[Nonviolenza] Telegrammi. 4011



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4011 del 10 febbraio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
 
Sommario di questo numero:
1. Jean-Claude Carriere
2. Anna Bravo: La deportazione per motivi razzisti
3. Alcuni testi di Primo Levi
4. Segnalazioni librarie
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'
 
1. LUTTI. JEAN-CLAUDE CARRIERE
E' deceduto Jean-Claude Carriere, sceneggiatore e scrittore.
Con gratitudine lo ricordiamo.
 
2. MAESTRE. ANNA BRAVO: LA DEPORTAZIONE PER MOTIVI RAZZISTI
[Dal libro di Anna Bravo, Raccontare per la storia / Narratives for History, Einaudi, Torino 2014, riproponiamo il capitolo primo "La deportazione per motivi razzisti" nel solo testo italiano (pp. 7-27).
Anna Bravo, storica e docente universitaria, ha insegnato Storia sociale. Si e' occupata di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; ha fatto parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita', e' deceduta l'8 dicembre 2019 a Torino, la citta' dove era nata nel 1938. Tra le opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008; (con Federico Cereja), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, Torino 2011; La conta dei salvati, Laterza, Roma-Bari 2013; Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014.
Primo Levi e' nato a Torino nel 1919, e qui e' tragicamente scomparso nel 1987. Chimico, partigiano, deportato nel lager di Auschwitz, sopravvissuto, fu per il resto della sua vita uno dei piu' grandi testimoni della dignita' umana ed un costante ammonitore a non dimenticare l'orrore dei campi di sterminio. Le sue opere e la sua lezione costituiscono uno dei punti piu' alti dell'impegno civile in difesa dell'umanita'. Opere di Primo Levi: fondamentali sono Se questo e' un uomo, La tregua, Il sistema periodico, La ricerca delle radici, L'altrui mestiere, I sommersi e i salvati, tutti presso Einaudi; presso Garzanti sono state pubblicate le poesie di Ad ora incerta; sempre presso Einaudi nel 1997 e' apparso un volume di Conversazioni e interviste. Altri libri: Storie naturali, Vizio di forma, La chiave a stella, Lilit, Se non ora, quando?, tutti presso Einaudi; ed Il fabbricante di specchi, edito da "La Stampa". Ora l'intera opera di Primo Levi (e una vastissima selezione di pagine sparse) e' raccolta nei due volumi delle Opere, Einaudi, Torino 1997, a cura di Marco Belpoliti, cui si e' aggiunto un terzo volume, Opere complete III, Einaudi, Torino 2018, sempre a cura di Marco Belpoliti, che raccoglie conversazioni, interviste, dichiarazioni, bibliografia e indici. Tra le opere su Primo Levi: AA. VV., Primo Levi: il presente del passato, Angeli, Milano 1991; AA. VV., Primo Levi: la dignita' dell'uomo, Cittadella, Assisi 1994; Marco Belpoliti, Primo Levi, Bruno Mondadori, Milano 1998; Massimo Dini, Stefano Jesurum, Primo Levi: le opere e i giorni, Rizzoli, Milano 1992; Ernesto Ferrero (a cura di), Primo Levi: un'antologia della critica, Einaudi, Torino 1997; Ernesto Ferrero, Primo Levi. La vita, le opere, Einaudi, Torino 2007; Giuseppe Grassano, Primo Levi, La Nuova Italia, Firenze 1981; Gabriella Poli, Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta, Mursia, Milano 1992; Anna Bravo, Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014; Claudio Toscani, Come leggere "Se questo e' un uomo" di Primo Levi, Mursia, Milano 1990; Fiora Vincenti, Invito alla lettura di Primo Levi, Mursia, Milano 1976. Cfr. anche il sito del Centro Internazionale di Studi Primo Levi (www.primolevi.it)]
 
