[Nonviolenza] Telegrammi. 3931



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3931 del 22 novembre 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Anna Bravo: Guerre evitate, esplose, contrastate (parte seconda e conclusiva)
2. Segnalazioni librarie
3. La "Carta" del Movimento Nonviolento
4. Per saperne di piu'

1. MAESTRE. ANNA BRAVO: GUERRE EVITATE, ESPLOSE, CONTRASTATE (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Dal libro di Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, Roma-Bari 2013, riportiamo il capitolo secondo "Guerre evitate, esplose, contrastate" (pp. 18-52).
Anna Bravo, storica e docente universitaria, ha insegnato Storia sociale. Si e' occupata di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; ha fatto parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita', e' deceduta l'8 dicembre 2019 a Torino, la citta' dove era nata nel 1938. Tra le opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008; (con Federico Cereja), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, Torino 2011; La conta dei salvati, Laterza, Roma-Bari 2013; Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014]

La corsa agli armamenti
Praticamente tutti gli storici indicano alle radici della guerra le rivalita' economiche e la controversia anglo-tedesca per la supremazia navale, la volonta' dei militari, le campagne di stampa violente, le tensioni innescate dai nazionalismi radicali, tanto nemici e tanto simili: il critico teatrale George Jean Nathan aveva scoperto che una piece di gran successo a Broadway, scritta da un "osservatore neutrale" e costruita sulla dicotomia classica buoni-cattivi, era rappresentata identica, a ruoli capovolti, nei teatri del nemico (38).
Per alcuni, su tutti i fattori in gioco spicca la corsa agli armamenti, accelerata dopo la crisi marocchina dell'11 (39). Non si trattava solo di quantita', anche se l'organico di tutti gli eserciti viene enormemente gonfiato. E' competizione tecnologica. Le corazzate veloci messe a punto in Gran Bretagna accentuano la rincorsa tedesca. La Francia ha sviluppato un cannone da 75 millimetri a tiro rapido. Nel 1913 la Russia sta continuando il suo piano di riarmo complessivo, con l'aumento dei pezzi di artiglieria e nuove linee ferroviarie per il trasporto di truppe. Dalla fine del 1911 in Germania e Austria-Ungheria c'e' un boom delle spese militari, che crescono anche in Italia e ancora di piu' negli Stati balcanici.
Alle origini del fenomeno non c'e' un progetto di guerra, c'e' una logica di tutela degli "interessi vitali" e di autodifesa - il leitmotiv della deterrenza non nasce nel secondo dopoguerra. Concepito come mezzo per creare una superiorita' capace di strappare concessioni agli altri paesi o di consentire il rifiuto di richieste sgradite, il potenziamento militare e' il fulcro di una strategia del rischio calcolato, che dovrebbe raggiungere i suoi obiettivi senza neppure aprire le ostilita'.
Ma se interesse vitale e' un'espressione ambigua, lo e' ancora di piu' il concetto di autodifesa. Nel luglio 1914 tutte le grandi potenze sostengono di essere sul punto di iniziare una guerra difensiva, il tema dell'unione sacra contro la barbarie crea un clima da crociata. E' frutto, anche, di questa pressione il crollo della II Internazionale, che riporta i partiti socialisti (eccetto il russo e il serbo e in parte l'italiano) negli alvei nazionali, mentre i governi si premurano di tacitare o perseguire la componente che si oppone alla linea "patriottica".
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L'autonomia della violenza
Il punto e' che la corsa agli armamenti funziona come un piano inclinato: l'aumento degli arsenali bellici in un paese provoca un aumento in altri, il che spinge il primo a rafforzarsi ulteriormente. I politici che avevano gestito con successo l'uso o il potenziale uso della forza militare ormai sono dominati dalla paura di restare permanentemente indietro.
Questo inseguimento non e' un effetto perverso: e' la conseguenza prevedibile del principio "si vis pacem para bellum", che Bertha von Suttner, esponente del pacifismo giuridico e premio Nobel per la pace nel 1905, definiva "un residuato antico-romano", e che al luminoso buon senso del deputato britannico Wilfred Lawson sembrava ridicolo come dire a un ubriaco "se vuoi essere sobrio, vivi in un pub". Nella proposta di accordo internazionale per limitare gli armamenti, il ministro degli Esteri russo Murav'ev aveva scritto che "piu' aumentano gli armamenti di una grande potenza, sempre meno viene soddisfatto lo scopo che il governo si era proposto con quell'aumento" (40).
Eppure la rincorsa continua, anche se, contrariamente a un luogo comune diffuso, non tutti i politici e i militari ritenevano che la guerra si sarebbe risolta in una rapida serie di battaglie; anche se alcuni osservatori gia' a fine Ottocento avevano previsto la sua infinita portata distruttiva (41). Mentre alla conferenza sugli armamenti si ottiene un accordo soltanto sulla richiesta di rallentarne il ritmo di produzione, l'uso di termini come pace armata e deterrenza si intensifica, la diplomazia ad alto rischio sostenuta dalla forza militare sembra un'opzione piu' accettabile; si apre lo spazio per il concetto di "finestra di opportunita'", o, per usare le parole di diversi generali, del "prima e', meglio e'" - per la Germania, vuol dire prima che la Russia completi la preparazione alla guerra. Come per un singolo possedere un'arma e' una tentazione, cosi' la disponibilita' di arsenali enormi lo era per gli Stati: "C'e' un limite - scrivera' Charles Seymour a proposito delle tensioni balcaniche - alla capacita' dei governi di resistere alla tentazione di una guerra" (42).
