[Nonviolenza] No. 35



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NO ALL'ANTIPARLAMENTARISMO, NO AL FASCISMO, NO ALLA BARBARIE
No alla riforma costituzionale che mutila la democrazia rappresentativa e mira ad imporre un regime totalitario nel nostro paese
Al referendum del 20-21 settembre votiamo no all'antiparlamentarismo, no al fascismo, no alla barbarie
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXI)
Numero 35 del 17 settembre 2020

In questo numero:
1. No alla riforma costituzionale che mutila la democrazia rappresentativa e mira ad imporre un regime totalitario nel nostro paese
2. Il testo del quesito referendario
3. Siti utili per l'informazione e l'impegno
4. Giovedi' 17 settembre in piazza delle erbe a Viterbo per il NO
5. Un incontro di studio a Viterbo su un prezioso saggio di Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica
6. "Il manifesto": Referendum costituzionale sul taglio del parlamento, dieci motivi per dire NO

1. APPELLI. NO ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE CHE MUTILA LA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA E MIRA AD IMPORRE UN REGIME TOTALITARIO NEL NOSTRO PAESE

Al referendum costituzionale sulla mutilazione del parlamento del 20-21 settembre 2020 voteremo no.
Siamo contrari a ridurre il Parlamento a una tavolata di yes-men al servizio di esecutivi tanto insipienti quanto tracotanti e dei grotteschi e totalitari burattinai razzisti e militaristi che li manovrano.
Siamo contrari al passaggio dalla democrazia rappresentativa, per quanto imperfetta essa possa essere, al fascismo.
La mutilazione del parlamento attraverso la riduzione del numero dei parlamentari ha questo significato e queste fine: favorire il passaggio da una democrazia costituzionale gia' profondamente ferita a un regime sempre piu' antidemocratico ed eslege, sempre piu' protervo e brutale.
Al referendum del 20-21 settembre 2020 votiamo no all'antiparlamentarismo, no al fascismo, no alla barbarie.
No all'antiparlamentarismo, che alla separazione e all'equilibrio dei poteri, alla rappresentanza proporzionale dell'intera popolazione e alla libera discussione e consapevole deliberazione vuole sostituire i bivacchi di manipoli, l'autoritarismo allucinato, plebiscitario e sacrificale, il potere manipolatorio dei padroni occulti e palesi delle nuove tecnologie della propaganda e della narcosi.
No al fascismo, crimine contro l'umanita'.
No alla barbarie, che annichilisce ogni valore morale e civile, che perseguita ed estingue ogni umana dignita' e virtu', che asservisce la societa' alla menzogna e alla violenza.

2. MATERIALI. IL TESTO DEL QUESITO REFERENDARIO

Il testo del quesito referendario e' il seguente: "Approvate il testo della legge costituzionale concernente 'Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari', approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana - Serie generale - n. 240 del 12 ottobre 2019?".

3. RIFERIMENTI. SITI UTILI PER L'INFORMAZIONE E L'IMPEGNO

- Comitato nazionale per il NO al taglio del parlamento: sito: www.noaltagliodelparlamento.it
- Coordinamento per la democrazia costituzionale, sito: www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it
- Noi per il NO, sito: https://noiperilno.it

4. REPETITA IUVANT. GIOVEDI' 17 SETTEMBRE IN PIAZZA DELLE ERBE A VITERBO PER IL NO

Promossa dal "Comitato per il NO al taglio del parlamento" si svolgera' giovedi' 17 settembre dalle ore 18 alle ore 20 in piazza delle erbe a Viterbo la manifestazione unitaria conclusiva della campagna d'informazione, documentazione e coscientizzazione per il NO nel referendum del 20-21 settembre 2020.
All'iniziativa partecipa anche il "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo.
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NO alla mutilazione del parlamento.
NO alla mutilazione della democrazia.
NO alla mutilazione dello stato di diritto fondato sulla separazione e il controllo dei poteri.
NO alla mutilazione dell'eguaglianza di diritti di tutte le cittadine e tutti i cittadini.
NO alla mutilazione della Costituzione repubblicana, democratica ed antifascista.
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NO all'antiparlamentarismo.
NO al fascismo.
NO alla barbarie.
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Per le ragioni espresse dalle donne che lottano contro la violenza alle donne, noi votiamo NO.
Per le ragioni espresse dall'Associazione nazionale partigiani d'Italia, noi votiamo NO.
Per le ragioni espresse da illustri costituzionaliste e costituzionalisti, noi votiamo NO.
Per le ragioni espresse da una prestigiosa associazione di magistrati, noi votiamo NO.
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Votando NO difendiamo l'ordinamento democratico e costituzionale.
Votando NO difendiamo la democrazia.
Votando NO difendiamo la dignita' e i diritti di tutte e di tutti ed il bene comune.
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Per le stesse ragioni per cui ci opponiamo alla guerra e a tutte le uccisioni, il 20-21 settembre noi votiamo NO.
Per le stesse ragioni per cui ci opponiamo al razzismo e a tutte le persecuzioni, il 20-21 settembre noi votiamo NO.
Per le stesse ragioni per cui ci opponiamo al maschilismo e a tutte le oppressioni, il 20-21 settembre noi votiamo NO.
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Domenica e lunedi' votiamo NO al regime della corruzione.
Domenica e lunedi' votiamo NO al golpe oligarchico.
Domenica e lunedi' votiamo NO al tentativo d'imporre l'incontrastato dominio dell'abuso e dell'arbitrio dei ricchi e dei potenti.
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Oppresse e oppressi, unitevi nell'impegno comune per il bene comune.
Oppresse e oppressi, unitevi nel NO alla menzogna, alla frode, alla violenza degli sfruttatori e degli oppressori.

