[Nonviolenza] La nonviolenza contro il razzismo. 346



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LA NONVIOLENZA CONTRO IL RAZZISMO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XX)
Numero 346 del 28 dicembre 2019

In questo numero:
1. Due provvedimenti indispensabili per far cessare le stragi nel Mediterraneo e la schiavitu' in Italia
2. Anna Anfossi: Movimenti nonviolenti (1996)

1. REPETITA IUVANT. DUE PROVVEDIMENTI INDISPENSABILI PER FAR CESSARE LE STRAGI NEL MEDITERRANEO E LA SCHIAVITU' IN ITALIA

Riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di giungere nel nostro paese in modo legale e sicuro.
Riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.

2. REPETITA IUVANT. ANNA ANFOSSI: MOVIMENTI NONVIOLENTI (1996)
[Dal sito www.treccani.it riproponiamo la voce "Movimenti nonviolenti" apparsa nell'Enciclopedia delle scienze sociali del 1996]

Sommario
1. La nonviolenza: cenni storici. 2. Definizioni della nonviolenza e sue implicazioni: a) la nonviolenza come valore e come scopo; b) scelta etica e scelta razionale; c) l'azione nonviolenta; d) la nonviolenza 'arma dei deboli' o 'potere popolare'. 3. Tipologia dei movimenti nonviolenti: a) contro il colonialismo; b) contro i regimi totalitari; c) rivendicazione di diritti; d) sostegno a politiche alternative. 4. Caratteristiche dei movimenti nonviolenti: a) strutture, leadership e impegno dei partecipanti; b) problemi affrontati e tipo di partecipanti; c) piccoli gruppi, reticoli, coinvolgimento; d) il ruolo delle grandi organizzazioni. 5. Contesto sociopolitico, opinione pubblica e mass media. Bibliografia.
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La nonviolenza: cenni storici
I movimenti nonviolenti e lo stesso dibattito sul concetto di nonviolenza sono fenomeni che hanno un rilievo sociopolitico nel mondo contemporaneo, a partire dalla seconda meta' dell'Ottocento. Nella cultura occidentale la nonviolenza appare come un valore non negativo ma perdente, un'istanza teorica, nobile ma remota per chi persegua scopi di potere. Il riferimento teorico di chi vuole il potere e' Machiavelli, che considera la violenza uno strumento affatto lecito e pertinente quando una valutazione razionale delle possibilita' di agire con successo la richieda. Nella tradizione occidentale infatti la nonviolenza appartiene all'ambito di valori e di comportamenti della religione, in modo specifico della religione cristiana, sebbene spesso si tratti di un richiamo teorico piuttosto che di una regola di vita.
In ambito religioso, il concetto di nonviolenza e la prassi che ne consegue compaiono esplicitamente in India gia' nella tradizione del brahmanesimo piu' antico, e, nel VI-V secolo a.C., essi diventano uno degli elementi fondanti del buddhismo e del jainismo. Il termine sanscrito e' ahimsa, espressione che, nella tradizione sia buddhista sia jainica, significa 'non far del male ad alcun essere vivente'.Nel cristianesimo il principio della nonviolenza e' essenziale, in quanto vi si manifesta l'amore che l'uomo deve a Dio e agli altri uomini, anch'essi figli di Dio. Il precetto della nonviolenza e' enunciato nel Vangelo di Matteo: "Avete inteso che fu detto occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio, anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra" (5, 39) e "Rimetti la spada nel fodero, perche' tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada" (26, 52). Il cristianesimo primitivo, come testimoniano il comportamento nonviolento di fronte alle persecuzioni adottato dai fedeli e le enunciazioni di molti Padri della Chiesa, riconobbe nella nonviolenza nei confronti degli altri uomini uno dei primi doveri cristiani. Quando il cristianesimo nel IV secolo si istituzionalizzo' e divenne religione dello Stato, il principio della nonviolenza, peraltro mai rinnegato, perse rilievo anche nelle enunciazioni di molti Padri della Chiesa, a cominciare da Agostino, che lo considero' meno importante del dovere di combattere il male. Le lotte per liberare la Terra santa e la Spagna dai musulmani o la Francia meridionale dagli eretici albigesi furono condotte in nome del dovere di evangelizzare e di convertire, di fronte al quale l'esortazione evangelica alla nonviolenza passava in secondo piano. Alla nonviolenza e alla sua pratica si richiamarono sia i francescani, nell'ambito dell'ortodossia cattolica, sia molti dei gruppi ereticali (catari, valdesi, hussiti e altri) comparsi in Europa tra l'XI secolo e la fine del Medioevo. Le maggiori Chiese riformate (luterana, calvinista, anglicana) non fecero della nonviolenza un principio centrale della loro dottrina; in ambito soprattutto ma non esclusivamente anglosassone, pero', si incontrano precise prese di posizione in favore della nonviolenza presso Chiese minoritarie o sette: per esempio, i mennoniti olandesi; i membri della Societa' degli amici, fondata da John Fox (XVII secolo), cioe' i quaccheri (quakers); sempre nel XVII secolo, i battisti, seguaci di William Penn (che diede il nome allo Stato della Pennsylvania), contrari alla pena di morte e alla guerra (all'iniziativa dei battisti si devono, piu' tardi, i primi riconoscimenti del diritto all'obiezione di coscienza in Gran Bretagna e negli Stati Uniti).
L'illuminismo e il pietismo misero l'accento non tanto sulla nonviolenza quanto sulla tolleranza. La nonviolenza torna esplicitamente alla ribalta verso la fine dell'Ottocento, nelle appassionate prese di posizione di Lev Tolstoj (1828-1910) e nella corrente fabiana del socialismo britannico. A queste posizioni, oltre che, ovviamente, alla tradizione jainica (vi apparteneva la famiglia materna) e buddhista, si richiamo' Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948), il Mahatma (magnanimo). Sia nelle posizioni tolstoiane e fabiane in Europa, sia in quelle del movimento gandhiano in Asia e in Africa, la nonviolenza si configura come una risposta, nella teoria e nella prassi, alla violenza cui fanno ricorso le classi alte dei vari paesi, nel gestire la politica interna e la politica estera. Le classi alte, infatti, ricorrono alla violenza, all'interno, per contenere o reprimere le rivendicazioni avanzate dalle classi basse (quali il proletariato industriale in Gran Bretagna, il proletariato rurale nella Russia zarista, la popolazione di colore in Sudafrica); all'esterno la usano soprattutto nei confronti delle loro colonie. La nonviolenza, come ideologia e come prassi, per Tolstoj come per Gandhi, si oppone pero' anche a quegli stessi movimenti rivoluzionari che, negli ultimi decenni dell'Ottocento e all'inizio del Novecento, combattono anch'essi le classi e i paesi dominanti, in nome della liberta' e dell'uguaglianza, ma, non escludendo la violenza ne' come concetto-valore ne' come strumento, ricalcano di fatto quegli stessi comportamenti che intendono combattere. In Italia, negli anni trenta, la nonviolenza gandhiana fu teorizzata da Aldo Capitini (1899-1968), che cerco' di farne un metodo di lotta alla dittatura fascista e, nel dopoguerra, vi si ispiro' per le sue campagne pacifiste. Nella seconda meta' del Novecento, le posizioni cristiane e gandhiane di nonviolenza trovano l'espressione di maggior rilievo in Martin Luther King (1929-1968) e nelle lotte da lui guidate per i diritti civili dei neri degli Stati Uniti.
