[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 30



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo"
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 30 del 24 marzo 2021
 
In questo numero:
Giuseppe Fava: I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa
 
TESTI. GIUSEPPE FAVA: I QUATTRO CAVALIERI DELL'APOCALISSE MAFIOSA
[Quello che qui si ripubblica ancora una volta e' un indimenticabile articolo che ha il valore di un documento storico del grande giornalista e scrittore catanese Giuseppe Fava, I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa, pubblicato originariamente nella rivista "I Siciliani", n. 1, nel gennaio 1983. Un anno dopo Giuseppe Fava fu assassinato dalla mafia. E', a nostro avviso, un testo di importanza fondamentale. E per molti motivi. E certo non e' casuale che esso col titolo "La ballata dei cavalieri" costituisca il capitolo finale e culminante dell'ultimo grande libro di Fava: Mafia. Da Giuliano a Dalla Chiesa, una sorta di vero e proprio testamento politico e morale che Fava lascia al movimento antimafia, e a tutte le donne e gli uomini di volonta' buona.
Giuseppe Fava, detto Pippo, nacque a Palazzolo Acreide (Siracusa) il 15 settembre 1925. Laureato in giurisprudenza nel 1947, giornalista professionista dal 1952, redattore e inviato speciale nei settori di attualita' e di cinema per riviste come "Tempo illustrato" e "La domenica del Corriere", corrispondente di "Tuttosport", variamente collaboro' a "La Sicilia", dal 1956 al 1980 capocronista del quotidiano "Espresso sera". Drammaturgo, romanziere, autore di libri-inchiesta; nel 1975 ottiene grande successo il suo romanzo Gente di rispetto; nel 1977 pubblica un altro grande romanzo: Prima che vi uccidano. Nel 1983 pubblica L'ultima violenza, da molti considerato il suo capolavoro drammaturgico. Nei primi anni '80 si consuma l'esperienza di direzione del quotidiano catanese "Giornale del Sud", due anni di limpide battaglie civili, antimafia e pacifiste, ed una rottura conclusiva di testimonianza esemplare. Nel gennaio del 1983 esce il primo numero del mensile "I Siciliani" che Fava fonda con un gruppo di giovani: sara' una delle esperienze decisive per il movimento antimafia che si sta formando in Italia, e resta un punto di riferimento fondamentale. Il 5 gennaio 1984 Pippo Fava e' assassinato dalla mafia a Catania. Opere di Giuseppe Fava: I. Opere letterarie e teatrali di Fava pubblicate in volume: Pagine, Ites, Catania 1969; Gente di rispetto, Bompiani, Milano 1975; Prima che vi uccidano, Bompiani, Milano 1977; Passione di Michele, Cappelli, Firenze 1980; Teatro, Tringale, Catania 1988; II. Libri-inchiesta: Processo alla Sicilia, Ites, Catania 1967; I Siciliani, Cappelli, Firenze 1980; Mafia. Da Giuliano a Dalla Chiesa, Siciliani Editori - Editori Riuniti, Roma 1983; III. Opere teatrali di Giuseppe Fava messe in scena: Vortice - Le vie della gloria, Palazzolo Acreide 1947; La qualcosa, Catania 1960; Cronaca di un uomo, Catania 1967; La violenza, Catania 1970; Il proboviro, Catania 1972; Bello bellissimo, Catania 1974; Opera buffa, Taormina 1977; Delirio, Catania 1979; Foemina ridens, Catania 1981; Ultima violenza, Catania 1983; Maffia - Parole e suoni, Catania 1984; Sinfonie d'amore, Catania 1987; IV. Opere teatrali di Giuseppe Fava mai rappresentate: La rivoluzione; America America; Dialoghi futuri imminenti; Il Vangelo secondo Giuda; Paradigma; L'uomo del Nord (incompiuta). [Questa nota e' ripresa dal libro di Rosalba Cannavo', di seguito segnalato]. Tra le opere su Giuseppe Fava: Claudio Fava, La mafia comanda a Catania, Laterza, Roma-Bari 1991; Idem, Nel nome del padre, Baldini & Castoldi, Milano 1996; Nando dalla Chiesa, Storie, Einaudi, Torino 1990 (e particolarmente il capitolo primo, "I carusi di Fava"); Riccardo Orioles, L'esperienza de "I Siciliani", in Umberto Santino (a cura di), L'antimafia difficile, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1989; Rosalba Cannavo', Pippo Fava. Cronaca di un uomo libero, Cuecm, Catania 1990]
 
Per parlare dei cavalieri di Catania e capire cosa essi effettivamente siano, protagonisti, comparse o semplicemente innocui e spaventati spettatori della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare la nazione, bisogna prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia negli anni ottanta, nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici. E per meglio intendere tutto bisogna prima capire e identificare le prede della mafia nel nostro tempo. Una breve storia, terribile e pero' mai annoiante, poiche' continuamente vedremo balzare innanzi, come su un'immensa ribalta, tutti i personaggi. Ognuno a recitare se stesso (Pirandello e' qui di casa) nel gioco delle parti.
Negli anni ottanta le prede della mafia si dividono in due categorie perfettamente separate che trovano punti di contatto soltanto in alcune fatali complicita' organizzative. L'una categoria raggruppa tutte le tradizionali vocazioni criminali volte al taglieggiamento dell'economia, i cosiddetti "racket", che controllano quasi tutte le attivita' economiche di una grande citta': i mercati generali; le concessionarie di prodotti industriali, auto, elettrodomestici, televisori; negozi, teatri, alberghi, night; e su ogni attivita' impongono una taglia, una specie di tassa che l'operatore economico e' costretto a pagare se non vuole correre il rischio di vede bruciare la propria azienda, o vedersi sciancato da alcune revolverate. In taluni casi d'essere ucciso.
Si tratta di un giro di centinaia o migliaia di miliardi, pero' frantumati e dispersi in un'infinita' di rivoli e canali. Un apparato mafioso che lentamente, inesorabilmente ha risalito la penisola inquinando anche le grandi citta' del nord, oramai da anni anch'esse violentate da sparatorie, stragi, violenze dalle quali emergono sempre volti e nomi di criminali emigrati dalla Sicilia, da Napoli, dalla Calabria. E' la mafia cosiddetta dei manovali, senza vertici, continuamente sconvolta da una battaglia interna per il predominio in un quartiere o un settore.
