[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 13



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo"
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 13 del 7 marzo 2021
 
In questo numero:
1. Alcune e alcuni testimoni, studiose e studiosi della deportazione femminile nei lager nazisti
2. Adolfo Scotto di Luzio: Alberto Manzi
3. Alcune pubblicazioni di Richard Wright
 
1. MAESTRE. ALCUNE E ALCUNI TESTIMONI, STUDIOSE E STUDIOSI DELLA DEPORTAZIONE FEMMINILE NEI LAGER NAZISTI
[Dal sito www.deportati.it riprendiamo le notizie biografiche sugli autori del volume di AA. VV. (a cura di Lucio Monaco), La deportazione femminile nei lager nazisti, atti del convegno internazionale svoltosi a Torino il 20-21 ottobre 1994, editi da Consiglio regionale del Piemonte - Aned - Franco Angeli, Torino-Milano s.d. L'intero volume e' disponibile nel sito]
 
Lidia Beccaria Rolfi (Mondovi' 1925). Entrata nella Resistenza a diciotto anni, viene catturata in Val Varaita dalla Gnr nell'aprile del 1944. Imprigionata a Cuneo, Saluzzo, Torino, viene deportata a Ravensbrueck nel giugno dello stesso anno (matr. 44140); vi rimane fino all'evacuazione del campo. Insegnante, autrice di Le donne di Ravensbrueck. Testimonianze di deportate politiche italiane (con A.M. Bruzzone, Torino, Einaudi, 1978), svolge un'intensa attivita' per diffondere nelle scuole la conoscenza della deportazione.
Anna Bravo. Insegna presso il Dipartimento di Storia dell'Universita' di Torino. Si occupa di storia della Resistenza e di storia dei gruppi sociali non egemoni. Ha fatto parte del coordinamento per la formazione dell'Archivio della deportazione piemontese; nell'ambito di questa iniziativa ha pubblicato La vita offesa (Milano, Angeli, 1986, con D. Jalla); Una misura onesta (Milano, Angeli, 1994, con D. Jalla), e In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945 (con A.M. Bruzzone), Roma-Bari, Laterza, 1995.
Sonia Branca-Rosoff. Figlia di Genia Rosoff (1916-1967, resistente francese deportata a Ravensbrueck), e' professore di linguistica francese all'Universita' di Provenza (Aix-en-Provence). Si occupa di storia della lingua e delle idee linguistiche; oltre a numerosi articoli ha pubblicato La leçon de lecture. Textes de l'abbe' Batteux, Paris 1990, e L'Ecriture et les citoyens. Une analyse linguistique de l'ecriture des peu-lettres pendant la revolution française, Paris 1994 (con N. Schneider).
Anna Maria Bruzzone. Laureata in lettere, specializzata in psicologia, insegnante di materie letterarie nelle scuole medie superiori, ha pubblicato: La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiani piemontesi (con R. Farina), Milano, La Pietra, 1976; Le donne di Ravensbrueck. Testimonianze di deportate politiche italiane (con L. Beccaria Rolfi), Torino, Einaudi, 1978; Ci chiamavano matti. Voci da un ospedale psichiatrico, Torino, Einaudi, 1979; due antologie letterarie per le scuole (Milano, Mursia, 1985; Torino, Sei, 1990) e In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945 (con A. Bravo), Roma-Bari, Laterza, 1995.
Edith Bruck (Tiszabercel, Ungheria, 1932). Nata in un piccolo paese dell'Ungheria, alla frontiera con la Slovacchia da una famiglia ebraica, fu deportata con tutti gli abitanti del villaggio nel 1944, dapprima nel ghetto della cittadina di Satoraljaujhely, poi ad Auschwitz. Insieme alla sorella Eliz fu trasferita in una serie di campi: Kaufering, Landsberg, Dachau, Christianstadt, Bergen Belsen, dove rimase fino alla liberazione. Tornata in Ungheria, successivamente emigro' in Israele. Dal 1954 vive a Roma, dove lavora per il teatro e la televisione; ha scritto libri di poesie e numerosi romanzi (Chi ti ama cosi', Lettera alla madre, Nuda proprieta', ecc.).
Stanislawa Czajkovska Bafia (Ciechomin [Zamosc] 1924). Studentessa, fu arrestata nel 1941 perche' seguiva i corsi clandestini di istruzione superiore (proibiti dalle forze d'occupazione naziste) e faceva parte dell'organizzazione di resistenza. Torturata a piu' riprese sia a Zamosc sia nella prigione del Castello di Lublino, venne deportata a Ravensbrueck (matr. 7864). Sottoposta a sperimentazioni chirurgiche, fu liberata dai sovietici durante l'evacuazione dal campo. Vive a Varsavia.
Anna Cherchi Ferrari (Torino 1924). Di famiglia contadina e antifascista, catturata nel marzo 1944 nelle Langhe durante un rastrellamento (il fratello Giuseppe, anch'egli partigiano, verra' fucilato dai nazisti il 10 aprile 1944 a Vesime), e' imprigionata a Torino e successivamente deportata a Ravensbrueck in giugno (matr. 44145). Trasferita al sottocampo di Schoenefeld, viene liberata durante la marcia di evacuazione. Svolge da anni un'intensa attivita' per la conoscenza della deportazione nelle scuole piemontesi.