La confusione del dopoguerra
Oggi il termine deportazione richiama immediatamente Auschwitz, il luogo e la parola simbolo della persecuzione e dello sterminio degli ebrei. Non e' sempre stato cosi'. Nell'immediato dopoguerra e per anni e anni ancora, il deportato e' essenzialmente il politico - partigiano, militante antifascista. Per capire quel che Primo Levi ha offerto alla storia, bisogna partire da allora.
E' cosa nota che la consapevolezza del genocidio come fulcro dell'ideologia nazista e del sistema concentrazionario non e' stata tempestiva ne' generale. Lo mostrano varie ricerche sull'Italia e la Francia, a cominciare dal bellissimo (e colpevolmente non tradotto in italiano) Deportation et genocide (1) di Annette Wieviorka.
All'origine del ritardo ci sono motivi concreti. Di fronte all'afflusso caotico di persone in arrivo da Germania e Polonia, distinguere i reduci di Auschwitz e i deportati nei Lager dai militari prigionieri in Germania e dai lavoratori cosiddetti liberi era piu' complicato di quanto si possa pensare ora. E alla preminenza dei politici contribuiva un dato di fatto elementare: erano tornati piu' uomini da Buchenwald o Mauthausen e donne da Ravensbrueck di quanti non fossero tornati da Auschwitz, e il ruolo di campi-simbolo era ricaduto sui primi piu' che sul secondo (2). Fino a far identificare tutti i deportati come politici.
Premevano anche ragioni tattiche e ideologiche. Alcune generose: in quegli anni la dicotomia fascismo/antifascismo come spartiacque del passato e del presente e' cosi' totalizzante, cosi' "intoccabile", che distinguere un'esperienza da quello sfondo equivarrebbe in un certo senso a svalutarla; mentre dichiararla non politica significherebbe confinarla alla sfera privata, allora ritenuta storicamente irrilevante. Il rischio e' che una gerarchia delle cause dell'arresto scivoli in una gerarchia delle sofferenze.
Probabilmente a essere decisivo e' il calcolo politico. Per alcuni paesi, e' prioritario in questa fase costruire/ricostruire un'identita' nazionale che le scelte del tempo di guerra hanno leso o frantumato, e la deportazione puo' esserne un tassello in positivo o in negativo. Mettere al centro la persecuzione degli ebrei avrebbe imposto di fare i conti con la vergogna del passato - la Francia con Vichy, l'Italia con la primogenitura del fascismo, con la guerra, con la repubblica di Salo'; e tutti e due i paesi, con lo zelo antiebraico delle istituzioni e di una parte dei cittadini. Al contrario, ampliare il fronte di resistenza antifascista grazie all'inserimento di tutti i reduci non poteva che giovare all'immagine nazionale (e ai partiti che puntavano a infoltire i ranghi del fronte resistenziale di riferimento). E' la strada che si sceglie nell'immediato dopoguerra.
Lo sforzo di unificare i deportati in una sola categoria ha pero' un prezzo alto: la persecuzione degli ebrei rischia di essere ricondotta a una specificita' religiosa o "etnica" interna alla guerra nazista contro l'antifascismo e la resistenza, mentre si perde la distinzione fra deportazione e genocidio, come se il secondo fosse una fattispecie estrema della prima. Nel dibattito politico francese si arriva al punto che una disposizione di legge prevede la restituzione alle famiglie dei corpi delle vittime (3) - e quelli degli ebrei inceneriti a Auschwitz?
Da queste tensioni irrisolte prende origine in Francia una vera e propria contesa fra le diverse rappresentazioni della deportazione: quella politica, quella nazional-patriottica, quella delle comunita' ebraiche. In Italia la creazione precoce di un'associazione unica degli ex deportati riflette e propizia un dialogo politico imparagonabile allo scontro che in Francia contrappone le organizzazioni di simpatia gollista, dunque di orientamento conservatore, e quelle di filiazione comunista (4).
Resta il fatto che quando Levi scrive Se questo e' un uomo la voce degli ebrei e' ancora confusa fra quelle degli altri prigionieri. Se fra gli autori dei primi memoriali non mancano ebrei, e' soprattutto nella loro qualita' di politici che si rappresentano, aprendo le testimonianze con una storia di partigianato sfociata poi nel Lager - come molti dei loro compagni non ebrei, con cui condividono la robusta vocazione a un universalismo laico e progressista. E' un modello di racconto forte e suggestivo, che insiste sulla doppia identita' di partigiano e deportato - quasi che la seconda da sola sembrasse monca, o troppo debole in confronto alla prima.
In parte sara' proprio cosi'. Nelle rappresentazioni ufficiali e nell'immaginario diffuso, partigiano e' chi, dopo aver combattuto in montagna, ne e' sceso nei giorni della Liberazione, si e' scontrato con gli ultimi fascisti e tedeschi, ha sfilato in corteo nelle citta', incarnando anche visivamente l'irrompere del nuovo nelle istituzioni e nella quotidianita'. Altra cosa i deportati, meno "spettacolari", meno numerosi, arrivati per cosi' dire a festa ampiamente finita, portatori di significati senza uguali - e forse proprio per questo visti semplicemente come vittime di un orrore impreciso e lontano. Lo stesso Primo Levi rientra a Torino il 19 ottobre 1945, circa sei mesi dopo la Liberazione.