Anche un'etica laica puo' affermare il principio e la pratica della nonviolenza come modello ideale del comportamento umano, pur riconoscendo la presenza ineliminabile della violenza nella natura e al tempo stesso l'appartenenza dell'uomo alla natura. La nonviolenza e', in questo caso, una scelta consapevole dell'uomo, che ne riconosce la difficolta', ma la pone come un imperativo rivolto al bene dell'individuo e della collettivita'. Nello Stato di diritto, concetto tipicamente moderno, la violenza nei rapporti sociali viene bandita e resta monopolio dello Stato: la nonviolenza assume quindi lo status di valore fondante della societa'.
In questa prospettiva si puo' dunque affermare che, in Occidente, la nonviolenza e i movimenti che l'assumono come elemento ideologico fondante sono stati investiti dal processo di secolarizzazione caratteristico degli ultimi tre secoli. Al tempo stesso, specie nella seconda meta' del Novecento, la nonviolenza e' tornata a occupare una posizione centrale nell'ideologia cristiana, nelle sue varie confessioni riformate e nelle enunciazioni ufficiali della Chiesa cattolica, specialmente dal Concilio Vaticano II in poi.
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Definizioni della nonviolenza e sue implicazioni
Definire la nonviolenza presuppone una definizione della violenza che puo' essere desunta dalle dichiarazioni dei leaders della nonviolenza e dalle osservazioni degli studiosi. Nella sua accezione essenziale la violenza vi appare come un attentato all'integrita' fisica o mentale e quindi alla dignita' degli esseri umani, mentre nelle interpretazioni piu' recenti l'offesa puo' dirigersi anche contro l'integrita' dell'intero ecosistema. La violenza puo' essere diretta, manifestarsi cioe' con azioni precise, o puo' essere 'strutturale' (cosi' viene definita da Galtung la violenza indiretta, praticata dalle e nelle istituzioni), quando deriva da situazioni istituzionalizzate (economiche, sociali, politiche), le quali menomino l'integrita' o la dignita' di esseri umani: ne sono un esempio le discriminazioni razziali. Alcune distinzioni sono importanti. Violenza e forza non sono termini intercambiabili: contro la violenza si puo' usare la forza della nonviolenza, senza mettere a repentaglio l'integrita' fisica o la dignita' di alcuno.
Definire la nonviolenza come la mancanza o l'opposto della violenza non e' pero' sufficiente e pone alcuni problemi. Anzitutto li pone la stessa sua connotazione negativa, l'essere appunto, semplicemente, la mancanza o l'opposto della violenza. Nelle lingue occidentali non si e' trovata un'espressione in positivo per indicare sia il valore sia la prassi che ne discende; la piu' convincente espressione in positivo e' la spagnola firmieza permanente, che mette l'accento sulla componente attiva della nonviolenza, senza pero' soddisfare l'esigenza di una connotazione semantica forte. Il termine 'mitezza', proposto da Norberto Bobbio, oltre a non trovare un esatto corrispettivo in altre lingue occidentali, non sembra poter aspirare allo status semantico di valore assoluto che i teorici moderni, a partire da Tolstoj e da Gandhi, attribuiscono al 'valore' nonviolenza. D'altra parte, pero', concentrare l'attenzione sulla negazione puo' anche essere interpretato come un segno della forza che si vuol dare al rifiuto del concetto stesso di violenza.
L'espressione negativa cela tuttavia un'altra insidia: la nonviolenza potrebbe essere interpretata come sinonimo di passivita'; il fatto che soprattutto le prime azioni gandhiane in Sudafrica siano state dallo stesso Gandhi chiamate 'resistenza passiva' potrebbe indurre a questa interpretazione. Gandhi, tuttavia, rifiuto' sempre con fermezza l'identificazione della nonviolenza con la passivita' e su questo punto tutti i teorici e gli studiosi della nonviolenza concordano. La nonviolenza comporta l'essere attivi, richiede coraggio e determinazione: secondo Gandhi la violenza puo' addirittura essere preferibile alla codardia.
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La nonviolenza come valore e come scopo
La nonviolenza e' dunque un valore, prima ancora di diventare una norma che si traduce in comportamenti tesi a raggiungere obiettivi specifici; e' essa stessa un obiettivo generale, un imperativo etico, al quale devono conformarsi gli altri scopi che la accompagnano. Questo e' un tratto essenziale della definizione che i teorici della nonviolenza danno di essa. Nella nostra tradizione culturale, infatti, quando parliamo di nonviolenza ci riferiamo anzitutto ai mezzi usati per raggiungere gli scopi che ci siamo prefissi; assai meno la colleghiamo agli scopi stessi in modo esplicito, quasi si trattasse di un aspetto secondario, forse pleonastico, oppure come se ritenessimo scindibili fini e mezzi. Per i teorici della nonviolenza come Gandhi o Martin Luther King, invece, la nonviolenza, prima ancora di essere un metodo, e' un elemento ideologico essenziale, uno dei fini che ci si propone; non ne predetermina pero' i contenuti, sebbene escluda ovviamente quelli nei quali la violenza e' una componente intrinseca. I movimenti nonviolenti possono dunque occuparsi di problemi congruenti con le visioni del mondo che escludano la violenza, ma anche di problemi per cosi' dire neutrali nei confronti della violenza: possono 'lottare per la pace', ma anche occuparsi di rivendicazioni sindacali, di 'diritti umani', di minoranze e cosi' via.
