Come stiamo pagando i costi della guerra



COME STIAMO PAGANDO I COSTI DELLA GUERRA

I tagli fiscali e la guerra

George W. Bush come Ronald Reagan. Le ultime dall’economia globale dicono
che le politiche di tagli fiscali per centinaia di miliardi di dollari
cominciano a fare il loro effetto sulla crescita economica degli Stati
Uniti d’America. La previsione della crescita del Pil effettuata sulla base
dei risultati del terzo trimestre 2003 è del 7,2% annuo. Non si tratta di
un risultato acquisito, ma di una proiezione, ossia il dato è valido solo
nel caso in cui si verifichi lo stesso ritmo di crescita nel periodo
rimanente dell’anno. I guru dell’establishment sono unanimi nella cautela.
Paul Krugman dichiara che la ripresa non annuncia un nuovo boom, ma indica
soltanto che il “meglio è già passato”. La ripresa americana è fragile,
perché gravata dal cumulo dei debiti: dei consumatori, del bilancio
pubblico, dei conti con l’estero.

Incominciando già prima dell’11 settembre, Bush ha dato il via ad una
politica di riduzione delle tasse per un ammontare di circa 500 miliardi di
dollari (il 60% dei quali favorivano l’1% dei contribuenti), ha deciso
l’esenzione totale della tassazione per i dividendi di Borsa, e,
successivamente, dopo l’attacco alle torri gemelle, ha rilanciato la spesa
pubblica in sistemi di armamento. Il combinato di tagli fiscali e aumento
delle spese militari è la soluzione messa a punto dall’amministrazione
repubblicana per uscire dalla crisi della new economy, iniziata nel 2001 e
aggravatasi con il clima di insicurezza prodotto dalla guerra. Dal punto di
vista delle politiche economiche, rappresenta lo stesso modello di
“supple-side economy” (o politica dell’offerta), che costituì, negli anni
’80, la base delle politica reganiana: favorire l’accumulazione di capitale
delle classi ricche sulla base del presupposto che più i già ricchi
accumulano capitale, più i loro spiriti animali saranno eccitati all’idea
di investire. Il neoliberismo, allora, si presentò come affatto diverso
dalla ritirata dello stato dalla scena dell’economia di mercato: infatti,
mentre i tagli fiscali aprivano un buco nel bilancio federale, la spesa
pubblica, trainata dal settore degli armamenti, conobbe un forte
incremento. Ne conseguì un ciclo di crescita economica correlata ad un
peggioramento nella distribuzione dei redditi interni, esauritasi con la
recessione del 1990 (che costò la mancata rielezione a Bush padre).

L’esperienza reaganiana fu la dimostrazione evidente delle argomentazioni
di economisti come Joan Robinson (l’allieva di Keynes) sul rapporto tra
crescita economica e distribuzione dei redditi: si tratta di due variabili
indipendenti, di due fenomeni non necessariamente correlati. Non a caso,
quasi contemporaneamente alla notizia della ripresa al 7,2%, giunge l’altra
notizia che nel 2002 i cittadini statunitensi che vivono sotto la soglia di
povertà erano 34,6 milioni, con un incremento di 1,7 milioni rispetto al
2001 (fonte: Census Bureau).

I debiti gemelli
I minori introiti delle tasse stanno aggravando il deficit del bilancio
pubblico, che è giunto alla cifra di 500 miliardi annui. A questo si
aggiunge l’incremento del deficit verso l’estero, cioè della bilancia dei
pagamenti, che diviene comprensibile solo analizzando la relazione tra le
politiche fiscali e di spesa dell’amministrazione Bush e la politica
monetaria della Federal Reserve. Lo squilibrio dell’economia USA è quindi
duplice, verso l’interno e verso l’estero, e non a caso nel linguaggio
giornalistico si sta affermando l’espressione “debiti gemelli”. Il
governatore della FED, Greenspan, sembra piuttosto in sintonia con
l’obiettivo di favorire la rielezione di Bush nel 2004. Fissando il tasso
di interesse ai minimi storici, Greenspan ha creato un’abbondanza di
liquidità che asseconda l’espansione economica, traducendosi da un lato nel
sostegno ai valori dei titoli in Borsa, dall’altro nella crescita del
mercato immobiliare (grazie al basso costo dell’interesse sui mutui, il
fenomeno dell’aumento dei prezzi degli immobili è di carattere globale).

