Il dramma delle carceri e la beffa dell'indultino



Se questo è un uomo
Il dramma delle carceri e la beffa dell’indultino

di Sergio Segio - Fonte: http://www.nuovimondimedia.it

Dopo il danno, la beffa. Una beffa atroce, perfino meschina. Partorita
neppure per cattiveria, ma solo dall’esigenza tutta politica di mascherare
le spaccature nella maggioranza e la confusione e i tentennamenti nelle
opposizioni. Prodotta quasi per inerzia – prevedibilmente ma non
inevitabilmente - a partire dall’errore iniziale di non essersi
trasparentemente confrontati e divisi sulla via maestra di un indulto vero e
pieno, senza trucchi e senza diminutivi. Non solo in eventuale ossequio alle
richieste del Papa, ma in doveroso rispetto del buon senso, della
costituzionalità e dell’efficacia reale dei provvedimenti.

Il danno
Il danno è quello di vivere, e morire, in carceri invivibili, indecenti e
inimmaginabili. Pure, per immaginarle, uno sforzo si può fare, per
contrastare la cappa della disinformazione, del silenzio e dell’
indifferenza. Per avere una lontana idea di cosa significhi vivere nelle
celle d’estate, provate a pensare di essere sulla metropolitana in un’ora di
punta, in una carrozza con i finestrini chiusi e bloccati, schiacciati in
una folla di persone. Gronderete sudore, vi sentirete soffocare,
probabilmente avrete un malore. Provate a pensare che questa insopportabile
condizione duri non la mezz’ora di un tragitto medio, ma 20-24 ore al
giorno. Tutti i santi giorni. Dopo tutto ciò, immaginate di non avere
neppure l’acqua per dissetarvi o per lavarvi, come sta avvenendo in alcuni
penitenziari.
Oppure provate a pensare che sia morta la vostra fidanzata e che vi venga
negato il permesso di andare al suo funerale. È successo nei giorni scorsi a
Paride Cozza, 29 anni, in carcere a Bologna per delle banconote false. Di
fronte al rifiuto, si è impiccato alle sbarre. «Suicidio imprevedibile», è
stato il commento dei responsabili del penitenziario.
Immaginate poi di essere gravemente malati e che vi vengano rifiutate le
medicine per curarvi. Di nuovo: non per cattiveria, ma perché è così.
Semplicemente perché le medicine in carcere non ci sono, perché ci sono i
tagli alla spesa sanitaria (dal 1999 al 2002 una diminuzione del 35,5% a
livello nazionale, con punte del -43% in Emilia-Romagna e del -42% in
Piemonte) e perché in carcere, a onta delle leggi di riforma (n. 419 del
1998 e n. 230 del 1999), la sanità penitenziaria continua a essere separata
dal sistema sanitario nazionale. Così - oltre che i detenuti del “Gruppo di
lavoro” in una lettera al ministro Sirchia, lo denunciano gli stessi medici
milanesi di San Vittore - dietro le sbarre manca tutto: dalle aspirine alle
pomate, dalle pillole contro l’asma ai medicinali salvavita.
Provate a pensare di essere madre di un bambino piccolo, di essere in
prigione (quasi sempre per reati irrisori). Sapete che, oltre due anni fa,
nel marzo 2001, è stata varata una legge in base alla quale le detenute
madri e i loro bambini non devono stare in carcere bensì in detenzione
domiciliare. Eppure, oggi ci sono in carcere più bambini e madre di quando
non c’era la legge: solo a San Vittore ci sono 5 bambini in cella, uno ha
appena 20 giorni di vita.
Provate a pensare di avere problemi di sofferenza psichica e che la vostra
malattia vi porti a fare cose sconsiderate, pur se non pericolose per gli
altri: portare via un motorino non vostro, rubare delle candele dai tavoli
di un ristorante. Sono le “colpe” commesse da Marco D. S., 41 anni, più
volte ricoverato in ospedale psichiatrico. Finito nelle celle del carcere
romano di Rebibbia per scontare 8 mesi e 15 giorni di condanna, nonostante
il tribunale lo avesse per due volte dichiarato incapace di intendere e di
volere, si è impiccato il mese scorso.
Immaginate di aver contratto in qualche modo il virus dell’AIDS (capita,
anche a chi non è tossico o emarginato) e di essere assieme ad altre 41
persone nella vostra condizione, chiusi in pochi metri quadrati. Immaginate
di avere a disposizione un’unica vasca per lavarvi, e di non poterla neanche
utilizzare perché è sempre sporca di sangue degli altri malati. Immaginate
di non riuscire più ad alzarvi dal letto e di dover effettuare i vostri
bisogni fisiologici in un foglio di giornale perché non ci sono le “padelle”
e altre attrezzature minime. Del resto, non sono garantite neppure le
terapie. È quanto viene denunciato dai detenuti malati rinchiusi nel “centro