Basta che un racket tenti di invadere il territorio di un altro, o cerchi di imporre estorsioni in un diverso settore economico, e lo scontro e' fatale. Sempre mortale. Dura sei mesi, un anno, una fiamma di odio che insanguina un quartiere, a volte percorre anche il territorio della nazione da una grande citta' all'altra, Catania, Napoli, Milano, Torino, laddove i rackets in lotta cercano disperatamente alleanze e armi, spesso tra consanguinei, amici, parenti, fratelli. Una caratteristica di questa mafia e' infatti la presenza costante della famiglia, cioe' del rapporto di parentela fra molti membri dello stesso clan. Un giudice milanese ebbe a dire, forse senza nemmeno voler essere cinico: "Una buona famiglia meridionale all'antica, in cui sono ancora molto forti i sentimenti tradizionali della famiglia, puo' costruire un racket mafioso di tutto rispetto. E' piu' temuta!". Questo spiega anche talune agghiaccianti efferatezze dello scontro, vittime legate piedi e collo con un filo elettrico in modo che lo sventurato lentamente si autostrangoli, organi genitali resecati e infilati in bocca, teste mozzate e depositate dinnanzi all'uscio di casa. Una crudelta' che scaturisce dall'odio definitivo di chi ha visto cadere per mano avversa il padre, il figlio, il fratello. Lo scontro non ha possibilita' di pace, di armistizio, nemmeno di compromesso e spesso dura mortalmente fino al fatale annientamento del clan avverso, dovunque abbia trovato scampo lo sconfitto o il superstite. La vendetta lo perseguitera' fino nella piu' profonda cella di carcere.
E' la mafia che miete la quasi totalita' delle vittime, centinaia, forse migliaia ogni anno in tutte le citta' della Sicilia e dell'Italia. Quasi tutte le vittime sono anch'esse creature criminali, o loro complici, talvolta anche avvocati, medici, funzionari, insospettabili burocrati o professionisti che in un modo o nell'altro si sono lasciati adescare e sottomettere da un racket mafioso. Al momento in cui quel racket entra in guerra cadono anche le loro teste. E' una malia che sembra animata da una tragica vocazione al suicidio e tuttavia continuamente si rinnova, una specie di fetida tenia oramai intanato nel ventre della nazione, dove si ingrassa, ininterrottamente divora se stesso e ricresce. Sociologicamente sarebbe forse piu' esatto definirlo gangsterismo ma, come ora vedremo, esso e' pero', mortalmente, indissolubilmente legato, proprio in un rapporto fra manovalanza e ingegneria, al grande fenomeno mafioso.
E qui c'e' il salto di qualita', diremmo di cultura criminale, fra le prede mafiose tradizionali di base, mercati, estorsioni, sequestri di persona e le nuove grandi prede che caratterizzano gli anni ottanta ed hanno fatto della mafia una autentica tragedia politica nazionale. Esse sono essenzialmente due: il denaro pubblico e la droga. Il distacco e' vertiginoso. E' come se un grande corpo, un grande animale, lo Stato italiano, mai morto e continuamente in agonia, fosse divorato ancora da vivo. In basso c'e' un brulicare orrendo di vermi insanguinati, in alto un rapace con il profilo misterioso e terribile dei mostri di Bosch, e gli artigli piantati nel cuore della vittima. Non riesco a trovare un paragone piu' amabile ed egualmente preciso.
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La droga anzitutto. Essa costituisce uno degli affari mondiali, come il petrolio o il mercato delle armi. La valutazione globale degli interessi che la droga coinvolge si puo' fare solo nell'ordine di decine di migliaia di miliardi. La contaminazione del vizio oramai e' intercontinentale, dall'Asia all'Africa, all'Europa, alle due Americhe. I guadagni sono incalcolabili. Si calcola che ci siano al mondo circa cento milioni di persone, molte oramai tossicodipendenti, che fanno quotidianamente uso della droga, spendendo ciascuna in media (ma la valutazione forse e' troppo esigua) circa diecimila lire al giorno. Sono mille miliardi. Quasi quattrocentomila miliardi l'anno. Una cifra che fa paura. Molto piu' alta del bilancio di una grande nazione industriale. I guadagni sono anch'essi incalcolabili. Secondo gli studi attuali un quantitativo di cocaina, acquistata alle fonti di produzione per poco piu' di un milione, dopo la raffinazione puo' valere sul mercato da due a tre miliardi, secondo la purezza del prodotto.
E non basta la semplice e pur stupefacente valutazione economica per capire appieno la imponenza del fenomeno-droga su scala mondiale, un evento quotidiano che minaccia di deformare la societa' contemporanea. Ogni anno centomila esseri umani, per lo piu' giovani o addirittura adolescenti e ragazzi, muoiono per causa della droga; almeno nove o dieci milioni diventano irrecuperabili alla vita sociale, sia per la loro definitiva incapacita' intellettuale o inettitudine fisica al lavoro, sia per la loro costante pericolosita', cioe' la disponibilita' a qualsiasi proposta criminale. Milioni di famiglie vengono praticamente distrutte poiche' quasi sempre, accanto alla pietosa tragedia del ragazzo drogato, c'e' la infelicita' di un intero gruppo umano, i genitori, i fratelli, la moglie, per i quali il recupero - spesso impossibile - del congiunto diventa una costante di dolore e disperazione.
La droga ha ammorbato oramai anche alcune istituzioni fondamentali della nostra societa', la scuola, lo sport, le carceri, gli ospedali, che si stanno trasformando in luogo di autentico contagio. Punti fermi della grande struttura civile collettiva vengono cosi' destabilizzati, ed e' tutta la struttura che comincia a vacillare. La stessa lotta quotidiana a livello internazionale contro la droga, esige un prezzo che diventa sempre piu' insostenibile; migliaia di giornate lavorative perdute, migliaia di uomini, magistrati, studiosi, poliziotti, medici, mobilitati costantemente per arginare l'avanzata della droga; migliaia di miliardi spesi, talvolta sperperati, per tenere in vita ospedali, centri di emergenza, istituti e cliniche di recupero umano e sociale. E su tutto questo oceano, sporco e insanguinato di denaro, che scorre ininterrottamente da un continente all'altro, l'ombra invulnerabile della mafia.