Anche nello schieramento antifascista e fra i partigiani si fatica a staccarsi da questa visione. Se nel dopoguerra tanti deportati evitano di raccontare, e' essenzialmente perche' il paese, concentrato sulle proprie vicissitudini e sulla ricostruzione, non presta ascolto; perche' temono l'incredulita'; perche' loro stessi cercano di dimenticare, o vogliono proteggere le famiglie dal trauma di sapere - e per qualsivoglia altro motivo.
Ma certo conta il protagonismo straripante fra quelli cui i deportati si sentono piu' vicini, i partigiani - il che non legittima pero' il luogo comune secondo cui i superstiti non avrebbero parlato e scritto, e dunque non avrebbero offerto materiali alla storia. Alcuni lo hanno fatto da subito; moltissimi, dopo aver atteso a lungo, hanno raccontato appena l'atmosfera gli e' apparsa favorevole. Se c'e' un soggetto collettivo che si e' sforzato di fornire informazioni per una ricostruzione complessiva, questi sono gli ex deportati. A adottare il silenzio sono stati piuttosto gli studiosi, che ne hanno fatto scivolare la responsabilita' da se stessi ai protagonisti, e dalla storiografia alla memoria.
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Levi, deportato ebreo
Dal modello narrativo "resistenziale" Primo Levi scarta nettamente. Minimizza la sua esperienza in montagna, mette in primo piano il suo essere ebreo. E' un fare parte a se' anche rispetto a compagni amati, anche a costo di pregiudicare uno sbocco editoriale di rilievo. Chissa' se Einaudi sarebbe stato piu' disponibile alla pubblicazione di fronte a un Se questo e' un uomo piu' partigiano, piu' militante, piu' epico, piu' "eroico" (5) - questi sono gli anni in cui il grande Giacomo Debenedetti scrive: "E se un giorno, a questi caduti, si vorra' dare una ricompensa al valore, non certo noi, gli ebrei sopravvissuti, la rifiuteremo; ma non si conino apposite medaglie, non si stampino speciali diplomi: siano le medaglie e i diplomi degli altri soldati". E rivendica quel titolo di soldato per il bambino "Chaim Blumenthal, di anni cinque, caduto a Leopoli, in mezzo alla sua famiglia, mentre, con le mani legate dietro la schiena, ancora difendeva, ancora testimoniava la causa della liberta'" (6).
Ma Levi sa di non essere un soldato, non desidera quel titolo - e forse non lo considera un blasone. Anche questa e' una rottura, e delle piu' interessanti. Sebbene nella resistenza e nello stato che ne nasce la spinta al rinnovamento tocchi aspetti politico-istituzionali decisivi, rimane ancora saldo, sul piano simbolico, uno dei fondamenti tradizionali della cittadinanza: il legame che subordina la sua pienezza alla prerogativa del portare le armi, facendo degli inermi per necessita' o per scelta - in primo luogo delle donne - figure minori, cittadini in seconda. E' il modello consegnato alla modernita' dalla rivoluzione francese e dalle sue leve di massa, paradigma maschile e guerriero del rapporto individuo/stato.
Lidia Beccaria Rolfi, sopravvissuta di Ravensbrueck, ricordera' in seguito l'atteggiamento di alcuni compagni, forse influenzati dall'equazione sovietica fra prigioniero e traditore, o dall'assimilazione prigioniero/disertore propagandata durante la Grande guerra (7): "quando tu tentavi di raccontare la tua avventura, tiravano sempre fuori l'atto eroico: '... pero' noi!'. I tedeschi li avevano ammazzati loro, i fascisti li avevano fatti fuori loro... e noi eravamo prigionieri" (8). Dove l'ironia prende di mira, insieme all'autocelebrazione, i valori celebrati: orgoglio militare, enfasi sulla morte, primato del combattente in armi.
Alla "scoperta" storiografica della Shoah ci si avvicina lungo gli anni Cinquanta grazie a pochi grandi libri e all'impegno di intellettuali, comunita' ebraiche, centri di ricerca. Finche', nel '61, si arriva alla svolta del processo a Adolf Eichmann, che con la sua enorme risonanza mediatica getta la verita' in faccia al mondo intero, facendo giustizia della tendenza a sorvolare sui crimini di una Germania passata da paese ex nemico a baluardo dell'Occidente. Al nuovo interesse contribuisce la violentissima querelle scoppiata intorno al resoconto delle udienze pubblicato da Hannah Arendt, e sulla sua definizione di Eichmann: non un essere demoniaco, ma un grigio burocrate senza coraggio e senza immaginazione. Gia' nell'aprile 1952, Levi aveva messo in guardia dal considerare "belve romantiche" quelli che erano "freddi dementi morali, cannibali in mezze maniche" (9). Senza sapere uno dell'altra, l'uomo che ha vissuto e la donna che ha ascoltato convergono nella lotta contro la visione ottocentesca del criminale/peccatore come angelo ribelle arrivato al mondo da profondita' abissali. Quelli del Novecento sono demoni mediocri (10): per fare un grande male non c'e' bisogno di essere grandi uomini.
