[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 44



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 44 del 7 aprile 2021
 
In questo numero:
1. Jean-Marie Muller: In un mondo di conflitti
2. Una intervista a Laura Boella sul suo libro "Hannah Arendt. Un umanesimo difficile"
 
1. TESTI. JEAN-MARIE MULLER: IN UN MONDO DI CONFLITTI
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo primo: "In un mondo di conflitti" (pp. 29-42). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]
 
In un mondo di conflitti
La nonviolenza e' un'idea ancora nuova in Europa e nel mondo intero. Di per se', la parola nonviolenza suscita molti equivoci, malintesi e confusioni. Cio' che anzitutto fa difficolta' e' il fatto che questa parola esprime una negazione, un'opposizione, un rifiuto. Per questo essa contiene numerose ambiguita'. Ma ha il vantaggio preciso e decisivo di obbligarci a guardare in faccia le molte ambiguita' della violenza, mentre noi siamo sempre tentati di occultarle per potervici meglio adattare. La nonviolenza non esprime un minore, ma un piu' grande realismo riguardo alla violenza. Si tratta di prenderne tutta la misura, di traversarne tutto lo spessore, di pesarne tutto il peso.
Sara' possibile precisare il significato della nonviolenza solo se preliminarmente avremo precisato il significato della violenza. Importa anzitutto chiarire a che cosa la nonviolenza dice no, a che cosa si oppone, che cosa rifiuta. Questo non sara' ancora sufficiente perche', sapendo quello che la nonviolenza non e', non sapremo ancora cio' che essa e'. Per saperlo, dovremo precisare cio' che la nonviolenza ricerca, cio' che essa vuole affermare, cio' che essa propone, quello che e' il suo progetto.
La parola "violenza" e' certamente una di quelle piu' spesso impiegate nei discorsi e negli scritti di tutti. Tuttavia, se facciamo attenzione al significato che le diamo, ci accorgiamo che ha molte accezioni differenti. Questa confusione di linguaggio esprime la confusione di pensiero. E questa doppia confusione non puo' che generare confusione nelle discussioni e nei tentativi di dialogo. Questa incomprensione si raddoppia necessariamente quando ci arrischiamo a parlare di nonviolenza. E' essenziale operare subito una chiarificazione concettuale che ci permetta di intenderci sul significato delle parole che impieghiamo. Occorre che distinguiamo molti concetti che abbiamo l'abitudine di confondere: il conflitto, l'aggressivita', la lotta, la forza, la costrizione e la violenza propriamente detta.
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Il conflitto
"In principio e' il conflitto". La nostra relazione agli altri e' costitutiva dalla nostra personalita'. L'esistenza umana dell'uomo non e' il suo essere-al-mondo, ma il suo essere-agli-altri. L'uomo e' essenzialmente un essere di relazione. Io non esisto se non in relazione con altri. Tuttavia, il piu' delle volte, io sperimento il mio incontro con l'altro anzitutto come una avversita', come un fronteggiarsi. La venuta dell'altro presso di me e' un disturbo. L'altro e' l'invasore della mia area di tranquillita'; egli mi strappa alla mia quiete. L'altro, con la sua esistenza, sorge, nello spazio di cui mi ero gia' appropriato, come una minaccia per la mia esistenza. L'altro e' colui i cui desideri si oppongono ai miei desideri, i cui interessi urtano i miei interessi, le cui ambizioni si levano contro le mie ambizioni, i cui progetti contrastano i miei progetti, la cui liberta' minaccia la mia liberta', i cui diritti invadono i miei diritti.
L'arrivo dell'altro al mio fianco e' pericoloso, o almeno puo' esserlo. Questo arrivo puo' anche non essere pericoloso, ma io non ne so nulla: per questo lo sento come pericoloso. L'altro non mi vuole necessariamente del male; puo' essere anche che voglia farmi del bene, ma io non lo so. Per questo, l'altro, lo sconosciuto, fa pesare un'incertezza sul mio avvenire; egli mi pone nell'insicurezza. L'altro mi inquieta, mi fa pura. In ogni modo, anche se non e' armato di cattive intenzioni l'altro mi disturba. Probabilmente sara' ingombrante. Bisognera' bene che io gli faccia posto, gli ceda il mio posto e forse piu' di questo. Io sento anzitutto la prossimita' dell'altro come una promiscuita'. Forse l'altro non viene a minacciarmi, forse viene solo a domandarmi aiuto? Ma questa domanda e' ancora una minaccia, un disturbo. La mia paura dell'altro si raddoppia quando egli non mi somiglia, quando non parla la mia lingua, quando non ha lo stesso colore di pelle, quando esibisce la sua fede in un Dio che non e' il mio. Costui piu' di tutti gli altri mi disturba: perche' non e' restato a casa sua?
Rene' Girard ha sviluppato una tesi che chiarisce la maniera in cui gli uomini arrivano a rivaleggiare tra loro. All'inizio della sua riflessione Rene' Girard fa questa constatazione: "Non c'e' niente, o quasi, nei comportamenti umani che non sia appreso e ogni apprendimento si riconduce all'imitazione" (1). Da qui, Girard tenta di elaborare una scienza dell'uomo "precisando le modalita' propriamente umane dei comportamenti mimetici" (2). Al contrario di quelli che vedono nell'imitazione un processo di armonia sociale, Girard intende mostrare che essa e' essenzialmente un principio di opposizione e avversione, di rivalita' e di conflitto. Infatti, cio' che e' in gioco nei comportamenti mimetici degli uomini, e' l'appropriazione di un oggetto, il quale, dal momento che e' desiderato allo stesso tempo da molti membri di un gruppo, diventa causa di rivalita'. "Se un individuo vede uno dei suoi simili tendere la mano verso un oggetto, e' immediatamente tentato di imitare il suo gesto" (3). Secondo Rene' Girard, e' questa rivalita' mimetica, la cui posta e' l'appropriazione dello stesso oggetto, che e' all'origine dei conflitti tra gli individui. E il conflitto e' l'affrontarsi della mia volonta' a quella dell'altro, poiche' ciascuno vuole far cedere la resistenza dell'altro.