Marie-Jose' Chombart de Lauwe (Parigi 1923). Entrata nella Resistenza a 17 anni, in Bretagna (organizzazione "Georges France 31", evasioni e informazioni) viene arrestata nel maggio 1942 e, dopo un anno di prigionia in diverse localita', deportata a Ravensbrueck il 31 luglio 1943. Trasferita a Mauthausen nel marzo del 1945, viene liberata il 22 aprile (il padre, medico, muore a Buchenwald; la madre, anch'essa deportata a Ravensbrueck, muore qualche anno dopo il ritorno). Psicosociologa e direttrice onoraria di ricerca al Cnrs, e' co-presidente dell'Amicale francese di Ravensbrueck e membro del Comitato centrale della Lega dei diritti dell'uomo.
Monique Fender Nosley (Besançon, Francia, 1913). Allieva e poi assistente di Jacques Copeau (1879-1949, scrittore, attore e regista di fama europea), entra nella Resistenza nel 1942 e prende parte all'attivita' dell'organizzazione "Comete" per favorire l'evasione e l'espatrio dei prigionieri alleati. Arrestata nel novembre del 1943, viene deportata il 31 gennaio 1944 a Ravensbrueck (matr. 27498) dove rimane fino alla liberazione (aprile 1945). Nel dopoguerra e' stata tra i fondatori della Fndirp (Federazione deportati e internati resistenti e patrioti) ed ha organizzato mostre, convegni e incontri sulla deportazione a diversi livelli.
Giuliana Fiorentino Tedeschi (Milano 1914). Laureata in linguistica con Benvenuto Terracini, colpita dalle leggi razziali, nel marzo del 1944 viene arrestata e il 5 aprile 1944 deportata da Fossoli ad Auschwitz (76847) insieme alla suocera, Eleonora Levi Tedeschi (uccisa all'arrivo) e al marito, Giorgio Tedeschi (che morira' nel gennaio del 1945). Sopravvissuta all'evacuazione da Auschwitz, viene liberata dagli alleati a Lorenzkirch. Nel dopoguerra e' stata reintegrata nella sua attivita' di insegnante e ha pubblicato numerosi testi scolastici; sulla sua esperienza concentrazionaria ha scritto Questo povero corpo (Milano, Editrice Italiana, 1946) e C'e' un punto sulla terra...: una donna nel Lager di Birkenau, Firenze, Giuntina, 1988.
Miuccia Gigante. Architetto, segretaria generale dell'Aned, vive e lavora a Milano. Il padre, Vincenzo Gigante, esponente della Resistenza triestina, medaglia d'oro della Resistenza alla memoria, e' stato ucciso nel novembre del 1944 nel Lager della Risiera di San Sabba a Trieste.
Rose Guerin. Ha partecipato alla Resistenza dal 1940; deportata a Ravensbrueck nell'ottobre del 1942 come NN, fu poi trasferita a Mauthausen nel marzo del 1945. Presidente del Comitato intemazionale di Ravensbrueck, e' stata deputato dell'Assemblea nazionale francese dal 1945 al 1959.
Dominique Labbe' (1947). Specialista in analisi del discorso, insegna all'Istituto di Studi politici di Grenoble (Francia). Ha pubblicato, fra l'altro, Le discours communiste, Paris, 1977; François Mitterrand. Essai sur le discours, Grenoble, 1983; Le vocabulaire de François Mitterrand, Paris, 1990.
Giovanni Melodia (Messina 1915). Arrestato nel 1939 per attivita' antifascista, imprigionato a Civitavecchia, Roma e Sulmona, dopo il 25 luglio 1943 non viene liberato. Consegnato ai nazisti l'8 settembre e deportato a Dachau, il 13 ottobre 1943 e' immatricolato col n. 56675. Componente del comitato clandestino di resistenza, rappresentante degli italiani nel comitato internazionale dopo la liberazione del Lager, ha svolto nel dopoguerra un'intensa attivita' di diffusione delle conoscenze sulla deportazione {Donne e bambini nei Lager nazisti, Milano, Aned, 1960, con G. Bellak) anche attraverso la scrittura di memoria (Di la' da quel cancello, Milano, Mursia, 1988; Non dimenticare Dachau, Milano, Mursia, 1993).
Liana Millu (Pisa 1914). Di famiglia ebraica, insegnante e giornalista, viene colpita dalle leggi razziali del 1938 e si trasferisce a Genova; entrata nella Resistenza (formazione "Otto"), viene catturata dai fascisti italiani a Venezia e deportata ad Auschwitz (A 5384), dove rimane da maggio a ottobre 1944, quindi a Malkow. Liberata nei pressi di Ravensbrueck. Nel dopoguerra ha ripreso le attivita' di insegnante, pubblicista e scrittrice {Il fumo di Birkenau, 1947; I ponti di Schwerin, 1978; La camicia di Josepha, 1988).
