Esiste in Italia una minaccia terrorista islamica ?



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Una quinta colonna da prima pagina

Esiste in Italia una minaccia terrorista islamica? E' la domanda a cui
cerca di rispondere un libro sulle inchieste della magistratura sulla
presenza di al Qaeda tra i migranti islamici. Per l'autore del volume Carlo
Corbucci, avvocato di molti dei sospettati, siamo di fronte alla
costruzione mediatica di un pericolo inesistente per legittimare la
partecipazione italiana alla guerra al terrorismo

ANGELA LANO

Il terrorismo islamico è, dall'11 settembre in poi, una minaccia che
incombe anche sul nostro paese. Che sia così lo testimoniano titoli a
caratteri cubitali, articoli che riempiono le pagine, occhielli,
sottotitoli, foto, didascalie di molti dei quotidiani maggiormente venduti.
I salotti televisivi, dal canto loro, fanno a gara per invitare l'esperto
(o pseudo esperto) di turno affinché questa paura venga diffusa e
spettacolarizzata. Insomma, l'argomento fa audience. Soprattutto quando,
quasi sempre, si cita al-Qaida o Osama bin-Laden e li si mette in relazione
con questo o quel gruppo scoperto in giro per l'Italia. Ma che percentuale
del fenomeno «terrorismo islamico» costituisce una realtà oggettivamente
dimostrata e quanto è invece frutto di disinformazione mediatica? Nessuno
può negare l'esistenza di singoli o gruppi vicini a questo o quel movimento
o rete di fondamentalisti islamici, ma le dimensioni, probabilmente, non
sono quelle che gli si vuole attribuire.

E' questa, in sinstesi, la tesi di un libro, in uscita in questi giorni per
il Gruppo Editoriale Agorà, intitolato
Il terrorismo islamico in Italia. Realtà e finzione.

L'autore, Carlo Corbucci, è un avvocato che vive e lavora a Roma e che
segue, da diversi anni, casi di criminalità comune o di «terrorismo» che
hanno come protagonisti migranti di origine araba. Il legale, a dir il
vero, di dubbi ne ha pochi: «il fenomeno del terrorismo islamico - afferma
- per fortuna si basa spesso su bufale o su casi di criminalità comune (per
intenderci, quella di chi falsifica passaporti, spaccia, ruba o commette
altri reati). I casi da noi trattati, o in modo diretto, nella difesa (i
bangladesci di piazza Vittorio, a Roma, i presunti falsificatori di
documenti alla moschea al-Huda, sempre a Roma e, minori, di stranieri
accusati di far parte di al-Qaida) o indiretto, come osservatori o
consulenti delle famiglie o delle ambasciate (i 28 pakistani di Napoli, i
presunti terroristi di Rovigo), si sono risolti in un'assoluzione per non
aver commesso il fatto o in un immediato rilascio degli imputati.

Nel caso dei bangladeshi, è risultata la loro completa estraneità da tutti
i sospetti che le relazioni dei servizi americani, recepite da quelli
italiani, riferivano sul loro conto quali affiliati alla più grande
organizzazione di terrorismo islamico internazionale.

Quello dei tre egiziani di Anzio, arrestati il 2 ottobre del 2002 perché
trovati in possesso di un chilo di tritolo, di una pistola carica e di una
piantina con gli obiettivi da colpire, e quello dei presunti avvelenatori
di Roma, arrestati nel febbraio 2002 perché accusati di star praticando un
buco sotterraneo in via Veneto per introdurre del "ferricianuro" nelle
condutture idriche dell'ambasciata statunitense, si stanno dimostrando
basati su prove infondate».

Ma allora perché tanto clamore e tanta ansietà riversata sul pubblico dei
lettori e dei telespettatori? Per Corbucci la risposta è semplice: a
qualcuno interessa gettare gli italiani (e il resto dell'Occidente) nel
panico.