Le scelte politiche sono decisive, ma non da sole. Nel 1914 il piano inclinato della rincorsa agli armamenti e la tecnologia della violenza avevano sviluppato una dinamica propria, trasformandosi da questione politica a problema sistemico - in altre parole, l'Europa era ormai avvolta in una rete militarizzata che i leader non erano in grado di controllare. "Fu cosi' - scrivera' Lloyd George nelle sue memorie - che i grandi armamenti provocarono la guerra" (43). In altre parole, e' cosi' che si creano le premesse per l'eterogenesi dei fini.
In gran parte e' vero. Ma neppure la corsa agli armamenti puo' essere vista come la causa della guerra. Fra il '45 e l'89, la competizione nucleare fra Usa e Urss non e' sfociata in un uno scontro diretto, e secondo alcuni a impedirlo ha concorso la consapevolezza che avrebbe innescato meccanismi incontrollabili. La responsabilita' dei governanti nello scoppio della grande guerra sta appunto nella presunzione di padroneggiare quella dinamica - quasi che la violenza sia semplicemente un mezzo da usare se necessario, anziche' una potenza capace di cambiare chi la subisce e chi la pratica. Nel 1918, nessuno ammettera' questo reato di superbia.
Strano che la tesi della guerra evitabile sia ritenuta consolatoria, mentre mostra che si finisce in guerra anche senza volerlo, basta smettere di cercare la pace. Strano che sia a volte etichettata (44) come un futile esempio di storia fatta con i "se": descrivere gli errori e i passi falsi che si potevano evitare per evitare una catastrofe e' un lavoro fra i piu' interessanti (45) - almeno finche' le guerre rimangono un fulcro delle interpretazioni storiografiche.
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Due villaggi dei Balcani
Nella grande guerra, in quelle balcaniche (e non solo), si incontrano esempi di fraternita', senso dell'onore, autonomia di pensiero - taciuti per decenni e messi in luce a partire dagli anni Sessanta - che alcuni autori considerano sopravvalutati, semileggende cui solo gli ingenui danno ancora credito.
Molto dipende dalle domande che ci si pone. Chiedere ai comportamenti dei soldati della grande guerra nientemeno che di metterle fine, come fa Niall Ferguson, e' un criterio estremista, e stupisce in un sostenitore del conflitto evitabile: se si valorizzano gli elementi anche minori che contribuiscono a sventarlo, perche' non fare lo stesso per quelli che aiutano a limitare la distruttivita' dopo che e' scoppiato?
Secondo tutti i resoconti, le guerre balcaniche sono un precipizio di spietatezza reciproca, in cui la norma era irrompere nei villaggi del "nemico", saccheggiarli e incendiarli, stuprare donne e bambine, torturare, uccidere.
I delegati della commissione internazionale creata dalla Carnegie Endowment for International Peace (46) lavorano per mesi, raccogliendo una casistica impressionante di crimini su militari, civili, prigionieri di guerra (47), perpetrati sia dagli eserciti e da bande armate, sia dalle comunita' etniche le une contro le altre.
Nessuno e' esente. Non gli uomini della Lega balcanica, che lasciano dietro di se' cadaveri, rovine, e in qualche caso battesimi forzati a opera di preti ortodossi chiamati appositamente. Non gli ottomani, che, salvo le conversioni, fanno lo stesso. L'alternarsi degli eserciti sul territorio da' spazio alle peggiori ritorsioni, in una pratica di "pulizia etnica" che spingera' molti a emigrare.
Ma ci sono due villaggi bulgari, uno a maggioranza cristiana, Derviche-Tepe, l'altro a maggioranza turco-musulmana, Khodjatli, dove le cose vanno diversamente. Durante la prima guerra, mentre l'esercito bulgaro avanza, sessanta turchi chiedono protezione ai loro vicini cristiani. La ottengono, e al passaggio delle truppe restano indisturbati. Fra loro, un mercante di caffe' che racconta ai delegati il seguito: "quando sono tornati i turchi, avevano l'ordine di non toccare il villaggio: ai contadini hanno detto: 'Non abbiate paura, voi che avete salvato la nostra gente, abbiamo una lettera da Costantinopoli dove e' scritto di lasciarvi in pace'" (48). Evidentemente quei contadini turchi avevano fatto arrivare la notizia alla capitale.
Non si sa se ci siano stati altri fatti simili: la commissione indaga sui crimini compiuti, non su quelli evitati. Non si sa granche' neppure dell'episodio, che compare in poche righe nel Rapporto conclusivo. Forse la propaganda di odio etno-religioso non era arrivata a Derviche-Tepe, forse gli abitanti avevano deciso che i loro vicini erano esseri umani come loro, con lo stesso diritto di vivere nei luoghi dove erano nati. Certo dovevano sapere che dagli altri villaggi poteva partire una delazione con l'accusa, gravissima, di connivenza con il nemico; lo stesso rischio che corrono i turchi quando sono loro a farsi protettori. Vecchio meccanismo destinato a ripetersi: in Ruanda, gli hutu che nascondevano tutsi dovevano agire in segreto (49), come in tutte le guerre civili, dove i moderati e i dialoganti sono le prime vittime degli estremisti del loro gruppo di appartenenza.
La storia di Derviche-Tepe e di Khodjatli non compare in nessun libro sulle guerre balcaniche, ne' nei grandi archivi on line, che rimandano invariabilmente all'Inchiesta Carnegie. Peccato. Ma oggi azioni come queste hanno un nome: comportamenti di pace in tempo di guerra, o diplomazia di base - a conferma che i principi della nonviolenza hanno raggiunto una parte almeno degli osservatori.
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Perche' si combatte?
