamo visto, e anche quell'indulgere
dei commenti giornalistici al rifugio di Saddam come 'tana del lupo' o
'dove si sgozzavano le pecore': trattarlo come un animale indicava proprio
l'assenza di qualunque diritto per Saddam da quel momento in poi. Era un
animale - una espressione già usata dalla presidenza americana, peraltro -,
e come tale sarebbe stato trattato. Saddam, in un eventuale processo, potrà
argomentare come vuole la sua storia e il suo Iraq, ma le sue parole
suoneranno come il verso di un animale preso in trappola: lotta per la
vita, certo, ma tutto ciò è solo 'naturale', non 'umano'. Dopo averlo
sentito, si può sgozzare. L'insistenza che da parte americana viene messa
sulla quasi ineluttabile pena di morte ha probabilmente - oltre a tutte le
argomentazioni militari, politiche, di riscatto - questo retroterra,
diciamo così, culturale. La dittatura è 'non umana', o almeno la dittatura
di Saddam [l'uso dei gas chimici contro le popolazioni curde, la
repressione sanguinaria degli sciiti, la tortura eletta a sistema di
governo, le aggressioni militari ai confinanti, l'instabilità dell'area
geo-politica] è stata 'non umana', ha cioè superato il punto di
non-ritorno. Anche in questo senso, forse, viene abusata l'analogia con
Hitler e il regime nazista, quella che toglie ogni "facoltà di parola": c'è
un senso di "caduta" dell'esperienza umana che rimanda alla prima caduta
dell'uomo e alla sua cacciata, un "peccato" ben più che un orrore della
storia, in un orribile piano inclinato dal divino all'umano all'animale.
Ma, ancora, quest'ultima analogia dovrebbe confermarci la 'umanità' della
democrazia americana.
La democrazia è singolarmente umana. L'osservazione degli animali in natura
- una questione molto discutibile scientificamente, e dove prevale il
behaviorismo, lo studio e l'analisi del comportamento sulla base di una
griglia associativa - ci porta a classificare le loro comunità secondo la
nostra esperienza della polis: così, abbiamo le "monarchie" assolute delle
api, i "totalitarismi" delle formiche, le "dittature" delle termiti,
l'"anarchia" del branco o dell'individuo, "aristocrazie", "oligarchie". In
natura, non si dà democrazia. Il rapporto instaurato tra la democrazia
americana e le non-democrazie del mondo è quello tra umani e non-umani, tra
umani e animali, tra umani e bestie, tra umani e no. Tra storia, e civiltà,
da una parte, natura dall'altra.
Quello che è curioso e contrastante è che l'affetto per gli animali sta
entrando a peno titolo nella consapevolezza di un essere umano migliore. Il
presidente Bush, per dire, ama, compiaciuto e sicuramente ricambiato, il
suo cane.
L'interesse per gli animali, la "kindness", è un fenomeno relativamente
recente nell'occidente. È sicuramente vero che esso ha avuto una forte
'spinta' dal mondo anglosassone. La nostra tradizione culturale
sull'argomento, che affonda in Aristotele, Plutarco, sant'Agostino, Tommaso
d'Aquino, Cartesio, Kant e via dicendo, ha sempre avuto invece come
discrimine fondamentale la considerazione che gli animali sono qualcosa di
totalmente differente da noi. Questo 'qualcosa' ci ha sempre consentito di
trattarli alla stregua di 'oggetti' utili per i nostri scopi, della
sopravvivenza più spesso: metterli al lavoro, per sopportare la fatica al
nostro posto sfruttando le loro risorse e qualità naturali [la pelle, la
carne, il petrolio], tenerli in recinti o in luoghi controllabili e dai
quali non erano consentito loro né scappare né farci dei danni, dividerli
accuratamente tra loro sul principio che la loro commistione avrebbe messo
a repentaglio la loro stessa esistenza, per istinti crudeli naturali, e
anche la nostra, infine garantire loro la vita finché essa serviva alla
nostra riproduzione e al nostro benessere fisico ma macellarli [o anche
bombardarli] quando ne avevamo estremo bisogno. Insomma, la nostra
tradizione è fortemente radicata su un comportamento pratico verso gli
animali come fossero nostri "prigionieri di guerra". Noi possiamo
tagliargli la gola, strappargli il cuore, gettarlo nel fuoco. Non ci sono
leggi che tengano quando si tratta di prigionieri di guerra. In realtà, noi
siamo anche compassionevoli - e affettuosi - verso gli animali, ma solo
dopo che abbiamo riportato delle vittorie assolute. Nella suscettibilità
urtata dalle orribili immagini delle prigioni di Guantanamo e delle
condizioni dei prigionieri colà detenuti, come in uno zoo e peggio, credo
possa ritrovarsi questo senso. Alla secca e crudele domanda "perché
dovremmo trattarli come noi, visto che non sono come noi?", la risposta più
sensibile è che "se non li trattiamo come noi, resteremo contaminati
dall'abiezione". Dovremmo, insomma, preoccuparci sempre della "nostra"
salvezza.