L'ambito di azione dei movimenti nonviolenti puo' dunque coincidere con quello di movimenti ispirati ad altre e diverse ideologie, quali, per esempio, il socialismo o i vari tipi di solidarismo cristiano. Pur non dichiarando la nonviolenza tra i loro principi, questi movimenti di solito vi si attengono nei loro metodi di lotta; essi sono contraddistinti da un'ideologia forte, che ha chiaramente la funzione di aggregare e motivare i partecipanti, peraltro spesso (e' il caso dei movimenti sindacali) accomunati da condizioni di vita e di lavoro simili. Anche la nonviolenza si presenta come ideologia forte, capace di aggregare e motivare i partecipanti, i quali pero' non necessariamente condividono condizioni socioeconomiche simili; gli altri scopi che essi perseguono sono in sott'ordine rispetto all'ideologia: se questa viene meno, si snaturano gli altri scopi e il movimento perde la sua ragion d'essere.
Per altri teorici invece, in particolare per la corrente che fa capo a Gene Sharp (non a caso si tratta di una corrente statunitense), non sono tanto convinzioni etico-filosofiche quanto motivi pragmatici a indurre a preferire metodi nonviolenti.
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Scelta etica e scelta razionale
E' importante distinguere tra la nonviolenza come principio che ispira i comportamenti e la nonviolenza nei comportamenti; quest'ultima puo' essere dettata da principi e motivazioni affatto diversi. Ci si puo' astenere deliberatamente dalla violenza, perchs', in quella situazione specifica, la violenza 'non paga': calcolati vantaggi e svantaggi, 'i costi e i benefici' che potrebbero derivare da comportamenti violenti e quale che sia lo scopo da raggiungere, si conclude che gli svantaggi superano i vantaggi prevedibili. Per esempio, non si dispone della forza sufficiente per poter usare la violenza, oppure usare la violenza danneggerebbe irreparabilmente l'immagine che si vuol dare di se'. Si tratta, in ogni caso, di un calcolo affatto 'razionale', frutto di un'analisi della situazione e delle conseguenze prevedibili di un intervento che intenda modificarla. Anche la previsione che l'uso della violenza possa attivare un processo crescente di violenza, una escalation, che, alla fine, danneggera' tutti, e' manifestazione di un atteggiamento razionale, che puo' ben coesistere con una posizione di principio etica, senza pero' identificarvisi.
La razionalita' da sola non e' dunque sufficiente per garantire che un comportamento sia autenticamente nonviolento. Non basta la pratica della nonviolenza, non motivata come teoria, a caratterizzare un movimento nonviolento; non basta nemmeno la motivazione che la violenza non paghi, perche' provoca una escalation, in quanto questo criterio puramente utilitaristico potrebbe subito essere ripudiato, nel momento in cui si ritenesse che, nella fattispecie, la violenza paghi.
Filosofi e pragmatici della nonviolenza possono peraltro trovarsi d'accordo nel constatare che la nonviolenza puo' dare risultati migliori di quelli sortiti dalla violenza, per quanto riguarda sia gli attori individuali coinvolti, sia la situazione nel suo complesso, anche se non tutti condividono la convinzione gandhiana che la risoluzione nonviolenta di un conflitto porti al perfezionamento morale dei contendenti.
Molti movimenti nascono nonviolenti, spesso proprio in quanto nascono come reazione alla violenza, sia essa diretta o strutturale. In seguito, pero', in molti casi essi assumono comportamenti violenti, nel momento in cui l'azione nonviolenta sembri inadeguata a raggiungere gli obiettivi che si era proposta, tra i quali quello di bloccare o almeno arginare la violenza. Questo, in particolare, avviene se la nonviolenza non era esplicitamente dichiarata tra i principî informatori del gruppo o del movimento. Per questo motivo e' essenziale, nella prospettiva teorica della nonviolenza, che il principio della nonviolenza sia esplicitato come centrale tra gli obiettivi nei quali ci si riconosce.
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L'azione nonviolenta
La nonviolenza, lungi dall'identificarsi con la passivita', ne e' l'antitesi. Il principio etico non puo' prescindere dall'agire e l'azione, nei suoi scopi specifici e nel suo modo di estrinsecarsi, deve testimoniare il principio al quale si ispira. Gandhi da' un nome a questi concetti: ahimsa (la nonviolenza buddhista e jainica) esprime il principio etico, mentre l'azione che in modo coerente lo esplica viene chiamata, con un neologismo felice, satyagraha, tradotto di solito con 'forza della verita'' (satya: verita'; agraha: afferramento). Le forme e i modi del satyagraha sono quanto mai vari e, sottolinea Gandhi, essendo la creativita' una caratteristica del pensiero nonviolento, a quelli praticati se ne possono di continuo aggiungere altri, che l'inventiva dei nonviolenti suggerisce, spesso utilizzando come risorse i vincoli di una situazione. Vari autori, tra i quali Johan Galtung (v., 1982), individuano 15 forme di satyagraha, tre delle quali varianti di sciopero tipiche della cultura indiana (Hartal, Darna, Hizrat), mentre le altre sono conosciute e sono state praticate in tutto il mondo. Esse sono: il negoziato; l'arbitrato; l'agitazione, la dimostrazione, l'ultimatum; lo sciopero, compreso lo sciopero generale; il picchettaggio; il boicottaggio sociale; il digiuno; l'obiezione fiscale; la non collaborazione; la disobbedienza civile, ripartita in difensiva e offensiva; il governo parallelo.
Emerge, in questo crescendo di azioni, la chiara dimensione politica che caratterizza l'azione nonviolenta, ne' questo puo' stupire, date le circostanze in cui si sviluppo' l'attivita' di Gandhi e del movimento panindiano da lui suscitato: discriminazione razziale e di casta e dominazione straniera. La preminenza della dimensione politica nell'azione nonviolenta e' una caratteristica che si mantiene nel tempo. Che azioni per la pace siano inserite a pieno diritto nell'ambito politico e siano un modo classico di praticare il satyagraha appare ovvio; occorre tuttavia precisare che nonviolenza e pacifismo possono essere considerati affini soltanto se al pacifismo si riconosce la capacita' di esplicarsi in modo attivo e non lo si identifichi con l'assenza di resistenza.
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La nonviolenza 'arma dei deboli' o 'potere popolare'
Le azioni e i movimenti nonviolenti indicati appaiono congruenti con caratteristiche di intrinseca debolezza di attori sociali collettivi, di per se' privi di potere 'positivo'.