Da dieci anni la mafia tiene nel pugno l'immenso affare. Dapprima nelle grandi capitali del mercato, che erano soprattutto Beirut, Il Cairo, Istambul, la grande plaga del Medioriente, Marsiglia, New York, e ora definitivamente anche in Sicilia. L'isola e' nel cuore del Mediterraneo e quindi passaggio obbligato per il cinquanta per cento dei traffici dall'area afroasiatica verso le grandi nazioni dell'occidente. Per qualche tempo in Sicilia la mafia si e' limitata a controllare questo passaggio, garantendo punti di approdo e reimbarco, sicurezza e rapidita' in qualsiasi operazione ed esigendo in cambio una tangente. La Fiat fabbrica automobili e le affida ai concessionari: ebbene la mafia pretende una tangente dai concessionari perche' possano svolgere il lavoro senza rischi, ma la mafia non si sogna di sostituirsi alla Fiat per fabbricare automobili. Per anni, incredibilmente, la mafia si comporto' allo stesso modo per la droga. Guardava, osservava, valutava, studiava, proteggeva, copriva, incassava la sua tangente, faceva i conti, cercava di capire perfettamente l'ingranaggio. Forse c'era una residua repugnanza morale (siamo in Sicilia dove ogni paradosso psicologico e' possibile) verso un affare che era portatore di morte e dolore per un'infinita' di esseri umani, soprattutto giovani. Ma anche senza complicita' mafiosa la droga avrebbe viaggiato lo stesso per tutta la terra. E alla fine i calcoli furono perfetti e abbaglianti, e l'ultima repugnanza venne vinta. La mafia assunse in proprio il traffico, anche in Sicilia, e lo fece alla sua maniera, eliminando qualsiasi concorrente e aggiudicandosi tutto il ciclo completo di mercato: la ricerca alle fonti di produzione, la creazione di stabilimenti segreti per la raffinazione della droga e la spedizione nelle grandi capitali dell'occidente. In quell'attimo compi' un salto di cultura criminale che avrebbe fatto tremare l'Italia.
Migliaia, decine di migliaia di miliardi, una montagna, un fiume travolgente, una tempesta, un mare di denaro che arriva da tutte le parti, che si rinnova e cresce continuamente. Via via perfezionandosi negli anni, mettendo radici sempre piu' profonde, integrando gradualmente e infine totalmente anche camorra napoletana e 'ndrangheta calabrese, coinvolgendo definitivamente una massa di uomini sempre piu' vasta, la mafia ha creato una struttura criminale che, per le sue proporzioni e per il suo distacco da quella che e' la logica comune, appare quasi un congegno di fantascienza. In verita' molte componenti di questa struttura si sono determinate quasi per forza di cose, per la concatenazione fatale di un gioco d'interessi, ma c'e' voluta indubbiamente una grande capacita' di fantasia per intuire questa forza delle cose e questa concatenazione d'interessi e costruirle insieme in un perfetto mosaico. Va detto che la mafia del nostro tempo ha genio. Anche il demonio ha genio. Negarlo sarebbe diminuire il merito di Domineddio.
Questa struttura ha tre livelli, indipendenti, talvolta quasi sconosciuti l'uno all'altro, eppure completamente fusi in un identico fenomeno. Cominciamo dal basso. Il livello piu' propriamente criminale: gli specialisti dell'assassinio.
Centinaia di migliaia di miliardi abbiamo detto. Per gestire valori economici cosi' imponenti, legati all'impunita' della produzione e del traffico di migliaia di tonnellate di droga e' indispensabile un controllo costante e totale del territorio di traffico. Non ci deve essere un ostacolo, un rischio, una trappola. E' necessaria quindi una folla di complicita' dovunque, in ogni settore della societa', criminali comuni, impiegati del fisco, piccoli armatori marittimi, dipendenti delle linee aeree, funzionari dello stato, probabilmente anche funzionari di polizia, magistrati, ufficiali di finanza, amministratori di enti locali, sindaci, assessori. Tutti costoro stanno al livello che abbiamo detto della manovalanza criminale, ognuno pagato e ricattato per suo conto, all'interno di un gruppo che garantisce il dominio di un piccolo territorio o quartiere della citta'.
Solo alcuni di loro gestiscono la droga, ognuno pero' con piccoli compiti, avvolti, protetti, nascosti dal clan, ed ogni clan a sua volta con la funzione soltanto di garantire il territorio. Ogni tanto taluno di questi gruppo si scontra con un altro per il predominio su un territorio e allora accade l'ecatombe, trenta, quaranta assassinii finche' un gruppo viene sterminato e la supremazia criminale affermata. La strage terrificante fra i clan catanesi dei Santapaola e dei Ferlito, conclusa con l'assassinio di Alfio Ferlito, assieme ai tre carabinieri che lo accompagnavano nel trasferimento dal carcere di Enna a quello di Trapani, rappresenta una delle battaglie piu' feroci per aggiudicarsi la supremazia in una grande area metropolitana. Gli spettacolari assassinii di Stefano Bontade e Gaetano Inzerillo a Palermo, epilogo spettacolare di una catena di cinquanta omicidi, sono stati un altro momento di questa lotta che ha visto la sanguinosa vittoria del clan dei Greco e dei Marchese. Ma anche i vincenti, i padroni del clan, sono poco piu' di subappaltatori dell'immenso palinsesto mafioso: governano l'impresa criminale su una zona, conoscono alcune segrete strade della corruzione, sono ammessi in alcune anticamere del potere. La loro autentica forza e' la capacita' di uccidere, disporre di trenta, quaranta individui che sanno maneggiare tutte le armi piu' micidiali e all'occorrenza poter contare sulla loro devozione e infallibilita'. Capimastri, non di piu'! Governano la loro parte di cantiere ma non sono mai entrati nella stanza dei progetti.
Molto piu' in alto dei cosiddetti uccisori c'e' il livello dei pensatori, con la lontananza, il distacco di autorita' che puo' esserci tra una fanteria alla quale e' affidato soltanto il compito di conquistare, uccidere, presidiare, morire, e le stanze imperscrutabili dello Stato maggiore dove si elabora la grande strategia mafiosa. Scopo unico e massimo di questa strategia e' la riciclazione del denaro continuamente prodotto dall'operazione droga, cioe' la fase ultima e piu' delicata, quella appunto che esige una autentica capacita' tecnica e finanziaria. Si tratta infatti di centinaia e migliaia di miliardi che, per essere immessi nel mercato economico e diventare usufruibili, debbono passare attraverso una serie di operazioni legali che li assorbano e magicamente li riproducano come ricchezza. Ci vuole talento, ci vuole fantasia, competenza tecnica. Non a caso abbiamo parlato di un salto nella cultura mafiosa.
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Gli strumenti essenziali sono due: le banche e le grandi imprese economiche. Anzitutto le banche: ricevono il denaro, lo fanno proprio, lo celano, lo amministrano, conservano, proteggono, reimpiegano (cento miliardi provenienti dalla droga, alle cui spalle sono decine di persone miseramente morte o uccise, e migliaia di infelicita' umane, possono essere impiegati per la costruzione di un grattacielo, un ponte, una diga, un'autostrada). Le banche gestite e controllate dallo stato difficilmente potrebbero (ma non e' detto che non possano) poiche' c'e' sempre il rischio di un funzionario di vertice che indaga, spia, riferisce, protesta, accusa. Le banche private. Talune banche private ovviamente. Non a caso Sindona aveva la vocazione di creare banche, ne aveva l'estro, la fantasia. Il giorno in cui dovesse decidere di raccontare finalmente tutta la verita', molti imperi finanziari vacillerebbero. E in realta' Sindona, invecchiato, gracile, stanco, terrorizzato, preferisce starsene in un tiepido carcere americano. All'aria aperta, in liberta', non avrebbe certamente piu' di un giorno di vita!
