[Nonviolenza] La nonviolenza contro il razzismo. 332



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LA NONVIOLENZA CONTRO IL RAZZISMO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XX)
Numero 332 del 14 dicembre 2019

In questo numero:
1. Oggi a Roma contro l'odio
2. Due provvedimenti indispensabili per far cessare le stragi nel Mediterraneo e la schiavitu' in Italia
3. Anna Bravo: Violenza, nonviolenza, storia
4. Per sostenere il centro antiviolenza "Erinna"
5. Sostenere la Casa internazionale delle donne di Roma

1. INIZIATIVE. OGGI A ROMA CONTRO L'ODIO

Si svolge oggi a Roma, con inizio alle ore 15 in piazza San Giovanni, la manifestazione nazionale delle "sardine" contro l'odio.
Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Salvare le vite e' il primo dovere.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita' dalla catastrofe.

2. REPETITA IUVANT. DUE PROVVEDIMENTI INDISPENSABILI PER FAR CESSARE LE STRAGI NEL MEDITERRANEO E LA SCHIAVITU' IN ITALIA

Riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di giungere nel nostro paese in modo legale e sicuro.
Riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.

3. MAESTRE. ANNA BRAVO: VIOLENZA, NONVIOLENZA, STORIA
[Dal libro di Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, Roma-Bari 2013, riportiamo il capitolo primo "Violenza, nonviolenza, storia" (pp. 3-17).
Anna Bravo, storica e docente universitaria, ha insegnato Storia sociale. Si e' occupata di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; ha fatto parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita', e' deceduta l'8 dicembre 2019 a Torino, la citta' dove era nata nel 1938. Tra le opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008; (con Federico Cereja), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, Torino 2011; La conta dei salvati, Laterza, Roma-Bari 2013; Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014]

Voracita' delle guerre
La storiografia di oggi e' ampiamente "civilizzata", ben lontana da quella che nell'Ottocento si lasciava ipnotizzare da guerre, dinastie, diplomazie. Abbraccia potenzialmente ogni realta' e ogni soggetto, dalla vita quotidiana alle emozioni, dai gruppi marginali agli "invisibili". Movimenti e tendenze hanno promosso ricerca - i Black studies, il filone gay, i cultural studies. Gli studi delle donne hanno spezzato le angustie monosessuali del racconto storico.
Eppure guerra e violenza restano egemoni su vari piani, a cominciare dai termini con cui si classificano le fasi. Definire "di piombo" gli anni Settanta in Italia da' conto del sangue versato, del dolore, della paura, ma cancella, insieme alle altre, e belle, facce dei movimenti, le trasformazioni che stavano compiendosi in tanti ambiti della societa'. Gli anni Venti e Trenta sono etichettati come "eta' fra le due guerre", ma quante cose si susseguono in quei due decenni, dalla crisi del 1929 alla nascita dei totalitarismi agli albori del welfare.
Eleggere le guerre a spartiacque e' un'operazione verosimile; lo sono ancora. Ma mutila la storia. Scrivendo un manuale, mi sono trovata a dedicare moltissimo spazio alla grande guerra, pochissimo agli sforzi per evitarla, pochissimo alle crisi marocchine e alle guerre balcaniche, mentre sarebbe stato altrettanto importante descrivere come avviene che un conflitto non deflagri o che resti limitato, e come si tenti di scongiurare la catastrofe del '14-'18. Ero caduta nel vecchio automatismo che fa delle guerre qualcosa di simile ai buchi neri del cosmo, che attirano, assorbono, inghiottono quel che gli sta intorno - in questo caso, il lavorio fatto di abboccamenti politico-diplomatici, compromessi, mediazioni, azzardi, intrighi che precede e accompagna i conflitti. A volte si trama la guerra, a volte si trama la pace; e non sempre si "ritardano" le ostilita' per avere il tempo di armarsi meglio, in date circostanze puo' essere decisiva la consapevolezza che se scoppiassero sarebbero orribili per tutti.