Anche per l'Italia dei primi anni Sessanta il processo Eichmann e' cruciale, ma il cammino verso l'emersione storica della Shoah era gia' iniziato, con l'uscita per Einaudi, nel 1958, di Se questo e' un uomo, in una nuova edizione da allora ininterrottamente ristampata. L'anno dopo, a una mostra sulla deportazione organizzata a Torino dall'Associazione nazionale ex deportati, Levi viene assediato da giovani che gli chiedono di raccontare la sua storia - e' il metro del successo che il libro ha incontrato immediatamente.
Diversi anni prima dell'evento Eichmann, prima della traduzione italiana di La banalita' del male di Hannah Arendt, del Prezzo della vita di Bruno Bettelheim, del dramma L'istruttoria di Peter Weiss, del romanzo L'ultimo dei Giusti di Andre' Schwarz-Bart; prima delle polemiche scoppiate intorno a un altro testo teatrale, Il Vicario di Rolf Hochhuth (11), Levi mette a fuoco e divulga l'immagine del deportato ebreo, il colpevole di essere nato, l'ultimo degli ultimi nella gerarchia interna ai prigionieri, fratello dei politici, ma distinto da loro. Vale la pena ricordare che la stesura di Se questo e' un uomo e' del 1945-'46, anni in cui le stesse organizzazioni ebraiche erano inclini a rifiutare specificazioni e separazioni, in cui anche fra gli ebrei c'era bisogno di tempo per capire, tempo per vincere il timore che sottolineare la propria appartenenza riservasse altre insidie; tempo per esaurire, dopo lo stigma della diversita', il desiderio di comunanza con tutte le vittime, di uguaglianza con tutti i cittadini. Si potrebbe aggiungere, per il nostro paese, quella condizione di "prigionieri della speranza" in cui lo storico H. Stuart Hughes ha visto il tratto proprio degli ebrei italiani, cosi' vicini ai non ebrei da rischiare il rarefarsi dell'appartenenza, cosi' feriti dalla discriminazione da vivere divisi fra il bisogno del risarcimento e quello del silenzio (12).
Per Levi il percorso sembra diverso. Cosi' come non si accasa fra i suoi compagni politici, non si accasa neppure fra quanti si sentono prima cittadini italiani (francesi, tedeschi), poi ebrei. Perche' essere ebreo non e' piu' la "piccola anomalia allegra" che gli era sembrata nell'adolescenza (13), e' un numero tatuato sul braccio. Cosi' anche Hannah Arendt, cosmopolita, agnostica, costretta da Auschwitz a dichiararsi innanzitutto ebrea.
E' la prima delle lezioni di Levi alla storia.
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Lentezze della storiografia
Certo, la strada e' rimasta a lungo in salita. Nella primavera del 1960 si tiene a Torino un corso di lezioni su "Trent'anni di storia d'Italia", cosi' seguito, specie fra i giovani, che lo si deve spostare in un teatro, e neppure il teatro bastera'. Peccato che non una delle lezioni sia dedicata alla deportazione e allo sterminio. I ragazzi torinesi sono stati piu' lesti a capire di intellettuali, istituzioni, studiosi. In un altro ciclo, tenuto a Milano l'anno dopo, a introdurre per la prima volta in un corso di storia i campi di sterminio e' Piero Caleffi (14), dirigente del partito socialista e in precedenza membro del Partito d'azione, reduce da Mauthausen, non da Auschwitz.
Ma neppure la deportazione politica ha una buona sorte storiografica in quei decenni, e lo si avverte appieno confrontandola agli studi sulla resistenza, che a partire dagli anni Sessanta vedono crescere una mole di ricerche locali e nazionali, di riflessioni, convegni, programmi universitari.
La deportazione e' invece rimasta a lungo marginale - e la intendo qui nel suo insieme, sia quella politica o assimilata alla politica, sia quella per motivi razzisti - e l'incremento della ricerca negli anni Ottanta non ha sanato la disparita': a quarant'anni dalla guerra, una superstite di Ravensbrueck faceva notare che per la resistenza "sappiamo pietra su pietra tutti i posti dove si e' sparato un colpo di fucile, [ma] [...] non sappiamo ancora niente di completo sulla deportazione" (15).
Anche in altri paesi l'attenzione e' stata inferiore alle aspettative dei sopravvissuti. Ma da noi la sordita' sembra particolarmente forte. Oltre che le tesi "innocentiste" che minimizzano le responsabilita' italiane, pesano il lungo primato storiografico dei temi politico-istituzionali e, nell'immediato dopoguerra, una concezione accesamente "militante" del rapporto ricerca storica/lotta politica. Uno studioso della resistenza ed ex partigiano lo descrivera' cosi': "L'intellettuale impegnato [...] non poteva [...] fermarsi sulla deprecazione dell'orrore quale scaturiva dalla vicenda dei Lager, e sulla descrizione dello snaturamento dell'uomo dall'uomo. Negli anni della speranza, cultura e politica insieme dovevano [...] gettarsi su una vicenda, come la guerra partigiana, nella quale aveva campeggiato il prender parte con la ribellione non solo individuale ma collettiva, lo scegliere consapevolmente di costruire in attivo e in positivo l'embrione di una umanita' diversa" (16). E' una concezione su cui converge, salvo rare eccezioni, il ceto intellettuale vicino al partito comunista, che si avvia a diventare una centrale egemonica capace di competere con quella cattolica. Deportazione e sterminio sembrano poco utilizzabili come esempio/strumento per il presente.