Bianca Paganini Mori (La Spezia 1922). Studentessa universitaria, militante in "Giustizia e Liberta'" con tutta la sua famiglia, viene arrestata nel luglio del 1944 insieme alla madre, alla sorella e al fratello. Quest'ultimo, torturato in carcere, viene deportato a Flossenbuerg, dove morira' nel dicembre 1944; le tre donne vengono deportate a Bolzano e quindi a Ravensbrueck, dove la madre trovera' la morte, mente le sorelle verranno liberate dagli alleati durante la marcia di evacuazione. Sue interviste compaiono in L. Beccaria Rolfi - A.M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrueck, Torino, Einaudi, 1978, e in Dalla Liguria ai campi di sterminio, Genova, 1980.
Anise Postel Vinay (Parigi 1922). Laureata in lingua tedesca, partecipa alla lotta antinazista come collaboratrice dell'Intelligence Service. Arrestata nell'agosto 1942, imprigionata a Parigi per un anno, viene spostata in un campo della Wehrmacht a Romainville, presso Parigi, poi nuovamente imprigionata a Aix-la-Chapelle, quindi deportata a Ravensbrueck, il 31 ottobre 1943 come NN (seconda categoria); qui viene liberata dalla Croce rossa svedese il 23 aprile 1945. E' autrice di traduzioni, saggi e ricerche sulla deportazione; ha collaborato, per la parte riguardante Ravensbrueck, al libro di Kogon-Langbein-Rueckerl, Nationalsozialistische Massentoetungen durch Giftgas (Frankfurt a/M., Fischer, 1983; ripreso in G. Tillion, Ravensbrueck, Paris, Seuil, 1988, pp. 305-330).
Settimia Spizzichino (Roma 1921). Deportata ad Auschwitz nel convoglio del 18 ottobre 1943, formato in seguito alla razzia del 16 ottobre nel ghetto di Roma, e' stata una dei 17 superstiti, e l'unica superstite donna, su oltre 1000 deportati.
Maria Rapa Suklje. Studentessa universitaria a Ljubljana (Slovenia) all'epoca dell'invasione nazifascista, entra nel fronte antifascista di liberazione fin dal 1941. Arrestata nel giugno del 1944, viene deportata in ottobre a Ravensbrueck e nel sottocampo di Neustadt-Glewe (Mecklenburg), liberato il 2 maggio 1945. Nel dopoguerra ha svolto la professione di giornalista presso radio Ljubljana (ora Radio Slovenia). E' delegata per la Slovenia presso il Comitato internazionale di Ravensbrueck.
Irma Trksak (Vienna 1917). Insegnante, ha preso parte alla lotta antinazista a Vienna, in un gruppo di resistenza della minoranza ceca. Arrestata dalla Gestapo nel settembre 1941, dopo un anno di prigione e' stata deportata a Ravensbrueck rimanendovi fino alla liberazione (sottocampo di Uckermark).
Krystyna Usarek (Varsavia 1924). Studentessa, entrata nella Resistenza polacca a 17 anni, all'inizio del 1944 viene arrestata insieme alla sua famiglia dalla Gestapo, e successivamente deportata a Ravensbrueck insieme alla madre e alla zia; il padre fu deportato a Stutthof e uno zio a Mauthausen. Dopo la guerra, laureatasi in legge, ha lavorato come giornalista, scrivendo critiche e saggi, e come intervistatrice alla Radio polacca a partire dal 1958, ricevendo significativi riconoscimenti per questa sua attivita'.
Ilda Verri Melo (1931). Laureata in psicologia, e' autrice di La sindrome del sopravvissuto. Le conseguenze dell'internamento nei campi di concentramento nazisti, pref. di A. Devoto, Firenze, Fond. Ceramelli Papiani, 1991. Ha curato l'antologia della deportazione toscana La speranza tradita, Firenze, Pacini-Giunta Regionale Toscana, 1992. Fa parte di movimenti per la difesa delle minoranze; e' collaboratrice di "Psychologie Ethnique".
 
2. MAESTRI. ADOLFO SCOTTO DI LUZIO: ALBERTO MANZI
[Dal Dizionario biografico degli italiani (2016), nel sito www.treccani.it]
 
Alberto Manzi nacque a Roma il 3 novembre del 1924, figlio di Ettore, tramviere, e di Maria (Rina) Mazzei, casalinga. I genitori ebbero anche un'altra figlia, Elena. Iscrittosi all'istituto magistrale, allora gratuito per gli allievi maschi, nel 1942 consegui' anche il diploma all'istituto nautico. Questo duplice orientamento della sua formazione, al tempo stesso tecnico-scientifico e pedagogico, avrebbe segnato l'intero arco dell'attivita' di Alberto Manzi, contribuendo a definire la cifra originale della sua proposta educativa.
Degli anni giovanili restano alcune immagini che lo ritraggono attore filodrammatico impegnato nella messa in scena di drammi sulla tragedia della Russia post-rivoluzionaria, come Il grande sacrificio di Angelo Sala, "dramma in tre atti sulla persecuzione religiosa in Russia", come recitava il sottotitolo dell'opera, edita nel 1938.
Chiamato alle armi nella marina militare italiana, dove presto' servizio come sommergibilista, il primo giugno del 1945 ricevette il diploma d'onore in riconoscimento alla sua appartenenza al gruppo di combattimento Folgore "durante la Guerra di Liberazione contro la Germania". L'esercito, la bandiera, l'onore militare, una forte idealita' patriottica e civile, i valori che si ritrovano nelle poesie dei primi anni Quaranta, descrivono il profilo di un giovane che si appresta all'impegno pubblico nell'Italia democratica e repubblicana con un forte sentimento nazionale.
