Ordinari Omicidi Di Stato: 26 settembre 1970 (Fwd) [JUGO]



<color><param>0100,0100,0100</param>26 settembre 1970: 

</color>Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso, Annalise Borth. 

Morti di Stato. 



<color><param>0100,0100,0100</param>------- Forwarded message follows -------

Subject:       Ordinari Omicidi Di Stato

  Date:        Tue, 10 Apr 2001 19:19:55 +0200


</color>Cinque anarchici scoprirono le prime trame nere della repubblica. 

Scoprirono che il treno di Gioia Tauro quel 22 luglio del 1970, era deragliato 
per una bomba dei "servizi". Era un'altra strage di stato. 

Cercarono di portare le prove a Roma, per farle conoscere a tutti. 


Il il 26 settembre del 1970 partirono e con loro partirono i documenti che 
provavano la matrice dell'attentato. Il padre di uno di loro, Lo Celso, non 
badò alla  telefonata di un amico poliziotto (della polizia politica di Roma) che

alla vigilia del viaggio lo avvisava mafiosamente... "E' meglio che non faccia 
partire tuo figlio". 


La polizia politica sapeva che sarebbero partiti con dei documenti sui 
rapporti tra servizi segreti, malavita e fascisti. Qualcuno oltre che sapere 
organizzò qualcosa. Morirono a 50 km dalla capitale in un "incidente 
automobilistico". Dei documenti che portavano con loro non fu trovata 
traccia. Storia di una strage politica organizzata da apparati dello stato 30 
anni or sono.  


Da la repubblica di oggi 10 aprile 2001, pag.27


Gian.


 PS. L'articolo è sul giornale di oggi, e proprio oggi scoppia a Roma una 
ennesima bomba dei "servizi"; (almeno fino a prova contraria; le statistiche 
sugli autori reali parlano chiaro...) anche oggi lo stesso mafioso messaggio 
di allora "E' meglio che non faccia partire tuo figlio"... insomma "un altro 
botto per spaventare chi andrà contro il G8"


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                                     Cinque anarchici morti e una strage

                                     "Scoprirono la verità, li uccisero" 

           Trent'anni dopo il deragliamento di un treno a Gioia Tauro, l'antimafia 
calabrese ha più di un dubbio sulla tragica fine di un gruppo di ragazzi


                                        GIOVANNI MARIA BELLU 


REGGIO CALABRIA - Quei cinque giovani anarchici avevano capito e 
avevano trovato le prove: non era stato un incidente ma un attentato. I sei 
morti, i cinquantaquattro feriti, non potevano essere considerati vittime della 
fatiscenza delle strade ferrate del Sud o dell'imperizia di alcuni ferrovieri 
come allora dicevano tutti, compresi i magistrati. 


Il 22 luglio del 1970, nei pressi di Gioia Tauro, all'inizio della rivolta del "Boia 
chi molla" e meno di un anno dopo la strage di piazza Fontana, era stata 
compiuta una strage. Avevano capito tutto Gianni Aricò, Angelo Casile, 
Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth, età media 22 anni. E quella 
sera del 26 settembre del 1970, poco più di due mesi dopo l'attentato, 
andavano a Roma con la Mini Minor carica di documenti. Li attendevano i 
compagni anarchici della capitale, li aspettava l'avvocato Edoardo Di 
Giovanni, uno che di controinformazione se ne intendeva essendo stato tra i 
curatori della 'Strage di Stato', la storica controinchiesta sull'attentato di 
Milano. 


Sono da poco passate le 23, Roma è ad appena cinquantotto chilometri. In 
quel tratto, che attraversa il territorio comunale di Ferentino, in provincia di 
Frosinone, la strada è "rettilinea, bitumata, asciutta e in salita", e quella sera -
 come ancora precisa il rapporto della polizia stradale - il tempo è "sereno", 
la visibilità "buona", il traffico "normale". L'autista dell'autotreno carico di 
barattoli di conserva, dirà solo di aver sentito un boato proveniente dal retro 
del camion. Casile, Scordo e Lo Celso - seduti nel sedile posteriore - 
muoiono sul colpo. Aricò, che si trovava alla guida, ventiquattro ore dopo. 
Sua moglie Annalise Borth, diciannovenne tedesca di Amburgo, alla fine di 
un'agonia durata venti giorni. Il caso viene archiviato nel gennaio del 1971. 