Per piu' di un decennio la letteratura di testimonianza puo' contare esclusivamente su piccoli e piccolissimi editori, capaci di far prevalere l'impegno umano e politico sulla logica di mercato, ma troppo deboli per garantire ai testi una buona diffusione e una vita non effimera.
Non e' un caso, probabilmente, che l'interesse per la deportazione abbia cominciato a crescere lungo gli anni Ottanta, quando il predominio della storia politico-istituzionale sfuma, e la resistenza come oggetto storiografico privilegiato vive una crisi destinata a durare. La caduta del muro di Berlino crea e diffonde energie per uno sguardo piu' libero.
Fino ad allora, il compito di trasmettere l'esperienza della deportazione, sia degli ebrei sia politica, e' ricaduto quasi per intero sulla memoria, in particolare nella forma del racconto orale. Che sara' destinatario di uno degli insegnamenti centrali di Levi.
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Note
1. Annette Wieviorka, Deportation et genocide: entre la memoire et l'oubli, Plon, Paris 1992.
2. Pierre Vidal-Naquet, L'uso perverso della storia, in "Una citta'", II (giugno 1993), n. 2, pp. 10-11.
3. Al rapporto resistenza-deportazione e' dedicato l'intero capitolo "Les statuts des deportes", in A. Wieviorka, Deportation et genocide cit., pp. 141-58.
4. Non solo: in Italia l'enfasi patriottica e la retorica celebrativa sono piu' contenute, mentre il partito comunista ha aperture sconosciute al Pcf. Ma e' anche molto minore l'attenzione prestata alla deportazione e sono minimi i riconoscimenti materiali e simbolici attribuiti ai superstiti.
5. Einaudi nel '47 rifiuta il testo, che uscira' da De Silva nell'ottobre di quell'anno, grazie soprattutto a Franco Antonicelli, che per primo ne coglie il valore.
6. Giacomo Debenedetti, Otto ebrei [1944], in 16 ottobre 1943, Einaudi, Torino 2001, p. 79.
7. Questa costruzione propagandistica contribuisce a spiegare il totale abbandono in cui i prigionieri italiani vengono deliberatamente lasciati dai governi e dai capi militari, secondo i quali la morte di massa (piu' di 100.000 soldati prigionieri deceduti) e' il miglior deterrente alla diserzione e al passaggio al nemico e, nello stesso tempo, una efficace punizione per i presunti disertori. Cfr. Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra, Editori Riuniti, Roma 1993. La tenuta dello stereotipo e' tale che ancora nel 1941-'42 vengono richiesti "ai vari distretti militari, da parte dell'Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito, i fascicoli personali di tutti gli ufficiali di complemento o della milizia territoriale fatti prigionieri prima, durante e dopo Caporetto" (p. 360).
8. Testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi, in Anna Bravo e Daniele Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Angeli, Milano 1986, p. 383.
9. Primo Levi, La perversione razionale nei campi di sterminio, in "Resistenza", VI (aprile 1952), n. 4, p. 4. La scoperta di questo straordinario scritto si deve a Domenico Scarpa.
10. Demoni mediocri e' il titolo della seconda parte del libro di Simona Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Feltrinelli, Milano 2012.
11. Hannah Arendt, La banalita' del male: Eichmann a Gerusalemme [Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, 1963], Feltrinelli, Milano 1964; Bruno Bettelheim, Il prezzo della vita [The Informed Heart. Autonomy in a Mass Age, 1960], Adelphi, Milano 1965; Peter Weiss, L'istruttoria: oratorio in undici canti [Die Ermittlung. Oratorium in 11 Gesangen, 1965], Einaudi, Torino 1966; Andre' Schwarz-Bart, L'ultimo dei Giusti [Le Dernier des Justes, 1959], Feltrinelli, Milano 1960; Rolf Hochhuth, Il Vicario [Der Stellvertreter, 1963], Feltrinelli, Milano 1964.
12. Henry Stuart Hughes, Prigionieri della speranza [Prisoners of Hope. The Silver Age of the Italian Jews 1924-1974, 1983], il Mulino, Bologna 1983: in particolare il capitolo "Due prigionieri di nome Levi".
13. La definizione e' nel racconto "Zinco" del Sistema periodico; cfr. Primo Levi, Opere, a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 770. Il sistema periodico era apparso nel 1975.
14. Piero Caleffi, I campi di sterminio, in Fascismo e antifascismo (1918-1936). Lezioni e testimonianze, Feltrinelli, Milano 1962, vol. II, pp. 432-35.
15. Testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi cit., in A. Bravo e D. Jalla (a cura di), La vita offesa cit., p. 384.
16. Guido Quazza, Un problema: storiografia sulla deportazione e strutture della ricerca, in Federico Cereja e Brunello Mantelli (a cura di), La deportazione nei campi di sterminio nazisti. Studi e testimonianze, Angeli, Milano 1986, pp. 59-60.
 