Nel 1944, intanto, era nata Alda, avuta dalla relazione con Ida Renzi, con cui avrebbe ufficializzato il matrimonio nel 1946 e che gli avrebbe dato altri tre figli, Massimo, Roberta e Flavia. Come il marito, Ida Renzi era una maestra e scriveva racconti per bambini. Con il componimento Vecchio Orso vinse nel 1952 il premio del Maestro, indetto dalla Radio italiana per la trasmissione "La radio per le scuole" (Raccomandata intestata Rai Radio Italiana del 23 giugno 1952 e indirizzata alla "signorina Renzi Ida", consultabile al seguente indirizzo:http://www.centroalbertomanzi.it/seupload/raccomandataradio.pdf).
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Primi passi da maestro e l'esordio come scrittore per l'infanzia
Finita la guerra e laureatosi in biologia, Alberto Manzi comincio' l'attivita' di maestro. Il suo primo incarico, nel 1946, fu presso l'istituto romano di rieducazione Aristide Gabelli. Vi resto' un anno, ma quell'esperienza era destinata a ricoprire una notevole importanza nella sua vicenda biografica e professionale. Poco piu' che ventenne, Manzi si trovo' allora a dover fronteggiare una 'classe' di 94 allievi, tra i nove e i diciassette anni e mezzo. Come avrebbe raccontato a Roberto Farne' in un'intervista del 1997, si guadagno' il diritto a fare scuola sfidando a pugni il capo del gruppo dei ragazzi (TV buona maestra, La lezione di Alberto Manzi). I risultati furono notevoli. Al Gabelli Manzi realizzo' un giornale mensile, La tradotta, il primo nel suo genere in un riformatorio, e dalla collaborazione con i giovani detenuti nacque la storia di Grogh da cui nel 1950 sarebbe venuto fuori il primo romanzo, Grogh appunto, storia di un castoro, pubblicato da Bompiani.
Il racconto di Manzi e l'esperienza che ne aveva fatto con i ragazzi del riformatorio romano attirarono l'attenzione del Movimento di collaborazione civica.
Il Movimento era stato fondato a Roma sul finire del 1945 da Giuliana Benzoni e si prefiggeva di educare i cittadini dell'Italia appena uscita dalla guerra ai costumi della democrazia. Vi collaboravano Ignazio Silone, l'educatore Cecrope Barilli, Giuseppe Dessi' ed Ebe Flamini (Zucconi, 2000, pp. 64-73). Si rivolgeva soprattutto agli studenti, medi e universitari, che impegnava in un'intensa attivita' di volontariato e di assistenza sociale.
Nel 1947 il Movimento aveva promosso il premio Collodi per un'opera di letteratura infantile, con l'obiettivo di rinnovare, dopo gli anni del fascismo, il quadro della produzione letteraria destinata ai giovani, liberandola tanto dal suo banale moralismo quanto dai moduli frusti della vecchia avventura salgariana. Grogh fu presentato al concorso e premiato come miglior libro da una giuria di cui facevano parte Antonio Baldini, Ignazio Silone, Corrado Alvaro e Cesare Zavattini.
Cominciava cosi', nel quadro di un intenso fermento civico di rinnovamento della pedagogia italiana del dopoguerra, la vicenda di Manzi come scrittore per l'infanzia.
Pochi anni piu' tardi sarebbe arrivato Orzowei, il libro certo di maggior successo dell'autore, premio Andersen nel 1956, riedito da Bompiani in quello stesso anno dopo essere uscito nel 1955 per Vallecchi e tradotto in 32 lingue.
Orzowei, "il trovatello", e' il nomignolo dispregiativo affibbiato a Isa, ragazzo bianco abbandonato che cresce in un villaggio di neri bantu in Sud Africa. Il suo sara' il destino di un uomo doppiamente escluso. Scacciato dal mondo che pure lo aveva accolto bambino perduto, ad Isa e' chiusa la via di un ritorno alla comunita' bianca. E' un "muso bianco", come ha notato a suo tempo Antonio Faeti, dopo che la letteratura per ragazzi aveva approntato un lungo catalogo di musi neri, musi gialli, musi rossi (A. Faeti, Gli amici ritrovati. Tra le righe dei grandi romanzi per ragazzi, Milano 2000, p. 210).
Soprattutto, Isa muore, ucciso in una guerra tribale. E' una scelta che ritorna nella narrativa di Manzi e che rivela molto della sua pedagogia difficile. Se non fosse cosi', ha spiegato a suo tempo l'autore, il lettore si sentirebbe autorizzato a rimuovere da "dentro di se'" il problema che Isa si e' posto e cosi', soddisfatto, non ci penserebbe piu': "No, il problema non e' risolto. Isa muore ammazzato nel tentativo di risolvere il problema, ma non ci riesce. Muore e passa il problema al lettore che, da questo malessere causato dal finale inaspettato, deve sentirsi pungolato a risolvere, perlomeno a tentare di risolvere, anche solo nel suo piccolo, il problema che Isa gli lascia: e' necessario che l'uomo torni – o cominci – a rispettare l'uomo. Questo il problema da risolvere" (Alberto Manzi. Storia di un maestro, a cura di F. Genitoni - E. Tuliozi, Modena 2009, p. 40). A meta' degli anni Settanta, il romanzo sarebbe stato trasformato da una produzione italo-tedesca in una serie televisiva, trasmessa dalla prima rete RAI in tredici puntate a partire dal 28 aprile del 1977.