A differenza di momenti storici passati, anche la FED sembra essere di fede
repubblicana. Il tasso di interesse non salirà fino alle elezioni
presidenziali – dice il capo economista del Credit Suisse, intervistato da
Affari e Finanza. Sia le politiche di Bush che quelle di Greenspan seguono
una linea espansiva assolutamente indifferente all’accumulazione del
deficit. Gli Stati Uniti, a differenza dell Europa, non devono fare i conti
solo con un buco nel bilancio statale, ma presentano un doppio deficit, dei
conti con l’estero e del bilancio pubblico. Il doppio deficit ammonta, per
quest’anno, a 450 miliardi di dollari per quanto riguarda la bilancia dei
pagamenti, e a 550 miliardi di dollari in riferimento al budget dello stato
federale. Entrambi sono circa al 5% del PIL, una percentuale che non
verrebbe mai accettata secondo i criteri in vigore attualmente in Europa.

In passato, e precisamente nell’epoca reganiana, tra l’amministrazione
repubblicana e la Federal Reserve si realizzava un gioco delle parti.
Politiche opposte ma complementari per quanto riguarda la spesa: mentre il
governo repubblicano apriva i cordoni della borsa per far correre la spesa
militare e i profitti, la FED teneva alto il tasso di interesse per
attrarre capitali dall’estero che andavano a “coprire” il buco della
bilancia dei pagamenti. Il risultato complessivo consisteva in un grosso
buco di bilancio ma anche in un dollaro forte (perché l’afflusso di
capitale in America equivale a una forte domanda di dollari). Oggi, invece,
alla stessa politica dell’amministrazione corrisponde un basso tasso di
interesse, e, quindi, un dollaro debole. In qualunque altro sistema
economico, una moneta debole richiederebbe una diminuzione delle
importazioni, e un corrispondente aumento delle esportazioni (le merci
estere costano di più, mentre quelle interne sono più competitive). Negli
Stati Uniti, centro dell’economia imperiale, invece, moneta debole
significa, in sostanza, crescita del debito con l’estero, cioè una maggiore
spesa per importazioni (circa il 60% di cui sono acquisti da multinazionali
americane che producono all’estero). Chi perde da tutto ciò sono le
economie europee, le cui esportazioni perdono competitività per effetto del
rafforzamento dell’euro.

L’Europa ipotecata
Il punto è che non è solamente la società americana a pagare i tagli
fiscali al capitale di Bush. Mentre negli Stati Uniti si manifesta una
ripresa economica (per quanto precaria), “drogata” dal deficit, in Europa
si è in piena recessione. Se ci si sofferma sul commercio internazionale,
le cose non dovrebbero andare così. Infatti, se c’è ripresa economica nel
mercato dominante, questo significa anche aumento della domanda di prodotti
esteri, quindi della produzione nelle zone dipendenti dal mercato
statunitense. Ma avviene esattamente il contrario. Senza dubbio, le
politiche protezionistiche di Bush (i dazi sull’acciaio e sui prodotti
tessili asiatici), condotte in totale disprezzo delle stesse regole del
WTO, hanno la loro parte di responsabilità nella crisi dell’economia
europea. Ma non spiegano tutto, infatti il fattore più importante dello
squilibrio economico tra America ed Europa, è di natura finanziaria:
l’attuale cronicizzazione dell’indebitamento americano danneggia l’Europa,
e per ragioni che attengono ai movimenti internazionali di capitale, e a
politiche globali del tutto subalterne alle indicazioni dei circuiti
finanziari internazionali.