5. REPETITA IUVANT. UN INCONTRO DI STUDIO A VITERBO SU UN PREZIOSO SAGGIO DI RICCARDO DE VITO, PRESIDENTE DI MAGISTRATURA DEMOCRATICA

La mattina di mercoledi' 16 settembre 2020 a Viterbo, presso la sede del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera", si e' svolto un incontro di studio su un prezioso saggio di Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica, dal titolo "I motivi per un NO" in riferimento al referendum che si svolgera' domenica e lunedi'.
Il testo integrale del saggio riproduciamo in calce al presente comunicato.
Dopo l'attenta lettura del saggio ed un ampio commento di alcuni suoi punti essenziali da parte delle persone partecipanti, l'incontro e' stato concluso dal responsabile della struttura nonviolenta viterbese, Peppe Sini, che ha sottolineato come pressoche' tutte le piu' autorevoli voci della vita democratica italiana convergano nell'argomentare le ragioni per cui occorre votare NO nel referendum del 20-21 settembre.
Illustri giuriste e giuristi, illustri magistrate e magistrati, illustri figure della riflessione morale e dell'impegno civile, cosi' come i piu' vivi movimenti della societa' civile ed associazioni autorevolissime (l'Associazione nazionale partigiani d'Italia, per citarne una per tutte), convergono nell'impegno per il NO.
NO all'antiparlamentarismo, NO al fascismo, NO alla barbarie.
NO alla mutilazione del parlamento, dello stato di diritto, della Costituzione, della democrazia.
NO all'abuso, all'arbitrio, alla frode, alla violenza dei vampiri, del regime della corruzione, dell'orda selvaggia e malvagia che vuole abbattere la democrazia ed imporre l'oligarchia, l'anomia, l'afasia, la dittatura degli ebbri e degli scellerati, dei razzisti e dei bellicisti, degli sfruttatori e dei devastatori.
Domenica e lunedi' noi votiamo NO.
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Allegato. Riccardo De Vito: I motivi per un NO
[Dal sito www.noaltagliodelparlamento.it con il titolo "I motivi per un No" e la nota "Sulla rivista QG un articolo di Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica"]
La revisione che ci apprestiamo a votare finisce per sfibrare la rappresentanza parlamentare, con il pericolo che in futuro se ne possa predicare in maniera definitiva l'irrilevanza.
Quale sia lo stato della competizione politico-istituzionale nel nostro Paese e' sotto gli occhi di tutti: esasperazione del confronto tra leadership blindate; iperboli propagandistiche da rincorsa al sondaggio; prevalenza della tattica sulle visioni – sempre piu' scolorite e standardizzate – dei rapporti umani e sociali; lontananza dai bisogni delle persone, non piu' "incorporati" da partiti popolari, ma rappresentati in maniera caricaturale e inasprita dai nuovi fronti del populismo.
In questo contesto – che come ovvio ha le dovute eccezioni – la riforma costituzionale tesa alla riduzione del numero dei parlamentari, pure mascherata da innovazione, costituisce un'ulteriore regressione istituzionale. Conveniente all'establishment, ma di certo non ai rappresentati.
Lo ha scritto, con spiccata efficacia persuasiva, Felice Besostri: "C'e' chi crede che votando Si' al referendum si puniscano le oligarchie politiche. Mentre e' vero il contrario. Esse continuerebbero a nominare, e dunque controllare, i candidati e anzi avrebbero un rischio inferiore di ritrovarsi tra le mani parlamentari infedeli".
A legislazione elettorale invariata – l'intenzione di modificarla e' allo stato una promessa priva di una direzione chiara, in cambio della quale si baratta un pezzetto di Costituzione – l'accoppiata tra riduzione dei parlamentari e legge elettorale maggioritaria a liste bloccate e "nominate" rischia di completare il processo di trasformazione del Parlamento in corte di osservanti, a tutto vantaggio di un potere esecutivo sempre piu' tracimante e di quelle oligarchie che gli spiriti di un'antipolitica demagogica e iperfasica vorrebbero combattere. Eterogenesi dei fini, dunque.
Sia chiaro: non ci si propone qui di difendere le attuali condizioni di salute delle assemblee rappresentative. Opzione indigeribile, a meno di non voler leggere a tutti i costi nella realta' italiana una "democrazia immaginaria". Una serie di prassi consolidate, molte delle quali nate da forzature dei regolamenti parlamentari, hanno man mano svilito la centralita' e l'autonomia delle Camere, con frequente degradazione del Parlamento a passacarte del Governo e alterazione fattuale della forma di governo.
A venire in gioco, lungo questa traiettoria, non e' soltanto l'assoluta prevalenza del decreto-legge nel campo delle fonti di produzione, ma tutta una "strumentistica" strategicamente tesa a imbrigliare il libero svolgimento della funzione rappresentativa: "canguri" parlamentari, maxiemendamenti, questioni di fiducia, rigido controllo dei gruppi sui singoli parlamentari e dei vertici di partito sui gruppi.
Se questo e' lo stato dell'arte perche', allora, non accettare la scommessa del cambiamento e della riduzione di assemblee sovrabbondanti?
Per un motivo, prima di tutto. La sola riforma costituzionale avrebbe l'effetto di congelare la situazione esistente, per alcuni versi rendendola fisiologica e per altri versi amplificandola: controllare pochi e' piu' facile e meno rischioso che controllare molti.
La revisione, dunque, agirebbe in modo da far metabolizzare alla democrazia italiana quegli elementi di verticalizzazione – di "caporalismo" – che ne stanno gia' corrodendo il cuore parlamentare.