L'individuo sente gelosia per l'altro che gode del possesso di un oggetto che lui non possiede. Cosi' il sentimento di gelosia, che mette voglia dell'oggetto posseduto dall'altro e' una delle energie piu' potenti dei conflitti che oppongono gli individui tra loro.
Il potere sugli oggetti genera un potere sugli altri. Il desiderio del possesso e il desidero del potere sono profondamente legati l'uno all'altro. Nel fatto stesso del rivaleggiare tra loro per l'appropriazione degli oggetti, gli individui lottano tra loro per l'affermazione del proprio potere. Esiste cosi' un legame organico tra la proprieta' e il potere. La posta in gioco nei conflitti che oppongono gli uomini e' spesso una sfida di potere. Certo, e' importante che ciascuno possieda sufficienti oggetti per soddisfare i propri bisogni vitali – nutrirsi, avere un alloggio, vestirsi – cosi' come deve avere sufficiente potere per far rispettare i suoi diritti. Ma se i desideri di possesso e di potere sono legittimi nella misura in cui permettono all'individuo di diventare autonomo dagli altri, quei desideri hanno una tendenza naturale a esigere sempre di piu' e a svilupparsi sempre di piu'. Niente gli basta e non sono mai soddisfatti. "Non sanno fermarsi"; non conoscono limiti. Il desiderio esige al di la' di cio' che domanda il bisogno, molto al di la'. "C'e' sempre dell'illimitato nel desiderio" (4) scrive Simone Weil. In un primo tempo, l'individuo cerca il potere per non essere dominato dagli altri, ma, se non se ne guarda, subito e' superato il limite a partire dal quale egli cerca di dominare gli altri. Percio', la rivalita' tra gli uomini non puo' essere superata se non dal momento in cui ciascuno limita i propri desideri. "I desideri limitati - nota Simone Weil - sono in accordo con il mondo; i desideri che racchiudono l'infinito non lo sono" (5).
L'individuo non puo' fuggire una situazione di conflitto senza rinunciare ai suoi diritti. Egli deve accettare quella situazione, perche' e' attraverso il conflitto che ciascuno potra' farsi riconoscere dagli altri. Certo, il conflitto puo' essere distruttivo, ma puo' anche essere costruttivo. La funzione del conflitto e' quella di stabilire un contratto, un patto tra gli avversari che soddisfi i diritti rispettivi di ciascuno, e di intervenire cosi' per costruire delle relazioni di equita' e giustizia tra gli individui all'interno di una stessa comunita' e tra le differenti comunita'. Il conflitto e' un elemento strutturale di ogni relazione con gli altri e, di conseguenza, di ogni vita sociale.
Ogni situazione politica e' conflittuale, almeno potenzialmente. La coesistenza tra gli uomini e tra i popoli deve diventare pacifica, ma restera' sempre conflittuale. La pace non e', non puo' essere, e non sara' mai, l'assenza di conflitti, ma il loro controllo, la gestione e la risoluzione dei conflitti con mezzi diversi della violenza distruttiva e omicida. Cosi' l'azione politica deve essere un cercare la risoluzione (dal latino resolutio: l'atto di snodare) nonviolenta dei conflitti.
In realta' non si puo' parlare di nonviolenza se non in situazione di conflitto. Il discorso pacifista, sia giuridico sia spiritualista, s'inganna e va a finire nell'idealismo, quando stigmatizza il conflitto per fare un'apologia esclusiva del diritto, della fiducia, della fraternita', della riconciliazione, del perdono e dell'amore. In questi casi si abbandona la storia per fuggire nell'utopia.
La nonviolenza non presuppone dunque un mondo senza conflitti. Essa non ha per progetto politico di costruire una societa' in cui le relazioni tra gli uomini riposino soltanto sulla fiducia. Questa puo' essere stabilita solo attraverso relazioni di prossimita', puo' essere instaurata solo verso il prossimo. In linea generale, nella societa', ogni relazione con il lontano, con l'altro-che-io-non-conosco, e' una sfida e conviene affrontarla nella diffidenza. Cosi', l'organizzazione della vita in societa' non e' fondata sulla fiducia, ma sulla giustizia. Questo implica che siano create delle istituzioni, che siano elaborate delle leggi che prevedano delle modalita' pratiche di regolazione sociale dei conflitti che in ogni momento possono sorgere tra gli individui.