Il fronte occidentale e' il simbolo della guerra di trincea, la tripla serie di cunicoli distribuiti su una linea che va dal Mare del Nord fino alle Alpi, e che tra il '15 e il '18 non si spostera' mai di piu' di 15 chilometri.
Nel chiuso delle trincee i soldati fanno una vita da topi o da talpe, ne escono per essere buttati all'attacco e di notte per tagliare reticolati nemici, riparare i propri, trasportare materiali; muoiono per caso, "senza aver visto e capito niente" (50). Ma non sempre e non ininterrottamente.
Sull'esperienza della guerra sul fronte occidentale esistono opere splendide, fondate su atti di processi, resoconti ufficiali, lettere conservate negli archivi della censura militare, documentari, letteratura dell'epoca. E su scritti dei combattenti, una "emorragia di espressione" (51) che per la prima volta in Occidente coinvolge contadini e operai, facendo giustizia di molta retorica eroicista. Se fra gli ufficiali e i corpi di elite puo' vigere una concezione paracavalleresca dell'onore e del valore, per molti proletari la guerra e' un nuovo insieme di mansioni sfiancanti, sporche e mortalmente pericolose comandate da un caposquadra in divisa (52). La differenza di classe si sente e scava un abisso fra il militare di leva e il volontario, che al primo sembra un giocatore d'azzardo, un irresponsabile, un vizioso da deridere e perseguitare (53). Ma dopo qualche mese di trincea anche per molti giovani di classe media l'immagine della patria tracolla.
Perche' allora si continua a combattere? Secondo l'epigono di Freud Niall Ferguson, gli uomini lo fanno perche' lo vogliono, perche' hanno scoperto che uccidere e' facile, liberatorio, inebriante (54): e' la vecchia tesi della guerra come liberazione dai "lacci" della civilta' o come apprendistato per "veri uomini", che stranamente sorvola sul primato della tecnologia e sul nuovo, rigido sistema di vincoli in cui i soldati si trovano immersi.
E' vero che solo nel '17-'18 si arriva alle diserzioni e rese di massa (milioni di russi e austro-ungarici, 340.000 tedeschi, 300.000 italiani (55)) grazie alle quali i combattimenti evaporano per mancanza di combattenti. Ma fino a quell'anno, neppure nel cosiddetto fronte interno si arriva a vere e proprie sollevazioni e a critiche esplicite di figure eminenti. Sono del '17 la rivoluzione di febbraio e quella di ottobre, che fanno sperare nell'avvento di un'era di giustizia; la nota di Benedetto XV in cui si definisce la guerra una inutile strage; l'intervento americano, che rende familiari le proposte di Wilson per un mondo pacificabile in virtu' di un nuovo assetto internazionale. Vuol dire che fino al 1917 la guerra era popolare? Inferire dall'assenza di rese di massa la volonta' di combattere equivale ad attribuire alle donne maltrattate che esitano a denunciare il marito la volonta' di continuare a farsi maltrattare.
Se la volutta' del sangue puo' contagiare, se il gigantismo della macchina bellica puo' generare una stupefatta complicita', secondo moltissime testimonianze si combatte per altri motivi: amore per il proprio paese, fiducia in un comandante, senso del dovere, spirito di vendetta, fatalismo. Ma innanzitutto per costrizione e per mancanza di alternative. La fuga, la diserzione, la ribellione individuale agli ordini, l'ammutinamento - per lo piu' contro la prospettiva di tornare in prima linea o di andare all'assalto (56) - portano alla corte marziale. Le fucilazioni sul posto per disobbedienza o "codardia" non sono fatti isolati, i tribunali militari lavorano su vasta scala. Puo' succedere che gendarmi e ufficiali sparino sui propri soldati per costringerli a uscire dalle trincee. Darsi prigionieri e' doppiamente pericoloso: si puo' essere uccisi dai catturatori, per vendicare un compagno, a volte soltanto per non dividere con i nuovi venuti le razioni gia' insufficienti (57); si puo', se si e' soldati semplici (58), dover lavorare duramente con viveri ridotti al minimo. Si puo' morire di fame e malattie da fame (59).
Ma nei comportamenti gioca anche una spinta morale che per un'infinita' di combattenti non guarda alla politica, a un dio, a un sovrano, alla patria - fra le lettere censurate, si trovano espressioni come "state pur certi che io non muoio per questa schifa di Italia" (60), o "Fa venire il voltastomaco essere francesi. [...] I veri criminali non sono qui, sotto tiro. [...] La legge li difende" (61).
L'impegno morale ha per destinatari i compagni: si continua a combattere anche quando ne diventa lampante l'insensatezza, cioe' spesso, per fedelta' ai piu' vicini, per non lasciarli soli, se possibile per salvarli. Non solo in questa guerra: delle otto medaglie ottenute da un reparto di marines nel 1944, sei riguardavano uomini che si erano buttati a coprire le granate con il proprio corpo per fare scudo agli altri (62).
Piuttosto che da solidarieta' precedenti o da sentimenti umanitari, il legame nasce dal mondo stesso delle trincee, dove si soffre e si rischia insieme, e nella vita in comune uomini molto diversi finiscono per assomigliarsi.