Negli ultimi tempi, in corrispondenza con il dibattito sulla riforma delle
pensioni del governo Berlusconi, si è assistito ad un forte attivismo del
FMI (che tutti sappiamo essere non casualmente dislocato a Washington), che
richiamava l’Europa alla necessità di contenere i costi dei sistemi
previdenziali. In sostanza, a politiche di rigore finanziario che pesano
sulle spalle degli attuali lavoratori e futuri pensionati. Gli ultimi
allarmi del FMI non hanno a che vedere solamente con la consueta
aggressività neoliberista nei confronti del welfare, ma anche, e molto, con
l’indebitamento di guerra prodotto dall’amminstrazione Bush con il consenso
della FED. Nell’attuale sistema di mobilità globale del capitale – fermo
restando i rapporti di forza politici – lo squilibrio tra Europa ed America
costituisce il miglior equilibrio per gli attori del capitale finanziario.
La comunità finanziaria globale ha orrore di un solo pericolo, che il
capitale vada ad inflazionarsi. L’aumento dell’indebitamento USA, che è la
condizione della risalita delle Borse, manifesta anche lo spettro della
svalutazione dei capitali, di nuovi crolli finanziari. In qualche modo, e
da qualche parte, occorre creare dei saldi attivi che garantiscano il
debito generato dall’unilateralismo di Bush. Una politica europea di rigore
finanziario, ispirata al rigoroso rispetto dei parametri di Maastricht, è
quanto viene richiesto a garanzia della licenza di indebitarsi del bilancio
federale e dei conti con l’estero degli Stati Uniti d’America. Il mercato
azionario mondiale ha così prodotto una performance al rialzo del 30% a
cavallo della guerra irachena, guardando da un lato ai debiti di guerra di
Bush, dall’altro alla sorveglianza dei parametri di Maastricht della Banca
e della Commissione europee.

L’Europa sta già pagando la guerra irachena. Non tanto attraverso l’invio
di truppe o con tasse di guerra, ma lasciando in pegno i redditi delle
pensioni e dei salari come assicurazione della montagna di debiti bellici
ed elettorali dell’amministrazione repubblicana. L’euro forte, giunto fino
a valere 1,20 dollari (due anni fa era all’incirca a 0,80 dollari), porta
con sé questo insieme di significati negativi: assenza di redistribuzione e
di investimenti sociali in nome dell’equilibrio finanziario. Qualcuno
potebbe pensare che il rigore, ossia la difesa ortodossa dei parametri di
Maastricht (ribadita in questi giorni da Romano Prodi), rappresenti una
strategia difensiva dell’Europa nei confronti dell’aggressività –
altrettanto bellica che finanziaria – dell’amministrazione Bush.
Costituisce, in realtà, l’equivalente di un fondo di garanzia per il
dispiegarsi dell’iniqua e guerresca ripresa dell’economia americana.
Un’euro effettivamente “forte” nascerebbe nel momento in cui divenisse
pressoché l’equivalente del dollaro negli scambi del commercio
internazionale. Tuttavia questa funzione dell’euro – moneta di riserva,
cioè detenuta in cassa da tutte le banche indipendentemente dalla nazione -
si renderebbe possibile solo se l’Europa decidesse di indebitarsi in nome
dello sviluppo, poiché solo l’indebitamento accrescerebbe la circolazione
mondiale dell’euro (cfr. Marazzi, L’arma del deficit contro il deficit
delle armi, Global, 02, maggio 2003).

Oggi, la gabbia che l’Europa si è costruita attorno, con i parametri di
Maastricht, sta implodendo: i parametri di Maastricht, che vincolano gli
stati a non superare il rapporto del 3% tra deficit pubblico e PIL, da un
lato deprimono i consumi interni, dall’altro favoriscono la corsa
dell’euro, danneggiando le esportazioni e l’economia. E il paradosso è che
i rappresentanti istituzionali della sinistra europea, come Romano Prodi,
sono i più fervidi sostenitori del mantenimento dello status quo, difensori
a oltranza della stabilità finanziaria a spese dell’occupazione e dello
sviluppo. Mentre si costituisce un’alleanza trasversale, tra i paesi in
difficoltà finanziaria, come Francia e Germania, l’uno retto da un governo
di destra l’altro di centrosinistra, per il superamento dei parametri di
Maastricht, l’ortodossia economica dei campioni della sinistra europea ne
fa, obiettivamente, i migliori alleati nella corsa verso la riconferma alla
Casa Bianca di George Bush.


dicembre 2003


Movimento delle/i DISOBBEDIENTI