Ma, in ultima analisi, il conflitto non deve essere considerato come la norma della relazione con l'altro. L'uomo puo' essere un lupo per l'altro uomo, ma allora vive come un lupo, non come un uomo. L'umanita' dell'uomo non si realizza al di fuori del conflitto, ma si realizza al di la' del conflitto. Il conflitto e' nella natura degli uomini, ma quando questa non e' ancora trasformata dalla qualita' dell'umano. Il conflitto e' il primo, ma non deve avere l'ultima parola. Esso e' il modo primario, ma non quello essenziale della relazione all'altro. E' fatto per essere superato, oltrepassato. L'uomo deve sforzarsi di stabilire una relazione con l'altro uomo pacificata, spogliata di ogni minaccia e di ogni paura. Di fronte a colui che gli sta davanti, l'uomo non deve porsi in una relazione di ostilita', in cui ciascuno e' il nemico dell'altro, ma deve volere stabilire con lui una relazione di ospitalita', in cui ciascuno e' ospite dell'altro. E' significativo che le parole ostilita' e ospitalita' appartengano alla stessa famiglia etimologica: all'origine le parole latine hostis e hospes designano tutte e due lo straniero. Egli puo' essere respinto come un nemico o puo' essere accolto come un ospite.
L'ospitalita' esige piu' che la giustizia. La sola giustizia, cioe' il semplice rispetto dei diritti di ognuno, non basta per fondare una relazione da uomo a uomo. Essa tiene ancora i vicini separati l'uno dall'altro. Farsi rispettare e' ancora farsi temere. Di sua natura, il rispetto implica una certa distanza. Tenersi in rispetto, e' ancora tenersi lontani l'uno dall'altro. Per formare una comunita' umana, gli uomini sono chiamati a intrattenere tra loro delle relazioni di reciprocita' fondate sulla condivisione e sul dono. Diciamolo in anticipo, il luogo dell'ospitalita' e il luogo della bonta'.
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L'aggressivita'
La violenza e' talmente presente al cuore della storia degli uomini che siamo talvolta tentati di pensare che essa sia inscritta nel cuore stesso dell'uomo. La violenza cosi' sarebbe "naturale". Sarebbe dunque vano scommettere sulla nonviolenza perche' cio' sarebbe andare contro la legge stessa della natura. In realta' non e' la violenza ad essere inscritta nella natura umana, ma l'aggressivita'. La violenza non e' altro che una delle espressioni dell'aggressivita', e non e' una necessita' naturale che l'aggressivita' si esprima nella violenza.
L'uomo puo' diventare un essere razionale, ma e' anzitutto un essere istintuale e pulsionale. Gli istinti costituiscono un fascio di energie. Quando questo fascio e' ben stretto, esso struttura e unifica la personalita' dell'individuo. Ma se si allenta, l'individuo tutto intero si destruttura e si disunisce. L'aggressivita' e' una di queste energie: come il fuoco, essa puo' essere benefica o malefica, distruttrice o creatrice.
L'aggressivita' e' un potere di combattivita', di affermazione di se', che e' costitutiva della mia personalita'. Essa mi consente di affrontare l'altro senza tirarmi indietro. Essere aggressivo, e' affermarmi davanti all'altro andando verso di lui. Il verbo aggredire deriva dal latino aggredi, la cui etimologia ad-gradi significa avanzare verso. E' soltanto in un senso derivato che aggredire significa marciare contro: questo deriva dal fatto che, nella guerra, marciare verso il nemico e' marciare contro di lui, cioe' attaccarlo. Cosi', per la sua etimologia, il verbo aggredire (ad-gredire) non implica violenza piu' del verbo pro-gredire, che significa marciare in avanti. Dare prova di aggressivita' e' accettare il conflitto con l'altro senza sottomettersi alla sua legge. Senza aggressivita' io sarei sempre in fuga davanti alle minacce che gli altri fanno pesare su di me. Senza aggressivita', io sarei incapace di superare la paura che mi paralizzerebbe e che mi tratterrebbe dal combattere il mio avversario e dal lottare contro di lui per far riconoscere e rispettare i miei diritti. Per andare verso l'altro bisogna dare prova di audacia e di coraggio, perche' e' andare verso uno sconosciuto, e' partire all'avventura.
La paura e' in ogni individuo e non serve reprimerla rifiutando di confessarla. Si tratta, al contrario, di prenderne coscienza, di sforzarsi di assumerla, di addomesticarla e di superarla, sapendo bene che questo sforzo deve ricominciare incessantemente. Questa paura genera nell'uomo, talvolta a sua insaputa, un'ansieta', un'angoscia, una sofferenza che lo predispongono a mettersi in atteggiamento di ostilita' e intolleranza verso l'altro. Un fattore irrazionale interviene allora nello sviluppo dei rapporti fra gli uomini, e puo' diventare predominante. Ma la paura non e' vergognosa, e' semplicemente umana. Quello che puo' essere vergognoso e' il cedere alla propria paura. Perche' la paura e' cattiva consigliera tanto quando ci invita alla sottomissione che quando ci incita alla violenza. Dominare la propria paura, padroneggiare le emozioni e le passioni che essa suscita, ci permette di esprimere la nostra aggressivita' con mezzi diversi da quelli della violenza distruttrice. A questo punto, l'aggressivita' diventa un elemento fondamentale della relazione all'altro; questa potra' diventare una relazione di rispetto mutuo e non di dominazione-sottomissione.