E sperimentano qualcosa di importante: per un singolare paradosso, e' il soldato, non l'uomo di pace, a imparare per primo a farsi carico del suo simile, sostituendo alla "virtu' eroica" del combattimento quella che Todorov definisce virtu' quotidiana della cura (63). Significa misurarsi con l'arte di ascoltare e di parlare, di palesare uno stato d'animo o di nasconderlo se si sa che puo' ferire o scoraggiare - "medicine del cuore somministrate in dosi premurose" (64). Significa badare al corpo dell'altro - non piu' il corpo in boccio il cui fascino omoerotico affiora in tanta letteratura (65), ma lo scempio che spesso ne resta - da pulire, medicare, tenere vicino negli ultimi istanti, superando paura o disgusto: in trincea si vive e si muore fra sangue, escrementi, pus, stracci luridi (66) - e magari accanto a una pentola bucata (67). La guerra e' forse l'unica occasione in cui giovani maschi praticano - fra pari - un lavoro di cura simile a quello riservato a figure professionali come medici, infermieri, educatori, psicologi (68). E, da sempre, assegnato alle donne. Un soldato francese aveva detto di aver vissuto in trincea i suoi momenti piu' teneri (69) - e per questo potenzialmente forieri di smisurato rancore verso chi minaccia o falcidia il gruppo.
Interpretare questa "manutenzione della vita" in chiave di cameratismo o spirito di corpo (che pure esistono e contano) rischia di nascondere il loro potenziale antibellicista (70). Che diventa indiscutibile quando si comincia a riconoscere come simile il nemico, "uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi" (71).
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Prove di nonviolenza
Se hanno scoperto il piacere della violenza, i soldati hanno scoperto anche quanto sia mortifera la teoria degli stati maggiori, secondo cui la vittoria premiera' chi sarà riuscito a eliminare il maggior numero di nemici al minor costo per le finanze statali (72). La verita' del fronte e' un'altra: se non si vuole morire, e' consigliabile non uccidere - il che implica combattere il meno possibile, e se si e' costretti, inventare un modo, vari modi di contenere la distruttivita'. In guerra il dilemma del prigioniero si configura cosi': se io sparo e lui no, lui muore; se lui spara e io no, moriro' io; se spariamo tutti e due, tutti e due moriremo; se nessuno spara, tutti e due vivremo.
L'esempio piu' noto della quarta alternativa e' la tregua del primo Natale di guerra. Nel 1914 la proposta di un cessate il fuoco generale avanzata dal papa e da gruppi di suffragiste viene respinta da vari paesi. Ma in alcuni settori del fronte occidentale quel giorno vede una calma assoluta; e' il frutto di una serie di tregue decise da soldati inglesi e tedeschi, iniziate con gli scambi di auguri da una trincea all'altra, culminate nell'incontro sulla terra di nessuno per scambiarsi sigarette e piccoli doni, e proseguite in qualche caso fino all'anno nuovo. Grande momento di fraternita', la tregua di Natale commuove e strappa ammirazione; non e' strano che sia diventata una leggenda, arricchita di elementi a volte piu' suggestivi che comprovati (73).
Non ci saranno piu' eventi di questa portata, sia per le reazioni dei comandi britannico e tedesco, sia perche' i massacri del '15-'16 possono riattivare l'ostilita' reciproca - con il tempo, altri soldati guarderanno alle tregue di Natale con una certa sprezzante ironia (74).
Ma prima e dopo quella tregua non c'e' il vuoto, c'e' un tessuto a macchia di leopardo di accordi taciti, diversi per durata e obiettivi, all'insegna del principio: "vivi e lascia vivere" declinato in tutte le lingue, e dello "scambiarsi la pace" anziche' la guerra. Prove di nonviolenza, si potrebbero definire, figlie del pragmatismo, e della paura e del coraggio, che anticipano e calano nella realta' uno slogan pacifista dei nostri anni: tra uccidere e morire c'e' un'altra scelta, vivere.
Ci sono tregue ad hoc, circoscritte ad alcuni momenti della giornata, come quelle per il cibo. Racconta un sottufficiale inglese che quando un gruppo della prima linea usciva per andare a prendere il rancio, dalla parte opposta nessuno sparava, e lo stesso succedeva quando a uscire erano i tedeschi. E' una delle forme piu' durature del vivere e lasciar vivere. "Dopo tutto, se impedisci al nemico di prendere le sue razioni, il suo rimedio e' semplice: ti impedir" di prendere le tue".
Ci sono le tregue del cattivo tempo. Se grandi piogge si abbattono sulle trincee, i soldati ne escono restando in piena vista gli uni degli altri. Nessuno ha voglia di sparare. In un caso almeno, vanno a prendere dallo stesso mucchio la paglia per ripararsi e tenersi caldi.
Ci sono le tregue umanitarie, a volte improvvisate, come quando un battaglione britannico della XVI divisione e' invitato dai tedeschi a raccogliere i feriti rimasti nella terra di nessuno, e prima che gli ufficiali delle due parti riescano a intervenire, l'accordo e' fatto, e si estende velocemente agli altri reparti del settore (75).
C'e' la ritualizzazione della violenza, un modo per risparmiare il sangue persino durante i combattimenti, quando il compito e' uccidere prima di essere uccisi. A Verdun, in un settore poco esposto, un volontario tedesco riferisce che i francesi avevano l'ordine di bersagliarli con bombe a mano anche di notte, e di fatto le lanciavano, ma, come da accordi presi con compagni tedeschi, solo sulla destra e sulla sinistra della trincea (76).
Infine c'e' l'inerzia, che gli alti comandi definiscono "l'insidiosa tendenza a scivolare in un'attitudine passiva e letargica" (77).
Ipnotizzati dalla fraternizzazione, gli stati maggiori la perseguono sistematicamente, e facilmente. Le tregue tacite sono invece sfuggenti. Da un lato, sebbene tutti pretendano un'attivita' costante, nel '14-'15 nessuno ha una strategia definitiva per la guerra di trincea, dunque l'inerzia non e' una violazione di ordini specifici ne' un reato da corte marziale. D'altro lato, e' difficile capire chi ha adottato quel comportamento, quali ufficiali l'hanno tollerato, e prima ancora se c'e' stato davvero un accordo.