Abbiamo sempre vissuto con un certo sollievo [tranne alcuni umani troppo
sensibili: Camus, a esempio, riportò un trauma infantile dall'osservazione
della nonna che sgozzava una gallina e da adulto si batté per l'abolizione
della ghigliottina] la questione della loro macellazione, della
distruzione, a partire dall'ostinata convinzione che agli animali non
appartenga il senso della morte. Gli animali vivono e poi un bel giorno
muoiono. Come titola un bel libro di Emanuele Trevi, che riprende una
poesia di d'Annunzio, i cani, a esempio, sono cani del nulla. In quel
"nulla" vivono - illuminato dal nostro eventuale affetto verso di loro -, e
in quel "nulla" tornano alla morte. L'esistenza degli animali,
propriamente, appartiene al nulla. Che a quel nulla arrivino per scadenza
biologica o perché affrettati da noi, non cambia la sostanza delle cose.
Loro non "comprendono" la morte come la comprendiamo noi, o meglio, come
noi non riusciamo a comprenderla. Al cospetto della morte, nella mente
umana si verifica un crollo dell'immaginazione, e quel crollo è alla base
della nostra paura della morte. Quella paura non esiste, e non può
esistere, negli animali. Per gli animali, la morte è solo qualcosa che
succede.
A volte ritroviamo queste considerazioni quando sentiamo ragionare sulla
questione degli "shahid", dei martiri, dei 'kamikaze' che si fanno
esplodere tra la gente. Per un doppio effetto, perché alimenta questa
nostra idea della loro non-comprensione della morte, e alimenta questa
nostra paura. Siamo abituati a pensare: il corpo vuole vivere, il suicidio
non è un atto del corpo contro se stesso, è un atto della volontà contro il
corpo. Qui invece è il corpo che è disposto a morire piuttosto che cambiare
la propria natura. Un comportamento propriamente animale. Gli "shahid", con
tutta evidenza, capiscono benissimo e non capiscono assolutamente la nostra
idea della morte. Però, invece di limitarsi a viverlo, agiscono il loro
nulla.
In ogni caso, nella nostra storia recente va rafforzandosi il convincimento
che occorra uno statuto giuridico per gli animali, insomma una "carta di
diritti". Più propriamente, la "crociata" del mondo umano verso il mondo
animale perché adotti le nostre coordinate giuridiche e politiche [diciamo,
la "democrazia"] si basa sulla nostra idea di universalità: ciò che è buono
per noi è buono per tutto ciò è "fuori di noi". C'è una evidente resistenza
da parte del mondo animale a farsi irreggimentare dai nostri criteri. Se
potessero parlare, probabilmente, obietterebbero che la loro vita si svolge
secondo norme proprie e non comprendono perché dovrebbero adottare le norme
dell'occidente. Ma qui intervengono alcuni nodi non semplici: il primo è
quello del cosiddetto "relativismo culturale", il secondo è quello che
Wittgenstein obiettava contro l'argomento "se fossi un leone" [in "Ricerche
filosofiche", Einaudi, 1995]. Per il relativismo culturale, l'argomento
principe è che per capire qualcosa occorre vivere come quella cosa: per
sapere l'idea di libertà, mettiamo, di un cavallo, un babbuino, un iraqeno,
bisogna provare a immedesimarsi. Ma, con tutta evidenza, noi non potremo
mai "sentire il mondo" come un pipistrello, e ciò finirebbe con il
dichiarare una sorta di impossibilità relazionale tra il nostro mondo
occidentale e il resto, arrivando sostanzialmente a "giustificare" ogni
comportamento. Ma il convincimento "morale", ontologico della nostra
esperienza ci spinge, al contrario, a giustificare ogni nostro
comportamento per costruire relazioni: non è certo necessario adottare la
morale o il vitto di un elefante o di un afghano per sapere cosa è "buono"
per loro. Qui, il richiamo alla evidente superiorità della nostra
esperienza mondana, oltre che al nostro Dio, diventa fondamentale. Noi non
possiamo ammettere che prolifichi il "peccato" intorno a noi, non possiamo
tollerare che vi sia della vita che si svolga secondo criteri propri i cui
comportamenti sono decisamente anti-umani. E cioè anche anti-democratici.
Il nostro intervento, anche quando estremo, direi bellico, è connotato
perciò da un carattere sostanzialmente "umanitario". Non tutti sono
d'accordo: con un ingiusto schema, in cui è davvero difficile sapere dove
collocarsi, a un impero "onnivoro" si contrappone una sorta di idea della
relazione fra mondi basata sul "vegetarianismo globale".
L'altro nodo è l'obiezione di Wittgenstein, che diceva: "se un leone
potesse parlare, noi non potremmo comprenderlo". Il punto è che senza
linguaggio non c'è relazione e non c'è compassione. L'assenza di una
qualunque struttura linguistica di comunicazione [nonostante i tentativi di
"inventare" dei gradi di riferimento a mezzo di bestie che eleggiamo a
nostri partner, sul campo o in laboratorio, nella speranza che ci
introducano a quel mondo per spiegare bene loro le nostre ragioni - come
fossero dei "governatori"] ci rafforza nel convincimento che comunque i
gesti, i suoni, gli sguardi, esprimano sì una essenza vitale ma mai
consapevolezza. E come può esservi, da parte nostra, disposizione
all'ascolto se non v'è linguaggio? D'altra parte, macelleresti mai, o
bombarderesti, qualcuno con cui stai provando a dialogare?
Eppure, molti animali resistono. I topi resistono. Il comune ribrezzo verso
i topi potrebbe essere anche motivato da questa nostra continua
constatazione. Non riusciamo a capire come sia possibile resisterci.

Roma, 19 dicembre 2003


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