Una disgrazia, dicono i giudici di Frosinone, causata da un mix tra alta 
velocità e giovane età. Come se i cinque fossero usciti sbronzi da una 
discoteca. Ma oggi - più di trent'anni dopo - Salvo Boemi, capo della 
direzione nazionale antimafia calabrese, definisce "logica e plausibile" 
l'ipotesi che anche l'incidente in cui morirono i cinque anarchici fosse stato, 
al pari di quello di Gioia Tauro, una strage. Una strage organizzata per 
coprirne un'altra. 


Questa è una storia lunga, lunghissima, quasi incompatibile con la tenuta 
della memoria nazionale. Converrà fissarne le date. 

L'"incidente" del treno di Gioia Tauro avviene il 22 luglio del 1970: otto giorni 
prima a Reggio Calabria è scoppiata la rivolta contro la decisione di 
attribuire a Catanzaro lo status di capoluogo di regione.

L'"incidente" di Ferentino è di poco più di due mesi dopo. Rapidamente 
entrambe le vicende vengono archiviate dalla magistratura e anche dalla 
stampa. 


Passano ventitré anni. Nel 1993, durante l'inchiesta milanese sull'eversione 
nera, due esponenti della 'ndrangheta, Giacomo Lauro e Carmine Dominici, 
raccontano al giudice istruttore Guido Salvini l'alleanza tra criminalità 
tradizionale calabrese e neofascisti negli anni '70. E rivelano che il 
deragliamento dei vagoni di coda della Freccia del Sud era stato provocato 
da una carica di esplosivo sistemata sui binari. Fanno i nomi degli esecutori 
materiali (tutti nel frattempo deceduti) e, in modo generico, dicono che i 
mandanti vanno cercati in quegli stessi ambienti dell'estrema destra che, 
attorno allo slogan "Boia chi molla", avevano egemonizzato la rivolta. 


La notizia della collaborazione di Lauro e Dominici filtra e, il 26 marzo del 
1994, si presenta spontaneamente al giudice Salvini il professor Antonio 
Perna, docente di sociologia economica al'Università di Messina e cugino di 
Gianni Aricò. Perna parla della controinchiesta condotta dai cinque 
anarchici, finalmente può esprimere davanti a un magistrato una convinzione 
che, tra i familiari, ha la forza di una certezza: Gianni, la moglie Annalise e gli 
altri tre compagni furono uccisi proprio perché avevano capito 
immediatamente quello che i pentiti hanno rivelato solo dopo ventitré anni. 

Gli atti passano da Milano a Reggio e finiscono nel gigantesco fascicolo 
della "operazione Olimpia", la maxi-inchiesta su mafia, politica e massoneria 
che, divisa in varie tranche, continua a produrre, nel disinteresse generale, 
ergastoli e condanne pesantissime per boss, faccendieri, politici. 


Ora c'è lo strumento tecnico per indagare sull'incidente di Ferentino. Ma 
dentro una cornice molto piccola: la competenza continua a essere della 
procura di Frosinone e la Dna calabrese può interessarsi della vicenda solo 
per verificare se i cinque ragazzi anarchici stavano portando a Roma 
documenti dai quali risultava che a Gioia Tauro era stato compiuto un 
attentato. E poiché i familiari dei cinque dicono coralmente che a loro non fu 
restituito nemmeno un foglio di carta, la magistratura reggina chiede al 
ministero dell'Interno di verificare se il materiale prelevato dalla Mini Minor 
dopo l'incidente si trovi in qualche archivio di polizia. La risposta è negativa. 
In quel momento la competenza della Dna calabrese cessa. 


Una storia lunghissima, come tutte le storie di testardi. 