In realta', davanti a un'ingiustizia, la passivita' e' un atteggiamento piu' diffuso della violenza. La capacita' di rassegnazione degli uomini e' considerevolmente piu' grande della loro capacita' di rivolta. Inoltre, uno dei primi scopi dell'azione nonviolenta e' quello di "mobilitare", cioe' di mettere in movimento quegli stessi che subiscono l'ingiustizia, di risvegliare la loro aggressivita' per prepararli alla lotta, di suscitare il conflitto. Quando lo schiavo e' sottomesso al suo padrone, non c'e' conflitto. Al contrario, e' proprio allora che "l'ordine" e' stabilito e che regna "la pace sociale", senza che niente ne' alcuno vengano a rimetterla in discussione. Il conflitto non avviene se non a partire dal momento in cui lo schiavo dimostra sufficiente aggressivita' per "avanzarsi verso" ( ad-gradi) il suo padrone, per osare fargli fronte, e rivendicare i propri diritti. La nonviolenza suppone prima di tutto che si sia capaci di aggressivita'. In questo senso, bisogna affermare che la nonviolenza e' l'opposto piu' della passivita' e della rassegnazione che della violenza. L'azione nonviolenta collettiva deve permettere di incanalare l'aggressivita' naturale degli individui, in modo che essa non si esprima con i mezzi della violenza distruttiva, che rischiano di mettere in moto altre violenze e altre ingiustizie, ma con dei mezzi giusti e pacifici, che possano costruire una societa' piu' giusta e piu' pacifica. In realta', la violenza non e' altro che una perversione dell'aggressivita'.
La collera, che puo' impadronirsi dell'individuo facendogli perdere ogni controllo di se', e' uno straripamento dell'aggressivita'. Ma noi sappiamo che la collera e' la manifestazione di una debolezza e non di una forza di carattere. "Ira brevis furor est". "La collera - scrive Orazio – non e' altro che una breve follia". Il poeta latino poi precisa: "Colui che non sapra' dominare la sua collera vorra' piu' tardi non aver fatto quello che il risentimento e la passione gli avevano consigliato quando cercava nella violenza una pronta soddisfazione per il suo odio implacato. [...] Governa le tue passioni: se esse non obbediscono, comandano; bisogna imporre loro un freno, bisogna tenerle alla catena" (6).
Gesu' di Nazareth non si limita a condannare chi e' omicida di suo fratello; egli accusa gia' chi "monta in collera contro il proprio fratello" e lo ingiuria (7). Giovanni di Betsaida esprime bene il pensiero di Gesu' quando afferma: "Chiunque odia suo fratello e' un omicida" (8). L'odio, infatti, e' gia' omicida.
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La lotta
L'esistenza e' una lotta per la vita. Per difendere i miei diritti, ma anche per difendere i diritti di quelli con cui voglio essere solidale, io devo entrare in lotta con chi li minaccia o vi attenta. "Quale follia - affermava Peguy contro i pacifisti – voler legare la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo a una Dichiarazione di Pace! Come se una Dichiarazione di Giustizia non fosse gia' in se' stessa una dichiarazione di guerra. [...] Come se un solo punto di diritto, un solo punto di rivendicazione potesse apparire nel mondo senza diventare subito un punto di turbamento e di origine di guerra" (9). Se noi prendiamo questa parola guerra nella sua accezione piu' larga (intendendo cosi' una lotta, un affrontamento, un combattimento), dal punto di vista dei principi formali, Peguy ha ragione contro i pacifisti: questi rimangono prigionieri del loro rifiuto della guerra e non propongono altri mezzi per combattere l'ingiustizia e difendere i diritti dell'uomo.
Certo, l'azione nonviolenta vuole prima esaurire tutte le possibilita' di dialogo con l'avversario, facendo appello alla sua ragione per tentare di convincerlo e alla sua coscienza per tentare di convertirlo. Se quello accetta la discussione, allora e' possibile aprire con lui un negoziato per cercare di arrivare a un accordo che renda giustizia ad ognuno. Sfortunatamente, gli appelli alla ragione raramente sono sufficienti per risolvere un conflitto. Cio' che caratterizza in genere una situazione di ingiustizia e' proprio l'impossibilita' di dialogo tra i contendenti. Ed e' proprio per il fatto che il dialogo e' impossibile che e' necessaria la lotta. Dal momento che non e' possibile risolvere il conflitto con il dialogo, la lotta e' il solo mezzo per rendere il dialogo possibile. La funzione della lotta e' di creare le condizioni del dialogo stabilendo un nuovo rapporto di forza che obblighi l'altro a riconoscermi come un inter-locutore necessario. A questo punto diventa possibile aprire un negoziato per cercare i termini di un accordo che metta fine al conflitto.
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La forza
C'e' un'altra confusione frequente: quella tra l'uso della violenza e l'esercizio della forza. Ogni lotta e' una prova di forza. In un determinato contesto economico, sociale e politico, ogni relazione con gli altri si inscrive in un rapporto di forza. La ricerca della giustizia e' la ricerca di un equilibrio tra forze antagoniste in modo che i diritti di ciascuno siano rispettati. La lotta ha la funzione di creare un nuovo rapporto di forza con lo scopo di stabilire questo equilibrio. "L'ordine sociale - scrive Simone Weil – non puo' essere che un equilibrio di forze" (10). La giustizia sociale e' l'equilibrio di forze che si esercitano in senso contrario. Per questo "la bilancia in equilibrio, immagine del rapporto uguale di forze, e' stata dalla piu' lontana antichita', e soprattutto in Egitto, il simbolo della giustizia" (11). L'ingiustizia risulta quindi dallo squilibrio delle forze, per il quale le piu' deboli sono oppresse dalle piu' forti. Allora, agire per la giustizia e' ristabilire l'equilibrio delle forze e questo non e' possibile se non esercitando una forza che impone un limite a quella che introduce lo squilibrio. Cosi', per Simone Weil, la "bella azione", e' "l'azione che conclude, che sospende il dialogo indefinito degli squilibri opposti, che stabilisce l'equilibrio unico corrispondente alla situazione data" (12). L'azione nonviolenta vuole essere questa "bella azione" che mira a stabilire quell'equilibrio di forze che assicura la giustizia e la pace.