Per potere positivo si intende qui la capacita' di ottenere dagli altri i comportamenti desiderati, sia perche' il potere e' considerato legittimo e, weberianamente, si configura come 'autorita'', sia perche' l'ottemperanza alle sue richieste viene imposta mediante l'uso di un qualche tipo di forza. Questa forza puo' comportare una violenza diretta, una vera e propria coercizione fisica, ma puo' anche presentarsi come violenza strutturale, quando essa e' conseguenza di norme previste perche' un potere considerato legittimo possa attuarsi, anche senza che si debba ricorrere alla forza fisica: la privazione o la limitazione di diritti ne sono un esempio pertinente. Per potere 'negativo' si intende invece la capacita' di non praticare quei comportamenti richiesti e anzi di opporvisi, usando mezzi sia violenti (per esempio atti di sabotaggio), sia nonviolenti, di rifiuto (per esempio, non collaborare, non eseguire gli ordini ricevuti, praticare cioe' la 'resistenza passiva', ovviamente essendo pronti a subire le conseguenze che la violenza strutturale del potere impone). Molti teorici, tra i quali Gene Sharp, usano a questo proposito l'espressione 'potere popolare' (people power), che Gandhi stesso peraltro uso' e che mette appunto in evidenza la capacita' di contrastare e controllare il potere delle istituzioni politiche, economiche e culturali, capacita' di cui i cittadini collettivamente dispongono, e che, in quanto nonviolenta, delegittima il potere istituzionale violento.
Gli attori collettivi deboli possono essere tali perche' emarginati economicamente o perche' privi di diritti civili riconosciuti ad altri. Possono pero' non coincidere con gruppi emarginati, ma essere i gruppi piu' attivi, spesso costituiti in movimenti, che si fanno rappresentanti e paladini di intere popolazioni, i cui diritti sono conculcati da una violenza strutturale. In realta', ne' Gandhi ne' Martin Luther King hanno mai accettato che la nonviolenza sia 'l'arma dei deboli'. Essi la vedevano, al contrario, come una vera e propria dimostrazione di forza, capace di far crescere la forza suscitando nuove adesioni di persone decise a partecipare a quel tipo di lotta; una dimostrazione di forza che restava tale anche in caso di insuccesso, se era servita a far prendere coscienza dei problemi ai partecipanti e a far maturare la loro capacita' di azione. L'insuccesso doveva semmai dare inizio a un riesame critico dell'azione in tutte le sue fasi: una delle regole dell'azione nonviolenta e' infatti che essa venga preparata e decisa soltanto dopo che un esame condotto con la piu' rigorosa razionalita' ne dimostri la convenienza, cioe', in ultima analisi, la possibilita' di ottenere risultati positivi.
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Tipologia dei movimenti nonviolenti
Nel corso del Novecento si assiste a un progressivo dispiegarsi di azioni nonviolente, condotte da movimenti o che hanno dato origine a movimenti. Si tratta di azioni squisitamente politiche di opposizione organizzata al potere esistente; in base ai loro scopi, ma anche in relazione con il loro contesto sociopolitico, se ne può individuare una tipologia: 1) movimenti per l'indipendenza da regimi coloniali; 2) movimenti di liberazione da regimi totalitari; 3) movimenti di rivendicazione di diritti civili; 4) movimenti a sostegno di politiche alternative. Si citano qui, per ciascun tipo, alcuni tra i casi piu' significativi.
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Contro il colonialismo
Nella prima meta' del Novecento il principio e la prassi della nonviolenza si manifestano pienamente nella lotta della comunita' indiana nel Sudafrica contro le leggi razziali britanniche (1906-1914) e nella lotta per l'indipendenza dell'India dal dominio britannico (1915-1947): di entrambe fu iniziatore e protagonista il Mahatma Gandhi. Tra le azioni che ebbero maggior risonanza, ben al di la' dei confini dell'India, vi fu la 'marcia del sale' (1930-1931), contro la legge che imponeva una tassa gravosa e il monopolio statale sul sale; Gandhi con i suoi discepoli inizio' una marcia di ventisei giorni, per prendere sale dal mare come atto di disobbedienza civile. Questo fu l'inizio di una rivolta di massa, nonviolenta, in tutta l'India. Alla fine, dopo un anno, venne concordata una tregua. Piu' che i risultati concreti, in se' modesti, Gandhi considero' importante la prova di forza che gli Indiani erano riusciti a dare a se stessi e al governo britannico.
Contro i regimi totalitari
Negli anni quaranta, sia nell'Europa in guerra e in particolare durante la resistenza alla dominazione nazifascista, sia in America Latina (rovesciamento della dittatura in Guatemala e nel Salvador, nel 1944) si ebbero azioni nonviolente di successo, peraltro poco note fuori dei paesi dove ebbero luogo.
La lotta degli insegnanti norvegesi contro la nazificazione delle scuole (1942) e, nel 1943, il salvataggio di Ebrei, a Berlino, grazie alla manifestazione organizzata dalle loro mogli tedesche 'ariane', e in Danimarca, per opera della Resistenza, sono rimasti emblematici per la mobilitazione collettiva che ne ha reso possibile il successo.
Nella seconda meta' del secolo la resistenza al totalitarismo resta il tema aggregante di molti movimenti nonviolenti. Emblematici furono lo sciopero nel campo di lavoro forzato di Vorkuta in Unione Sovietica nel 1953, la resistenza all'occupazione militare in Cecoslovacchia nel 1968, la lotta contro la dittatura del generale Pinochet in Cile e contro la dittatura di Marcos nelle Filippine negli anni ottanta.
Nei decenni successivi azioni di resistenza ai regimi comunisti furono condotte con tecniche analoghe in molti paesi dell'Europa dell'Est e, soprattutto e con particolare successo, in Polonia, dove il sindacato clandestino Solidarnosc fu l'organizzatore della resistenza polacca al regime. Gli stessi grandi rivolgimenti politici avvenuti nel 1989 nei paesi europei dell'Est (la cosiddetta 'caduta del Muro di Berlino') sono avvenuti nella maggioranza dei casi in modo nonviolento, per la presenza e l'azione di movimenti clandestini che, anche per l'evidente disparita' di forze rispetto ai regimi al potere, avevano fatto della nonviolenza e delle sue tecniche la loro arma, anche se non sempre avevano fatto della nonviolenza il loro principio informatore.
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Rivendicazione di diritti
La lotta per il riconoscimento dei diritti civili e politici della massa dei fuoricasta indiani, che Gandhi chiamo' Harijan ('figli di Dio'), nella prima meta' del Novecento, e, negli anni cinquanta, quella guidata da Martin Luther King per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti, in particolare 'il boicottaggio degli autobus' a Montgomery, in Alabama, sono le piu' note, per il successo che hanno avuto in ambito giuridico e per il rigore con il quale sono state condotte; a esse si sono ispirati molti movimenti per organizzare le loro rivendicazioni di diritti conculcati.