Era un maledetto testardo Gianni Aricò. E anche un provocatore: a Reggio 
ancora sono molti a ricordarsi della domenica mattina in cui, con una gallina 
al guinzaglio, si mise a passeggiare per il corso sbeffeggiando le signore 
borghesi che portavano a spasso i loro cagnolini. Era un testardo Angelo 
Casile che riuscì a procurarsi la lista dei neofascisti italiani in contatto con la 
Grecia dei colonnelli e grazie a essa individuò un infiltrato. 

Testardi, coraggiosi, vagabondi. Dotati di una capacità quasi soprannaturale 
di trovarsi al posto giusto nel momento più pericoloso. Fino a diventare 
testimoni a favore di Pietro Valpreda - che fu anche il tramite dell'incontro tra

Annalise Borth e Gianni Aricò - nell'inchiesta su piazza Fontana. Fino a 
fotografare le barricate della rivolta di Reggio documentando la presenza di 
fascisti provenienti da ogni parte d'Italia. 


Ed è pure un bel tipo di testardo Fabio Cuzzola, che era appena nato 
quando la Mini Minor di Aricò, come la locomotiva di Guccini, si schiantò 
contro l'ingiustizia. Cuzzola fin da ragazzino, come tanti a Reggio, sentì 
parlare della storia dei cinque ragazzi anarchici. Un anno fa ha deciso di 
studiarla. Ci ha lavorato per undici mesi e ha scritto un libro che Franco 
Arcidiaco, responsabile dell'editoriale "Città del sole", ha pubblicato. 

Il lavoro di Cuzzola a Reggio è diventato un caso editoriale: in piccolo, una 
fenomeno simile a "I cento passi", il film di Marco Tullio Giordana su 
Giuseppe Impastato. Alla presentazione c'erano duecento persone. La 
memoria di molti si è rimessa in moto, i ricordi hanno trovato un luogo dove 
confluire. 


Gli ultimi giorni dei cinque testardi di Reggio sono stati ricostruiti ora per ora, 
minuto per minuto. "Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l'Italia", 
disse Gianni Aricò alla madre pochi giorni prima di morire. E poi quella 
telefonata giunta alla vigilia del viaggio a Roma al padre di Lo Celso da un 
amico che lavorava alla polizia politica di Roma: "E' meglio che non faccia 
partire tuo figlio". 

Oggi si sa che veramente l'individuazione tempestiva dei responsabili 
dell'attentato di Gioia Tauro avrebbe potuto "far tremare l'Italia". Avrebbe 
consentito di ricostruire la catena di comando che da Reggio Calabria - 
diventata durante la rivolta una sorta di campo di addestramento per la 
destra eversiva nazionale - conduceva fino a Roma, fino al disegno golpista 
del principe Junio Valerio Borghese. 


Quel 26 settembre del 1970 alcuni quotidiani ancora parlavano della 
misteriosa vicenda di un giornalista siciliano, Mauro De Mauro, scomparso 
dieci giorni prima. In realtà, come è emerso pochi mesi fa, assassinato dalla 
mafia proprio per aver scoperto i piani del colpo di Stato.

La sparizione dei documenti, le stranissime modalità dell'incidente, le 
testimonianze dei familiari sull'entusiasmo e la paura dei cinque anarchici, il 
nome 'Aricò' annotato sull'agenda dell'avvocato Edoardo Di Giovanni nella 
lista degli appuntamenti del 27 settembre 1970, alcune dichiarazioni di 
Carmine Dominici a proposito del fatto che negli ambienti neofascisti reggini 
si parlava dell'incidente come di un omicidio plurimo: questi e molti altri 
elementi rendono "logica e plausibile" l'ipotesi che si trattò di un attentato. Di 
un'altra strage destinata a restare impunita. 

E non solo per il tanto tempo trascorso. Dice il procuratore Boemi: "Sono 
convinto che quei ragazzi avevano trovato dei documenti importanti. Non 
riesco a spiegarmi altrimenti la scomparsa di tutte le carte che si trovavano 
sull'automobile. E' un caso che avrei voluto approfondire, ma non è stato 
possibile. Ci sono insormontabili problemi di competenza. Riaprire 
l'inchiesta? L'unica speranza è che, trent'anni dopo, chi sa decida di parlare. 
Ma, onestamente, non ci credo". 


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