Ma a volte puo' bastare il sospetto o un episodio minore per deferire alla corte marziale. Quando un ufficiale tedesco e forse venti uomini erano usciti dalle trincee gridando "Good morning, Tommies, avete delle gallette?" e nessun inglese aveva sparato contro di loro, i due ufficiali presenti sono arrestati, e poco dopo trasferiti con l'intero reparto nella fabbrica di cadaveri che e' il fronte della Somme (78).
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Vicini di casa
Le tregue informali sono fragili, per farle saltare basta che arrivi in trincea la polizia militare a controllare la situazione, o che qualcuno cominci inopinatamente a sparare mentre gli avversari sono occupati in una delle attivita' "protette". Sono rischiose: il nemico puo' tendere una trappola, un compagno zelante puo' trasformarsi in delatore, un compagno solidale puo' essere un infiltrato dei Comandi. Le zone davvero "quiete" sono rare, come lo sono le zone superbelligeranti; per lo piu', aggressivita' e inerzia si mischiano in modo imprevedibile, e la scelta di passare all'attacco e' possibile anche in condizioni estreme. Eppure tanti continuano a cercare lo scambio della pace. Conta la religiosita', contano ideali anarchici e antimilitaristi, o un cuore buono senza marchio di origine. Il fattore piu' importante e' il conflitto stesso.
Insieme a una enorme capacita' distruttiva, la guerra di trincea ha una potenzialita' opposta. Spesso i soldati sono relativamente vicini, possono origliare e scrutare, poi guardarsi e sentirsi, quanto basta a capire che le sofferenze e la paura sono le stesse, simile la voglia di farla finita con il sangue. E' la prima condizione perche' possano nascere l'empatia e la compassione reciproca. E infatti i piu' coinvolti sono i reparti di fanteria, il corpo che resta nelle trincee per tutta la guerra, il corpo per eccellenza dei contadini, distolti dal lavoro dei campi per essere sbattuti in mezzo a una natura devastata che - ci si chiede - chissa' quando tornera' fertile. Ma fra l'empatia e lo scambio di pace c'e' il serissimo problema della comunicazione.
Quando si puo', ci si parla; oppure ci si scambiano messaggi arrotolati dentro bombe disinnescate o intorno a una pietra. In uno c'era scritto: "Stiamo per bombardarvi. Dobbiamo, ma non vogliamo. Sara' per stamattina, fischieremo due volte per avvertirvi" (79). Sul fronte austro-italiano, alcuni soldati avevano addestrato un cane a portare biglietti da una trincea a quella opposta - con la globalizzazione e l'emigrazione, e' facile che qualcuno conosca la lingua del nemico. Uno dei biglietti diceva: "Cari fratelli, vi facciamo consapevoli che siamo stanchi di questa guerra, e se i nostri diplomatici non la vogliono terminare noi italiani verremo tutti da voi, prima che venga l'inverno. Fate il piacere di non tirare. Potete mandarci nuovamente questo cane con un bigliettino. State bene arrivederci. Sarebbe ora di terminare questa misera guerra, addio" (80). E' il sogno di una pace senza vincitori ne' vinti, che coincide con la famosa frase di Wilson sulla necessita' di una pace senza vittoria (81).
Se si era troppo lontani, si ricorreva a comportamenti simbolo. La fraternizzazione non e' uno slancio spontaneo, e' il frutto di un avvicinamento graduale - una mano che saluta, una testa che fa capolino, qualcuno che scavalca il parapetto, pronto a ributtarsi indietro. Oppure il canto di un motivo popolare - Stille Nacht o la versione inglese Silent Night, ma anche Tipperary e Wacht am Rhein. Mentre l'inerzia, oltre che per scambiarsi la pace, funziona benissimo per far capire le proprie intenzioni.
Si era creato cosi', per tentativi, un sistema di comunicazione non verbale, un codice comprensibile dai combattenti delle trincee, non da estranei, che poteva smentire le rappresentazioni ufficiali dello spazio bellico, secondo cui piu' i combattenti sono vicini piu' aumenta il rischio (82). A volte era vero il contrario - vedere i feriti nemici che giacevano indifesi nella terra di nessuno poteva favorire una tregua umanitaria, o uno scatto individuale: "Ho visto gente che e' uscita a raccogliere anche il nemico, andar fuori in mezzo alla sparatoria a portare il compagno ferito [...] perche' li' in trincea succedevano delle cose curiose" (83).
Grazie a questo codice, soldati che spesso non potevano vedersi ne' parlarsi riuscivano a palesare la loro volonta' di pace - e il proprio senso dell'onore. Quando i reparti stavano per essere avvicendati, cercavano di informare i "nemici", perche' non si esponessero contando sui vecchi accordi. Oltre che sulla differenza fra i combattenti e tutti gli altri in uniforme e sui modi di sfidare con intelligenza l'autorita' degli inetti (84), le reclute venivano iniziate "all'arte della guerra come all'arte della pace", e spesso in termini espliciti. Durante la visita a una postazione avanzata, un ufficiale chiede al nuovo venuto se gioca a cricket. "Un po'", e se saprebbe tirare la palla fino alla trincea opposta. "Penso di si'". "Allora potresti farlo con una granata... ma comunque non ne avrai voglia. Non svegliare il can che dorme. Se gli tiriamo una bomba, puoi scommettere che ce la restituiranno, e Mr Digby e Mr 'Arris [i soldati che tenevano la postazione] sono uomini sposati. Non e' il cricket, sai?" (85).
Qui il nemico non e' il fratello, come a volte e' accaduto e come ci piacerebbe che fosse. Ma e' quantomeno un vicino di casa con cui e' giusto tenere un comportamento corretto e rispettare la parola data.