Nella seconda meta' del secolo la gamma di problemi affrontati da movimenti nonviolenti riguardo ai diritti umani e ai diritti civili si fa assai ampia. Temi vecchi e nuovi si combinano, subito assumendo una valenza politica, poiche' si tratta di rivendicazioni che gruppi rapidamente organizzati in movimenti avanzano alle autorita' ufficiali ai vari livelli, locale, nazionale o anche in sede internazionale: l'obiezione di coscienza al servizio militare, le rivendicazioni delle donne, degli omosessuali, la difesa di gruppi speciali (malati in genere, handicappati, ecc.). Non sempre queste istanze e queste rivendicazioni sono portate avanti esclusivamente da movimenti nonviolenti, ma in tutti questi campi sono presenti.
Un caso molto interessante di azione articolata in piu' direzioni a favore di donne lavoratrici autonome, socialmente ed economicamente emarginate, e' offerto in India dalla SEWA (Self-Employed Women's Association), che e' insieme sindacato, cooperativa di servizi ed e' anche diventata una banca, in parte con contributi delle lavoratrici stesse, ad Ahmedabad, nel Gujarat, negli anni settanta e ottanta.
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Sostegno a politiche alternative
La pace e il disarmo, l'educazione a sistemi di valori in cui la nonviolenza sia elemento centrale, le campagne contro qualsiasi uso, anche non militare, dell'energia nucleare, la tutela dell'ambiente, le campagne contro la vivisezione e in difesa degli animali in generale e cosi' via: in questi temi si possono riconoscere rivendicazioni che vanno oltre l'abituale accezione giuridica della parola 'diritti'. In questo espandersi e differenziarsi di temi emerge una caratteristica ulteriore: non soltanto si difendono o rivendicano diritti, ma si affermano anche principi, si sollevano problemi, sino a quel momento trascurati, di fronte all'opinione pubblica in generale e non piu' essenzialmente in opposizione a centri di potere; si propongono alternative al modo consueto di porsi di fronte ai grandi problemi che si devono collettivamente affrontare.
Anche la molteplice attivita' di Danilo Dolci a Trappeto e Partinico, in Sicilia, iniziata nei primi anni cinquanta, si e' rivolta ai grandi temi della pace, dell'occupazione e dell'educazione e alla lotta contro la mafia, mediante scioperi, digiuni, marce, manifestazioni e attivita' di formazione presso le scuole e le famiglie e mediante convegni nazionali e internazionali. Le marce per la pace, l'obiezione fiscale alle spese militari, lo studio di modelli di difesa nonviolenti, le campagne per il disarmo nucleare configurano, in modi vari, delle realta' sociali alternative, costruite collettivamente dai cittadini in quanto individui, nel senso del 'potere popolare' (people power) sul quale molti teorici della nonviolenza insistono (Gandhi, Sharp, Galtung). Altrettanto avviene se l'attenzione si allarga, al di la' delle societa' umane, al mondo della natura, all'ecosistema, dal quale, del resto, dipende la possibilita' di sopravvivere della specie umana. Le operazioni del movimento Greenpeace ne sono un esempio eloquente. Altrettanto importante e' l'accento messo su una concezione alternativa dello 'sviluppo', inteso peraltro non in un mero senso economico: sviluppo 'globale' o 'sostenibile'.
Questo modo piu' ampio di concepire l'azione nonviolenta mette in speciale risalto un aspetto sempre presente nei movimenti nonviolenti: il ruolo essenziale che vi hanno l'informazione, l'educazione e la partecipazione attiva degli aderenti. Questo non soltanto perche' l'interiorizzazione dei valori e' necessaria affinche' il movimento possa esistere e operare, spesso in contrasto con gli istinti di difesa-aggressione che gli esseri umani condividono con gli animali, ma perche' saper valutare situazioni complesse e dimostrare creativita' nelle decisioni sono atti che richiedono anche conoscenze 'tecniche' (per esempio, giuridiche) non superficiali.
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Caratteristiche dei movimenti nonviolenti
Il fatto di praticare la nonviolenza e dichiararla quale principio informatore influisce sulle strutture, sulle strategie e sul tipo di adesione che i movimenti nonviolenti adottano o suscitano; e' inoltre in relazione con aspetti determinanti del contesto sociopolitico dai quali i movimenti traggono i loro contenuti, cioe' la loro ragion d'essere.
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Strutture, leadership e impegno dei partecipanti
Il movimento nonviolento interagisce, ai vari livelli che la sua azione comporta, con il potere costituito; questa caratteristica, non sua peculiare, ha un'importanza affatto particolare. Il movimento nonviolento puo' anche essere alleato di un potere istituzionale contro un altro potere, a un altro livello (un governo locale contrapposto a un governo centrale, per esempio) oppure esterno (i praghesi, in appoggio al governo legittimo contro l'esercito del Patto di Varsavia, nel 1968). Interagire con il potere comporta valutare rapidamente le alternative e decidere al riguardo altrettanto rapidamente, prevedere i risultati dell'azione intrapresa, modificare eventualmente le decisioni, e tutto questo quasi sempre in tempi assai stretti. Questi comportamenti richiedono una leadership forte, com'e' quella che, nella maggior parte delle organizzazioni politiche ed economiche, viene garantita dalla struttura gerarchica, la quale concentra il potere ai livelli alti dell'organizzazione.
Il movimento nonviolento, come tutti i movimenti sociali e politici, non e' un'organizzazione gerarchica, non ha strutture rigide e formalizzate; e' caratterizzato invece da una notevole fluidita', e' un reticolo di reticoli di relazioni sociali, tenuto insieme dalla forza della fede, non soltanto nella validita', ma anche nella giustezza dell'azione intrapresa. Richiede quello che, nella tipologia del potere di Amitai Etzioni, viene chiamato impegno 'morale' dei partecipanti e corrisponde al potere 'normativo' (le norme valgono in quanto sono riconosciute tali dai partecipanti) proprio delle organizzazioni 'culturali', contrapposte a quelle economiche, basate sull'interesse utilitaristico, e a quelle di 'ordine', basate sulla coercizione.