In questo senso, pur suscitando minor allarme per il ridotto profilo sistematico, questa proposta di riforma si colloca nella medesima scia della riforma Boschi-Renzi, respinta dagli elettori nel referendum del 4 dicembre 2016.
Di ben altro respiro avrebbe bisogno la democrazia del nostro Paese, a partire dalla rivitalizzazione della rappresentanza e dalla riapertura di efficaci canali di collegamento tra istanze sociali e luoghi della decisione. Sono obiettivi perseguibili con leggi ordinarie (elettorali) e, soprattutto, mediante culture e prassi partecipative, che riattivino il circuito societa'/partiti/istituzioni.
Non c'e' bisogno, pertanto, di scomodare l'impianto costituzionale – nel caso di specie dovuto alla legge costituzionale n. 2 del 1963 – con un tentativo di riforma che, tra tanti motivi, deve essere respinto anche per una fondamentale questione di metodo.
Le questioni di metodo non sono meno importanti di quelle di merito quando a essere chiamata in causa e' una modifica, quale che sia, dell'assetto costituzionale.
Con imperdonabile leggerezza, almeno da vent'anni a questa parte, ogni forza politica che abbia raggiunto le leve del governo ha provato a lasciare l'impronta del proprio progetto politico di parte sulla Carta costituzionale, al fine di catturare un consenso epocale.
Pessimo servizio alla Repubblica. Cosi' facendo si corre il rischio di rendere la Costituzione ostaggio dell'attualita' politico-parlamentare e di consegnare, se non il potere, quanto meno lo spirito costituente alla maggioranza di turno. E' una strada che, oltre a dare la stura ad avventure pericolose, finisce per indebolire, a livello culturale prima ancora che politico, la consapevolezza che il tessuto costituzionale e' il pilastro della nostra convivenza civile, nel quale riconoscersi a prescindere dalle appartenenze e al quale mettere mano soltanto in caso di reale bisogno.
E' stato tramite il rifiuto – per scelta e necessita' – della logica dei rapporti di forza elettorali e grazie all'adozione del criterio del "velo dell'ignoranza" che i Costituenti riuscirono a costruire quell'orologio perfetto di pesi e contrappesi che e' la nostra Carta fondamentale.
Purtroppo, anche la storia di questa proposta di riforma non e' altro che il racconto di una deriva contraria a quel metodo.
Il testo votato dalla Camere, pur essendo il frutto dell'unificazione di piu' disegni di legge di iniziativa parlamentare, reca il sigillo del programma di una forza politica (il Movimento Cinque Stelle) e di un'alleanza di governo (quella c.d. giallo-verde, tra lo stesso Movimento e la Lega). La circostanza e' resa evidente, oltre che dall'attuale campagna referendaria, dalla lettura della nota di aggiornamento al DEF 2018, nel quale il governo aveva indicato la riduzione dei parlamentari come linea portante di una serie di riforme istituzionali.
Sin qui nulla di grave, se il successivo dibattito pubblico e parlamentare si fosse concentrato sul contenuto della riforma e sui suoi effetti, invece di piegarsi, da un certo punto in avanti, alle dinamiche maggioranza/opposizione e al loro mutamento. Solo ragioni di manovra politica, infatti, offrono spiegazione compiuta delle inedite caratteristiche delle quattro votazioni succedutesi tra Senato e Camera.
Nella prima deliberazione, infatti, la proposta e' stata approvata sia al Senato sia alla Camera – rispettivamente il 7 febbraio e il 9 maggio 2019 – a maggioranza assoluta dei parlamentari (piu' o meno coincidente con la maggioranza politica che l'aveva sostenuta) e con il voto contrario delle allora forze di opposizione, tra cui il Partito Democratico.
Lo stesso canovaccio si e' ripetuto in occasione del voto del Senato in seconda deliberazione, l'11 luglio 2019. E' stato proprio il mancato raggiungimento della soglia dei due terzi dei componenti l'assemblea in questa votazione a consentire a un quinto dei senatori (settantuno) di chiedere l'indizione del referendum ai sensi dell'art. 138 Cost.
Lo scenario e' mutato radicalmente nella seconda votazione della Camera dei Deputati, l'8 ottobre 2019: 553 voti a favore su 567 votanti. Come ha messo bene in evidenza Valerio Onida su queste pagine, l'87,7% dei deputati.
Cosa e' cambiato per passare da una maggioranza assoluta a una sostanziale unanimita'? Nulla dal punto di vista del contenuto della riforma costituzionale, tutto sotto il profilo degli equilibri politici. Il Partito Democratico e le altre forze del centrosinistra, infatti, hanno dato vita a un nuovo governo con il Movimento Cinque Stelle, che ha perso per strada l'alleato leghista.
Si tratta di fatti noti, messi qui in risalto soltanto per evidenziare come l'iter di riforma costituzionale abbia risentito, ben oltre i limiti fisiologici, delle esigenze di consolidamento delle maggioranze elettorali e della stabilizzazione dei governi, tuttora evidenti anche nella campagna referendaria.
La subordinazione dell'assetto costituzionale alla quotidianita' politica colpisce soprattutto nell'atteggiamento di quelle forze politiche che si sono decise al voto favorevole alla riforma soltanto all'ultimo round, senza  ottenere alcuno di quei correttivi – legge elettorale proporzionale e con preferenze, riforma dei regolamenti parlamentari – che per tre volte avevano indotto al voto contrario.
La raggiunta unanimita', pertanto, piu' che essere il portato di un confronto alto sui principi, appare il frutto di calcolo politico.