Alla fine degli anni Quaranta, intanto, a Milano, dove si era recato per ritirare il premio Collodi, Alberto Manzi aveva conosciuto Domenico Volpi. Volpi era allora il nuovo direttore del Vittorioso, il settimanale per ragazzi fondato nel 1937, ma fin dal 1946 faceva parte dell'ufficio centrale del movimento Aspiranti a Roma. In quel biennio fatale per la storia della nuova democrazia italiana, il movimento rappresento' un aspetto molto significativo del rinnovato impegno politico della gioventu' cattolica intorno alla figura di Pio XII. Nel 1948, quell'impegno sarebbe culminato con il clamoroso raduno a Roma dei 'baschi verdi' e con il richiamo che esso portava con se' agli "arditi della fede" a radunarsi come "un esercito" intorno all'"altare" della Chiesa cattolica (Cfr. Preziosi, 2000, pp. 200-206).
Volpi volle Manzi come collaboratore del periodico, affidandogli la parte relativa alla divulgazione scientifico-naturalistica. Sul Vittorioso Manzi avrebbe scritto molto nel corso degli anni Cinquanta, in particolare per la rubrica "Occhi sul mondo" e le tante voci della "piccola enciclopedia".
La prima meta' degli anni Cinquanta rappresento', dunque, un momento di passaggio importante nella biografia di Manzi. Dopo l'esperienza romana nel riformatorio Aristide Gabelli, insegno' a Campagnano di Roma, mentre si preparava per la sua seconda laurea in pedagogia, specializzandosi successivamente in psicologia.
Fu questa l'occasione per entrare in contatto con Luigi Volpicelli (che lo volle suo assistente nel 1953) e, per suo tramite, con quel lavoro di riformulazione dei presupposti intellettuali della pedagogia italiana cominciato gia' negli anni Trenta nel quadro della critica fascista all'idealismo gentiliano. Si tratto' di un incontro decisivo e molto importante per valutare adeguatamente la posizione intellettuale dello stesso Manzi e della sua originale esperienza magistrale nell'evoluzione delle idee educative tra fascismo e post-fascismo. Nel tentativo di uscire dalla cornice 'liberale' e 'borghese' della teoria idealistica dell'educazione, Volpicelli, che pure era stato allievo di Gentile con il quale si era laureato nel 1927, aveva cominciato infatti gia' a partire dai primi anni Trenta un lavoro di ricerca che lo avrebbe portato lungo quel decennio a riconoscere l'importanza del modello sovietico di scolarizzazione di massa e, piu' in generale, la rilevanza politica e teorica del nesso tra costruzione di un ordine sociale di tipo nuovo e riforma della scuola (Parlato, 2000, pp. 183-184). Lavoro e politica erano, nella concezione di Volpicelli, i pilastri di un rinnovamento dell'istruzione che doveva assicurarne, finalmente, l'allineamento alle ambizioni totalitarie del fascismo. Su questa linea si sarebbe mossa la politica scolastica di Giuseppe Bottai, del quale Volpicelli fu uno dei principali ispiratori sul terreno pedagogico.
E' a questa influenza decisiva, allora, cui non erano estranee nemmeno le sollecitazioni provenienti dal pragmatismo americano a' la John Dewey, che bisogna ricondurre l'interesse, piu' volte rilevato, di Manzi per le nuove correnti attivistiche della teoria dell'educazione, e in particolare per l'opera dello studioso sovietico Lev Vygotskij.
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Come insegnare ai poveri
Sulla base di questo aggiornamento intellettuale, la generazione di giovani studiosi di pedagogia a cui apparteneva Alberto Manzi, e in generale i maestri formatisi tra gli anni Trenta e Quaranta che sarebbero entrati nei ruoli della pubblica istruzione finita la guerra, si metteva cosi' in contatto con quelle questioni molto speciali che una societa' arretrata, a forte base rurale contadina, poneva sul terreno della riforma scolastica ed educativa: il problema di come insegnare ai poveri.
Nei primi anni Cinquanta, tale complesso di questioni ricompariva nella spiccata sensibilita' che Manzi riservava ai problemi della scolarizzazione delle classi popolari, e in maniera specifica a quello che da sempre era il tema cruciale e irrisolto dell'impianto di un sistema scolastico moderno e di portata nazionale: la perifericita' del mondo rurale, la sua irraggiungibilita'.
Al problema delle scuole rurali, Manzi dedicava i suoi appunti: abbandonate nelle loro strutture materiali e nella qualita' degli insegnanti che venivano loro destinate, si legge in un quaderno di quegli anni, le scuole dei contadini mancavano al loro obiettivo minimo, insegnare a leggere e scrivere. Provate a far leggere gli alunni di una quinta rurale, osservava retoricamente Manzi. Fate scrivere per iscritto i loro pensieri (Che cosa va male nelle scuole rurali?, in Genitoni - Tuliozi, 2009, p. 34).