Una forte leadership carismatica puo' soddisfare queste esigenze, in alternativa a una gerarchia burocratica, da escludere qui perche' non pertinente con gli scopi e le strutture di un movimento. Inoltre, leaders carismatici che abbiano un largo seguito godono del prestigio necessario per trattare alla pari con i rappresentanti del potere ai livelli ai quali avviene l'interazione, e spesso si tratta di livelli alti. Gandhi in India, Martin Luther King negli Stati Uniti, per fare soltanto alcuni esempi, testimoniano dell'importanza che una leadership carismatica assume in un movimento nonviolento. Il movimento nonviolento, agendo in ambito politico, e' soggetto ai vincoli che gli derivano dalla sua stessa ideologia: deve continuamente e quasi ostentatamente resistere alla tentazione della violenza, anche quando vi sia provocato. Mantenere un comportamento nonviolento di fronte alla violenza in atto e' un imperativo, ma si riconosce che ottemperare a questo imperativo e' quanto mai arduo. Si richiedono, infatti, capacita' di autocontrollo notevoli e, soprattutto, convinzioni etiche cosi' profondamente radicate in ciascun individuo da costituire principi irrinunciabili: la nonviolenza e i valori che l'accompagnano devono essere autenticamente interiorizzati. Si tratta dunque di condizioni piu' facilmente riscontrabili presso gruppi elitari, ma difficili da realizzare compiutamente presso un numero elevato di persone; d'altra parte l'alto numero di partecipanti attivi puo' essere un elemento determinante della forza di un movimento nonviolento e quindi delle sue possibilita' di successo.
Anche a questo proposito emerge l'importanza di leaders carismatici come il Mahatma Gandhi o Martin Luther King. Il leader carismatico non sostituisce l'adesione ai valori, non diminuisce necessariamente i rischi che l'azione nonviolenta comporta, ma costituisce un 'modello', conferisce prestigio al movimento e rende cosi' piu' accettabile assumere rischi spesso seri. Inoltre, per il fatto stesso di attirare la partecipazione di un alto numero di persone, contribuisce alla forza del gruppo e attenua in questo modo i rischi individuali che l'azione in se' comporterebbe.
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Problemi affrontati e tipo di partecipanti
L'importanza della leadership si fa ancor piu' determinante se si considerano i tipi di problemi affrontati e le caratteristiche dei partecipanti, cioe' delle persone cui i problemi si riferiscono. Come emerge dagli esempi citati, i movimenti nonviolenti si costituiscono, nella maggioranza dei casi, per rivendicare o tutelare diritti conculcati, che la cultura politica contemporanea riconosce come diritti inalienabili di tutti gli esseri umani e, all'occorrenza, possono riguardare anche la natura, l'ecosistema. I movimenti nonviolenti si costituiscono dunque in difesa di attori collettivi deboli, non soltanto minoranze o emarginati, ma anche maggioranze, come le classi sociali subordinate o i fuori-casta in India, o, addirittura, le donne in quanto tali, vale a dire la meta' di una qualsiasi popolazione (anche se, in questo caso, molto spesso si tratta di donne appartenenti a classi basse o a minoranze emarginate). Senza una leadership colta, preparata anche a trattare con i politici, questi attori collettivi non potrebbero, all'inizio, prendere alcuna iniziativa capace di successo; per questo motivo, i leaders si pongono spesso come primo obiettivo quello di coinvolgere nell'azione diretta le persone, i gruppi, i cui problemi devono essere risolti. Questo coinvolgimento cresce gradualmente, via via che persone e gruppi fanno esperienza e acquisiscono competenze precise, anche riguardo a come organizzarsi ed escogitare soluzioni ai problemi; naturalmente una delle capacita' essenziali e' quella di saper trattare con gli interlocutori questioni spesso delicate. Il caso delle donne della SEWA di Ahmedabad e' esemplare da questo punto di vista. Per un motivo identico, ogni volta che la cosa sia possibile, questi leaders fanno propria l'indicazione di Gandhi, cercando, soprattutto all'inizio, di affrontare problemi ai quali si possa realisticamente trovare una soluzione soddisfacente, cosi' da rafforzare con un successo la fiducia in se stessi e l'impegno dei partecipanti.
Non tutti i movimenti nonviolenti, peraltro, sono centrati sui bisogni e sui diritti di minoranze o maggioranze escluse dal potere. Movimenti di questo tipo sono piu' frequenti nei paesi in via di sviluppo, caratterizzati da forti divari delle condizioni socioeconomiche e, di conseguenza, culturali (analfabetismo o bassi livelli di istruzione nella maggioranza della popolazione) e politiche (diritti misconosciuti, scarsa partecipazione), anche nel caso di regimi formalmente democratici.
Nei paesi industrializzati, considerati espressione di sviluppo economico e sociale, i movimenti nonviolenti, salvo nel caso della difesa di minoranze emarginate (come gli immigrati da paesi in via di sviluppo), sono piuttosto appannaggio ed espressione di minoranze colte o addirittura di intellettuali, di ceto urbano medio-alto, in genere caratterizzati da una forte interiorizzazione di valori, tra i quali e' centrale quello della nonviolenza. In questi casi il problema di una leadership che prenda l'iniziativa della lotta e proponga obiettivi e strategie si pone in modo diverso o non si pone affatto. La leadership non ha bisogno di essere fortemente istituzionalizzata e puo' anzi passare da un membro all'altro. I leaders, piu' che dare direttive precise, interpretano le richieste dei partecipanti e assicurano i coordinamenti necessari; si tratta quasi sempre di gruppi di leaders, piu' funzionali che carismatici, come invece accade quando un movimento si riconosce in un unico leader, che ne diventa il simbolo.
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Piccoli gruppi, reticoli, coinvolgimento
La struttura a reticolo non e' peculiare dei movimenti nonviolenti, ma caratterizza tutti i movimenti sociali e non soltanto quelli odierni. Nel caso dei movimenti nonviolenti e' pero' opportuno metterne in evidenza alcune implicazioni particolari. In molti casi, gli obiettivi specifici che un movimento si propone non escludono il ricorso alla violenza per essere raggiunti: cosi', per esempio, i diritti civili di minoranze o la stessa emancipazione delle donne sono stati spesso rivendicati in forme violente. Non sono dunque gli scopi specifici a contraddistinguere i movimenti nonviolenti, ma la scelta di fondo della nonviolenza, scelta che riguarda il principio informatore e la prassi nelle azioni da intraprendere. Questa scelta comporta l'interiorizzazione di un insieme di valori, i quali, a loro volta, spingono a intervenire in tutte le situazioni che li vedano minacciati. Un gruppo, anche piccolo, che si definisca nonviolento e si prefigga uno scopo specifico, per esempio la difesa dei diritti di una minoranza, e' di per se' aperto a iniziative nonviolente in altri campi, per esempio la difesa dell'ambiente. Spesso, in virtu' di questa idea-forza, persone attive in un gruppo si trovano a contatto con altre persone che, ispirandosi alla medesima idea, si impegnano per scopi specifici diversi, ma affini; all'occorrenza, i gruppi potranno collaborare e i membri di un gruppo aderire anche a un altro, sia pure con un diverso impegno di tempo e di attivita'.