Questa logica di piccolo cabotaggio ha fagocitato anche la tornata elettorale, dal momento che la legge 19 marzo 2020, n. 59, ha disposto la concentrazione delle scadenze elettorali (c.d. election-day), sommando alle elezioni suppletive, amministrative e regionali anche il voto nel referendum "oppositivo" promosso ai sensi dell'art. 138 Cost.
Il risultato oggettivo e' quello di piegare anche il referendum (campagna e voto) lungo l'asse del conflitto maggioranza/opposizione.
Cio' detto, il No al referendum puo' essere, anche solo in parte, legittimato da quella che si e' definita una questione di metodo?
Risponderei convintamente in maniera positiva, per almeno due ragioni: quanto si e' detto sin qui dimostra che quel metodo di mettere le mani sulla Costituzione va allontanato una volta per tutte dal panorama della politica nostrana; sotto altro profilo, forse piu' importante, si puo' dire che a metodo non corretto corrispondono, in genere, risultati pessimi. E cosi' pare anche stavolta.
Massimo Luciani lo ha scritto a chiare lettere: "Delle due l'una: o la riforma serve a tagliare i costi, e allora e' davvero poca cosa, oppure intende sottolineare una sorta di inutilita' del Parlamento. E allora e' pericolosa".
Sotto l'aspetto dell'impegno per le casse dello Stato, nessuno ha messo in discussione che il taglio lineare di deputati e senatori vale soltanto lo 0,007% della spesa pubblica e il 2,5% delle spese annuali di Camera e Senato.
La riduzione di 345 parlamentari, dunque, comporta un risparmio irrisorio.
In compenso, lungi dall'"aumentare l'efficienza e la produttivita' delle Camere" (cosi' la relazione di accompagnamento), determina il concreto pericolo di ulteriore rallentamento, se non di paralisi, delle attivita' parlamentari. O almeno di quelle che, in un'ottica che sacrifica la rappresentanza in nome della governabilita' celere, potrebbero tranquillamente essere accantonate come superflue: attivita' delle Commissioni e degli organismi di controllo; discussioni approfondite sui disegni di legge; procedimento legislativo ordinario.
Si e' gia' parlato della attuale marginalizzazione del Parlamento nel procedimento di produzione legislativa. Un esempio plastico di tale confinamento in un ruolo secondario rispetto a quello dell'esecutivo e' costituito dalla strumentalizzazione di un istituto come la riserva di assemblea (art. 72, co. 4., Cost.), pensato dai Costituenti per rafforzare la centralita' e l'iniziativa del Parlamento – dunque della volonta' popolare – in materie decisive per la vita dello Stato (disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale, di delegazione legislativa, di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi).
L'istituto, sotto la spinta di forzature soppressive del dibattito in aula – maxiemendamenti abbinati a continue questioni di fiducia –, si e' risolto nel suo contrario, finendo per favorire prassi tese a scegliere la finzione di discussione in assemblea pur di elidere il dibattito tecnico-politico nelle Commissioni e a garantire, in tal modo, la "sottomissione" della rappresentanza alle ragioni dell'esecutivo e dei suoi vertici (Presidenza del Consiglio e suoi uffici).
Se questo e' lo stato delle cose, va detto che la proposta di riforma, in assenza di modifica dei regolamenti parlamentari e della legge elettorale, finisce per ingessarlo e, per cosi' dire, istituzionalizzarlo, impedendo definitivamente il doveroso funzionamento delle commissioni.
E' sufficiente porre mente al fatto che le Commissioni del Senato, attualmente, sono in media composte da 21-26 persone.
Pensare che tutte, con la riduzione dei senatori a duecento, continuino con la stessa composizione numerica e' impossibile. Diminuirne i componenti, tuttavia, significa immaginare Commissioni che per funzionare, sia in funzione referente sia in funzione deliberante, si reggano sul voto di poche persone. La situazione non cambia di molto alla Camera, che passerebbe dagli attuali seicentotrenta deputati a quattrocento.
Entrambe le opzioni, comunque, finirebbero per dare cornice istituzionale alla situazione esistente di superamento nei fatti delle Commissioni, formalizzando cosi' la scelta per i procedimenti legislativi pilotati per intero dall'esecutivo.
Va poi rimarcato che, in assenza di riforma del bicameralismo perfetto, i motivi principali di rallentamento dei procedimenti di formazione della legge non vengono scalfiti.
Accanto ai guasti appena accennati, la riduzione del numero dei parlamentari – anticipata rispetto a una riforma elettorale che si annuncia ancora incerta nei tempi e nei contenuti – incide in maniera pesante sulla rappresentanza, lasciandone senza dubbio prive le periferie territoriali, sociali e politiche.
Anche in questo caso i numeri dicono molto, se non tutto.
La riduzione percentuale media del tasso di rappresentanza al Senato e' del 36,5%. Alcune regioni, tuttavia, passando dalla possibilita' di vedere eletti sette senatori (il limite minino previsto dalla legge attuale, fatta eccezione per Valle d'Aosta e Molise) a quella di tre senatori soltanto, subiscono una riduzione della rappresentanza pari al 57,1%. Allo stesso modo, la Calabria, con i suoi circa due milioni di abitanti, andrebbe ad eleggere lo stesso numero di senatori del Trentino, popolato da poco piu' di un milione di abitanti. Ovvio che il voto degli elettori di quest'ultima regione valga la meta' di quello di un residente nella prima.