Ma l'effetto buchi neri rimane. Se all'orizzonte compare la guerra, tradizionale, tecnologica, asimmetrica, "a bassa intensita'", il resto sbiadisce e scivola fuori dal campo del pubblicamente memorabile. Durante i conflitti della ex Jugoslavia, l'attenzione generale si e' concentrata sugli scontri, con il risultato che si sapeva (quasi) tutto di pulizie etniche e bombardamenti, e (quasi) niente sui luoghi in cui i diversi gruppi riuscivano a convivere (1). E' come se la trama in cui quei nuclei di esperienza trovano posto e senso venisse disfatta nel presente e esclusa dalla memoria.
Chi ricorda che in Kosovo c'e' stata per anni una resistenza nonviolenta a Milosevic?, e che quelle lotte hanno preceduto di molto la formazione dei gruppi armati dell'Uck? Persino Tzvetan Todorov si limita a nominare (in tre righe) l'esistenza di una "componente moderata e nonviolenta" (2). Eppure la vicenda e' unica nella transizione post-comunista nei Balcani. Chi ricorda come si e' arrivati a Camp David, o come si e' riusciti a circoscrivere la guerra di Corea?
Ancora oggi, molte tensioni inesplose, molte guerre rimaste locali, sono definite preludi o antefatti della guerra "vera", che cosi' appare gia' scritta nel destino. Ancora oggi, si valuta il contributo di un paese alla lotta antinazista sulle perdite in combattimento, non sul numero di vite strappate al Terzo Reich: si contano i morti, non i salvati. E di fronte al crollo dell'Urss e all'esaurirsi della guerra fredda, un commentatore ha annunciato la fine della storia, come se la storia consistesse unicamente nell'antagonismo similbelligerante fra i due blocchi.
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Una "koine'"
Di questo primato della guerra e della competizione violenta conosciamo le matrici di lungo e lunghissimo periodo. La cultura della presa del potere, condivisa dalla stragrande maggioranza delle correnti politiche. L'associazione fra maschile e violenza-guerra (e fra donne e pace), cosi' antica e pervasiva che le forme in cui si incarna non sembrano una costruzione simbolica, ma un dato di natura. L'ideologia secondo cui il vero cittadino e il vero uomo ha il diritto-dovere di portare le armi - e' il prototipo trasmesso alla modernita' dalla rivoluzione francese, che si e' dispiegato in una costellazione di idee e figure non sempre coerenti fra loro e non sempre riducibili a una posizione politica.
Sono modelli, certo, semplificazioni, che hanno avuto un fulcro straordinario nella tesi leninista della violenza levatrice della storia - non nel pensiero di Marx, in cui a formare l'uomo e la classe e' invece il lavoro (3). Ma la forza delle genealogie della violenza e' che camminano in relativa autonomia, e non c'e' bisogno di conoscerle per esserne influenzati. Ad attualizzarle contribuisce la convinzione ancora diffusa secondo cui gli esseri umani avrebbero una innata tendenza distruttiva (istinto di morte, sete di sangue) che deve periodicamente essere "scaricata" - e' la "teoria idraulica della violenza" (4).
Ha scritto Lidia Menapace: "se tu dici a un politico tradizionale di parlare senza simboli militari non arriva alla fine della prima frase" (5). Vero, e vale per ciascuno di noi. Usiamo ogni giorno parole di origine guerresca, mobilitazione, tattica, strategia, schieramenti, militanti - una koine' gia' pronta - e fatichiamo a trovarne di nuove, ed efficaci. Guerra e violenza, vissute o raccontate, poggiano su ingredienti collaudatissimi: il Potere, la Forza, gli Eroi, il male contro il bene, il sangue e la morte. Il loro gusto. Mentre a uno sguardo incompetente, le pratiche della nonviolenza possono sembrare routine, un poco suggestivo lavoro da formica spesso fuso nella quotidianita'; e gli attivisti si augurano che continui cosi', perche' precipitazione e rotture equivalgono al fallimento. E' uno dei motivi per cui la nonviolenza rischia il destino di quei classici che tanti dicono di conoscere senza averli letti. La guerra e' piu' glamour.
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Alterne fortune
Non che niente sia cambiato. In Italia, e non solo, organizzazioni e movimenti iscrivono sempre piu' spesso la nonviolenza nelle loro dichiarazioni programmatiche. Espressioni come peacekeeping, mediazione nei conflitti, formazione alla pace, diplomazia di base, occupano volumi di migliaia di pagine, sono entrate nel linguaggio dei media, in molte universita' sono oggetto di corsi. Esaltare (pubblicamente) la guerra e' ormai inconcepibile.