Il rapporto con Volpicelli, ad ogni modo, non valse a tenerlo all'Universita'. Nel 1954, Manzi lasciava la Scuola sperimentale del magistero di Roma.
Un evento sicuramente centrale di quegli anni, e come e' facile intuire tutt'altro che estraneo alla tematica popolare-contadina della pedagogia di Manzi, fu il viaggio in America latina. La duplice formazione, scientifica e pedagogica, fece valere qui la sua peculiarita'. Nell'estate del 1955, infatti, Manzi ricevette dall'universita' di Ginevra un incarico per ricerche scientifiche nella foresta amazzonica. Andato per studiare le formiche, vi avrebbe scoperto molto di piu'. Fu la rivelazione delle condizioni sociali del mondo rurale latinoamericano, tra Ande e Amazzonia, e l'inizio di un rapporto, non senza pericoli, che sarebbe durato per oltre vent'anni, fino al 1977. Da allora in poi, tutte le estati, Manzi si sarebbe recato ad insegnare 'agli indios' a leggere e a scrivere, prima da solo e poi accompagnato da un gruppo di studenti universitari. Il 'maestro' elaboro' un vero e proprio programma per la scolarizzazione dei contadini sudamericani e nella sua attivita' pote' contare sull'appoggio del pontificio ateneo salesiano. Di quell'esperienza restano quattro romanzi, La luna nelle baracche (Firenze 1974), El loco (Firenze 1979), E venne il sabato e Gugu', pubblicati postumi (Iesa, Monticiani (SI) 2005). Il tema italiano del popolo, nella sua specifica declinazione rurale contadina, di cui si sono viste le complesse ascendenze ideologiche, tra fascismo e post-fascismo, si offre ad Alberto Manzi come una perspicua chiave di lettura dell'esperienza in Sudamerica: di fronte alla brutale violenza della sfruttamento dei contadini e alle inquietudini teologiche che in quegli stessi anni attraversano il subcontinente latinoamericano, Manzi ritrova le ragioni di un'opzione a favore della 'periferia' che tanta parte ha nella costruzione della sua pedagogia e che lo colloca in uno spazio ideologico difficile da definire, all'interno del quale si ritroveranno, nel corso degli anni, spinte populiste, pedagogie degli oppressi, guevarismo e peronismo.
Maestro elementare nella scuola intitolata ai fratelli Bandiera a Roma, Manzi fu particolarmente attivo sul fronte della letteratura per ragazzi, sia come riduttore e traduttore di classici (Il libro della Giungla, L'isola del tesoro), sia come autore di libri di divulgazione scientifica.
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Il maestro in televisione
Tutta questa prima fase della sua attivita' educativa culmino' nel 1960 con la celebre trasmissione Non e' mai troppo tardi (1960-1968). Manzi aveva gia' avuto un'intensa collaborazione con la Radio italiana. Sfruttando l'esperienza del Gabelli, gia' nel 1950 aveva ideato, per la trasmissione Il vostro racconto, un romanzo da scrivere alla radio costruendolo, puntata dopo puntata, con i contributi narrativi dei giovani ascoltatori. Il racconto si intitolava Il tesoro di zi' Cesareo. Manzi ne aveva scritto il capitolo iniziale.
La trasmissione televisiva era un'idea di Nazzareno Padellaro, pedagogista cattolico e direttore, tra il 1939 e il 1943, della rivista Tempo di scuola, altro luogo di propaganda e di discussione del progetto politico pedagogico di Bottai (Raicich, 1996, p. 382). Nel dopoguerra Padellaro aveva recuperato la sua posizione di alto funzionario della scuola ricoperta durante il fascismo e ai tempi di Non e' mai troppo tardi era direttore generale del ministero della Pubblica istruzione.
La struttura del progetto prevedeva che la messa in onda della trasmissione fosse accompagnata e sostenuta sul territorio nazionale dalla costituzione di punti di ascolto televisivo, i cosiddetti PAT, oltre duemila. Un insegnante avrebbe seguito la trasmissione insieme al pubblico di allievi e poi svolto con loro l'attivita' didattica di consolidamento.
Non e' mai troppo tardi nacque nel quadro di un impegno all'epoca molto forte della televisione di Stato sul terreno dell'alfabetizzazione delle classi popolari e piu' in generale della divulgazione culturale. La trasmissione faceva parte dei programmi di Telescuola, i cui corsi erano iniziati nel 1958 con il sostegno del ministero della Pubblica istruzione e con l'obiettivo di consentire ai ragazzi che risiedevano in zone dove non era arrivata l'istruzione post-elementare di portare a compimento il ciclo dell'obbligo. Ma nel suo ambito andarono in onda, tra il 1960 e il 1964, anche le centinaia di puntate registrate dal pittore Enrico Accatino dedicate all'educazione artistica.
Ispiratrice di Telescuola e sua direttrice fu Maria Grazia Puglisi, una professoressa di storia e filosofia a Roma che aveva lavorato all'EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), come annunciatrice, fin dal 1940. Caposezione dei programmi culturali della RAI nel dopoguerra, dopo un viaggio di studi negli Stati Uniti, aveva ideato Teleclub (1953).