Questo equilibrio di forze permette agli uomini di vivere in simbiosi (dal greco sun, con, e bios, vita) gli uni con gli altri. La simbiosi e' una "vita in comune" fondata su relazioni reciprocamente vantaggiose per tutti i soci; e' un'associazione tra molti esseri viventi che permette loro di soddisfare i loro rispettivi bisogni senza nuocere agli altri. Essi, dunque, hanno tutti ugualmente interesse a rispettare i termini di questa associazione, nonostante le costrizioni che essa impone loro. Essa e' cosi' durevole perche' e' vantaggiosa per ciascuno.
Michel Serres ha fatto l'elogio del "contratto di simbiosi", che permette agli avversari di diventare soci decidendo di vivere insieme nel rispetto mutuo dei loro interessi e diritti. "Che cos'e' un nemico - egli si chiede - chi e' lui per noi, e come trattarlo? In altre parole, per esempio, che cos'e' il cancro? Un insieme di cellule maligne che cresce e che noi dobbiamo ad ogni costo espellere, tagliare, rigettare? Oppure qualcosa come un parassita con cui dobbiamo negoziare un contratto di simbiosi?". Per parte sua, Michel Serres, "propende per la seconda soluzione, come fa la vita stessa" (13). Per questo "e' meglio trovare degli equilibri simbiotici, anche imperfetti, che rilanciare una guerra, sempre perduta" (14).
E' vano pretendere che il diritto debba prevalere sulla forza con lo screditare la forza in nome del diritto. In una societa' di giustizia e di liberta', la vita politica e' retta dal diritto, ma il rispetto del diritto e' assicurato dalla forza. Alain esprime l'errore fondamentale del pacifismo giuridico quando scrive: "Non la soluzione di un problema di diritto con i mezzi della forza, ma, tutto al contrario, la soluzione di un problema di diritto con i mezzi del diritto" (15). In realta', di per se' stessi questi "mezzi del diritto" rimangono inoperanti per risolvere "un problema di diritto". E' proprio dell'idealismo il conferire al diritto una forza specifica che agirebbe nella storia e sarebbe il vero fondamento del progresso. Tutto dimostra, al contrario, che una tale forza non esiste. Max Scheler ha messo bene in evidenza l'illusione della "forza del diritto": "Una tale forza spontanea - egli scrive - inerente all'idea stessa del diritto, non esiste affatto. Ogni diritto 'positivo' non e', quando appare, che una formulazione giuridica dei rapporti di forza dati, delle situazioni di interessi date" (16).
In realta', soltanto la forza organizzata nell'azione che poggia sul numero puo' essere efficace per combattere l'ingiustizia e ristabilire il diritto. E' dunque vano volere screditare la forza in nome del diritto, poiche', nei fatti, il diritto non puo' avere altra garanzia che la forza. Ma la forza non e' la violenza, e non e' possibile screditare la violenza se non si ha, prima di tutto, riabilitata la forza dandole tutto il suo posto e riconoscendole tutta la sua legittimita'. E' anche essenziale rifiutare allo stesso tempo tanto il preteso realismo che giustifica la violenza come fondamento dell'azione pubblica, quanto il preteso spiritualismo che rifiuta di riconoscere la forza come inerente all'azione politica. E poiche' la forza non esiste che nell'azione, non e' possibile denunciare e combattere la violenza se non proponendo un altro metodo di azione che non debba niente alla violenza omicida, ma che sia capace di stabilire dei rapporti di forza che garantiscano il diritto.
Il discorso strategico che fonda la pertinenza del concetto di lotta nonviolenta rifiuta i discorsi idealisti che vorrebbero stabilire la pace sulla "forza della giustizia", "la forza della ragione", "la forza della verita'" o "la forza dell'amore". Certo, queste espressioni non sono senza significato. Cosi', esiste un senso nel quale si puo' parlare di "forza della verita'", e non e' mai vano "dire la verita'". Ma si tratta allora di una forza di persuasione che non si impone dall'esterno; bisogna accoglierla. La verita' non puo' essere riconosciuta che da colui che ha deciso liberamente di aderirvi. La forza della verita' non potrebbe costringere colui che rifiuta di sottomettersi ad essa. La menzogna trionfa piu' facilmente della verita'. Il trionfo porta il marchio della violenza; ne ha gia' tutto il ridicolo abbigliamento. Colui che annuncia alto e forte il trionfo della verita' e' un uomo pericoloso. Egli lustra gia' le sue armi.
Certo, in un conflitto e' teoricamente possibile che quelli che sono responsabili dell'ingiustizia, poiche' sono pure degli uomini e portano in loro il senso della giustizia, accettino liberamente di riconoscere i loro torti e rendano giustizia ai loro avversari, ma, praticamente, questa non e' la cosa piu' probabile. E se essi non accettano di farlo di buon grado, bisognera' bene che vi siano costretti e forzati. Il piu' spesso, come ha notato Pascal nella dodicesima Lettera Provinciale: "La violenza e la verita' non possono niente l'una sull'altra". Poiche', se e' vero che "tutti gli sforzi della violenza non possono indebolire la verita', e non servono che a darle maggiore rilievo", e' non meno vero che "tutte le luci di verita' non possono niente per arrestare la violenza, e non fanno che irritarla ancora di piu'" (17).