Un movimento, fatto di una rete di gruppi grandi o piccoli, molti dei quali, nel loro insieme o attraverso una parte dei loro membri, confluiscano anche in altri movimenti, tutti ispirati all'idea della nonviolenza, acquista una grande capacita' di mobilitazione potenziale per raggiungere obiettivi di larga portata, avvalendosi della comune base di cultura nonviolenta; questo significa non soltanto valori, ma anche modelli e tecniche di azione condivisi. Far circolare informazione pertinente, prendere decisioni, coordinarne l'attuazione diventa cosi' possibile, anche in presenza di un numero elevato di persone: la suddivisione in piccoli gruppi, la sovrapposizione parziale di questi gruppi, la presenza nei gruppi di persone abituate a collaborare e decidere sono infatti risorse importanti, specie se gli obiettivi delle azioni sono circoscritti e ben definiti. Le nuove tecnologie di comunicazione possono contribuire ad accelerare i tempi per informare e decidere e perfino facilitare la costituzione di gruppi a distanza, ma reti solide di relazioni sociali, basate su valori, scopi ed esperienze condivisi, sono un requisito prioritario.
Queste caratteristiche (sistemi di valori e modelli di azione condivisi, reticoli di relazioni sociali solidali) hanno alcune implicazioni interessanti, suffragate dalla documentazione esistente, ormai ampia, sui movimenti nonviolenti.
Anzitutto l'importanza che assume il coinvolgimento emotivo: chi aderisce a un movimento nonviolento e' convinto della validita' della sua adesione e disposto a impegnarsi, anche a costo di sacrifici personali. Questo e' un punto di forza per il movimento, ma e' anche un vincolo a non venir meno alle aspettative dei partecipanti; assicura coesione, ma puo' ostacolare o ritardare rapidi cambiamenti di strategia o di tattica che fossero necessari per adattarsi a nuove situazioni. Un reticolo con un potere distribuito e' di necessita' piu' lento nell'assorbire il cambiamento, diversamente da un'organizzazione accentrata, sia essa burocratica o con una leadership carismatica. In secondo luogo, l'importanza dei gruppi nei reticoli significa importanza di relazioni sociali dirette, primarie. I movimenti spesso si diffondono lungo linee preesistenti di rapporti di parentela e di amicizia o anche di relazioni tribali, contribuendo a rafforzarle; anziche' rendere obsolete le relazioni primarie in una moderna societa' complessa, possono invece crearle e questa loro funzione, nemmeno latente, puo' rivelarsi un incentivo a partecipare al movimento.
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Il ruolo delle grandi organizzazioni
Da molti degli esempi citati, cosi' come da molti studi su movimenti sociali e azioni politiche, emerge una costante di grande interesse: la presenza, all'origine o accanto a un movimento, di un'organizzazione consolidata e assai articolata, provvista di una ideologia forte. Le comunita' religiose e le Chiese delle varie confessioni, ma anche movimenti o partiti politici con una forte ideologia e una forte organizzazione (nella maggioranza di questi casi, religiosi o politici, gerarchico-burocratica), possono mettere a disposizione del movimento risorse culturali (ideologie, valori, ecc.) o organizzative (modelli di azione e di partecipazione), talvolta anche finanziarie (ma questi casi non sono determinanti ne' sono i piu' interessanti), sia esplicitamente e deliberatamente, sia mediante la presenza di membri che partecipano alle due realta', facendosene intermediari.
Le Chiese, cattolica e protestante, in paesi a regime totalitario oppure soggetti a occupazione militare, hanno spesso svolto un'azione di appoggio sia, in generale, a movimenti di resistenza militare e civile, sia a movimenti specificamente nonviolenti, cosi' come avviene nel caso di molti movimenti volontari di servizio per categorie particolari della popolazione. A loro volta i movimenti di resistenza armata hanno spesso fornito appoggio organizzativo a movimenti nonviolenti (come la Resistenza norvegese nel caso degli insegnanti sotto l'occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale). Il movimento gandhiano, vitale e articolato anche dopo la morte del Mahatma, e' all'origine dell'associazione-sindacato-cooperativa SEWA. La maggior parte dei movimenti nonviolenti dell'America Latina ha attinto modelli e appoggio organizzativo dalla Chiesa cattolica nelle sue diramazioni locali.
La presenza di queste organizzazioni di vario tipo puo' quindi configurarsi come un elemento di quelle 'opportunita'' che, secondo alcuni studiosi (v. Klandermans e altri, 1988; v. Tarrow, 1994), la situazione politica offre in determinati periodi ai movimenti sociali in genere.
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Contesto sociopolitico, opinione pubblica e mass media
Il sorgere di movimenti nonviolenti e la loro capacita' di azione appaiono del tutto congruenti con i principi e le regole in base alle quali funziona una societa' democratica, in cui sono riconosciuti i diritti fondamentali dei cittadini: l'uguaglianza di fronte alla legge, la liberta' di opinione e di espressione. Qualsiasi scostamento rispetto al modello ideale di societa' democratica puo' dar luogo a contestazioni ed e' previsto che queste contestazioni siano nonviolente, l'uso della violenza essendo prerogativa esclusiva dello Stato, in circostanze e forme chiaramente prescritte. La contestazione fa parte del controllo che i cittadini hanno il diritto-dovere di esercitare nei confronti dello Stato e, piu' in generale, degli attori individuali o collettivi e delle istituzioni che detengano potere. Gli interventi di movimenti nonviolenti in difesa di diritti minacciati o negati di persone o gruppi e' dunque un aspetto del tutto normale in una moderna societa' democratica. Il diritto di controllo e di contestazione dei cittadini viene invece negato dai regimi totalitari, dove la pratica della violenza da parte dei detentori di potere e' meno soggetta a vincoli e piu' diffusa. Avviene cosi' che la' dove esistono motivi di contestazione seri, qualsiasi forma di contestazione sia vietata e, se praticata, sia repressa con estrema durezza.
Il successo delle azioni intraprese da Gandhi, sotto e contro il dominio britannico, fu possibile, secondo molti studiosi, perche' sebbene in Sudafrica e in India venissero non di rado usati metodi repressivi, nella democratica Gran Bretagna l'informazione su quanto avveniva nelle colonie circolava liberamente e una parte, la piu' qualificata, dell'opinione pubblica britannica era favorevole all'applicazione, anche in India, dei criteri democratici, tra i quali l'autodeterminazione dei popoli. In questa prospettiva, il movimento gandhiano avrebbe avuto assai poche o nessuna possibilita' di successo nella Germania nazista. Molti sostenitori della nonviolenza ricordano, tuttavia, che la forza di un regime totalitario sta nell'acquiescenza dei cittadini: nessun regime totalitario puo' mantenere il potere se incontra un'opposizione efficace.