Per decifrare perfettamente la tragedia mafiosa sarebbe interessante sapere appunto quante banche e quali banche con il suo vertiginoso talento, per cui riusciva a sconvolgere persino gli alti burocrati della Banca d'Italia, Michele Sindona, piccolo ragioniere di provincia, riusci' in meno di quindici anni a creare in tutta Italia e soprattutto in Sicilia. Banche che fiorivano, si moltiplicavano, esplodevano letteralmente nelle grandi citta' e nei centri di periferia dove per gestire gli affari economici, i micragnosi affari della piccola borghesia commerciale e agricola sarebbe stata gia' d'avanzo un'agenzia del Banco di Sicilia. Banche invece che spalancavano di colpo i battenti: "Eccomi qua, io sono la nuova banca! A disposizione!", tutto l'apparato gia' pronto, direttori, impiegati, casseforti, banchi di metallo, sistemi elettronici, computerizzazione, vetri antiproiettile, uscieri, gorilla con la divisa di sceriffo e la Smith Wesson, epiche cerimonie inaugurali con interventi di parlamentari, sottosegretari, ministri, questori, prefetti, "Taglia il nastro la gentile signora di sua eccellenza", fiori, applausi, banchetto, champagne, capitali gia' depositati nelle casseforti.
Quante di queste banche furono inventate da Sindona, con i capitali di Sindona e che Sindona riceveva da imperscrutabili fonti? Un incauto giudice milanese dette incarico a un famoso commercialista, l'avvocato Ambrosoli, di venire a Palermo per indagare, capire. Era un professionista principe ma molto ingenuo. Praticamente lo condannarono a morte. Prima ancora che potesse venire in Sicilia gli fecero la pelle. Da allora non ha tentato più nessuno.
In verita' c'era stato un primo lontanissimo botto che avrebbe dovuto far trasalire la nazione e invece parve soprattutto una cosa da ridere: quando un cocciuto magistrato palermitano scopri' che il senatore democristiano Verzotto, per anni segretario regionale del partito e presidente dell'Ente minerario siciliano aveva versato centinaia di milioni di fondi neri e diversi miliardi dello stesso ente minerario presso la filiale di una delle banche di Sindona e ne percepiva clandestinamente gli interessi. Che la vicenda avesse indotto piu' all'ironia che allo spavento, dipese probabilmente dalla sagoma del protagonista, il nominato senatore Verzotto. Alto, imponente, ridente, capelli grigi, taglio impeccabile del vestito, grande sigaro in bocca, cappotto di pelo di cammello svolazzante sulle spalle, sembrava anche visivamente il personaggio perfetto per una pochade politica piu' che per una tragedia mafiosa. Invece fin d'allora si sarebbe dovuto intuire da quali altre e ben piu' profonde oscurita' arrivavano i capitali per le banche di Sindona e dei suoi alleati, e come esse servissero soprattutto alla riciclazione di una massa enorme di denaro che non si sarebbe potuta altrimenti impiegare. Lo spiraglio aperto da un giudice coraggioso e tenace avrebbe dovuto spalancare la strada, invece esso venne precipitosamente sbarrato. Incredibilmente nemmeno ai vertici della banca di stato, che dovrebbe controllare tutto il movimento del denaro sul territorio nazionale, valutandone origini e destinazione, venne presa alcuna iniziativa sulle banche che stavano proliferando nel sud. Nemmeno il governo del tempo ed i ministri finanziari batterono ciglio. Tutti arretrarono di qualche passo per prendere le distanze, a spintoni e calci venne fatto avanzare il solo tuonitonante Verzotto, il quale infatti rimase solo alla ribalta, perche' l'opinione pubblica potesse farci in conclusione una bella risata di scherno.
Verzotto veniva dalla scuola di Enrico Mattei, il piu' sottile cervello politico italiano del dopoguerra, ma non gli rassomigliava in niente; quanto quello era ansimante, frettoloso, sciatto, ruvido ma geniale, tanto Verzotto era invece calmo, opimo, quasi regale, elegante, cortese e, probabilmente, anche un po' minchione. Per la magniloquenza del suo tratto era uno di quei personaggi capaci di procurare grandi catastrofi con perfetta noncuranza e senza probabilmente rendersene conto. Tuttavia dal suo esilio di Beirut, dove ebbe l'agilita' di scappare una settimana prima dell'ordine di cattura, disse una cosa significativa: "Come potete pensare che io vada a sporcarmi le mani per un semplice affare di poche centinaia di milioni di interessi, quando in una banca si possono manovrare invece interessi per centinaia di miliardi!". Tutti pensarono alla malinconica battuta di uno sconfitto. Del senatore Verzotto si sono perdute le tracce.
Anzitutto banche, dunque! Talune banche, naturalmente. Che noi non conosciamo e che pero' il potere politico e i vertici finanziari dello stato dovrebbero ben conoscere. Ma le banche possono ricevere il denaro nero, sotterrarlo nei propri forzieri, nasconderlo, mimetizzarlo, far perdere le tracce della sua provenienza, cioe' reinvestirlo e cosi' purificarlo, ma non possono certo condurre in proprio le operazioni tecniche di investimento. Qualcuno deve farlo. Accanto alle banche ecco dunque le grandi imprese industriali e commerciali che, opportunamente, saggiamente, prudentemente, garbatamente, silenziosamente amabilmente finanziate, possono riuscire ad impiegare quei capitali, trasformandoli in opere di sicuro valore economico. E non e' detto che non siano opere di mirabile importanza e perfezione civile: un moderno ospedale, un carcere modello, una citta'-giardino, un complesso sportivo, persino una nuova chiesa.