Cosi' la giustizia e la verita' sono generalmente incapaci, da se' stesse, di forzare il padrone a riconoscere i diritti dello schiavo. La forza, in realta', non esiste se non grazie all'azione ed e' l'unione che fa la forza dell'azione. E' per questo che coloro che subiscono le ingiustizie devono unirsi per agire insieme al fine di ottenere giustizia. "Il popolo unito - dice un proverbio spagnolo - non sara' mai vinto: el pueblo unido jamas sera' vencido".
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La costrizione
Devo dunque, per avere ragione del mio avversario, esercitare su di lui una reale forza di costrizione che lo obblighi a rendermi giustizia. Se lo scopo a lungo termine dell'azione nonviolenta e' di ottenere dal mio avversario che diventi ragionevole, l'obiettivo che essa si propone a breve termine e' di costringerlo, senza attendere che egli si lasci convincere.
Costringere qualcuno e' obbligarlo ad agire contro la sua volonta': poco fa egli non voleva, ma ora vuole. Egli accetta alla fine cio' che prima rifiutava. Egli accetta perche' non puo' fare altrimenti o, piu' precisamente, perche' se egli facesse altrimenti ne risulterebbero per lui piu' inconvenienti che vantaggi. Egli accetta perche', tutto ben considerato, facendo altrimenti, avrebbe piu' da perdere che da guadagnare. Egli accetta perche', in fin dei conti, e' suo interesse accettare. Egli si trova costretto a cambiare i criteri delle sue scelte e delle sue decisioni. Allora egli fa delle concessioni, allora cede. Egli ottempera (ob-tempera), cioe', davanti alla costrizione che gli e' fatta, egli tempera i suoi desideri, modera le sue ambizioni, riduce le sue esigenze tenendo conto delle esigenze degli altri. Mette dell'acqua nel suo vino (in latino temperare significa prima di tutto mescolare, diluire).
La lotta nonviolenta non puo' ridursi a un semplice dibattito di idee, essa e' realmente un combattimento nel quale si oppongono molte forze. Nei conflitti economici sociali e politici, gli avversari non sono delle persone, nemmeno dei gruppi di persone, ma dei gruppi di interesse. E non e' generalmente possibile che si stabilisca tra loro un dialogo razionale, dove la verita' possa trionfare dell'errore con l'esporre una dimostrazione che nessuna obiezione potrebbe contraddire. I rapporti tra questi gruppi sono dei rapporti di potere e, di fronte a sfide di potere che mettono in causa degli interessi antagonisti, gli uomini, generalmente, non sono ragionevoli. E' per questo che, quando si tratta di lottare contro le ingiustizie strutturali del "disordine stabilito", e' la costrizione esercitata dall'azione collettiva che e' determinante per il successo di una resistenza nonviolenta.
Certo, tra i membri di un gruppo, alcuni possono essere sensibili alla giustezza della causa difesa dal gruppo avverso. Essi potranno allora divenirne in qualche modo gli avvocati in seno al proprio gruppo. Ma, secondo ogni probabilita', essi non saranno che una piccola minoranza e correranno il rischio di essere rifiutati come dei traditori. Il loro ruolo, tuttavia, potrebbe essere importante quando, avendo la lotta cambiato il rapporto di forza, verra' il momento di cercare una soluzione negoziata del conflitto.
 
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Note
1. Rene' Girard, Des choses cachees depuis la fondation du monde, recherches avec J.D. Oughourlian et Guy Lefort, Paris, Grasset, 1983, p. 15; ; tr. it. di R. Damiani, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983.
2. Idem, ibidem.
3. Idem, ibidem, p. 16.
4. Simone Weil, Cahiers I, Paris, Plon, 1951, p. 140; ; tr. it. Quaderni I, traduzione con un saggio introduttivo di G. Gaeta, Adelphi, Milano, III edizione 1991.
5. Idem, ibidem, p. 80.
6. Orazio, Epistole, libro I, epistola II, 59-64.
7. Vangelo secondo Matteo, 5, 21-22.
8. Prima lettera di Giovanni, 3, 15.
9. Peguy, L'Argent suite, Oeuvres en prose, 1909-1914, Paris, Gallimard, 1961, Bibliotheque de la Pleiade, pp. 1250-1251.
10. Simone Weil, Cahiers III, Paris, Plon, 1956, p. 11; tr. it. Quaderni, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988.
11. Simone Weil, Attente de Dieu, Paris, Le Livre de Poche chretien, 1963, p. 129; tr. it. Attesa di Dio, a cura di J.M. Perrin, Rusconi, Milano 1984.
12. Simone Weil, Cahiers I, op. cit., 1951, p. 52; tr. it. citata.
13. Michel Serres, Eclaircissements, Paris, Editions François Bourin, 1992, p. 281.
14. Idem, ibidem, p. 282. Michel Serres parla di "contratto di simbiosi" anche in Il contratto naturale, Paris, Flammarion, 1992, p. 67.
15. Alain, Convulsions de la force, Paris, Gallimard, 1939, p, 214.
16. Max Scheler, L'idee de paix et le pacifisme, Paris, Editions Aubier Montaigne, 1953, p. 110.
17. Pascal, Oeuvres completes, Paris, Le Seuil, 1963, p. 429.
 
2. MAESTRE. UNA INTERVISTA A LAURA BOELLA SUL SUO LIBRO "HANNAH ARENDT. UN UMANESIMO DIFFICILE"
[Dal sito www.letture.org riprendiamo questa intervista]
 
- Letture.org: Professoressa Laura Boella, Lei e' autrice del libro Hannah Arendt. Un umanesimo difficile edito da Feltrinelli: di quale attualita' e' il pensiero della filosofa tedesca?