Ma, al di la' di questi indicatori, valutare le fortune della nonviolenza e' complicato, anche perche' il nostro angolo visuale ha molti punti ciechi. Sarebbe difficile dimenticare che il crollo dei regimi sovietici fra l'89 e il '91 avviene sull'onda di grandi manifestazioni popolari largamente spontanee e inermi, smentendo chi aveva profetizzato un bagno di sangue; ma di quante vicende - periferiche, non spettacolari, ininfluenti o quasi sul piano geopolitico - non ci e' arrivata notizia?
Alla fine del Novecento la nonviolenza sembra comunque godere di maggiore ascolto; definire "umanitaria" una guerra, come e' stato per quella del Kosovo, in fondo rientra negli omaggi che il vizio rende alla virtu'. Ma nel 2001, con l'attentato alle Twin Towers molto cambia. La guerra - in Afghanistan, in Iraq - torna a essere presentata, oltre che come l'unica opzione, come normale risposta all'altrui violenza. Una normalizzazione contagiosa, se e' vero che dieci anni dopo si decidono in pochi giorni l'intervento in Libia e poi in Mali; se e' vero che da due decenni l'Europa e' in guerra dall'una e dall'altra parte del mondo.
Lo scenario cambia anche per la nonviolenza. Il terrorismo esige una totale o parziale clandestinita', non concepisce il negoziato, prescrive ai suoi il culto della morte, compresa la propria, ricrea il nemico assoluto con cui non si deve scambiare parola. Dunque sfida (svuota?) gli strumenti elettivi della nonviolenza - l'esempio, l'educazione, la potenza simbolica dell'inermita', la paziente costruzione della fiducia reciproca, che tutti richiedono una prossimita' fisica, e mentale, fra i contendenti.
Ma, sebbene ancora non ne esista una storia, le sollevazioni del 2011 in Nordafrica insegnano verita' piu' generali: da un lato rimettono in primo piano l'azione di massa nonviolenta, dall'altro mostrano la difficile coabitazione con pratiche che non lo sono affatto - alcune attiviste e attivisti rifiutano l'espressione "primavere arabe", perche' "non puo' esserci primavera dove c'e' sangue" e "nessuna primavera se non ci sono fiori" (6).
Sono anni in cui governi e opinioni pubbliche sono spaccati al loro interno, spesso oscillano da una prospettiva all'altra, e cosi' l'interesse per la nonviolenza - e per la violenza: di fronte ai punti critici della rappresentanza democratica, qualcuno ha riscoperto la tesi della violenza giusta (pudicamente chiamata "forza"), riservandosi di decidere quale sia. Eppure, scriveva Nicola Chiaromonte, "l'idea che c'e' qualcosa di assurdo nel voler combattere la violenza con la violenza, la sopraffazione con la sopraffazione, per ottenere la liberta' e la giustizia, e' perlomeno altrettanto antica quanto il fatto stesso della violenza organizzata" (7).
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Perche' la lotta inerme funziona
Sebbene la nonviolenza sia spesso giudicata utopica, molte ricerche sulle resistenze civili e armate mostrano che fra il 1900 e il 2006 sono state le prime a ottenere piu' successi: secondo Erica Chenoweth e Maria J. Stephan (8), rispettivamente il 59 contro il 27% nelle lotte interne antiregime, il 41% contro il 10% di risultati parzialmente positivi in quelle contro l'occupazione di un paese o per l'autodeterminazione (per la realizzazione piena i dati si equivalgono). Solo nelle campagne per la secessione di un territorio la scelta nonviolenta conta zero vittorie (e quella violenta l'esile percentuale del 10%), mentre ha il monopolio dell'affermazione nelle lotte contro l'apartheid e per i diritti civili (9).
Infine, la nonviolenza offre piu' opportunita' per una transizione pacifica: le controversie tra forze politiche non hanno strascichi militari, mentre sono minori le occasioni per desideri di rivalsa e di vendetta.