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E qui sul palcoscenico avanzano, quasi a passo di danza, i quattro cavalieri catanesi. Dopo quello che e' accaduto, vien facile perfino la citazione: "I quattro cavalieri dell'Apocalisse". L'Italia e' uno strano paese in cui si sperimentano bizzarre onorificenze, per le quali cavaliere del lavoro invece di essere un bracciante, anche analfabeta, che per trent'anni si e' spaccata la vita in una miniera tedesca pur di riuscire a costruirsi una casa a Palma di Montechiaro, e' invece un appaltatore che riesce a trovare fantasia e modo di moltiplicare la sua ricchezza. Tutto questo in un paese dove la gestione e la moltiplicazione della ricchezza, la grande fortuna economica o finanziaria, per struttura stessa della societa' politica, deve fatalmente passare attraverso un compromesso costante con il potere, con i partiti che sostanzialmente amministrano la nazione, con gli uomini politici o gli altissimi burocrati ai quali i partiti delegano praticamente tale funzione, lo spirito di nuove leggi e decreti, la scelta delle opere pubbliche, l'assegnazione degli appalti. Chi afferma il contrario e' candidamente fuori dal mondo oppure e' un amabile imbecille.
A questo punto della storia dunque avanzano sul palcoscenico i quattro cavalieri di Catania, loro avanti di un passo e dietro una piccola folla di aspiranti cavalieri di ogni provincia del Sud, affabulatori, consiglieri, soci in affari, subappaltatori. Chi sono i quattro cavalieri di Catania? E' una domanda importante ed anche spettacolare poiche' i quattro personaggi sembrano disegnati apposta per costituire spettacolo. Profondamente dissimili l'uno dall'altro, nell'aspetto fisico e nel carattere. Costanzo massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e improvvisamente collerico, Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente timido, Graci piccolino e indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore, vestono pero' tutti alla stessa maniera, almeno nelle apparizioni ufficiali, abito grigio o blu anni cinquanta, cravatta, polsini, di quella eleganza senza moda proprio dell'industriale self-made-man.
Tutti e quattro hanno imprese, aziende, interessi in tutte le direzioni, industrie, agricoltura, edilizia, costruzioni. Non si sa di loro chi sia il piu' ricco, a giudicare dalle tasse che paga sarebbe Rendo, ma altri dicono sia invece Costanzo, il piu' prepotente, l'unico che abbia osato pretendere e ottenere un gigantesco appalto a Palermo; altri ancora indicano Graci, proprietario di una banca che, per capitali, e' il terzo istituto della regione. La ricchezza di Finocchiaro non e' valutabile. Molti ancora si chiedono: ma chi e' questo Finocchiaro.
Costanzo costruisce di tutto. Case popolari, palazzi, villaggi turistici (la Perla Jonica, sulla costa di Catania, ha nel suo centro un palazzo dei congressi che non esiste nemmeno a Roma, i partecipanti al congresso nazionale dei magistrati in cui era appunto all'ordine del giorno la lotta contro la mafia, improvvisamente si accorsero di essere riuniti e di lavorare in uno dei templi del potere di Costanzo). Costanzo costruisce anche autostrade, ponti, gallerie, dighe; e possiede anche le industrie necessarie a produrre tutto quello che serve alle costruzioni: travature metalliche, macchine, tondini di ferro, precompressi in cemento, infissi in alluminio, tegole, attrezzature sanitarie. Un impero economico autonomo che non deve chiedere niente a nessuno. Poche aziende in Europa reggono il confronto per completezza di struttura. Ha un buon pacchetto di azioni in una delle piu' diffuse emittenti televisive private. E' anche presidente e maggiore azionista della Banca popolare.
Rendo ha interessi piu' diversificati, diremmo piu' moderni, almeno culturalmente la sua azienda sembra un gradino piu' in alto. Anche lui costruisce case, palazzi, ponti, autostrade, dighe, ma possiede anche aziende agricole modello che guardano con estrema attenzione agli sviluppi del mercato europeo e alle ultime innovazioni tecniche. Ha un suo piccolo fiore all'occhiello, una fondazione culturale che destina fondi alla ricerca scientifica a livello universitario. Quanto meno ha capito che i soldi non possono servire soltanto a produrre altri soldi. La sede della holding e' il ritratto stesso dell'azienda, una serie di palazzi di acciaio, alluminio e metallo, l'uno legato all'altro, sulla cima di una collina alle spalle di Catania, una immensa sagoma grigia e azzurra, come tre palazzi della RAI di via Mazzini, incastrati insieme, e circondati da un immenso giardino al quale si accede soltanto per un ingresso sorvegliato da uomini armati. Sembra il passaggio di un confine. Anche Rendo naturalmente ha la sua televisione privata con la quale garbatamente interviene nella informazione della pubblica opinione. Ricordiamoci che Andropov, l'uomo nuovo del Cremlino successore di Breznev, e' riuscito ad arrivare al vertice dell'impero sovietico poiche' mentre era a capo dei servizi segreti invento' l'ufficio della disinformazione, specializzato nel confondere la realta'. Si tratta di una scienza ammessa al massimo livello politico.
L'impero di Graci non ha sede. Cuore e cervello motore di tutte le iniziative e' probabilmente la Banca agricola etnea, di sua proprieta'. Per il resto Graci e' pressoche' invisibile. Amico di Gullotti e di Lauricella, vive gran parte del suo tempo a Roma, dove studia, coordina, dirige. Fra tutti e' quello che ha la piu' vasta copia di interessi, cantieri di costruzione in ogni parte dell'isola e dell'Italia, aziende agricole, villaggi turistici, immense estensioni di terra dappertutto. Negli ultimi tempi la sua predilezione sono i grandi alberghi di fama internazionale: il suo piu' recente acquisto l'hotel Timeo, sulla collina di Taormina, a ridosso del Teatro Greco, uno degli alberghi piu' belli del Mediterraneo, arredato in stile inglese primo novecento. Pare abbia acquistato dal duca di Misterbianco (sembra una storia del Gattopardo, raccontata cento anni dopo) il famoso lido dei Ciclopi, il piu' prezioso giardino equatoriale, ricco di piante esotiche che non hanno eguali in Europa e che per quarant'anni nessuno ha osato sottrarre alla sua destinazione balneare. Di tutti i cavalieri del lavoro Graci, che fino a qualche anno fa era sconosciuto a Catania, e il piu' riservato, raramente compare in prima persona. Possiede anche lui la maggioranza azionaria di un'emittente privata e di un giornale quotidiano, ma il suo nome non figura nei rispettivi consigli di amministrazione. Narrano anche della sua generosita'. Ogni tanto organizza per i suoi amici mitiche partite di caccia in uno dei suoi feudi siciliani! Possiede anche una favolosa cantina di vini pregiati ai quali sono ammessi soltanto gli amici di vertice.