3. MAESTRI. ALCUNI TESTI DI PRIMO LEVI
[Riproponiamo ancora una volta i seguenti testi]
 
Primo Levi: Shema'
[Da Primo Levi, Ad ora incerta (ma e' anche l'epigrafe che apre Se questo e' un uomo), ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 525]
 
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
 
Considerate se questo e' un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un si' o per un no.
Considerate se questa e' una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza piu' forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
 
Meditate che questo e' stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
 
10 gennaio 1946
 
*
 
Primo Levi: Alzarsi
[Da Primo Levi, Ad ora incerta (ma e' anche l'epigrafe che apre La tregua), ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 526]
 
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finche' suonava breve sommesso
Il comando dell'alba:
"Wstawac":
E si spezzava in petto il cuore.
 
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre e' sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E' tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
"Wstawac".
 
11 gennaio 1946
 
*
 
Primo Levi: Si immagini ora un uomo...
[Da Primo Levi, Se questo e' un uomo, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 21]
 
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sara' un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignita' e discernimento, poiche' accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potra' a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinita' umana; nel caso piu' fortunato, in base ad un puro giudizio di utilita'. Si comprendera' allora il duplice significato del termine "Campo di annientamento"...
 
*
 
Primo Levi: Che appunto perche'...
[Da Primo Levi, Se questo e' un uomo, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 35]
 
Che appunto perche' il Lager e' una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si puo' sopravvivere, e percio' si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere e' importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l'impalcatura, la forma della civilta'. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facolta' ci e' rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perche' e' l'ultima: la facolta' di negare il nostro consenso.
 
*
 
Primo Levi: Verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945
[Da Primo Levi, La tregua, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, pp. 205-206]
 
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla (...).
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi (...).
Non salutavano, non sorridevano, apparivano oppressi, oltre che da pieta', da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volonta' buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
 
*
 
Primo Levi: Hurbinek
[Da Primo Levi, La tregua, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 216]
 
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all'ultimo respiro, per conquistarsi l'entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senzanome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek mori' ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.
 
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Primo Levi: Approdo
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 542]
 
Felice l'uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro se' mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati;
E siede e beve all'osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l'uomo come una fiamma spenta,
Felice l'uomo come sabbia d'estuario,
Che ha deposto il carico e si e' tersa la fronte
E riposa al margine del cammino.
Non teme ne' spera ne' aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.
 