E' l'effetto congiunto di piu' fattori, in primo luogo la maggiore capacita' di coinvolgere le popolazioni. "Fai come me" e' un invito che l'attivista civile puo' estendere enormemente al di la' di quanto possa fare il partigiano in armi. Le resistenza diventa cosi' praticabile in molti piu' luoghi e forme, guadagna una fisionomia piu' ricca in termini di genere, eta', religione, etnia, condizione socioeconomica ma anche di abilita' operative e risorse fisiche (10) - una molteplicita' che la predispone a inventare nuovi metodi di lotta. Pesando in genere meno sulla popolazione, sia materialmente sia nei rapporti di convivenza (11), ha piu' probabilita' di attirarne la simpatia; evitando di criminalizzare la controparte, puo' incrinare la fedelta' ai regimi fra quanti li supportano istituzionalmente, polizia, esercito, amministrazione. Il che non elimina affatto il peso decisivo dello scenario interno e internazionale, ma gli affianca forze capaci di influenzarlo.
Peccato che, in questi e molti altri studi, le azioni di salvataggio non compaiano come realta' autonoma, ma siano, e non sempre, incluse nelle altre tipologie di lotta. E soprattutto che manchi l'attenzione alle iniziative personali e sparpagliate di cui ogni resistenza e' intessuta.
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La nonviolenza: cosa non e'
La nonviolenza ha una storia complessa, vari filoni, radici eterogenee, dal cristianesimo delle origini al buddismo, dall'induismo al pensiero mistico. Nella modernita' ha una parentela con i socialisti detti utopisti, e capostipiti come Thoreau e Tolstoj. Non la si puo' identificare con il pacifismo, che ne e' piuttosto un'espressione, e che a sua volta copre realta' diverse. Nell'Ottocento e nel primo Novecento ha lavorato per il disarmo e l'arbitrato internazionale. Durante la guerra fredda ha lottato contro la logica dei blocchi e il nucleare, anche se spesso in modo sbilanciato (per esempio, no a nuove basi americane in Europa occidentale, silenzio o quasi su quelle sovietiche nell'Europa orientale). Piuttosto che un pacifista, il nonviolento e' un "facitore di pace" (12).
Sembra semplice. Ma a dispetto dei chiarimenti teorici e dei database, sulla nonviolenza si addensano gli equivoci. Il primo e' la sfiducia: non puo' durare, non puo' vincere; l'ultimo e' la pretesa del "tutto e subito": dove ha avuto successo (a questo punto l'esempio d'obbligo e' il Sudafrica) non e' riuscita a risolvere le questioni di fondo - come se ogni nuovo corso non si trovasse di fronte al medesimo problema.
Fra scetticimo e aspettative palingenetiche, c'e' una catena cosi' fitta di stereotipi che forse la nonviolenza si capisce meglio precisando quello che non e' e non fa.
Non si limita a rigettare le armi proprie e improprie, sa rifiutare l'odio e cerca di trasmettere al nemico questo talento.
Non rinuncia ai conflitti, li apre, ma prova ad affrontarli in modo evoluto, con soluzioni in cui nessuno sia danneggiato, umiliato, battuto, soluzioni "win-win", come insegna la teoria dei giochi. Non vive negli interstizi lasciati liberi dal potere: lo sfida. Non dipende dalla sua benevolenza, lo costringe semmai a essere piu' benevolo. Molti pensano che Gandhi potesse agire perche' il governo britannico glielo consentiva; certo la Gran Bretagna non e' il Terzo Reich, ma se approda a una certa tolleranza e' perche' il movimento non le lascia scelta fra il massacro e la trattativa.
Non e' solo una pratica politica: e' un modello per le relazioni fra gruppi e fra singoli. Non e' equidistante di fronte alle disparita' sociali. Gandhi avversava il sistema delle caste, e se caldeggiava l'adozione di un unico tipo di abito per gli indiani, lo faceva sia per boicottare i tessuti inglesi sia per testimoniare l'uguaglianza di tutti (13). A Memphis, dove viene ucciso nel '68, Martin Luther King era andato a sostenere la lotta degli spazzini per salari migliori e per i diritti sindacali, e a promuovere la Poor People Campaign.