Peccato che tregue e fraternizzazione, sebbene citate in molti testi, non compaiano come oggetto storico autonomo, inserito in una genealogia diversa da quella delle guerre.
Ma l'esempio non si e' del tutto perso. Ottanta anni dopo, nella Sarajevo assediata, un reparto serbo che aveva fatto una periodica "tregua del calcio" con alcuni combattenti bosniaci, li avverte: "Noi domattina andiamo a casa e arrivera' un altro gruppo. Loro sicuramente spareranno. Se non state attenti, se quelli vi ammazzano, con chi giocheremo noi?" (86).
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La cosa giusta
Che queste prove di nonviolenza nascano, come la fedelta' ai propri compagni, dall'esperienza diretta, mostra che alle armi puo' contrapporsi la critica delle armi. In uno scontro in cui su tutti i combattenti incombe la strapotenza della guerra tecnologica, identificarsi con il nemico e con la sua volonta' di sopravvivere e' logico, addirittura necessario: se ogni colpo di mortaio, ogni raffica di mitragliatrice, ogni sparo di cecchino vengono ricambiati, un atteggiamento "offensivo" sarebbe suicida (87).
Questa consapevolezza non puo' da sola impedire i massacri: una morte dilazionata non e' automaticamente una morte evitata, e una delle tragedie di questa guerra e' che uomini che si erano salvati scambiandosi la pace, si trovano a uccidersi l'un l'altro nella macelleria di Verdun, della Somme, di Ypres.
Ma tregue e fraternizzazione restano uno dei tentativi piu' forti di riprendere in mano un po' della propria vita, dando al nemico la possibilita' di fare lo stesso.
Sul fronte austro-italiano un militare austriaco e il soldato di vedetta G. C., messinese, carrettiere, analfabeta, vedovo con figli, si parlano cosi': "Italiano, italiano, ti metti paura a parlare?", e G. C.: "Non ho paura a parlare", e l'Austriaco: "Come stai?", e la vedetta: "Come stai tu piuttosto che ieri ti lamentavi e come te l'hai passata la notte?", e l'Austriaco: "L'ho passata male, avevo un po' appetito, hai da buttarmi una pagnotta? e per fumare come la passate?", e G. C.: "Bene, ho avuto la mia razione di 13 sigarette e 14 sigari" (88). Leggendo che G. C. e' stato condannato a cinque anni con l'accusa di "agevolazione al nemico", e' difficile non essere unilaterali.
Quella dei soldati di trincea non e' una controstoria dal punto di vista delle vittime, come avviene in un grande filone storiografico, letterario, memoriale (89). E' una testimonianza di coraggio, inventiva, discernimento, che insegna alcune belle verita'.
La propaganda non era onnipotente: per una parte almeno dei soldati, lungo la guerra il nemico aveva cambiato faccia: non piu' il mostro che tagliava le mani ai bambini belgi (e la testa ai prigionieri tedeschi), ma la fame, la stanchezza, l'inverno, la paura - e chi "per odio, ambizione, o desiderio di decorazioni" imponeva "il gioco immorale e frivolo" (90) dell'ostilita' gratuita. L'inerzia non aveva niente di "letargico", era attiva e densa di significati come il gesto contrario dell'aggressione. I soldati erano, anche, soggetti che in condizioni di spossessamento estremo mettevano alla prova nuove strategie di sopravvivenza, concepibili solo a patto di discostarsi dalla legge dell'onore militare, della maschilita' bellicosa, dal formulario perenne della violenza autogiustificante - il "mors tua vita mea", la difesa preventiva, il diritto-dovere della ritorsione. Non sono modelli per monumenti celebrativi, e forse non li avrebbero voluti. Erano uomini che tentavano di risparmiare il sangue nel loro ristretto campo di azione e con i pochi mezzi disponibili, senza sentirsi eroi o agenti del bene; si accontentavano di fare una cosa giusta.
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Note
38. Kenneth Burke, On Human Nature: A Gathering While Everything Flows, 1967-1984, a cura di William H. Rueckert e Angelo Bonadonna, University of California Press, Berkeley 2003, p. 101.
39. Mulligan, Le origini cit., pp. 93, 167 e sgg.
40. Le due citazioni sono in Mulligan, Le origini cit., p. 168.
41. Ian S. Bloch, Is War Now Impossible?, trad. inglese, Richards, London 1899.
42. Seymour, The Diplomatic Background cit, p. 227.
43. David Lloyd George, Memorie di guerra, trad. it., Mondadori, Milano 1933, p. 67.
44. Jean-Jacques Becker, L'annee 1914, Armand Colin, Paris 2004, p. 3 (trad. it., 1914, l'anno che ha cambiato il mondo, Lindau, Torino 2007).
45. "I 'se' - scrive Rusconi - non servono a fantasticare, ma a comprendere [...] valorizzano gli aspetti di contingenza, correttivi di ogni determinismo", Johannes Huerter e Gian Enrico Rusconi (a cura di), L'entrata in guerra dell'Italia nel 1915, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 17-18.
46. Carnegie Endowment for International Peace, Report of the International Commission to Inquire into the Causes and Conduct of the Balkan Wars, Carnegie Endowment for International Peace, Washington 1914, vol. I.
47. Pierre Loti (in Turquie agonisante, Calmann-Levy, Paris 1913, pp. 195-198) racconta di soldati turchi accecati da milizie cristiane. Nel 1911 aveva denunciato anche le violenze italiane in Nordafrica suscitando attacchi sdegnati di "cette pauvre Italie egaree", mentre, scrive, niente del genere era successo quando aveva attaccato francesi, americani, inglesi (ivi, pp. 37-38).