L'idea che stava alla base del programma (e che porto' ad individuare in Alberto Manzi il maestro cui affidare Non e' mai troppo tardi) era di superare la concezione della didattica televisiva come messa in scena, davanti ad un pubblico remoto, di una situazione del tipo insegnante piu' classe. L'obiettivo era: fare di quello stesso pubblico la propria classe. Di qui la necessita' di trovare un maestro in grado di tradurre questa intuizione in una didattica concepita in funzione delle esigenze e delle potenzialita' del mezzo e non semplicemente di usare la televisione al servizio della didattica scolastica (Farne', 2012).
Alberto Manzi fu capace di fornire questa soluzione e divenne la chiave dello straordinario successo della trasmissione. Messo di fronte alla telecamera, chiese ed ottenne dei fogli e un carboncino per disegnare di fronte agli spettatori lettere e parole. Lo stratagemma si rivelo' efficacissimo. Nel 1965, Non e' mai troppo tardi venne premiata a Tokyo, su indicazione dell'UNESCO, come una delle trasmissioni televisive piu' efficaci nella lotta contro l'analfabetismo e ancora nel 1987 il suo storico conduttore ricevette dal governo argentino l'invito a tenere un corso per i docenti universitari che avrebbero dovuto elaborare il Piano nazionale di alfabetizzazione. Due anni piu' tardi l'ONU riconobbe gli sforzi dell'Argentina e conferi' al paese un premio internazionale per il migliore programma di alfabetizzazione adottato in tutto il Sudamerica.
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Di nuovo tra i banchi
La scuola dove Alberto Manzi torno' alla fine della sua esperienza televisiva era la stessa dove gia' insegnava da anni e dove sarebbe rimasto fino al conseguimento della pensione, l'istituto Fratelli Bandiera di Roma. Il metodo di Manzi, su cui si e' molto insistito, la sua pedagogia anti-formalistica, quel suo muovere da casi concreti, da quello che i bambini portavano in classe, era profondamente radicato nella tradizione scolastica, piu' di quanto di solito si creda. Quando ad esempio Manzi racconta, nell'intervista a Roberto Farne', del bambino che gli chiede delle corde vocali, nota che il bambino, per il quale le corde vocali sono ventuno, tante quante le lettere dell'alfabeto italiano, porta con se' e combina due tipi di conoscenze, una appresa prima e fuori della scuola, il fatto appunto di possedere le corde vocali, e l'altra frutto di quel tipo particolare di sapere che e' il sapere appreso in classe, l'alfabeto. Nella sua spiegazione Manzi ritiene di dover partire da questo dato. Ora e' forse utile notare in proposito che in questo modo, il maestro elementare riassume le due questioni fondamentali dell'insegnamento cosi' come sono state codificate da una lunghissima tradizione che risale nientemeno che a Platone e Aristotele. L'idea cioe' che l'allievo non entra in classe con la testa vuota, pronta per essere riempita dal maestro, e che insegnare significa al tempo stesso trasmissione di contenuti e confutazione di false credenze. In ogni caso, da qualsiasi lato lo si voglia cogliere, l'insegnamento e' sempre commisurato alla capacita' di colui che lo riceve. E' in altri termini il principio, fissato nel XVII secolo, della ratio auditoris e che diventa la base della fondazione della scuola in senso moderno, in quanto cioe' scuola per tutti. La rilevanza di Alberto Manzi, nella tradizione scolastica repubblicana, sta allora nel testimoniare la profondita' di una cultura magistrale non ancora risolta sul piano di un empirismo frammentario e senza spessore.
Amatissimo dai suoi allievi e vivo nel ricordo degli ex alunni, Manzi fu anche un maestro molto insofferente nei confronti della crescente burocratizzazione della scuola italiana che a partire dalla seconda meta' degli anni Settanta subiva una nuova stretta.
Nel 1977, infatti, la legge n. 517 del 4 agosto impose ai maestri della scuola elementare la scheda di valutazione personale degli alunni. Il maestro era tenuto a compilare e a tenere aggiornato un documento in cui dovevano essere riportati, "con osservazioni sistematiche", i livelli di maturazione raggiunti dai bambini. Un anno dopo, il ministero precisava, con la circolare n. 243 del 21 ottobre 1978, che le osservazioni dei maestri non potevano ridursi al solo profitto scolastico, ma dovevano prendere in considerazione l'espressione dell'intera personalità dell'alunno in ogni sua manifestazione.
Alberto Manzi si rifiuto' di compilare le schede di valutazione e per due anni consecutivi, dal 1978 al 1980, non ottempero' alla richiesta del ministero. Deferito al Consiglio di disciplina del Provveditorato agli studi di Roma, fu sospeso per due mesi dall'incarico e vide dimezzato il suo stipendio.
Le polemiche suscitate dalla decisione del provveditore arrivarono fino all'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini al quale si indirizzarono i genitori degli alunni di Manzi in difesa dell'operato del maestro (Corriere della Sera, 23 maggio 1981, ora in Archivio del Centro Alberto Manzi).