- Laura Boella: Il mio libro affronta la questione dell'eredita' del pensiero di Hannah Arendt oggi, in un tempo che non e' piu' il suo, ma che ha visto crescere la sua fama, facendo di lei un'autrice popolare e accademica ad un tempo, un'icona cinematografica e una testimone delle catastrofi del Novecento. La sterminata bibliografia accumulatasi nel corso di almeno tre generazioni di studi ha prodotto "mille e una Arendt", se si vuole usare l'espressione coniata per un'icona del bel canto, Maria Callas. La questione della sua attualita' deve quindi fare i conti con la fortuna di libri come Le Origini del totalitarismo, balzato in cima alla lista dei best seller negli Stati Uniti dopo l'elezione di Trump, e La banalita' del male, e con la potenza del suo mito simboleggiata dall'apertura presso il Deutsches Historisches Museum a Berlino, l'11 maggio, in era Covid, di una mostra dedicata a Hannah Arendt e il XX secolo. Al tempo stesso, l'indipendenza di pensiero, i giudizi taglienti, gli amori e le amicizie hanno fatto della filosofa un esempio di donna coraggiosa e affascinante.
Appartengo alla generazione che ha scoperto Arendt negli anni Novanta sulla scia del crescente interesse per le pensatrici del Novecento (Simone Weil, Maria Zambrano, Edith Stein, Jeanne Hersch) e grazie alle edizioni o riedizioni delle sue opere principali e alla progressiva pubblicazione di epistolari, diari e parti del lascito inedito. La prospettiva in cui ho affrontato la questione dell'eredita' non e' stata tuttavia quella di un bilancio ("che cosa e' vivo e che cosa e' morto"), bensi' di un nuovo inizio. La galassia delle opere arendtiane (che attraversano vari generi, dalla storiografia alla biografia, al saggio filosofico al saggio letterario) sta finalmente trovando un nuovo ordine grazie all'edizione critica bilingue che presenta un'opera strutturata secondo linee sperimentali, per alcuni aspetti incompiuta, un vero e proprio laboratorio di pensiero. Si tratta ovviamente dell'apertura di un nuovo terreno di lavoro, ma anche di un'occasione per rileggere gli scritti arendtiani nell'ottica di un'eredita' che si sottrae a ogni volonta' di appropriazione e soprattutto intende allargare lo sguardo oltre il canone dominante, quello della pensatrice del momento sorgivo della politica, della pluralita' e dell'essere insieme. Come indico nel primo capitolo, in Arendt e' decisiva la consapevolezza della crisi della tradizione e i suoi scritti sono costellati di riferimenti a un'"eredita' senza testamento", a una "tradizione nascosta", non riconosciuta, che non sta appesa al filo del passato, ma viene creata a partire dal presente e dalle sue domande. Il totalitarismo e la Shoah furono per Arendt laceranti cesure rispetto alla civilta' e alla cultura europea moderna. In fondo, la distanza che intercorre tra i "tempi bui" arendtiani e il nuovo millennio implica anch’essa una rottura (basta pensare al ruolo della scienza, alla globalizzazione economica e finanziaria, alla fragilita' della democrazia), difficile dire se essa sia meno traumatica. L'attualita' di Arendt non puo' quindi giocarsi sull'uso disinvolto di un canone ormai acquisito, bensi' su quella che Ingeborg Bachmann considerava la vera "attualita', quella cioe' che racchiude in se' tutte le attualita'" (I. Bachmann, "La sventura e l'amore di Dio. Il cammino di Simone Weil", in Il dicibile e l'indicibile. Saggi radiofonici, tr. i. di B. Agnese, Adelphi, Milano 1998, p. 116). Si tratta, in definitiva, della capacita' di riconoscere questioni, impegni, occasioni di risposta e iniziativa, non in riferimento a una specifica attualita' politica, sociale o filosofica, ma cogliendo le diverse forme in cui essi si presentano e ispirano azioni e passioni.
Ho scelto quindi di non ricapitolare i temi principali dell'opera arendtiana, bensi' di concentrare l'attenzione su tre momenti di cui e' innegabile l'importanza oggi – Realta', Verita', Umanita' – che incrociano il pensiero di Arendt e che richiedono il coraggio di pensare che lei ci ha insegnato.
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- Letture.org: Quali vicende hanno segnato la vita di Hannah Arendt?
- Laura Boella: Le vicende della vita di Hannah Arendt sono note: la nascita in una famiglia ebraica assimilata, l'incontro con Heidegger e con Jaspers negli anni dell'universita' che segno' la sua vocazione filosofica, infine l'esilio (1941) negli Stati Uniti, dove Arendt ebbe la cittadinanza e partecipo' intensamente ai dibattiti intellettuali e filosofici. Nel dopoguerra l'episodio piu' "chiacchierato" della sua esistenza fu la partecipazione come inviata del "New Yorker" al processo Eichmann a Gerusalemme (1961-1962) e lo scandalo che ne segui' a causa delle reazioni del mondo ebraico alla tesi della banalita' del male. E' annunciata una nuova biografia intellettuale di Thomas Meyer, che arricchira' di nuovi documenti e correggera' alcuni dei dati che hanno alimentato la "leggenda" arendtiana. Credo in ogni caso che uno dei tanti stimoli derivanti dalla figura di Arendt consista nel provarsi a ripensare la distinzione convenzionale di vita e opera (abusata soprattutto quando si tratta di filosofe). Arendt e' stata una donna molto riservata e ostile ad ogni interpretazione psicologica. I suoi scritti nascono da esperienze vissute in prima persona, ma rappresentano uno sforzo interessante per dare all'esperienza un significato non meramente personale, ma in tensione con i problemi del proprio tempo.