48. Carnegie Endowment for International Peace, Report of the International Commission cit., p. 134.
49. Vedi il bellissimo racconto della medica ruandese tutsi Yolande Mukagasana, (La morte non mi ha voluta, trad. it., La Meridiana, Molfetta 1999, prefazione di Lisa Foa), salvata a prezzo di enormi azzardi dalla sua conoscente hutu Jacqueline Mukansonera.
50. Come aveva previsto Ian Bloch, che anche per questo considerava impossibile un conflitto. Cfr. Bloch, Is War Now Impossible? cit., p. XXXVII.
51. Cosi' Robert Antelme, Temoignage du camp et poesie, in "Le Patriote Resistant", 53, 15 maggio 1948, che la riferisce ai partigiani e agli ex deportati nei lager nazisti.
52. Cfr. Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identita' personale nella prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna 1985, al cap. III. Sull'esperienza dei soldati e sulla letteratura di guerra, c'e' in Italia a partire dagli anni Sessanta una straordinaria fioritura di ricerche di cui e' impossibile dar conto qui; vedi, fra gli altri, Mario Isnenghi, I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra, Marsilio, Padova 1967; Enzo Forcella e Alberto Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza, Bari 1968; Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, Laterza, Bari 1969; Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte, Laterza, Bari 1970; Diego Leoni e Camillo Zadra (a cura di), La grande guerra. Esperienza, memoria, immagini, il Mulino, Bologna 1986; Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi, 1848-1945, Mondadori, Milano 1989; Antonio Gibelli, L'officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991; Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra. Con una raccolta di lettere inedite, Editori Riuniti, Roma 1993; Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, Storia d'Italia nel secolo ventesimo. La grande guerra 1914-1918, La Nuova Italia, Scandicci 2000; e la preziosa e continuativa produzione dell'"Archivio della scrittura popolare" e della rivista "Materiali di lavoro", animate da Gianluigi Fait, Diego Leoni, Fabrizio Rasera, Camillo Zadra. Sulla ricca memorialistica cfr. Isnenghi, Le guerre degli italiani cit.
53. Leed, Terra di nessuno cit., pp. 112 e sgg.
54. Ferguson, La verita' taciuta cit., pp. 462-471. Di piacere dell'uccidere scrive Joanna Bourke, La seduzione della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, trad. it., Carocci, Roma 2003. Vedi anche J. Glenn Gray, The Warriors: Reflections on Men in Battle, Harper & Row, New York 1970. Agli interrogativi sull'antropologia e psicologia della guerra e dell'uccisione, sul suo rapporto con il mito, il sacro, la festa, grandi autrici e autori hanno dato lo spazio che meritano; e anche militari, corrispondenti di guerra, poeti. Sul legame fra guerra e virilita' e sul suo uso politico nel dopoguerra resta cruciale George Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1990.
55. Curzio Malaparte, Viva Caporetto!, Martini, Prato 1921, commentato in Isnenghi, I vinti di Caporetto cit.
56. Molti casi in Italia e Francia, il culmine con la ribellioni di 40.000 poilus a maggio 1917; cfr. Jean-Jacques Becker, 1917 en Europe: L'Annee Impossible, Editions Complexe, Bruxelles 1997, in cui si analizzano l'ammutinamento e le sue premesse - i risultati cruentissimi e minimi del piano di avanzata sullo Chemin des Dames del generale Nivelle (16 aprile) e la sua ostinazione nel proseguirlo (pp. 64-86); per l'ammutinamento vengono emesse 452 condanne a morte. Il primo storico a studiare il fenomeno e' stato Guy Pedroncini, Les Mutineries de 1917, Presses Universitaires de France, Paris 1967.
57. In Richard Holmes, Tommy. The British Soldier on the Western Front. 1914-1918, Harper Collins, London 2004, si contano vari episodi del genere, vedi al capitolo "Brother Lead and Sister Steel", pp. 377-393. Cfr. anche Ferguson, La verita' taciuta cit., al cap. "Il dilemma del catturatore".
58. Sulle condizioni degli ufficiali in prigionia e sullo spirito di casta che li accomuna al di la' delle appartenenze nazionali, vedi per il fronte austro-italiano Procacci, Soldati e prigionieri cit., pp. 240 e sgg.
59. Secondo dati inoppugnabili reperiti e analizzati da Procacci (Soldati e prigionieri cit.), e' il destino di circa 100.000 prigionieri italiani. Il comando supremo, a differenza che in tutti gli altri paesi, rifiuta di contribuire con pacchi statali al loro mantenimento, dichiarando che ricade in esclusiva sulla potenza detentrice - quando tutti sanno della spaventosa carestia in Austria e Germania; in certi periodi, si proibisce o si ostacola anche l'invio di pacchi privati. I 100.000 muoiono perche' anziani signori in divisa e lontanissimi dal fronte sono ossessionati dalla paura che la prigionia possa essere considerata "un lungo periodo di riposo", cfr. De Bosdari, (Delle guerre balcaniche cit., pp. 219-221) che come responsabile dei prigionieri ammette apertamente di conoscere la situazione.
60. Forcella e Monticone, Plotone di esecuzione cit., p. 283.
61. Leonard V. Smith, Between Mutiny and Obedience, in Neiberg (a cura di), The World War I Reader cit., p. 204.
62. Avevano fatto lo stesso tutti e cinque i marines afroamericani decorati di medaglia d'onore in Vietnam; cfr. Jean Bethke Elshtain, Donne e guerra, trad. it., il Mulino, Bologna 1991, p. 278; vedi l'intero capitolo VI, "Uomini: i molti militanti / i pochi pacifici", dove si analizza il tema narrativo del "guerriero compassionevole", che realizza la sua vocazione non nell'uccidere ma nel morire per gli altri.