Non e' un dogma: visto che qualsiasi attivita' umana comporta una sia pur minima distruzione di vita, l'obiettivo, constata Gandhi, e' limitare quanto piu' possibile la violenza nel mondo; lo stesso principio del non uccidere prevede delle eccezioni se uccidere e' l'unico modo di salvare gli indifesi da un pericolo mortale (14).
Non e' pavidita' ne' remissivita': richiede pazienza, mitezza, e coraggio davanti alla ferocia altrui - esiste una combattivita' nonviolenta molto temuta da chi e' al potere. Non e' spontaneismo ingenuo: inventa tattiche nuove.
Non e' una pratica per anime belle, capeggiata da esotici visionari, riservata a realta' con tasso minimo di tensioni interne. L'India era un paese gremito di contraddizioni, e Gandhi un leader sperimentato, abile nel negoziare e nell'organizzare grandi scene di teatro politico da esporre agli occhi del mondo. Quanto alla tipologia degli Stati, si da' vita a lotte nonviolente persino nell'Europa sotto dominio nazista.
Non e' un'esclusiva delle fedi religiose, anche se puo' trarne una forza straordinaria.
Non e' "cosa da donne", e' universale, anzi ridefinisce i modelli di genere, valorizzando la compassione negli uomini, e nelle donne la fiducia in se stesse. Ma e' vero che tra nonviolenza e femminismo c'e' un'affinita': tutte e due riscrivono la storia, implicano una rivoluzione interiore, valorizzano le mediazioni, si richiamano alla pazienza, al senso del limite, alla sobrieta', alla cura delle cose piccole e gracili, che il prometeismo maschile-militar-tecnonologico si e' diligentemente impegnato a distruggere. E per le donne i risultati piu' duraturi sono storicamente legati al tempo di pace, o quantomeno a forme di lotta poco militarizzate (15).
Peccato che per anni nonviolenza e femminismo si siano frequentati poco. Il pensiero nonviolento non ha in genere riconosciuto nella disparita' uomo-donna la prima radice dell'oppressione. Il neofemminismo si e' misurato con Hegel, Marx, Nietzsche, Freud, Lacan, gli strutturalisti, gli studi postcoloniali, molto meno con la nonviolenza. In compenso ha messo a fuoco la radice maschile dei meccanismi che ratificano la guerra, le sue leggi, i suoi simboli (16); e ha teorizzato la differenza tra il conflitto, una forma delle relazioni con l'Altro, e la guerra che lo vuole annientare.
E' vero anche che la nonviolenza vive scontri interni non meno aspri che negli altri movimenti, in particolare intorno al dilemma del Novecento, "mai piu' guerre"-"mai piu' Auschwitz", in cui si scontrano l'impegno a tutelare i diritti umani contro il dominio statale e la rinuncia all'uso della forza per dirimere questioni interne a Stati sovrani. Principi alti, tutti e due, che dividono le alleanze, i gruppi, le coscienze. Di fronte alla devastazione della Bosnia, i nonviolenti che si definiscono "radicali" insistevano sul rifiuto di qualsiasi intervento in armi - e scontavano la contraddizione fra la solidarieta' alle vittime e il proseguimento di quella che non era piu' una guerra civile, ma un massacro di inermi. Altri erano arrivati a condividere l'ipotesi di un'operazione internazionale di polizia, vale a dire l'uso di una forza diversamente armata e addestrata, diversamente operativa - e si trovavano costretti a scommettere sulla capacita' regolatrice di organismi che avevano gia' dato cattiva prova di se', e ad accettare la diversa fattibilita' degli interventi (si' in Jugoslavia, no in territori controllati da una superpotenza).
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Risparmiare il sangue
Non c'e' bisogno di sapere tutto sulla nonviolenza per praticarla, il concetto ha una carica di immediatezza che nasce dalla semplicita' del suo primo fondamento, realizzare un obiettivo senza spargere sangue. Molte e molti che non si sarebbero definiti nonviolenti lo sono stati di fatto.