Finocchiaro sembra il cavaliere meno forte. L'ultimo arrivato dei quattro al rango di massima potenza. Costruisce soltanto, e quasi sempre solo palazzi. Ha pero' una sua regola: efficiente, preciso, puntuale, rapido, i suoi appalti sono stati sempre terminati a tempo di record. In meno di due anni ha costruito il nuovo palazzo della Posta ferroviaria, un gigantesco edificio moderno sul lungomare di Catania, accanto alla stazione, e la nuova Pretura, altro massiccio edificio incastrato proprio nel cuore della citta', a cento metri dal palazzo di Giustizia. Poiche' la Pretura di Catania convoglia quotidianamente gli interessi di migliaia di persone, non appena il nuovo edificio entrera' in funzione, il traffico di tutta quella zona essenziale della vita cittadina restera' probabilmente paralizzato. Esempio di come possa essere nefanda un'opera pubblica pur perfettamente realizzata. Finocchiaro infine e' anche il piu' lezioso. La sede della sua impresa sorge sulla litoranea fra Catania e i Ciclopi, in uno dei tratti piu' splendidi della riviera, una grande villa, in verita' bellissima, sovrastata e circondata dal verde e da una serie di piscine intercomunicanti, sicche', una levissima massa d'acqua si muove ininterrottamente dalle terrazze ai patii. La gente passa, guarda e s'incanta.
Questi, almeno dal punto di vista dello spettacolo, i quattro cavalieri di Catania. Ma chi sono in verita'? Perseguiti dalla magistratura con mandati di cattura e ordini di comparizione, alcuni sospettati di gigantesche frodi fiscali e addirittura di associazione a delinquere, assediati dalla guardia di finanza che sta frugando in tutti i loro conti, rifiutati dalla pubblica opinione, soprattutto dai piu' poveri e sfortunati i quali non riescono mai ad amare le fortune troppo rapide e sprezzanti, ed al momento in cui le vedono crollare hanno un momento di trasalimento di felicita' e un grido: "Lo sapevo!", i quattro cavalieri sono nell'occhio del ciclone, in mezzo al quale sta immobile e sanguinoso l'assassinio del prefetto Dalla Chiesa, la piu' feroce e tragica sfida portata dalla mafia all'intera nazione.
Chi sono dunque i quattro cavalieri? Quale il loro ruolo in questo autentico tempo di apocalisse? Gia' il fatto che questi quattro personaggi si siano riuniti insieme per discutere e decidere il destino futuro dell'imprenditoria e quindi praticamente dell'economia di mezza Sicilia e stiano li' segretamente, due piu' due quattro, seduti l'uno in faccia all'altro, a valutare, soppesare, scartare, annettere, distribuire, in una sala che e' facile immaginare di gelido vetro e metallo, inaccessibile a tutti, nel cuore segreto dell'impero Rendo, con decine di uomini armati dislocati ad ogni ingresso del palazzo; e che al termine del convegno uno di loro, Costanzo, il piu' plateale, chiaramente tuttavia portavoce di tutti e infatti mai smentito, dichiari spavaldamente al massimo giornale italiano: "Abbiamo deciso di aggiudicarci tutte le operazioni e gli appalti piu' importanti, quelli per decine o centinaia di miliardi, lasciando agli altri solo i piccoli affari di due o tre miliardi, tanto perche' possano campare anche loro!"; e che tutti e quattro siano giudiziariamente accusati di evasioni per decine o forse centinaia di miliardi, tutto denaro pubblico, quindi appartenente anche al maestro elementare, al piccolo artigiano, al contadino, al manovale, all'impiegato di gruppo C, all'emigrante, poveri innumerevoli italiani che sputano sangue per sopravvivere e spesso maledettamente nemmeno ci riescono; e che taluni di loro siano stati amici del bancarottiere Michele Sindona, o del boss Santapaola, ricercato per l'omicidio di Dalla Chiesa, o del clan Ferlito il cui capo venne trucidato insieme a tre poveri carabinieri di scorta: ebbene tutto questo non corrisponde all'immagine, secondo costituzione, di cavalieri della repubblica.
Ma non e' questo il punto. Il quesito e' un altro, ben piu' duro e drammatico: i quattro cavalieri, o taluno di loro, e chi per loro, stanno in quel massimo e misterioso livello che fa la storia della mafia? A questa domanda si possono dare tre risposte secondo tre diverse prospettive: quello che appare, quello che la gente pensa, e quello che probabilmente e' vero. Quello che appare e' cio' che abbiamo descritto, cioe' di quattro potenti di colpo sospinti nel cuore di una tempesta politica, inquisiti fiscalmente e giudiziariamente per possibili e gravi delitti. Solo il magistrato potra' dire una verita' che puo' essere tutto e il contrario di tutto.
Quello che la gente pensa e' piu' brutale, e cioe' che i cavalieri di Catania, o taluno di loro, partecipano alla grande impresa mafiosa e furono loro a impartire l'ordine di uccidere Dalla Chiesa, appena il generale oso' chiedere allo stato gli strumenti legali per rovistare nei loro imperi economici. Ma quello che pensa la gente (e che anche tutti i grandi giornali, con perigliose acrobazie di linguaggio hanno dovuto riferire) non puo' avere alcun valore giuridico e nemmeno morale, poiche' puo' nascere da pensieri spesso mediocri, rancori sociali, invidie umane. Non ci sono prove e quindi fino ad oggi non esiste!
Infine quello che probabilmente e': cioe' di quattro personaggi i quali, con superiore astuzia, temerarieta', saggezza, intraprendenza, hanno saputo perfettamente capire i vuoti e i pieni della struttura sociale italiana del nostro tempo e della classe politica che la governa, ed essere piu' rapidi e decisi nel trarne i vantaggi. Enrico Mattei era maestro in questa arte. Anche Agnelli deve essere piu' rapido e deciso dei concorrenti. Il rapporto con la mafia e' stato agnostico: noi facciamo i nostri affari, voi fate i vostri! Noi vogliamo costruire strade, palazzi, ponti, dighe, essere proprietari di banche e aziende agricole, ottenere gli appalti delle opere pubbliche. Questo e' affar nostro. Voi volete gestire la droga! Affar vostro! E pretendete anche i subappalti per i lavori di scavo e trasporto! Che sia! Pero' non vogliamo bombe nei nostri cantieri, nemmeno estorsioni, nemmeno che i nostri figli, parenti, fratelli, amici, possano essere rapiti o sequestrati.