63. Per la distinzione tra virtu' "eroiche" e "quotidiane", Tzvetan Todorov, Di fronte all'estremo, trad. it., Garzanti, Milano 1992.
64. James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano 2005, p. 181.
65. Fussell, La grande guerra cit., al cap. "Soldati ragazzi".
66. Gibelli sottolinea la visione "sterilizzata" della guerra, depurata dei suoi aspetti piu' disgustosi e intollerabili, dominante nella memorialistica e nella storiografia; cfr. L'officina della guerra cit., p. XV.
67. La trincea come tomba-accampamento-lazzaretto e' descritta da Nellie Bly, cfr. Edith Wharton, Nellie Bly, Da fronti opposti (a cura di Luisa Cenni), Viella, Roma 2010, p. 127.
68. Mi permetto di rimandare a Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 12. Ma questo aspetto delle relazioni tra uomini e' stato incapsulato nella cifra dell'emergenza, e il suo potenziale di critica alla polarita' fra immagini del maschile e del femminile e' rimasto inesplorato.
69. Hillman, Un terribile amore cit., p. 182.
70. Ne fa fede l'ambivalenza con cui guardano al fenomeno i comandanti militari, ora facendo della solidarieta' di plotone un mito ora temendola come risorsa per comportamenti antagonisti. Sul "plotonismo", cfr. Isnenghi, Le guerre degli italiani cit., alle pp. 233-244.
71. Emilio Lussu, Un anno sull'Altipiano, Einaudi, Torino 1966, p. 157. Il sentimento di unita' fra soldati intensifica l'odio per gli stati maggiori, che continuano a pretendere cecchinaggio, incremento del fuoco di disturbo e altre misure destinate a alterare il delicato equilibrio che protegge la sopravvivenza. Ancora piu' forte e' la distanza che si crea tra il fronte e la "patria", vissuta come matrice di un bellicismo incosciente sbandierato da civili ben protetti.
72. Ferguson (La verita' taciuta cit., pp. 33-34) analizza quanto spendono i vari Stati per uccidere un nemico.
73. Come una partita di calcio fra britannici e tedeschi giocata nella terra di nessuno, che e' accertata per il Natale successivo.
74. Philip Gibbs, Now It Can Be Told, Harper & Brothers Publishers, London 1920, p. 227.
75. I due episodi sono citati in Tony Ashworth, The Live and Let Live System, in Neiberg (a cura di), The World War I Reader cit., pp. 209 e 217-218.
76. Leed, Terra di nessuno cit., p. 146.
77. Ashworth, The Live and Let Live System cit., p. 209.
78. Ivi, p. 218.
79. Ivi, p. 216.
80. Forcella e Monticone, Plotone di esecuzione cit., p. 189. A giudicare dai processi dei tribunali militari, sul fronte austro-italiano non doveva essere raro lo scambio di pane con sigarette.
81. Nel discorso pronunciato al Senato il 22 gennaio 1917.
82. Allyson Booth, Postcards from the Trenches: Negotiating the Space between Modernism and the First World War, Oxford University Press, New York 1996, pp. 96-97. Di "un inestinguibile bisogno di aiutare gli altri", che contraddice l'idea di una soggettivita' egoica e convive con la fascinazione per la guerra, parla Hillman, Un terribile amore cit., pp. 194 e sgg.
83. La Grande Guerra. Operai e contadini lombardi nel primo conflitto lombardo, a cura di Sandro Fontana e Maurizio Pieretti, "Mondo popolare in Lombardia", vol. 9, Silvana, Milano 1980, citato in Procacci, Soldati e prigionieri cit., p. 139.
84. Smith, Between Mutiny and Obedience, cit., p. 200.
85. Ashworth, The Live and Let Live System cit., pp. 212-213.
86. Intervista di Svetlana Broz, in Giovanna Papa, Storie di ordinaria follia genocida, in quadernidaltritempi.eu
87. Leed, Terra di nessuno cit., p. 81.
88. Forcella e Monticone, Plotone di esecuzione cit., pp. 309-310.
89. Ovviamente non e' neppure una storia di codardi, come apparivano i soldati agli stati maggiori, agli intellettuali nazionalizzati, e a quegli storici che hanno sorvolato sulla loro esistenza per "carita' di patria".
90. Leed, Terra di nessuno cit., p. 122.

2. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Maestre
- Virginia Woolf, Diario di una scrittrice, Minimum fax, Roma 2005, pp. 468.
- Virginia Woolf, Le tre ghinee, La Tartaruga, Milano 1975, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 256.
- Virginia Woolf, Gita al faro, Garzanti, Milano 1934, 1974, pp. XVI + 232.
- Virginia Woolf, Momenti di essere e altri racconti, Rizzoli-Rcs, Milano 1995, pp. 200.
- Virginia Woolf, Ritratti di scrittori, Pratiche, Parma 1995, pp. 332.
- Virginia Woolf, Romanzi, Mondadori, Milano 1998, 2005, pp. XCVI + 1448.
- Virginia Woolf, Saggi, prose, racconti, Mondadori, Milano 1998, 2004, pp. LXXVIII + 1482.
- Virginia Woolf, Tutti i racconti, Newton Compton, Roma 1995, 1997, pp. 256.
- Virginia Woolf, Tutti i romanzi, Newton Compton, Roma , 2 voll. per pp. 928 + 832.
- Virginia Woolf, Una stanza tutta per se', Newton Compton, Roma 1993, pp. 98.

3. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

4. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3931 del 22 novembre 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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