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- Letture.org: Quali sono i capisaldi del suo pensiero?
- Laura Boella: L'immagine del pensiero arendtiano, confermata dall'edizione critica di cui ho parlato sopra, e' quella di un organismo in progress, che si sviluppa per linee parallele, riprese, approfondimenti, nuove angolature in una rete di rimandi tra i diversi scritti. Impossibile separare opere, sia pure di taglio diverso, come Le origini del totalitarismo (1951, 1956) e Vita activa (1958), alla luce del carattere tragico della prima, su cui grava l'ombra dei "vuoti di oblio" dei lager, e del bisogno di conciliazione dell’'inno alla vita pubblica della seconda. Altrettanto difficile comprendere lo sconcerto provocato dalla pubblicazione postuma di La vita della mente (1976), considerata da molti come una sorta di ritorno della pensatrice politica agli antichi amori (la filosofia e Heidegger). Arendt non ha mai esplicitato il suo programma, peraltro rimasto incompiuto, ma da una lettura attenta delle sue opere, in particolare di Vita activa, il libro piu' complesso e purtroppo abbandonato a una ricezione canonica, emerge il progetto di una ricomposizione dell'esperienza umana nelle sue dimensioni fondamentali: agire e pensare. "Che cosa facciamo quando agiamo?", "che cosa facciamo quando pensiamo?" sono le domande formulate nel prologo di Vita activa che anticipano La vita della mente. Questo orizzonte ha un'impronta fondamentalmente fenomenologica e esistenziale, ossia sulla linea di Husserl, Heidegger e Jaspers, considera la condizione umana di pluralita' ("non l'uomo, ma gli uomini abitano la terra") come articolata in modalita' fondamentali (attive e passive, cognitive e emotive) di relazione dell'individuo con il mondo reale. L'idea arendtiana di etica e di politica, dal totalitarismo all'incapacita' di pensare di Eichmann, diventa comprensibile solo alla luce delle molteplici forme di esperienza di un mondo plurale, o, se si vuole, dell'originaria relazionalita' umana. Un progetto grandioso rimasto incompiuto. Mi riferisco in particolare al tema della vita biologica, dell'inconscio e delle emozioni, che ho letto in controluce, sfidando il pathos delle distinzioni, uno degli aspetti metodologici prediletti da Arendt, per vedere fino a che punto piu' che "estranei" fossero per lei dimensioni irrinunciabili della realta'.
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- Letture.org: Quale ruolo svolse l'identita' ebraica della Arendt nello sviluppo della sua riflessione storica e filosofica?
- Laura Boella: Il rapporto di Arendt con l'ebraismo e' uno dei temi tuttora controversi, a partire dagli sprezzanti giudizi sul sionismo, sullo Stato d'Israele e in generale dal rifiuto di aderire a una concezione dell'identita' ebraica come appartenenza e legame. Resta il fatto che la riflessione arendtiana nasce dall'urto con gli eventi che portarono alla distruzione dell'ebraismo europeo. Nell'immediato dopoguerra, Arendt torno' in Germania con l'incarico di recuperare le opere d'arte, i testi sacri, gli oggetti di culto confiscati dai nazisti agli ebrei. La sua idea era che questo patrimonio non venisse restituito alle comunita' ebraiche insediate nelle varie nazioni, ma diventasse un'eredita' culturale e spirituale europea. Il discusso atteggiamento tenuto in occasione del processo Eichmann si spiega appunto con lo sforzo di preservare il significato transnazionale dell'ebraismo. I saggi e articoli dedicati all'ebraismo, oggi disponibili anche in italiano, sono in ogni caso tra i testi in cui la passionalita' di Arendt viene allo scoperto.
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- Letture.org: Qual e' l'eredita' di Hannah Arendt?
- Laura Boella: Quella di Arendt deve continuare a essere una scuola di liberta' anche in un tempo che non e' piu' il suo. L'umanesimo difficile del sottotitolo del mio libro allude alla sfida che fu di Arendt in tempi di trionfo dell'inumanita', ma che resta su di scena mutata interamente nostra.
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Nota
Laura Boella e' professore ordinario di Filosofia morale e di Etica dell'ambiente presso il Dipartimento di Filosofia dell'Universita' Statale di Milano. Ha dedicato numerosi studi al pensiero femminile del '900, in particolare a Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano e Edith Stein. Il coraggio dell'etica. Per una nuova immaginazione morale (Cortina, 2012) e Le imperdonabili. Milena Jesenska', Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Cristina Campo (Mimesis, 2013) elaborano il contributo delle pensatrici e di alcune scrittrici all'etica contemporanea. Ha quindi sviluppato il tema delle relazioni intersoggettive, dell'empatia e della simpatia proponendo un confronto critico tra l'attuale ricerca scientifica e la prospettiva fenomenologica. Ha curato la nuova edizione italiana di M. Scheler, Essenza e forme della simpatia (Franco Angeli, 2010) e pubblicato Sentire l'altro. Conoscere e praticare l'empatia (Cortina, 2006), Neuroetica. La morale prima della morale (Cortina, 2008) e Empatie. L'esperienza empatica nella societa' del conflitto (Cortina, 2018).
 
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 44 del 7 aprile 2021
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