Anche ammettendo che la rappresentanza e' comunque espressa dai programmi nazionali dei partiti e delle organizzazioni politiche, ai quali i candidati si riportano fedelmente, tali squilibri non sembrano accettabili.
A cio' si aggiunga che la competizione elettorale avverra' in collegi che consentiranno l'individuazione di pochi eletti.
Inevitabilmente cio' determinera' soglie "naturali" di sbarramento alte, ben oltre quel 5% sul quale le forze politiche stanno discutendo in sede di modifica della legge elettorale. C'e' chi le calcola in una percentuale compresa tra il 12% e il 20%, ma, indipendentemente dalla precisione aritmetica, e' giocoforza che la riduzione dei parlamentari, a ordinamento elettorale invariato, comportera' il rafforzamento delle forze politiche maggiori, con buona pace delle minoranze politico-sociali e della possibilita' di incalzare le grandi organizzazioni lungo la strada del cambiamento e dell'ascolto.
La conclusione appena esposta diventa ancor piu' evidente se si pensa che, a sistema di attribuzione dei seggi invariato – maggioritario con liste bloccate – ci troveremo di fronte a macro-collegi nei quali i candidati dovranno confrontarsi con grandi porzioni di territorio e con un grande numero di elettori. Piu' concretamente, significa che a correre con probabilita' di successo potranno essere solo due tipologie di candidati: quelli dotati di un patrimonio misurabile in cospicue risorse economiche e quelli muniti di un altro tipo di patrimonio, apprezzabile in termini di "potere" nell'organizzazione di appartenenza, conformismo alle decisioni del capo, attitudine alla disciplina di partito. L'optimum per avere chances sarebbe sommare le due ricchezze.
Il rafforzamento delle oligarchie – l'eterogenesi dei fini di cui si e' detto – e' forse l'aspetto piu' imperdonabile della proposta di riforma, perche' muove in direzione esattamente contraria rispetto ai bisogni attuali della Repubblica parlamentare.
Viene da chiedersi che fine faranno, con questo aumento esponenziale del potere di scelta dei vertici di partito, quei formidabili dissenzienti e irregolari – Stefano Rodota', Mario Gozzini, Franca Ongaro Basaglia, Adele Faccio, ma e' solo un elenco sentimentale che ognuno puo' completare – che hanno popolato le aule parlamentari e che, nelle maglie di controlli comunque ferrei dei partiti di massa, riuscivano a esprimere istanze culturali e politiche avanzate e non subalterne, tali da rendere piu' civile e laico il tessuto legislativo del Paese.
E' paradossale come l'antipolitica nostrana non sappia concepire la politica in altro modo che come secca alternativa tra privilegio di casta e avventura dell'"uno vale uno", dimenticando l'ingrediente fondamentale della lotta consapevole e collettiva per i diritti. Soltanto cosi', all'interno di questo bivio fasullo, e' spiegabile la svendita della rappresentanza alla pancia delle persone.
In conclusione, dunque, la ragione principale per respingere questa riforma costituzionale risiede nell'attitudine di quest'ultima a delegittimare e mortificare il Parlamento, piu' che a rafforzarlo e vivacizzarlo.
Si misura qui l'enorme distanza che separa la legge attuale dai disegni di legge progressisti di riduzione del numero dei Parlamentari avanzati negli anni Ottanta (a firma, tra gli altri, di Stefano Rodota' e Gianni Ferrara). Quei progetti avevano l'obiettivo dichiarato di avvicinare rappresentanti e rappresentati, di rendere piu' coesa e agile l'istituzione rappresentativa e di restituire competitivita' alla legge ordinaria quale fonte di produzione del diritto ordinaria. Non a caso, a queste proposte si accompagnava la previsione del monocameralismo o, comunque, una riforma "nel" bicameralismo.
Al contrario, la revisione che ci apprestiamo a votare finisce per sfibrare la rappresentanza parlamentare, con il pericolo che in futuro se ne possa predicare in maniera definitiva l'irrilevanza.
Avremmo bisogno di altre riforme, senza necessita' di toccare la Costituzione: partire da una seria opera di igiene della grammatica parlamentare, effettuabile anche con semplici modifiche dei regolamenti, per terminare con una legge elettorale che torni a mettere nelle mani degli elettori il potere di scelta.
Soltanto cosi', verosimilmente, potranno essere rivitalizzate quelle formazioni politiche e quelle organizzazioni sociali che, ormai sclerotizzate, hanno smesso di catalizzare la partecipazione e di raccogliere i bisogni per trasformarli in diritti.
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Riferimenti bibliografici e citazioni
Le affermazioni di Felice Besostri sono contenute in Il Taglio dei Parlamentari e' un regalo alla Casta, pubblicato in Left, 27 agosto 2020, mentre le parole di Massimo Luciani si trovano nell'intervista rilasciata a Repubblica, 21 agosto 2020: Referendum, Massimo Luciani: Con il si' al taglio dei parlamentari, le Camere non funzioneranno. Le piu' chiare osservazioni in punto di matematica della rappresentanza sono in Perche' No, a cura di Andrea Fabozzi, pubblicato su Il Manifesto, 20 agosto 2020, e in No al referendum sul taglio dei parlamentari, Le Talpe di Volerelaluna, n. 22-2020, reperibile su www.volerelaluna.it. Limpido come di consueto, sempre sul punto, Domenico Gallo, I numeri del referendum, pubblicato il 4 settembre 2020 sul Corriere dell'Irpinia e rinvenibile su www.domenicogallo.it. Il riferimento alla democrazia immaginaria e' invece tratto da un articolo di Pierfranco Pellizzetti, sul blog di Micromega del 28 agosto 2020, dal titolo Sentitamente Si'.

