intervista a L.Morgantini di ritorno dall'IRAQ di P. Giaculli



Luisa Morgantini, europarlamentare indipendentre eletta nelle liste del
Prc, è di ritorno da un viaggio in Iraq in cui si è recata insieme ai due
eurodeputati Bashir Khanbai, conservatore britannico e Niall Andrews del
Fianna Fail irlandese. Le chiediamo di raccontarci questa esperienza.

Quali sono le motivazioni che hanno spinto te e gli altri deputati ad
intraprendere questo viaggio?

All'epoca della guerra del Golfo, insieme al movimento pacifista italiano,
mi sono espressa contro la guerra e anche contro l'invasione del Kuwait, e
in favore della trattativa per una soluzione pacifica. A dire il vero in
quel momento chiedevamo l'embargo nei confronti dell'Iraq. In seguito nel
movimento pacifista questa posizione è stata rivista dopo molte riflessioni
sull'opportunità, in generale, dell'embargo. In realtà l'embargo, ogni
embargo, fatto salvo quello sulle armi colpisce le popolazioni civili e non
i regimi.
Ciò che ha animato me e gli altri deputati è stata la considerazione che
dieci anni di embargo sono insostenibili per l'Iraq e che è ora di dire
basta, come richiede, anche se con troppi condizionamenti, il Parlamento
europeo in una sua risoluzione approvata a Strasburgo lo scorso aprile. Con
questo viaggio volevamo raccogliere le maggiori informazioni possibili
sulle conseguenze dell'embargo sulle popolazioni, per dare concretezza alla
risoluzione.

Com'è allora la situazione in Iraq al momento?

Vedere la quotidianità e la pratica dell'embargo è stato devastante.
L'Iraq, da paese ricco, che produce petrolio, quale era, si ritrova ad
essere un paese completamente distrutto. Prima del 1990 non c'era mortalità
infantile, l'alfabetizzazione era diffusa, anche le donne frequentavano le
facoltà scientifiche. Vantava ingegneri e tecnici preparatissimi e i
risultati si vedevano nella realizzazione di infrastrutture efficienti ed
attrezzate. Nel mondo arabo, l'Iraq poteva ritenersi un paese sviluppato.
Ad essere distrutte dalla guerra sono state non solo le strutture militari,
 ma quelle civili. Grazie alla capacità e determinazione del popolo
iracheno molte delle strutture sono tornate miracolosamente in piedi. Ma il
sud continua ad essere completamente sprovvisto di acqua.
Dieci anni di embargo hanno impedito la manuntenzione di quello che era
tornato a funzionare. Senza gli opportuni pezzi di ricambio si può riparare
ben poco. Dieci anni di embargo hanno trasformato un paese all'avanguardia
nel mondo arabo in un paese dove il 32% di bambini muoiono perchè
malnutriti e in preda di qualsiasi infezione. Se non si recuperano al più
presto fondamentali infrastrutture come reti fognarie, non è possibile fare
nulla per impedirlo. Negli ospedali mancano i farmaci. Il dott. Ghulam R.
Popal dell'Organizzazione mondiale della sanità ci dice che sono tornate
malattie come il colera e la tubercolosi, già debellate in Iraq molto prima
del 1990. È lui, inoltre, a parlarci di "genocidio intellettuale". Per i
medici e i tecnici non c'è più neanche la possibilità di aggiornarsi: per
volere degli Usa da dieci anni non arrivano più né pubblicazioni
scientifiche, né computers.
Anche il sistema dell'istruzione è completamente degradato. Non ci sono
strumenti adeguati, agli studenti manca praticamente tutto e si assiste al
ritorno dell'analfabetismo.
Da quando nel 1996 è scattato il piano "oil for food", il programma di
scambio di petrolio contro cibi e farmaci, la situazione dell'economia
iraqena è pressoché identica. Lo scambio serve infatti a non far morire le
popolazioni. Il denaro dei proventi della vendita di petrolio non viene
depositato presso banche irachene: il 53% va al governo; un 30% copre i
danni della guerra; il 13% alle province settentrionali dell'Iraq oggi
indipendenti popolate da curdi e il resto copre le spese del personale Onu.
Ma la cosa inverosimile è che la comissione per le sanzioni, blocca
centinaia e centinaia di contratti per attrezzature sanitarie o farmaci con
il pretesto, addotto principalmente dai rappresentanti Usa nella
commissione dell'Onu, che certi prodotti servano a scopi militari.
Clamoroso è l'esempio che ci viene riportato da André Janier, capo di
sezione per gli interessi francesi in Iraq. I farmaci veterinari per un un
carico di tori da riproduzione sono stati bloccati perché contenevano
sostanze che potevano servire alla produzione di armi nucleari. Ma è
assolutamente inimmaginabile che si possano produrre armi dopo che gli
strumenti idonei sono stati distrutti insieme agli arsenali ad opera della
Unscom. Altra follia: mancano le matite perché anche la grafite in esse
contenuta è considerata sospetta.
Ma l'economia è gravemente in crisi anche perché con i proventi del
petrolio si può solo acquistare all'estero: non si possono fare
investimenti in Iraq e, in assenza di liquidità, le opere rimangono
bloccate. Le popolazioni riescono a sopravvivere grazie alle razioni
distribuite dal governo: a detta di alcuni incaricati Onu non si è mai
vista distribuzione più razionale, contrariamente a quanto afferma certa
stampa.
Ma l'embargo non è servito a scalfire il potere di Saddam. La popolazione
del resto dipende da lui. E, pur condannando le sue repressioni a forza di
gas nervino nei confronti dei curdi nel 1988, delle forze di opposizione  e
l'invasione del Kuwait, non bisogna dimenticare il risvolto populista di
questa figura che, con politiche a carattere sociale, fa per il popolo
iracheno cose importanti, che altri paesi arabi come l'Arabia Saudita non
fanno. Non ci siamo trovati, tra l'altro, mai in difficoltà nel nostro
viaggio e ci siamo fermati sempre dove volevamo. Con Tareq Aziz abbiamo
trovato una classe dirigente aperta, attenta al ruolo che può assumere
l'Unione europea per l'Iraq rispetto agli Usa, che insieme alla Gran
Bretagna impongono il blocco dei contratti. Ora sono ancora più consapevole
del dominio della politica degli Usa e che il problema dell'Iraq è il
petrolio, non a caso nazionalizzato da Saddam. E l'Ue deve trovare il
coraggio di sganciarsi dagli Usa e dalla Gran Bretagna per contribuire allo
sviluppo economico dell'Iraq e mettere fine ad un embargo che distrugge un
popolo.
Paola Giaculli