Se cosi' e', tutto questo non e' morale, ma non e' nemmeno reato! E purtroppo non e' nemmeno una vera risposta in un momento storico terribile in cui la tragedia mafiosa non abbisogna di ipotesi ma di verita' definitive, anche se agghiaccianti. Esiste infatti una realta' innegabile: perche' la mafia possa amministrare le sue migliaia di miliardi, debbono pur esserci imprese private ed istituti pubblici, uomini d'affari o di politica capaci di garantire l'impiego e la purificazione di quell'ininterrotto fiume di denaro. La nazione ha finalmente il diritto di identificarli! E la Sicilia il diritto di non essere data in olocausto alla incapacita' dello stato (o peggio) di identificarli. Esiste oltretutto una realta' che e' anche un fatto morale e politico di cui bisogna onestamente parlare. Da decenni, forse da secoli, la societa' siciliana non ha avuto una imprenditoria capace di esprimere le sue esigenze e metterle al passo con la tecnica e la civilta'. Venivano tutti da nord, prendevano il denaro e il territorio, costruivano e se ne andavano. Spesso costruivano male. Talvolta le loro opere erano autentiche rapine o devastazioni o truffe. Il saccheggio del golfo di Augusta e l'avvelenamento di centomila abitanti di quel territorio con gli scarichi petrolchimici costituirono una di queste grandi imprese. I giganteschi ruderi industriali nel golfo di Termini Imerese, stabilimenti che non hanno mai funzionato e che hanno divorato migliaia di miliardi della regione, rappresentano un'altra impresa. In tutto quello che e' stato costruito in Sicilia, i siciliani sono stati al piu' subappaltatori (se possibile anche mafiosi) o soltanto miserabile manodopera. Erano poveri, ignoranti, disponibili, costavano poco, non si ribellavano mai. I colossi petrolchimici della Rasiom furono costruiti con migliaia di pecorai e braccianti trasformati in manovali. La Sicilia e' stata sempre una terra tecnodipendente.
Improvvisamente, nell'ultimo ventennio, sono emersi questi cavalieri del lavoro (non soltanto questi quattro), rapaci, temerari, prepotenti, aggressivi, qualcuno anche grossolano e ignorante, pero' dotati di fantasia, di straordinarie capacita' industriali e tecniche, e di talento, precisione, velocita'. Hanno realizzato opere pubbliche a tempo di record, hanno creato aziende e tecnici di altissima specializzazione, incorporato in questa grande macchina di lavoro decine di migliaia di altri siciliani, e la loro intraprendenza si spinge oramai su tutto il territorio nazionale, in Europa, in Africa, nel Sud America. La loro concorrenza e' spietata. Molte grandi aziende del nord non solo hanno perduto il loro tradizionale feudo meridionale, ma si vedono insidiate nel loro stesso territorio. Bene, la tragedia mafiosa certamente ha offerto la possibilita' di una controffensiva su tutto il fronte, una specie di santa inquisizione. Il tentativo di stabilire un rapporto di colonizzazione e' chiaro.
Allora a questo punto il discorso e' gia' perfetto. Se tutti i cavalieri di Catania e di Sicilia, tutta l'imprenditoria dell'isola fa parte della struttura mafiosa, che la si sradichi e distrugga con tutti i mezzi della giustizia. Se solo alcuni di loro sono dentro la mafia, allora bisogna colpire soltanto loro, implacabilmente, eliminandoli dalla societa', e rilasciando cosi' agli altri, ai superstiti, una possibilita' politica e morale di continuare l'opera di evoluzione tecnica che per molti versi stava trasformando la Sicilia. Colpire tutti, anche gli innocenti, equivale a non colpire nessuno, lasciando quindi i mafiosi nel loro ruolo; significa egualmente il trionfo della mafia. La mafia che finalmente si identifica con lo stato! Ed e' qui che entra in gioco l'ultimo livello della struttura, l'imperscrutabile vertice che finora ha paralizzato la giustizia.
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Riguardiamola questa struttura. In basso la sterminata folla di manovali che si contendono il sottobosco del potere criminale, tutte le infinite cose dalle quali puo' nascere ricchezza: i mercati, le concessioni, i subappalti, le estorsioni, una moltitudine confusa e terribile che appesta e insanguina quasi tutte le funzioni della societa' sottomettendo le province, le citta', i quartieri. Piu' in alto, molto piu' in alto, i due livelli paralleli, i grandi, insospettabili finanzieri e operatori che gestiscono migliaia di miliardi della droga; le banche che ricevono, nascondono e riciclano quella massa infame e infinita di denaro; le grandi holding siciliane, romane, milanesi, che assorbono quel denaro e lo trasformano in ammirabili operazioni pubbliche e private. Manca l'ultimo livello, il piu' alto di tutti, senza il quale gli altri non avrebbero possibilita' di esistere. Il potere politico! Vi racconto una piccola atroce storia per capire quale possa essere la posizione del potere politico dentro una vicenda mafiosa, una storia vecchia di alcuni anni fa e che oggi non avrebbe senso e che tuttavia in un certo modo interpreta tutt'oggi il senso politico della mafia. Nel paese di Camporeale, provincia di Palermo, nel cuore della Sicilia, assediato da tutta la mafia della provincia palermitana c'e' un sindaco democristiano, un democristiano onesto, di nome Pasquale Almerico, il quale essendo anche segretario comunale della Dc, rifiuto' la tessera di iscrizione al partito ad un patriarca mafioso, chiamato Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, clienti, alleati e complici. Quattrocento persone. Quattrocento tessere. Sarebbe stato un trionfo politico del partito, in una zona fin allora feudo di liberali e monarchici, ma il sindaco Almerico sapeva che quei quattrocento nuovi tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza ed avrebbero saccheggiato il comune. Con un gesto di temeraria dignita' rifiuto' le tessere.
Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono allora domanda alla segreteria provinciale della Dc, retta in quel tempo dall'ancora giovanile Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di accogliere quelle quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco Almerico, che era medico di paese, un galantuomo che credeva nella Dc come ideale di governo politico, ed era infine anche un uomo con i coglioni, rispose ancora di no. Allora i postulanti gli fecero semplicemente sapere che se non avesse ceduto, lo avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico medico galantuomo, sempre convinto che la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiuto' ancora. La segreteria provinciale si incazzo', sospese dal partito il sindaco Almerico e concesse quelle quattrocento tessere. Il sindaco Pasquale Almerico comincio' a vivere in attesa della morte. Scrisse un memoriale, indirizzato alla segreteria provinciale e nazionale del partito denunciando quello che accadeva e indicando persino i nomi dei suoi probabili assassini. E continuo' a vivere nell'attesa della morte. Solo, abbandonato da tutti. Nessuno gli dette retta, lo ritennero un pazzo visionario che voleva solo continuare a comandare da solo la citta' emarginando forze politiche nuove e moderne. Talvolta lo accompagnavano per strada alcuni amici armati per proteggerlo. Poi anche gli amici scomparvero. Una sera di ottobre mentre Pasquale Almerico usciva dal municipio, si spensero tutte le luci di Camporeale e da tre punti opposti della piazza si comincio' a sparare contro quella povera ombra solitaria. Cinquantadue proiettili di mitra, due scariche di lupara. Il sindaco Pasquale Almerico venne divelto, sfigurato, ucciso e i mafiosi divennero i padroni di Camporeale. Pasquale Almerico, per anni, anche negli ambienti ufficiali del partito venne considerato un pazzo alla memoria.