Nelle motivazioni che Manzi oppose alla burocrazia ministeriale agivano, sicuramente, forti argomenti di derivazione attivistica ma piu' in generale una decisa resistenza alla riscrittura dell'identita' infantile sulla base degli assunti del progressismo pedagogico, con le sue richieste di uniformita' comportamentali e con la sua insistenza sull'integrazione comunitaria dell'individuo: "Non e' mio dovere – affermava nell'intervista al Corriere della Sera dopo i provvedimenti disciplinari a suo carico – parlare della vita del ragazzo, della sua partecipazione individuale alla vita della scuola [...] non e' mio dovere [...] dare un giudizio relativo al comportamento psicologico dell'alunno". Obbligato ad ottemperare alle richieste del ministero, Alberto Manzi oppose il suo laconico giudizio: in ogni caso, l'allievo fa quel che puo' e quel che non puo' non fa.
Da questo punto di vista, Alberto Manzi e' il tipico rappresentante di una generazione di maestri che si era formata nel quadro di una cultura pedagogica che affidava ancora alla scuola il compito principale di accompagnare lo sviluppo dell'autonoma personalita' intellettuale del bambino senza sopportare nessuna forma di riduzionismo cognitivo (A. Manzi, Verso una scuola di pensiero, in Tensione cognitiva. Un'antologia di scritti di Alberto Manzi sull'educazione scientifica, introduzione di R. Farne', Universita' di Bologna, Centro Alberto Manzi, s.d., pp. 8-13). In questo Alberto Manzi sarebbe rimasto fino alla fine fedele alla lezione appresa alla scuola di Luigi Volpicelli, che aveva declinato l'attivismo pedagogico sulla linea di una tradizione educativa italiana molto concreta e, soprattutto, sempre consapevole "dei bisogni del paese" (Volpicelli, 1961, pp. 78-83).
Messo a riposo a partire dal 1987, Manzi si trasferi' a Pitigliano in provincia di Grosseto con la seconda moglie, Sonia Boni. Aveva incontrato Sonia nel 1982 alla scuola elementare Fratelli Bandiera, dove la giovane collega prestava servizio come supplente. Dalla loro relazione sarebbe nata, il 20 settembre del 1988, Giulia.
Dopo aver fatto parte nel 1993 della Commissione della legge quadro in difesa dei minori, l'anno successivo Manzi accetto' la candidatura a sindaco del comune di Pitigliano offertagli dai Democratici di sinistra.
Si spense il 4 dicembre del 1997 all'eta' di 73 anni.
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Fonti e bibliografia
Le carte di Alberto Manzi, conservate presso l'archivio dell'omonimo centro, sono state donate dall'autore all'Universita' di Bologna. L'intervista a Roberto Farne', Tv buona maestra. La lezione di Alberto Manzi, per la regia di Luigi Zanolio, del 13 giugno 1997, a cura del Dipartimento di scienze dell'educazione dell'Universita' di Bologna, e' visibile al seguente indirizzo: www.youtube.com/watch?v=gKQ7GbworSw (15 gennaio 2016).
L. Volpicelli, Idea dell'attivismo, in G. Frontali - A. Marzi - L. Volpicelli, Il fanciullo (dai sei ai dodici anni), Torino 1961; M. Raicich, Di grammatica in retorica, Roma 1996; G. Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna 2000; A. Zucconi, Cinquant'anni nell'Utopia, il resto nell'aldila', Napoli 2000; Che cosa va male nelle scuole rurali?, in Alberto Manzi. Storia di un maestro (catal.), a cura di F. Genitoni - E. Tuliozi, Modena 2009, p. 34; R. Farne', Alberto Manzi, in il Mulino, 2012, 4, online al seguente indirizzo http: www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:2518 (15 gennaio 2016); E. Preziosi, Il Vittorioso. Storia di un settimanale per ragazzi. 1937-1966, Bologna 2012; G. Manzi, Il tempo non basta mai. Alberto Manzi, una vita tante vite, scritto in collaborazione con A. Falconi e F. Taddia, Torino 2014; sull'esperienza di Telescuola e sulla figura di Maria Grazia Puglisi cfr. della stessa Funzione sociale del mezzo televisivo. Un'esperienza: Telescuola, Quaderno del gruppo campano UCID, s.l. 1960.
 
3. SEGNALAZIONI. ALCUNE PUBBLICAZIONI DI RICHARD WRIGHT
 
- Richard Wright, Fame americana, Einaudi, Torino 1978, pp. IV + 162.
- Richard Wright, Ghetto negro, Rizzoli, Milano 1980, pp. 288.
- Richard Wright, Ho bruciato la notte, Mondadori,  Milano 1955, 1992, pp. 444.
- Richard Wright, I figli dello Zio Tom, Einaudi, Torino 1949, 1974, pp. 256.
- Richard Wright, Paura, Bompiani, Milano 1947.
- Richard Wright, Potenza nera, Mondadori, Milano 1957, pp. 400.
- Richard Wright, Ragazzo negro, Einaudi, Torino 1947, 1972, pp. 380.
- Richard Wright, Razza: umana, Il Saggiatore, Milano 1959, pp. 64.
- Richard Wright, Spagna pagana, Mondadori, Milano 1962, 1966, pp. 384.
 
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo"
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 13 del 7 marzo 2021
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