clinico” (anche qui, come per l’indultino, oltre il danno c’è la beffa delle
parole) del carcere milanese di Opera.
Provate a pensare di essere finiti in carcere per qualsivoglia motivo (e non
è così difficile finirvi: può riguardare anche voi, non solo i tossici o gli
esclusi), di essere in attesa di giudizio, di aver disperato bisogno di
capire la vostra situazione, le prospettive. Provate a fare domande su
domande per avere un colloquio con il direttore o con gli educatori. E di
non avere mai né colloquio né risposte. Alla fine vi arrendete. È successo a
Giuseppe Romeo, 52 anni: si è impiccato alla sbarre nella sua cella del
carcere di Como la mattina del 26 maggio.
Provate a pensare di essere una donna e di fare l’agente di polizia
penitenziaria. Di essere lontana da casa. Di essere stressata dai ritmi di
lavoro o intristita dalla solitudine. È la storia di Loredana Calabrò: poco
tempo fa si è sparata con la pistola di ordinanza nel carcere di Torino.
Anche per lei, come avviene per la sorte dei detenuti, al suo disperato
gesto ha risposto solo l’eco del silenzio dei giornali e la scarsa
attenzione delle istituzioni.
Infine, immaginate di essere una persona tossicodipendente e di finire in
carcere, magari neppure per furto, ma semplicemente per possesso o piccolo
spaccio di qualche bustina. Non è un caso raro, tutt’altro: degli oltre
30.000 tossicodipendenti che entrano annualmente nelle carceri italiane, la
metà viene arrestata esclusivamente per violazione dell’articolo 73 della
legge sulla droga, vale a dire per traffico illecito di sostanze (e va
considerato che il grande traffico, quello organizzato, viene punito dall’
art. 74); in buona parte, peraltro, si tratta dei casi di spaccio di scarsa
rilevanza ed entità, come previsti dal comma 5 dello stesso articolo 73.
Immaginate di essere chiusi in cella, senza cure metadoniche, magari di
essere sieropositivi e magari di esserlo diventati proprio in carcere.
Peraltro, secondo uno studio dell’Osservatorio europeo sulle droghe, oltre
il 50% dei detenuti nelle prigioni dell’Unione europea ha fatto uso o
consuma sostanze stupefacenti e sino al 21% di loro ha cominciato ad
assumerle per la prima volta proprio in carcere. E immaginate di leggere in
questi giorni sui giornali le dichiarazioni di alti esponenti governativi,
nonché di qualche leader di comunità terapeutiche preoccupato per la
scarsità di clienti, che tuonano contro il lassismo delle leggi e che
promettono una revisione della normativa, per renderla ancor più repressiva.
Immaginate che il prossimo 26 giugno questa nuova legge venga presentata
ufficialmente in occasione della Giornata mondiale contro le droghe.
Immaginate che, come del resto avviene per gli “indultoni” a beneficio dei
potentoni, essa trovi rapidissimi iter parlamentari e scarsa resistenza
delle opposizioni. E provate a pensare cosa saranno le carceri nei prossimi
anni. Perché è pur vero che non c’è fine al peggio. E neppure all’
irresponsabilità della politica.
Ma soprattutto domandatevi se tutto questo è giusto, umano, sensato, utile.
Se difende e risarcisce la società e le vittime o non, piuttosto, aggiunge
solo rabbia a disperazione e a esclusione, sofferenza a sofferenza,
ingiustizia a ingiustizia.
E domandatevi se le persone chiuse nelle celle, schiacciate nella dignità,
umiliate nella speranza, irrise dal voto del Senato di martedì, sono ancora
uomini e donne e non, invece, oggetti di un gioco obiettivamente cinico e
politicamente miope.

La beffa
Poi tornate a guardare i giornali di oggi e di domani. E leggete dell’
indultino, ulteriormente ribassato e rimandato alla Camera, sapendo che sarà
affossato in un ping pong dove la parte della pallina tocca alla vita e alle
aspettative, ora definitivamente e pericolosamente deluse, dei reclusi.
Allora, capirete che la beffa è veramente atroce. Per giunta aggravata dalle
circolari della Direzione generale delle carceri che lanciano l’allarme
estivo: non già sulle drammatiche condizioni di vita e di lavoro negli
istituti, non sulla mancanza di medicine e di cure, non sulle carenze di
personale, non sull’inosservanza di leggi e regolamenti, che pure esistono,
non sulla mancanza d’acqua o sul dramma dei suicidi e dell’autolesionismo,
ma sui pericoli di fuga.
Una beffa, tenacemente perseguita e infine realizzata. Ora, possiamo andare
finalmente tutti al mare.

Sergio Segio
Milano, 25 giugno 2003