E' una storia oramai lontana e dimenticata, nella quale erano in gioco soltanto quattrocento voti di preferenza: una piccola storia pero' perfetta come un teorema poiche' spiega come puo' il potere politico gestire la vicenda mafiosa e starci da protagonista. E come ancora oggi negli anni '80, al vertice di ogni livello di mafia stia immobile e inalterabile una parte del potere politico. Il potere politico che e' misterioso sempre e mai perfettamente identificabile, spesso nemmeno perseguibile dalla giustizia, che ha nelle mani tutti gli strumenti, positivi e negativi della potenza: dovrebbe proteggere ecologicamente un territorio e invece lo abbandona alla morte chimica o alla speculazione selvaggia; gia' da dieci anni avrebbe dovuto abolire il segreto bancario e non lo ha mai fatto; dovrebbe emarginare gli uomini corrotti, ignoranti, violenti e viceversa li conduce talvolta in parlamento e gli affida uffici ministeriali onnipotenti; dovrebbe garantire la regolarita' dei concorsi e invece assedia le commissioni di esame con raccomandazioni e violenze morali; dovrebbe costruire una diga in quella provincia e invece costruisce un villaggio turistico in un'altra; dovrebbe smantellare determinati uffici di procura e invece li abbandona nelle mani di giudici inerti, paurosi, o peggio. Il potere politico che nasconde, protegge, mimetizza, informa, contratta, archivia. Il potere politico che stabilisce la spesa di migliaia di miliardi per opere pubbliche, determina l'ubicazione e consistenza delle opere, ne affida gli appalti. Il presidente della regione Pier Santi Mattarella, anche lui democristiano onesto, venne ucciso perche' aveva deciso di spendere onestamente i mille miliardi della legge speciale per il risanamento di Palermo. Quasi certamente fra coloro che assistettero commossi ai funerali, espressero sincere condoglianze, e baciarono la mano alla vedova, c'erano i suoi assassini. Probabilmente gli stessi che avevano seguito dolorosamente i funerali del vice questore Boris Giuliano, del giudice istruttore Cesare Terranova, del procuratore della repubblica Gaetano Costa, del segretario comunista Pio La Torre. Tutti e quattro assassinati poiche' stavano gia' scoprendo i punti di sutura fra politica e mafia.
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Anche il generale Dalla Chiesa aveva capito. Era uno sbirro nel senso eccellente della parola. Non dimentichiamo che aveva presentato domanda di iscrizione alla P2. La domanda non era stata accettata poiche' Gelli aveva fiutato l'infido e cercato di prendere tempo. E lo stesso Dalla Chiesa ebbe poi a giustificarsi affermando di aver compiuto quella oscura mossa personale per scoprire alcune verita' politiche all'interno della loggia massonica segreta. Quanto potesse essere sincero lo seppe soltanto lui. Certo era un uomo che da tempo aveva intuito la connessione fra potere politico, ricchezza e violenza. La lunga e atroce lotta contro le BR gli aveva fornito preziosi elementi di prova, ed altri ne aveva acquisiti in centinaia di interrogatori. Si stava disegnando una sua mappa dell'occulto. Quando arrivo' a Palermo con la carica di superprefetto, i vertici criminali sapevano perfettamente di avere di fronte l'avversario piu' duro e cosciente. Rispetto agli altri che erano caduti prima di lui, egli aveva in piu' un prestigio mitico, ma soprattutto stava per avere in pugno gli strumenti giuridici, le armi decisive per condurre la lotta fino in fondo: quei superpoteri che incredibilmente (un giorno bisognera' pur riscriverla perfettamente questa storia) lo Stato continuava a negargli e che tuttavia alla fine avrebbe dovuto concedergli. Dalla Chiesa commise un solo errore. Di vanita'. In fondo egli restava un militare e quindi soprattutto un retore. Gli piaceva trasformare qualsiasi lotta in guerra aperta, con tutte le vanaglorie del combattimento: bandiere, tamburi, proclami, applausi, dimostrazioni di amore popolare. Tutto questo contro un avversario che era sempre sottoterra, un gelido, sinistro groviglio di serpenti che potevano essere dovunque, in ogni momento sotto i suoi piedi, che potevano sedere accanto a lui sul palco di una festa nazionale, stringergli la mano, fargli auguri e congratulazioni. Seguire poi tristemente il suo funerale, come poi certamente accadde. La guerra contro un tale nemico e' oscura e senza gloria, e infinitamente piu' terribile di ogni altra, non si puo' vincere in una serie infinita di scaramucce, poiche' i serpenti restano dovunque, muoiono e si moltiplicano, ma bisogna vincerla in una volta sola, una sola battaglia, preparata con paziente perfezione in ogni dettaglio. Invece il generale Dalla Chiesa faceva discorsi, rilasciava interviste, invocava, accusava, era l'unico personaggio italiano che poteva chiedere ed ottenere i poteri speciali, e quindi anche la facolta' di indagini nelle banche e nei patrimoni privati, e lo fece sapere a tutti: praticamente come se dicesse a tutti, gridasse: "So chi siete, da un momento all'altro vi strappero' la maschera! Fate presto a uccidermi o non avrete tempo!".
E come tutti i retori era anche ingenuo. Avrebbe dovuto preparare la battaglia, chiuso in un bunker, protetto da cento carabinieri e da ogni diavoleria elettronica, e invece viaggiava su una macchinetta con la giovane moglie accanto e solo un povero agente di scorta. Proprio questo poveraccio avrebbe dovuto rifiutarsi: "Generale, io cosi' con lei non viaggio!". Ma Dalla Chiesa era un mito! Infatti lo uccisero con una facilita' irrisoria, a colpo sicuro, (se e' vero quello che finora ha detto la magistratura) con due rozzi killer, proprio manovali della mafia fatti venire da un'altra provincia della Sicilia e addirittura dalla Calabria.
Dalla Chiesa mori', ma il suo colpo tremendo l'aveva gia' vibrato, forse proprio con la sua ingenua retorica, indicando con discorsi e proclami a tutta la nazione, clamorosamente, quello che tanti altri ministri, anche altissimi ufficiali e magistrati, sapevano e pero' non dicevano, cioe' dov'era il groviglio dei serpenti, e quali dunque i mezzi per portarli allo scoperto e schiacciarli.
 
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo"
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 30 del 24 marzo 2021
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