(Fwd) Intervista a Nanni Salio



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da "L'Unione Sarda"
venerdì 30 novembre 2001
http://www.unionesarda.it/news.asp?IDNews=23007&IDCategoria=1&Archivio

INTERVISTA
Nanni Salio, scienziato contro la guerra

Alternativa alla guerra e nonviolenza per lui non sono solo belle 
parole. Ma a Nanni Salio, torinese del 1943, ricercatore di storia 
della fisica all’università, la militanza nei movimenti per la pace è 
costata cara. Una brillante carriera accademica sacrificata per 
azioni e ideali. 

Alla fine degli anni Sessanta, mentre in Italia si sviluppava l’acceso 
dibattito sul nucleare, Salio, neolaureato, firmava una petizione 
contro la proliferazione degli esperimenti atomici. Una presa di 
posizione che non ha mai voluto nascondere e che «in certi 
ambienti scientifici non era molto gradita». 
E’ stato segretario dell’Istituto italiano di ricerche per la Pace, 
collabora con numerose riviste del gruppo Abele. Tra le principali 
pubblicazioni, Scienza e guerra, 1982, La pace educa alla pace, 
1983, Le guerre nel Golfo, 1991, Potere della nonviolenza, 1995. 
Attualmente è responsabile del Centro internazionale “Sereno 
Regis” di Torino. La Comunità di Sestu lo ha invitato a partecipare 
al dibattito “Terrorismo e guerra per un nuovo ordine mondiale? Ci 
sono alternative”, tenuto mercoledì 28 all’aula consiliare del 
Comune. 


La nonviolenza oggi è un’utopia?

È piuttosto una distopia pensare che sia possibile portare avanti la 
storia dell’uomo come storia di guerra. Questa strada porta solo 
all’autodistruzione. La nonviolenza, invece, non è un’utopia. 
Sicuramente non lo è stata nel secolo appena trascorso.


La guerra: una necessità?

La guerra è un progetto di dominio e, al contrario della strategia 
nonviolenta, viene preparata in tempo di pace.


Lei sostiene che Bin Laden sia una creatura degli Stati Uniti. 
Perché?

E’ ampiamente documentato che dal 1979 in poi, cioè dall’anno in 
cui l’Urss invase l’Afghanistan, c’è sempre stato un rapporto tra i 
servizi segreti della Cia, quelli pakistani, e i guerriglieri mujaheddin. 
Dopo la presa del potere dell’Alleanza del Nord, gli stessi servizi 
pakistani hanno sostenuto ancora i talebani e quindi Bin Laden che 
già faceva parte di quella fazione. Non dimentichiamo inoltre che la 
famiglia Bin Laden e la famiglia Bush commerciano da decenni nel 
settore petrolifero. [George W Bush era tra i maggiori azionisti di 
un fondo d’investimento in società con uno dei fratelli di Bin Laden]


Secondo la teoria del “contraccolpo”, gli Stati Uniti sono in parte 
causa della loro tragedia. E’ una giustificazione nei confronti di chi 
ha commesso gli attentati dell'11 settembre?

Per un nonviolento non esiste alcuna giustificazione alla violenza. 
Questo non significa che non bisogna avere il coraggio di 
interrogarsi. La teoria che lei cita è di uno studioso pienamente 
inserito nell’establishment americano, Chalmers Johnson, esposta 
nel libro Gli ultimi giorni dell'impero americano (Garzanti, Milano 
2001). Secondo Johnson, la politica estera ed economica 
americana ha prodotto talmente tanti guasti e seminato tanto odio 
da ritorcersi contro, anche se i cittadini americani non ne sono 
consapevoli. Anche la Cia ha riconosciuto ufficialmente la teoria col 
nome di “blowback”.


Dietro l’11 settembre c’è solo Bin Laden?