10 settembre 1964
 
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Primo Levi: La bambina di Pompei
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 549]
 
Poiche' l'angoscia di ciascuno e' la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si e' fatto nero.
Invano, perche' l'aria volta in veleno
E' filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta gia' del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si e' pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Cosi' tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l'orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d'Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta e' stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull'altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d'assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.
 
20 novembre 1978
 
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Primo Levi: Non ci sono demoni...
[Da Primo Levi, La ricerca delle radici, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 1519]
 
Non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci rassomigliano. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato, consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell'ossequio e del consenso, che e' senza ritorno.
 
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Primo Levi: Partigia
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 561]
 
Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
Quelli che restano hanno i capelli bianchi
E raccontano ai figli dei figli
Come, al tempo remoto delle certezze,
Hanno rotto l'assedio dei tedeschi
La' dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
Altri rosicchiano la pensione dell'Inps
O si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c'e' congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
Con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sara' duro,
Ci sara' duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci,
Diffidenti l'uno dell'altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
Perche' nell'alba non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno e' nemico di ognuno,
Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
La mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non e' mai finita.
 
23 luglio 1981
 
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Primo Levi: Il superstite
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 576]
 
a B. V.
 
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c'e'.
"Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno e' morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non e' mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni".
 
4 febbraio 1984
 
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Primo Levi: Contro il dolore
[Da Primo Levi, L'altrui mestiere, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 675]
 
E' difficile compito di ogni uomo diminuire per quanto puo' la tremenda mole di questa "sostanza" che inquina ogni vita, il dolore in tutte le sue forme; ed e' strano, ma bello, che a questo imperativo si giunga anche a partire da presupposti radicalmente diversi.
 
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Primo Levi: Canto dei morti invano
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 615]
 
Sedete e contrattate
A vostra voglia, vecchie volpi argentate.
Vi mureremo in un palazzo splendido
Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco
Purche' trattiate e contrattiate
Le vite dei vostri figli e le vostre.
Che tutta la sapienza del creato
Converga a benedire le vostre menti
E vi guidi nel labirinto.
Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,
L'esercito dei morti invano,
Noi della Marna e di Montecassino
Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:
E saranno con noi
I lebbrosi e i tracomatosi,
Gli scomparsi di Buenos Aires,
I morti di Cambogia e i morituri d'Etiopia,
I patteggiati di Praga,
Gli esangui di Calcutta,
Gl'innocenti straziati a Bologna.
Guai a voi se uscirete discordi:
Sarete stretti dal nostro abbraccio.
Siamo invincibili perche' siamo i vinti.
Invulnerabili perche' gia' spenti:
Noi ridiamo dei vostri missili.
Sedete e contrattate
Finche' la lingua vi si secchi:
Se dureranno il danno e la vergogna
Vi annegheremo nella nostra putredine.
 
14 gennaio 1985
 
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Primo Levi: Agli amici
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 623]
 
Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purche' fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
 
Dico per voi, compagni d'un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L'anima, l'animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo
Prima che s'indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l'impronta
Dell'amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
 
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l'augurio sommesso
Che l'autunno sia lungo e mite.
 
16 dicembre 1985
 
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Primo Levi: La vergogna del mondo
[Da Primo Levi, I sommersi e i salvati, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, pp. 1157-1158]
 
E c'e' un'altra vergogna piu' vasta, la vergogna del mondo. E' stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che "nessun uomo e' un'isola", e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c'e' chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, cosi' da non vederla e non sentirsene toccato: cosi' hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, nell'illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li alleviasse dalla loro quota di complicita' o di connivenza. Ma a noi lo schermo dell'ignoranza voluta, il "partial shelter" di T. S. Eliot, e' stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato e presente, ci circondava, ed il suo livello e' salito di anno in anno fino quasi a sommergerci. Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, perche' era tutto intorno, in ogni direzione fino all'orizzonte. Non ci era possibile, ne' abbiamo voluto, essere isole; i giusti fra noi, non piu' ne' meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perche' sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai piu'; avrebbe dimostrato che l'uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore e' la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.
 
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Primo Levi: Il nocciolo di quanto abbiamo da dire
[Da Primo Levi, I sommersi e i salvati, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, pp. 1149-1150]
 
L'esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti e' estranea alle nuove generazioni dell'Occidente, e sempre piu' estranea si va facendo a mano a mano che passano gli anni (...).
Per noi, parlare con i giovani e' sempre piu' difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perche' inaspettato, non previsto da nessuno. E' avvenuto contro ogni previsione; e' avvenuto in Europa; incredibilmente, e' avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler e' stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. E' avvenuto, quindi puo' accadere di nuovo: questo e' il nocciolo di quanto abbiamo da dire.
 