6. REPETITA IUVANT. "IL MANIFESTO": REFERENDUM COSTITUZIONALE SUL TAGLIO DEL PARLAMENTO, DIECI MOTIVI PER DIRE NO
[Dal quotidiano "Il manifesto" riprendiamo questo articolo del 20 agosto 2020 dal titolo "Referendum costituzionale sul taglio del parlamento: perche' No" e il sommario "Tra un mese il voto. L'etichetta della legge e' semplice: 230 deputati e 115 senatori in meno. Ma il contenuto e' pericoloso. Dieci motivi per dire di No"]

1. A conti fatti si risparmia la meta'
Cominciamo da qui, dai soldi, perche' e' l'argomento "forte" del Movimento 5 Stelle, sebbene non originale. Quattro anni fa, infatti, era stato il Pd (Renzi) a scrivere sui suoi manifesti che "Basta un si' per cancellare poltrone e stipendi" – e' noto che quel referendum costituzionale lo vinsero i no. Sul manifesto dei grillini c'e' scritto adesso "1 miliardo per i cittadini", a tanto ammonterebbe il risparmio ottenuto con 345 "stipendi" parlamentari in meno.
La cifra e' fortemente esagerata: per raggiungerla ci vorrebbero dieci anni (due legislature) e 100 milioni di risparmi l'anno. I 5 Stelle giurano che saranno tanti ma e' facile smentirli. Gli ultimi bilanci di camera e senato indicano infatti tra indennita' e rimborsi una spesa di 144,885 milioni di euro per i deputati e 79,386 milioni per i senatori. Il che vuol dire che 230 deputati in meno garantirebbero un risparmio di 52,9 milioni e la rinuncia a 115 senatori significherebbe risparmiare 28,530 milioni.
Anche cosi' la promessa grillina non e' rispettata, il totale fa 81,430 milioni in meno l'anno, non 100. Ma e' un calcolo fatto al lordo delle tasse, perche' lo stato recupera una parte dell'indennita' sotto forma di Irpef e di addizionali regionali e comunali. Sono circa dieci milioni di gettito per i deputati e sei per i senatori. Il risparmio netto quindi e' piu' basso: 42,7 milioni per i deputati e 22,7 milioni per i senatori, totale 65,4 milioni l'anno.
C'e' di piu': una quota dei rimborsi che spettano ogni anno ai deputati e ai senatori e' destinata a pagare i collaboratori. Chi vuole tagliare le "poltrone" non ha ancora mai detto di volere parimenti licenziare gli assistenti (e per certi versi, anzi, il loro numero potrebbe addirittura salire, vedremo piu' avanti). Il vero risparmio netto dunque puo' essere calcolato in 36 milioni per i deputati e 17 milioni per i senatori, per un totale che e' quasi la meta' di quello annunciato dai sostenitori del si'.
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2. Non si toccano altre voci
Ma e' giusto mettere tanta attenzione ai risparmi, quando si parla di un'istituzione come il parlamento? Se la vostra risposta e' comunque si', e anche 50 milioni l'anno non vi sembrano affatto trascurabili, e' bene considerare che questo risparmio ottenuto tagliando la rappresentanza permetterebbe di fare economia sulle spese annuali di camera e senato soltanto per il 2,5%. Per avere un metro di paragone, si puo' considerare che le spese totali di camera e senato per il personale (stipendi e previdenza, parliamo quindi di tutti tranne che degli eletti) sono di circa 350 milioni l'anno. Vale a dire sette volte quello che si risparmierebbe rinunciando a 230 deputati e 115 senatori. Queste spese non saranno toccate.
Cinquanta milioni all'anno vuol dire che per arrivare al miliardo di minori spese reclamizzato da Di Maio (che ha anche gia' pubblicato uno schema di cosa intende fare, subito, con quei soldi) bisognera' arrivare alla fine di quattro legislature intere con il parlamento ridimensionato. A partire dalla prossima (se vincono i si'). Quindi appuntamento al 2043.
Intanto gli economisti dell'Osservatorio sui conti pubblici italiani guidato da Carlo Cottarelli hanno calcolato per il taglio di 445 parlamentari un risparmio molto vicino a quello che abbiamo stimato noi, per loro sono 57 milioni l'anno. E hanno aggiunto che si tratta appena dello 0,007% della spesa pubblica italiana (camera e senato hanno bilanci autonomi, ma evidentemente i risparmi comporterebbero minori trasferimenti pubblici). Dividendo infine il risparmio annuo per tutta la popolazione italiana, l'Osservatorio sui conti pubblici ha concluso che si tratta dell'equivalente di un caffe' (0,95 centesimi) all'anno per ognuno di noi 60 milioni. In cambio di un bel taglio alla rappresentanza.
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3. Giu' il rapporto tra eletti e popolo
La rappresentanza, eccoci al punto. Gli aspetti da valutare sono due. Il primo e' il rapporto tra il numero degli abitanti e il numero dei parlamentari (deputati e senatori). Piu' e' alto questo rapporto, meno i cittadini sono rappresentati, nel senso che un parlamentare deve rappresentare una fetta maggiore di "popolo". Allora facile capire perche' negli ultimi cento anni i deputati siano sempre cresciuti, prendiamo come riferimento la legislatura del 1919 perche' fu la prima in cui entro' in funzione l'attuale aula di Montecitorio (e fu l'ultima legislatura senza Benito Mussolini tra i banchi), allora gli italiani non arrivavano a 40 milioni.
Dal 1919 a oggi i deputati sono aumentati di 112 unita' (erano allora 518), sempre crescendo con l'eccezione delle due legislature elette con il sistema plebiscitario durante il regime fascista. Curiosita': in quel periodo i seggi per i deputati furono ridotti proprio a 400 come si intende fare adesso. Nel 1948 la Costituzione non previde un numero fisso di deputati e senatori. I primi avrebbero dovuto essere uno ogni 80mila abitanti o frazione superiore ai 40mila, mentre i senatori sarebbero stati uno ogni 200mila abitanti o frazione superiore a 100mila. Di conseguenza nella prima legislatura i deputati furono 572 e i senatori 237.
Il rapporto con la popolazione fu congelato nel 1963, quando una riforma costituzionale stabili' un numero fisso di parlamentari: 630 deputati e 315 senatori (piu' i senatori a vita e gli ex presidenti della Repubblica). Malgrado siano trascorsi quasi sessant'anni da quelle riforma costituzionale, il rapporto tra elettori ed eletti e' rimasto su per giu' lo stesso: e' un po' aumentato alla camera, dove oggi c'e' un deputato ogni 96mila abitanti ed e' un po' diminuito al senato, dove c'e' oggi un senatore ogni 192mila abitanti. Con il taglio queste proporzioni sarebbero stravolte.
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4. Diventeremo gli ultimi tra i paesi Ue
"L'Italia e' il paese con il numero piu' alto di parlamentari". Quante volte lo avete sentito dire dalla propaganda per il si'? Talvolta lo slogan viene appena un po' corretto aggiungendo "elettivi" a "parlamentari", tanto e' evidentemente falso: basta dire che nel Regno Unito i parlamentari sono piu' di 1.400. Ma a Londra ci sono i lords che hanno una funzione e soprattutto una carica, non elettiva, imparagonabile a quella dei nostri rappresentanti del popolo.