Le condizioni richieste perche' un'azione nonviolenta possa aver successo son ben note agli studiosi: elevato numero di partecipanti, visibilita', opinione pubblica sensibile e in grado di esprimersi, rilievo dato all'azione dai mass media: tutte condizioni non realizzabili in un regime non democratico. In alternativa, di fronte a un regime totalitario o a un'occupazione militare, i movimenti di opposizione non hanno spazio, se non nella clandestinita': i movimenti nonviolenti hanno come strumenti principali la non-collaborazione e la controinformazione, che, al contrario dell'uso di metodi violenti (per esempio attentati o sabotaggi distruttivi), non 'giustificano' ritorsioni violente; si possono anche organizzare azioni specifiche per salvare persone in pericolo. Un movimento nonviolento clandestino puo' portare a termine con successo azioni difficili e assai rischiose (v. § 3b). Perche' queste azioni possano riuscire, il movimento deve poter contare sulla collaborazione diffusa di una popolazione coesa, che condivida i valori della nonviolenza e della resistenza contro l'oppressione: tutto questo e' l'opposto dell'acquiescenza.
Le condizioni del successo dell'azione nonviolenta valgono dunque, in modi diversi, anche se l'antagonista e' un regime totalitario; in questo caso, semmai, soprattutto dalla meta' del Novecento, i movimenti nonviolenti devono riuscire a coinvolgere il mondo esterno allo Stato in cui vige un regime autoritario: movimenti analoghi in altri paesi, istituzioni internazionali (governative e non governative) e sovranazionali; oppure devono riuscire ad avere l'appoggio di un qualche attore (personaggi politici o istituzioni) particolarmente influente sulla scena mondiale. L'appoggio esterno e' stato determinante in una ormai ampia serie di movimenti e di azioni, in America Latina come nei paesi dell'Europa dell'Est, in piazza Tien-An-Men come in Sudafrica. Nel corso del Novecento e in misura crescente nella seconda meta' del secolo, anche i movimenti nonviolenti hanno pertanto cercato di collegarsi fra loro al di la' dei confini dei singoli Stati, senza peraltro costituirsi, in genere, come vere e proprie organizzazioni o federazioni di movimenti con un coordinamento centrale, ma conservando le loro autonomie e riservandosi di aderire a iniziative comuni.
Da tutto questo emerge l'importanza decisiva che hanno, per i movimenti nonviolenti e le azioni che questi intraprendono, due attori sui generis: l'opinione pubblica e i mass media. Proprio per la valenza simbolica forte, che le e' peculiare, e forse anche perché contraddice un istinto naturale qual e' l'aggressivita', l'azione nonviolenta, per poter 'delegittimare' il potere al quale si oppone, ha bisogno di un palcoscenico e di un pubblico, chiamato a partecipare allo spettacolo direttamente e con un coinvolgimento emotivo intenso. Opinione pubblica e mass media sono tanto piu' legati tra loro in modo necessario quanto piu' il teatro si fa planetario, e questo ovviamente non vale soltanto per i movimenti sociali e politici e in specie per i movimenti nonviolenti; per questi ultimi, tuttavia, puo' essere decisivo ottenere visibilita' sulla scena mondiale, la visibilita' dell'azione nonviolenta essendo una sua necessita'. In questo processo tutti i mass media sono coinvolti, dai piu' tradizionali, come la stampa (che fu determinante ai tempi di Gandhi), alla radio e ai piu' recenti, come la televisione (che ebbe un ruolo di primo piano nella crisi dei regimi comunisti) e le reti telematiche. Questo fatto ha alcune conseguenze di rilievo. Anzitutto le differenze ben note nella qualita' dell'informazione che ciascun mezzo trasmette, specie ai due estremi della gamma di mezzi disponibili: maggiore lentezza, maggior precisione, maggiori possibilita' di rielaborazione critica della notizia, anche da parte di chi la riceve, nel caso della stampa; per contrasto, immediatezza dell'informazione, pregnanza dell'immagine, ma anche sua labilita', nonostante l'impatto emotivo, nel caso della televisione. Il caso delle reti telematiche non e' ancora stato sufficientemente analizzato per trarne conclusioni convalidate; e' tuttavia chiaro sin da ora che esse possono svolgere una funzione essenziale proprio nell'organizzazione e nei collegamenti dei movimenti nonviolenti; anche a questo proposito emerge l'importanza che, in questi come in altri movimenti, ha la diffusione di competenze tecnico-organizzative avanzate.
Una seconda implicazione, ben nota anch'essa, della crescente importanza dei mass media e' senz'altro inquietante. Sempre piu' spesso, ne' una questione ne' un'azione che la riguardi esistono, a meno che, o sino a che, qualche mezzo di comunicazione le presenti a un pubblico, e l'importanza del tema e dell'azione e' misurata usando il criterio della quantita' di pubblico raggiunta dal mezzo (l'audience degli spettacoli televisivi). Da questo punto di vista, non e' importante che la questione o l'azione effettivamente esistano, ma e' essenziale che qualcuno veda e ascolti quello che i mass media ne dicono, esattamente come, viceversa, un'azione non esiste se nessuno ne parla. In altre parole, i mass media hanno ampliato le possibilita' di manipolazione o di occultamento della realta', che da sempre hanno minacciato la liberta' di espressione, considerata un diritto democratico essenziale nella cultura moderna. Per la particolare importanza che la visibilita' delle sue azioni ha per un movimento nonviolento, questa possibilita' di distorsione insita nell'intervento dei mass media, pur necessario alla stessa visibilita', diventa un elemento che esso deve poter tenere sotto controllo continuo; questa possibilita' di controllo democratico puo' diventare un aspetto critico per il movimento nonviolento e, in questo caso, diventa anche una spia dell'effettivo funzionamento democratico della societa' in cui il movimento opera.
Le caratteristiche dei movimenti nonviolenti e, prima ancora, la collocazione del valore della nonviolenza nella cultura e nella prassi di una societa' ne fanno elementi essenziali dell'epoca contemporanea in tutte le parti del mondo, ma in un rapporto dialettico con altri elementi, spesso antitetici e in un processo che muta di continuo. Il richiamo della nonviolenza sembra avere fasi alterne, il cui collegamento con i macroeventi della politica mondiale e i microeventi socio-economico-politici dei singoli Stati non e' ancora individuabile con sicurezza.
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LA NONVIOLENZA CONTRO IL RAZZISMO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XX)
Numero 346 del 28 dicembre 2019
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