Facciamo un esempio: tra i capi di imputazione contro i tre egiziani di
Anzio (attualmente in carcere a Rebibbia, che, il 15 settembre,
compariranno davanti alla Corte di Assise), si evidenzia anche quello di
«atti mirati a provocare la rottura diplomatica delle relazioni tra Italia
ed Israele, a compromettere la stabilità nazionale, la pace nel mondo e a
favorire la guerra; atti mirati alla destabilizzazione del sistema
economico nazionale e mondiale e degli equilibri internazionali». Ecco,
dunque, sottolinea Corbucci, la prova, chiara, inconfutabile, del pericolo
islamico, presente anche in Italia, e pronto a colpire in mezzo alla
popolazione, grazie alla sua organizzazione economica e logistica molto
efficiente. Le relazioni dei servizi segreti americani, Cia e Fbi, prosegue
l'autore, informano che si tratta di personaggi «notoriamente fanatici, che
pregano molto, frequentano molto le moschee, fanno discorsi arrabbiati
contro le società occidentali e le ingiustizie sociali, sono sicuramente
stati in contatto con elementi della Bosnia durante quella guerra, istigano
alla violenza, sicuramente odiano gli americani, Mac Donald's e sono pronti
a tutto».

Nelle operazioni che hanno condotto all'arresto dei tre di Anzio e dei
presunti avvelenatori di Roma, sostiene sempre Corbucci, ci sono troppi
elementi di stranezza, prove deboli, «elementi di sospetto»: «serve
assolutamente che la gente si convinca di un reale pericolo islamico
all'interno dell'Italia, perché si rompano gli indugi e si sposi con
convinzione e con la necessaria carica emotiva, la causa della guerra
contro l'Iraq e contro tutti quegli altri paesi accusati di appoggiare il
terrorismo islamico nel mondo».

Fin qui la denuncia di una costruzione dell'imminenza di un pericolo
islamico può essere condivisa da quanti hanno prestato attenzione a certe
cronache giudiziarie e giornalistiche degli ultimi anni e, parallelamente,
al procedere della macchina bellica in Medio Oriente (con i recenti
sviluppi sui dossier truccati in Gran Bretagna e Stati Uniti). Tuttavia,
per quanto riguarda l'analisi delle cause, Corbucci è tentato di ricondurre
il tutto all'interno di uno scontro tra «globalizzazione» e
«antiglobalizzazione». Nel libro si legge infatti che le ragioni
dell'ostilità alla globalizzazione da parte del mondo islamico sono «da
ricercare (...) nella ferma opposizione che certi paesi dell'Oriente e del
Medio Oriente, considerati, a torto o a ragione "arretrati" rispetto alle
esigenze di una "civiltà" come quella moderna, oppongono a quel progetto,
ormai quasi interamente attuato, di "globalizzazione economica" (e presto
anche politica) che l'Occidente sta attuando. (...) A questo progetto
"globale" in tal modo inteso, si oppongono ormai soltanto, sia pure su
piani diversi, le forze idealistiche dei "new global" in un loro contesto,
e l'Islam, in un altro contesto parallelo. (...) Da qui, la necessità
impellente, di spazzare via questi due pericolosi ostacoli, al più presto
possibile e mobilitando una vera e propria guerra, annunciata "lunga e
difficile", secondo le stesse parole del presidente degli Stati Uniti
d'America, Bush, in tutti i paesi del mondo».

Al di là del fastidio che può provocare l'accostamento tra movimento
no-global e il radicalismo islamico, la griglia analitica offerta
dall'autore, seppur esposta chiaramente, lascia perplessi. In primo luogo,
parlare di un islam omogeneo è in forte contraddizione con i risualtati di
recenti inchieste e elaborazioni che contestano l'immagine unitaria che
viene data della presenza islamica nei paesi europei. Si tratta infatti di
realtà variegate, eterogenee e multiformi: per questo sarebbe meglio
parlare di un islam al plurale. Lo stesso si può dire dell'islamismo
politico. Perplessità la fornisce anche l'accettazione di un islam in rotta
di collisione con la modernità. Che dire infatti delle sontuose «modernità»
utilizzate da un paese come l'Arabia Saudita, nel cui seno sono cresciuti,
per esempio, il wahhabismo o al - Qaida? Possiamo inoltre affermare con
certezza che il miliardario Osama bin Laden rifiuti o sia estraneo ai
processi di globalizzazione economica. Domande, queste, altrettante
cruciali per la comprensione del fenomeno e le cui risposte aiuterebbero
nella, giusta, battaglia contro la costruzione mediatica di una quinta
colonna terroristica islamica nel nostro paese.

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