Ma la genealogia della nonviolenza e quella del sangue risparmiato coincidono solo in parte. La prima conta grandi maestri, grandi lotte, azioni esemplari. La seconda e' intermittente, sparsa, spesso comprende iniziative sporadiche prese senza avere alle spalle un'organizzazione. La prima entra nella modernita' con Gandhi. La seconda con quei soldati della grande guerra che si accordavano con il nemico per salvare la propria vita, e la sua, grazie all'autolimitazione della distruttivita'; e prosegue con i resistenti antinazisti senza armi, i soccorritori dei piu' vulnerabili, i mediatori improvvisati che si interpongono fra i contendenti - tessere le reti della prevenzione e del negoziato non e' un'esclusiva di (alcuni) politici, diplomatici, capi religiosi (17).
Ad agire sono per lo piu' donne e uomini scioccamente definiti "gente comune", che a volte stanno addirittura combattendo, ma in date occasioni ritengono giusto sospendere le ostilita' per proteggere le popolazioni, come e' avvenuto nella resistenza italiana ed europea.
Si puo' dire che erano nonviolenti senza saperlo? Mi sembra che cercassero semplicemente di agire nel modo meno distruttivo possibile nelle circostanze in cui si trovavano. Erano i titolari del sangue risparmiato, e nella storia della nonviolenza, che ne e' la prima intestataria, rientrano per questa via.
Puo' sembrare azzardato accostare a questi primi attori a tempo determinato i potenti del mondo. Ma esaltare gli uni e liquidare gli altri come belve assetate di potere (o di petrolio) sarebbe cattiva storia - c'e' bisogno di tenere da conto ogni forma di attivismo per smontare l'idea malsana che quando c'e' guerra c'e' storia, quando c'e' pace no, o non a pieno titolo - come se la pace fosse un dono della fortuna o un vuoto fra una guerra e l'altra, mentre e' il frutto di un lavorio umano, e' quel lavorio stesso.
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Amor proprio, amor di patria
Abbiamo talmente bisogno di storie positive che quando le incontriamo ci sembrano troppo belle per essere vere. E c'e' sempre qualche persona di mondo (o meglio informata) pronta a spiegarci che si tratta di semi-leggende o leggende "buoniste". Chi ama le belle storie in tempi bui sconta l'accusa di credulita', o di idoleggiamento del caso singolo; chi ha risparmiato il sangue rischia di sentirsi dire che in realta' non e' mai esistito (18).
Sarebbe un peccato, per almeno due ragioni. La prima: in quei tempi, di fronte al collasso delle norme morali, per distinguere il bene e il male possiamo (dobbiamo) "aggrapparci a dei casi particolari che sono diventati altrettanti esempi", e che "sono in effetti i principali cartelli stradali in campo morale" (19).
La seconda: confrontati a quegli esempi, molti concetti clou della celebrazione slittano verso altri significati. La bonta' sara' pure un moto del cuore, ma e' soprattutto il punto d'arrivo di un cammino - di anni o di minuti - lungo il quale si sono disconosciuti i criteri di innocenza e colpevolezza vigenti, e se ne sono adottati altri. Diversamente, non riuscirebbe a materializzarsi; il cuore, sul cui ruolo in politica Hannah Arendt metteva in guardia, da solo puo' non bastare. Nell'Europa occupata, chi nasconde un ebreo, uno zingaro, un disertore, lo fa perche' ha deciso che non sono nemici ne' alieni, e che la propaganda mente. La bonta insensata e' un bel titolo per un bel libro (20), in cui si capisce pero' come insensata non sia affatto; distingue, fa previsioni, si organizza, soprattutto giudica autonomamente. Bettelheim parlava di "cuore informato" (21), il cuore che sa.
Anche il concetto di onore puo' cambiare fino a smilitarizzarsi. Per i contadini italiani del '43-'45 (una minoranza, beninteso), consisteva nel saper proteggere un prigioniero alleato, nello sfamare chiunque bussasse alla loro porta. Per la torinese di classe operaia che cercava di mimetizzare (quasi) alla perfezione gli sbandati dell'8 settembre, consisteva nel salvataggio "ben fatto". Cinquanta anni dopo, Vladimir Lucic, serbo bosniaco del paese di Donji Dovlici, che ha difeso a rischio della vita i suoi vicini musulmani, dira' che in questo modo "ha salvato il suo onore" (22).