Problema simile c'e' con molte altre camere "alte" degli altri paesi, che spesso sono non elettive o rappresentano le autonomie locali o gli stati federati. Piu' facile il raffronto con le camere "basse", ovunque elette direttamente dal popolo. Oggi l'Italia con i suoi 96mila abitanti per deputato e' uno degli stati con maggiore rappresentativita': piu' del Regno Unito (un deputato ogni 102mila abitanti), piu' dell'Olanda (uno ogni 114mila), della Germania e della Francia (entrambe hanno un deputato ogni 116mila abitanti) e piu' della Spagna (uno ogni 133mila).
Un rapporto maggiore tra elettori ed eletti rispetto al nostro c'e' in Danimarca, Finlandia, Svezia, Belgio, Polonia, Grecia e Portogallo, tra gli altri. Non e' corretto pero' dire, come dicono i 5 Stelle, che con la riforma l'Italia si "allineera'" ai maggiori paesi europei. Il taglio di 230 deputati infatti portera' il nostro rapporto fino a un deputato ogni 151mila elettori. Diventeremmo cioe' di colpo il paese con la peggiore rappresentativita' tra tutti i 28 appartenenti all'Unione europea. E di gran lunga, visto che dopo di noi ci sarebbe la Spagna, ferma a un deputato ogni 133mila abitanti.
Peraltro a Madrid la camera "alta" e' a composizione mista – in parte e' eletta a suffragio universale, in parte e' designata dalle comunita' autonome – comunque piu' grande del nuovo senato italiano (266 senatori contro i nostri 200) per una popolazione assai inferiore (46 milioni contro i nostri 60 milioni).
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5. Territori penalizzati (chi piu', chi meno)
Ma il problema della rappresentanza e' anche un altro e riguarda i territori. Perche' diminuendo notevolmente il numero degli eletti a livello nazionale, meno 230 deputati e meno 115 senatori come detto, diminuisce ovviamente quello dei rappresentanti dei singoli territori. Fino a diventare un numero esiguo, questo e' vero soprattutto al senato.
Con 196 senatori (quattro sono destinati a essere eletti all'estero) da distribuire nelle venti regioni – confermate le "quote minime" di un senatore in Valle d'Aosta e due in Molise – il taglio sara' pesante dappertutto. Ma non ugualmente pesante. Per esempio la Toscana perdera' sei senatori (da 18 a 12), con un taglio del 33,3%. Sotto la media nazionale, che e' del 36,5%. Piu' penalizzato il Friuli Venezia Giulia, che subira' un taglio del 42,9%, stessa percentuale dell'Abruzzo (entrambe le regioni passeranno da 7 a 4 senatori). Male anche la Calabria, con meno 40% (da 10 a 6 senatori).
Ma soprattutto a essere penalizzate saranno l'Umbria e la Basilicata, che passeranno da 7 a 3 senatori, per entrambe meno 57,1%. Un abisso paragonato al Trentino Alto Adige, che – per via delle due province autonome alle quali e' stato garantito un numero uguale di senatori – perdera' in totale appena un seggio, scontando una diminuzione della rappresentanza parecchio sotto la media nazionale: meno 14,3%.
Il risultato di questa distribuzione e' la fotografia di un'Italia diseguale, dove in Trentino Alto Adige in media ci sara' un seggio elettivo per il senato ogni 171mila abitanti. E in Sardegna un seggio elettivo ogni 328mila abitanti, vale a dire quasi il doppio. Naturalmente questo ha effetti anche sulla rappresentanza politica, penalizzando le liste meno forti, oltre che sulla rappresentanza territoriale.
Come cercheremo di spiegare nella prossima scheda.
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6. La soglia di sbarramento "naturale"
Della legge elettorale parleremo altrove, ma intanto e' bene ricordare che i partiti – maggioranza e opposizione – si stanno attualmente dividendo attorno alla questione della soglia di sbarramento. Nella proposta all'esame della camera questa soglia e' fissata al 5% e c'e' chi la considera, con buone ragioni, eccessiva. Ma e' solo la soglia "esplicita", quella che e' scritta nella legge. Assai piu' alta e' la soglia "implicita", quella che concretamente le liste dovranno raggiungere per sperare di avere un eletto, questo proprio perche' gli eletti nel collegio sono molto pochi.
Ancora una volta dunque il problema si pone soprattutto al senato. Per esempio, in Liguria dove si eleggeranno, se il taglio sara' approvato, solo cinque senatori, superare il 5% non servira' a niente, visto che la soglia "implicita" sara' di oltre il doppio (circa il 12,5%). La Basilicata con i suoi tre senatori soltanto vedra' all'opera una soglia effettiva di quasi il 20%: raggiungibile secondo gli attuali sondaggi soltanto da due partiti. Il problema, attenuato, si pone anche alla camera.
Al senato e' piu' pesante perche' si aggiunge la previsione costituzionale in base alla quale la camera "alta" deve essere eletta su base regionale. Questo vuol dire che un partito per conquistare rappresentanti sul territorio deve superare entrambi gli sbarramenti a livello regionale, quello legale e quello "naturale" (il secondo e' di regola piu' alto del primo).
A questo secondo problema si sta cercando di porre rimedio con una riforma costituzionale appena all'inizio dell'iter parlamentare: cancellerebbe la base regionale per l'elezione del senato, introducendo come per la camera la base circoscrizionale. Resta il problema che partiti piccoli, quando sul territorio si eleggono pochissimi rappresentanti, sono condannati a restare fuori.
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7. Lavori piu' difficili, meno efficienza
Poco male, si dira', se tutto questo servira' a rendere il parlamento piu' efficiente. Perche' e' questo l'altro argomento ricorrente nei discorsi dei sostenitori del si'. Meno parlamentari significa lavori piu' spediti, posto l'indimostrato teorema che un parlamento e' tanto piu' efficiente quanti atti legislativi produce. Spesso e' vero il contrario.
In ogni caso, e' proprio cosi'? In realta' oggi – anche prima dello stato di emergenza, che ha esasperato i problemi – l'attivita' parlamentare e' impostata secondo i ritmi del governo. Decreti legge da esaminare entro la scadenza e questioni di fiducia sono la regola. Il problema della sottomissione del potere legislativo alle esigenze di quello esecutivo, di vecchia data, non sara' per niente scalfito dalla diminuzione del numero dei parlamentari.
Soprattutto perche' questa viene fatta con un chiaro intento antiparlamentare, visto che si tratta di rinunciare a un costo considerato improduttivo. Nella realta' la camera e il senato, condannati da un bicameralismo paritario – che non e' nemmeno scalfito da questa riforma – possono comunque lavorare in sincrono, portando avanti contemporaneamente progetti di legge diversi.