Giulietto Chiesa ha detto: “Cercate la cupola, non solo Bin Laden”. 
Bin Laden è in realtà una metafora. Non abbiamo prove, ma solo 
indizi sulla sua piena responsabilità negli attentati dell’11 
settembre. Riuscire a compiere un attentato di questa portata 
senza la complicità di altre organizzazioni è impossibile. E poi ci 
sono dei segnali che farebbero pensare ad un coinvolgimento della 
Cia nelle speculazioni finanziarie che hanno preceduto la tragedia. 
A 15 miglia dal Pentagono si trova una base aerea per i caccia che 
però non hanno fatto in tempo a evitare il disastro al ministero 
americano. Il tempo intercorso tra l’attentato alle torri gemelle e 
quello del Pentagono sarebbe stato sufficiente perché i caccia 
militari intercettassero il jet diretto a Washington. Inoltre 
personaggi vicini ai servizi segreti pakistani ritengono impossibili 
eventi simili senza la copertura di settori interni. Un attentato di 
questo tipo deve essere progettato per anni. E’ impossibile 
mantenere il segreto per tanto tempo. L’osmosi tra terrorismo e 
servizi segreti, oltretutto, non è una novità. In Italia ne sappiamo 
qualcosa. 


Come è possibile diffondere il messaggio di pace?

Il movimento per la pace non possiede strumenti mediatici così 
potenti da raggiungere tutta l’opinione pubblica.
Nonostante ciò sappiamo che almeno il 50 per cento dei cittadini è 
contrario alla guerra e che si aggira attorno a questa percentuale 
anche la quantità di coloro che ritengono l’informazione inadeguata 
e manipolata. Oggi, una parte significativa dell’informazione che il 
movimento per la pace può controllare, usa la tecnologia e 
soprattutto Internet, che si sta rivelando molto efficace. 


Qual è il compito principale del movimento per la pace?

Sicuramente l’azione educativa che però richiede molto tempo. Il 
movimento per la pace non può modificare la situazione 
nell’immediato.


Dopo l’11 settembre anche le strategie del movimento devono 
cambiare?

Al di là della manifestazione deve esistere l’azione.
Il movimento per la pace deve superare la fase reattiva e spontanea 
per diventare struttura organizzata permanente capace di prevenire 
le situazioni di crisi e non limitarsi ad inseguire gli eventi. Nel 
movimento sono presenti diverse componenti storiche che sono 
intervenute contro specifiche guerre. A mio avviso, in questa fase è 
richiesto un mutamento importante, ovvero la capacità di assumere 
il messaggio e la politica dell’azione nonviolenta come la linea 
guida. Sin d’ora questo è stato fatto solo da una minoranza ed è un 
elemento di debolezza ancor oggi presente. Una proposta coerente 
si basa su alcuni punti essenziali. Da un lato deve avvenire una 
democratizzazione delle Nazioni Unite affinché possano svolgere 
ciò che ha sancito la Carta internazionale, cioè risolvere il conflitto 
con le forze nonviolente (caschi bianchi che intervengono in modo 
pacifico). D’altro lato si devono creare le condizioni per un modello 
di economia e di sviluppo coerente con uno stile di vita non violento 
e non basato sullo sfruttamento. 


Gli inviati di guerra sostengono tutti la pace? 

No. Il loro è un compito importante ma non tutti credono nel 
“Giornalismo di pace” per il quale le notizie devono essere 
educative. Johan Galtung ha proposto delle linee guida per i 
giornalisti sul sito Transcend.org che dovrebbero essere lette. 
Comunque, i peggiori sono i commentatori, quelli che fanno 
giornalismo a tavolino. 


Per esempio?

Tiziano Terzani, Enzo Bettiza, Oriana Fallaci, per fare qualche 
nome. I commentatori spesso giustificano la guerra, invece l’inviato 
al fronte, cito Ettore Mo, Maurizio Chierici, riesce quasi sempre a 
riportare un punto di vista equilibrato. Bisogna anche dire che i 
giornalisti non vengono messi in condizioni di operare al meglio e 
liberamente. Un esempio di informazione libera è il libro del 
giornalista pachistano Ahmed Rashid, The story of the afghan 
warlords (La storia dei signori della guerra afghani) che presto verrà 
pubblicato in Italia da Feltrinelli. Bisognerebbe leggere il ritratto che 
Rashid ha fatto dei talebani. Ricordiamoci che nel ’94 a Kabul 
erano stati accolti come dei liberatori per porre fine alle violenze 
dell’Alleanza del Nord.


Laura Floris

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