Da appannaggio della virtu' combattente, qui l'onore si estende a chiunque abbia il senso della propria responsabilita'; non ha piu' un luogo canonico - il campo d'onore di triste memoria - diventa mobile, si crea e si disfa ovunque ci sia materia di una scelta. Non e' piu' una prestazione a tutela di entita' sovraindividuali (nazione, popolo, Stato), e' una passione personale, diretta ad altre persone - e a se stessi. Non amor di patria, piuttosto la passione un tempo chiamata amor proprio.
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Autopresentazione
In questo libro seguo la genealogia del sangue risparmiato piu' che quella della nonviolenza. Questo primo capitolo si e' mosso fra l'una e l'altra. Il secondo riguarda la fraternizzazione nelle trincee della grande guerra e, insieme, gli sforzi di leader politici e istituzioni per impedire una precipitazione internazionale di ostilita' locali, e per controllare la crisi di luglio - sono anni in cui la nonviolenza come strategia politica non e' ancora all'orizzonte. Nel quarto e nel quinto racconto due esempi di lotta nell'Europa sotto occupazione nazista che piu' diversi fra loro non potrebbero essere. Uno e' l'operazione di salvataggio su larga scala che prende forma nell'Italia cattolica, semirurale, fascistizzata, quando centinaia di migliaia di militari e di prigionieri di guerra alleati si trovano dopo l'8 settembre 1943 alla merce' di fascisti e tedeschi - e' un esempio delle azioni che finora non compaiono nei database. L'altro e' la protezione degli ebrei in Danimarca, che vede protagonista una parte consistente della popolazione e delle istituzioni, in un contesto di solida democrazia laica, di cultura protestante, coesa, dove i nazisti esitano a infierire; ha un successo estensivo, documentatissimo, a volte mitizzato a volte minimizzato. In tutti e due i casi la nonviolenza e' praticata piu' che teorizzata, e - anche se Cristiano X di Danimarca e' un potente simbolo antinazista - non ci sono leader politici universalmente riconosciuti.
Il sesto riguarda la resistenza disarmata nel Kosovo, regione musulmana, di poche risorse, oppressa da Belgrado; un popolo tradizionalmente bellicoso, in veste di leader un intellettuale schivo, laico, moderato. Il settimo racconta le lotte in Tibet, paese semifeudale, di fede buddista, tuttora occupato dalla Cina, e rappresentato nel mondo da un ambasciatore teorico e mediatico della nonviolenza. Qui la nonviolenza e' programmatica, anche se spesso non segue propriamente gli assunti gandhiani.
Ma Gandhi resta il padre della nonviolenza moderna, colui che l'ha spostata dal cielo delle religioni alla terra della politica, e il padre del sangue (indiano e britannico) risparmiato; il leader eletto a santo, mal sopportato, a volte insopportabile, meraviglioso; una vita-laboratorio, in cui fra lotte e pensiero si coglie il farsi della resistenza nonviolenta. A lui e' dedicato il terzo capitolo.
Sono storie molto differenti per le caratteristiche e per l'attenzione storica e mediatica che hanno ottenuto (o non ottenuto). Le ho scelte per questa doppia diversita', e perche' mostrano che esistono modi per risparmiare il sangue praticabili anche da chi non ha potere, o ha un potere minimo, e, all'opposto, persino da chi ne ha tanto da rischiare di perdere il senso della realta'.
Ho dato molto spazio ad alcuni leader - per le guerre bastano capi mediocri, per la nonviolenza occorrono grandi guide. Non ci sarebbe stata una transizione pacifica in Sudafrica senza Mandela e Tutu, un cosi' forte movimento per i diritti civili senza King, ne' una nonviolenza tibetana senza il Dalai Lama, kosovara senza Ibrahim Rugova - e nonviolenza tout court senza Gandhi. Mi chiedo se la character assassination praticata su alcuni di loro rispecchi soltanto una tendenza diffusa a rovistare nella vita di persone famose, o se non ci sia la volutta' aggiuntiva di scoprire la macchia sotto il candore.