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Primo Levi: Al visitatore
[Da Primo Levi, testo pubblicato per l'inaugurazione del Memorial in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio nazisti, ora in Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, pp. 1335-1336]
 
La storia della Deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo, non puo' essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: dai primi incendi delle Camere del Lavoro nell'Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania del 1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto. E' vecchia sapienza, e gia' cosi' aveva ammonito Heine, ebreo e tedesco: chi brucia libri finisce col bruciare uomini, la violenza e' un seme che non si estingue.
E' triste ma doveroso rammentarlo, agli altri ed a noi stessi: il primo esperimento europeo di soffocazione del movimento operaio e di sabotaggio della democrazia e' nato in Italia. E' il fascismo, scatenato dalla crisi del primo dopoguerra, dal mito della "vittoria mutilata", ed alimentato da antiche miserie e colpe; e dal fascismo nasce un delirio che si estendera', il culto dell'uomo provvidenziale, l'entusiasmo organizzato ed imposto, ogni decisione affidata all'arbitrio di un solo.
Ma non tutti gli italiani sono stati fascisti: lo testimoniamo noi, gli italiani che siamo morti qui. Accanto al fascismo, altro filo mai interrotto, e' nato in Italia, prima che altrove, l'antifascismo. Insieme con noi testimoniano tutti coloro che contro il fascismo hanno combattuto e che a causa del fascismo hanno sofferto, i martiri operai di Torino del 1923, i carcerati, i confinati, gli esuli, ed i nostri fratelli di tutte le fedi politiche che sono morti per resistere al fascismo restaurato dall'invasore nazionalsocialista.
E testimoniano insieme a noi altri italiani ancora, quelli che sono caduti su tutti i fronti della II Guerra Mondiale, combattendo malvolentieri e disperatamente contro un nemico che non era il loro nemico, ed accorgendosi troppo tardi dell'inganno. Sono anche loro vittime del fascismo: vittime inconsapevoli.
Noi non siamo stati inconsapevoli. Alcuni fra noi erano partigiani; combattenti politici; sono stati catturati e deportati negli ultimi mesi di guerra, e sono morti qui, mentre il Terzo Reich crollava, straziati dal pensiero della liberazione cosi' vicina.
La maggior parte fra noi erano ebrei: ebrei provenienti da tutte le citta' italiane, ed anche ebrei stranieri, polacchi, ungheresi, jugoslavi, cechi, tedeschi, che nell'Italia fascista, costretta all'antisemitismo dalle leggi di Mussolini, avevano incontrato la benevolenza e la civile ospitalita' del popolo italiano. Erano ricchi e poveri, uomini e donne, sani e malati.
C'erano bambini fra noi, molti, e c'erano vecchi alle soglie della morte, ma tutti siamo stati caricati come merci sui vagoni, e la nostra sorte, la sorte di chi varcava i cancelli di Auschwitz, e' stata la stessa per tutti. Non era mai successo, neppure nei secoli piu' oscuri, che si sterminassero esseri umani a milioni, come insetti dannosi: che si mandassero a morte i bambini e i moribondi. Noi, figli di cristiani ed ebrei (ma non amiamo queste distinzioni) di un paese che e' stato civile, e che civile e' ritornato dopo la notte del fascismo, qui lo testimoniamo.
In questo luogo, dove noi innocenti siamo stati uccisi, si e' toccato il fondo delle barbarie. Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa che il frutto orrendo dell'odio, di cui hai visto qui le tracce, non dia nuovo seme, ne' domani ne' mai.
 
4. SEGNALAZIONI LIBRARIE
 
Letture
- Mario Porro, Primo Levi, Il Mulino, Bologna 2017, pp. 192, euro 16.
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Maestre
- Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 2005, pp. LXII + 1858.
- Sylvia Plath, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2013, pp. LXIV + 886.
 
5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
 
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
 
6. PER SAPERNE DI PIU'
 
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
 
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4011 del 10 febbraio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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Nuova informativa sulla privacy
Alla luce delle nuove normative europee in materia di trattamento di elaborazione dei  dati personali e' nostro desiderio informare tutti i lettori del notiziario "La nonviolenza e' in cammino" che e' possibile consultare la nuova informativa sulla privacy: https://www.peacelink.it/peacelink/informativa-privacy-nonviolenza
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