I lavori delle commissioni poi non saranno per nulla facilitati, visto che i regolamenti prevedono che possano andare avanti con un terzo dei commissari presenti: il che significa nove deputati o cinque senatori. Un numero troppo basso per un serio lavoro redigente.
A meno di non poter contare su uno staff molto largo e molto competente, come per esempio avviene nel senato degli Stati Uniti, dove i pochi senatori hanno a disposizione risorse enormi per gli uffici e i collaboratori. In conclusione, quindi, per avere garantita nel nuovo parlamento a ranghi ridotti almeno l'efficienza attuale, bisognera' spendere di piu'.
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8. Regolamenti superati, ma non cambiati
C'e' il famoso accordo di maggioranza, che aveva previsto alcune condizioni perche' il Pd e gli altri alleati dei 5 Stelle dessero il via libera al taglio dei parlamentari. Il si' c'e' stato ma le condizioni, chiamate "riequilibri", non si sono realizzate. Non si e' realizzata anzi non e' stata neanche approvata in commissione quella legge elettorale a base proporzionale che dovrebbe recuperare – ma solo un po' – la perdita di rappresentativita' che certamente derivera' dal taglio lineare dei parlamentari.
E non si sono realizzate le altre riforme costituzionali che, giusto o sbagliato che sia, Pd e Leu avevano considerato sufficienti a "riequilibrare" le istituzioni: l'equiparazione dell'elettorato attivo e passivo di camera e senato, la riduzione dei delegati regionali per l'elezione del presidente della Repubblica e la gia' citata introduzione della base circoscrizionale anche per l'elezione del senato.
Ma dove si avverte tutta l'incompletezza della riforma costituzionale voluta dei 5 Stelle e' nel mancato aggiornamento dei regolamenti parlamentari. Che sono stati scritti per i numeri attuali dei senatori e deputati e prevedono una serie di soglie a garanzia soprattutto delle minoranze. Trenta deputati, per esempio, oggi possono chiedere l'inversione dell'ordine del giorno, chiedere la votazione a scrutinio segreto, presentare subemendamenti agli emendamenti del governo: ovviamente 30 su 630 e' molto diverso rispetto a 30 su 400.
Le liste piu' piccole avranno difficolta' a formare un gruppo (20 deputati e 10 senatori), persino a entrare in tutte le attuali 14 commissioni e nelle giunte. In definitiva la vita delle minoranze sara' piu' difficile. I regolamenti, si dice, possono essere cambiati. E' vero, ma a parte che non sara' facile – serve la maggioranza assoluta e c'e' il voto segreto – non ci si doveva pensare prima?
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9. Il pasticcio del voto all'estero
Probabilmente non e' il principale, ma un bel problema il taglio dei parlamentari lo pone anche per la rappresentanza degli italiani all'estero. Rappresentanza prevista da una riforma pensata male (Tremaglia) e realizzata peggio, ma che in ogni caso oggi stabilisce (legge 459 del 2001) che i deputati e senatori eletti all'estero siano scelti con il sistema proporzionale e l'indicazione della preferenza.
Oggi la circoscrizione estera piu' grande e' quella europea (oltre due milioni e mezzo di residenti iscritti all'Aire) a seguire quella dell'America meridionale (un milione e mezzo), assai piu' piccole le circoscrizioni dell'America centrosettentrionale e di Africa, Asia e Oceania.
Non avendo avuto il coraggio di rinunciare ai seggi assegnati all'estero, con il taglio dei parlamentari nazionali e' stata tagliata anche la delegazione estera, percentualmente un po' meno: si passa infatti da 12 a 6 deputati e da 8 a 4 senatori. Il risultato e' che il deputato eletto nella circoscrizione piu' piccola (Africa, Asia, Oceania) sara' tre volte piu' rappresentativo di quello eletto nella circoscrizione piu' grande (Europa).
Il pasticcio principale e' stato fatto con i senatori, che essendo solo quattro giocoforza saranno uno per circoscrizione, che sia una circoscrizione grandissima o piccolissima. Avremo cosi' un senatore in rappresentanza dell'Europa intera, con tutto quello che significa in termini di campagna elettorale (impossibile e/o dispendiosissima) e rappresentanza. Ma anche con il tradimento del principio proporzionale stabilito dalla legge: tutti i collegi senatoriali delle circoscrizioni estero saranno nei fatti dei collegi uninominali. Il seggio andra' infatti a chi prende un voto in piu' e a lui soltanto.
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10. Un sacrificio lineare slegato da tutto
I difetti e le mancanze di questa riforma costituzionale sono tali che anche i sostenitori del si' a volte ricorrono all'argomento definitivo: in fondo sono quasi quarant'anni (dalla prima commissione bicamerale per le riforme) che si propone la riduzione dei parlamentari. E' vero, ma mai era stata proposta come un taglio lineare senza altri interventi sull'impianto istituzionale.
E' vero anche che per la riduzione si e' schierata in passato la sinistra, soprattutto dopo che le assemblee (legislative) regionali hanno ampliato e spostato verso il basso la rappresentanza. Ma la proposta (Ferrara, Rodota', 1985) anche in quel caso era di sistema e soprattutto prevedeva il monocameralismo. Una sola camera di 600 deputati eletta con una legge proporzionale non avrebbe tutti i problemi in termini di penalizzazione della rappresentanza territoriale e politica che ha invece la riforma dei 5 Stelle.
Riforma, quest'ultima, comparsa per la prima volta in un documento ufficiale nella nota di aggiornamento al Def del settembre 2018 (governo gialloverde Conte-Salvini) legata pero' a doppio filo con l'introduzione della "democrazia diretta". Velocissimo l'iter di approvazione: dalla prima lettura della prima deliberazione (febbraio 2019 al senato) alla seconda lettura della seconda deliberazione (ottobre 2019 alla camera) sono passati appena otto mesi.
Difficile trovare precedenti cosi' rapidi di riforme costituzionali negli ultimi venti anni. Persino l'abolizione della pena di morte nel 2007 e l'introduzione della parita' di genere nell'accesso alle cariche elettive nel 2003 sono state piu' meditate. L'unica modifica costituzionale che e' stata approvata a questa velocita' (anche a maggioranza qualificata) e' stata l'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione nel 2012.
Quasi tutti se ne sono pentiti.

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NO ALL'ANTIPARLAMENTARISMO, NO AL FASCISMO, NO ALLA BARBARIE
No alla riforma costituzionale che mutila la democrazia rappresentativa e mira ad imporre un regime totalitario nel nostro paese
Al referendum del 20-21 settembre votiamo no all'antiparlamentarismo, no al fascismo, no alla barbarie
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXI)
Numero 35 del 17 settembre 2020
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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