E' significativo che non abbiano leader di questo tipo le organizzazioni di donne in cerca di giustizia per i loro cari uccisi o fatti sparire da regimi golpisti e dittature: le madri e nonne cilene, le argentine di Plaza de Mayo, le madri degli studenti scomparsi a piazza Tienanmen, le russe, le cecene, le algerine, le damas de blanco cubane. Si direbbe che queste lotte abbiano meno bisogno di figure carismatiche, forse perche' il carisma sta nella forza della maternita' fisica e simbolica cui si richiamano.
Molte e molti dei protagonisti riuniti qui sono rimasti anonimi. Le memorie di seconda e terza generazione aiutano, ma per risuscitare la forza di certi eventi bisognera' far entrare nel discorso storico i soggetti senza nome e probabilmente destinati a rimanere tali, che in genere compaiono solo nella fusione rivoltosa o dolente con altri corpi anonimi. "Consideriamo incompleta una storia che si e' costituita sulle tracce non deperibili" ha scritto Carla Lonzi (23) a proposito della semi-cancellazione delle donne dalle memorie pubbliche; vale anche - un'altra analogia di rilievo - per molte e molti facitrici e facitori di pace.
Sarei felice se questi racconti servissero a ribadire due preziose ovvieta': che "fare qualcosa" o non farlo dipende dai rapporti di forza, ma quasi altrettanto dalla forza interiore; e che il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato.
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Note
1. Lo notava Alexander Langer in La nonviolenza e la guerra nella ex Jugoslavia (1992), pubblicato in "Azione nonviolenta", luglio-agosto 1996.
2. Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, trad. it., Garzanti, Milano 2001, alle pp. 297 e 299 (su una trattazione di 61 pp.).
3. Hannah Arendt, Du mensonge a' la violence. Essais de politique contemporaine, Calmann-Levy, Paris 2006, pp. 114-116.
4. Steven Pinker, The Better Angels of Our Nature. Why Violence has Declined, Viking Penguin, New York 2011, p. XXV. Gia' Gandhi rifiutava l'identificazione del "se' reale" nella parte piu' "sporca" e distruttiva dell'essere umano. The Better Angels e' una vastissima trattazione dove si indagano i fattori alla base del fenomeno e si riconduce la percezione attuale di un crescendo di violenza alla piu' acuta sensibilita' indotta da quegli stessi fattori, mentre in realta' se si guarda ai tempi lunghi e lunghissimi risulta in netto declino.
5. Lidia Menapace e Giovanna Providenti, Tra femminismo e nonviolenza: un dialogo tra generazioni diverse, in Giovanna Providenti, La nonviolenza delle donne, Quaderni Satyagraha, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze-Pisa 2006, p. 16.
6. I fiori sono i diritti delle donne, cfr. intervista alla egiziana Dalia Ziada, Le attiviste arabe: nessuna primavera senza fiori, terraeluna.blogspot.it
7. Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il '68, Una citta', Forli' 2009, p. 95.
8. Erica Chenoweth e Maria J. Stephan, Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic of Nonviolent Conflict, Columbia University Press, New York 2011. Per una ricca casistica delle forme e tecniche di resistenza nonviolenta cfr. Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, trad. it., 3 voll., Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1986.
9. Chenoweth e Stephan, Why Civil Resistance Works cit., vedi tabelle e grafici alle pp. 7-9, 70-75.
10. Su questi punti, specie sulle caratteristiche fisiche e le attitudini, mi permetto di rimandare a Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, cap. III e VIII. In Vi spiego i mali della civilta' moderna. Hind Swaraj, a cura di Rocco Altieri, Quaderni Satyagraha, Pisa 2009, p. 96, Gandhi scrive di aver visto bambini e persone malate praticare ottimamente una resistenza nonviolenta.
11. A proposito della guerra di Spagna, Simone Weil aveva scritto: "un abisso separava gli uomini armati dalla popolazione disarmata, un abisso in tutto simile a quello che separa i poveri dai ricchi", Lettera a Georges Bernanos [1938?], presentazione di Roberto Esposito, in "Micromega", 3, 1989, pp. 72-76.
12. L'espressione e' di Alexander Langer, Minima personalia (in "Belfagor. Rassegna di varia umanita'", marzo 1986), Fondazione Alexander Langer, Bolzano 2004, p. 6. Langer amava un pacifismo "meno gridato, ma assai piu' solido e concreto [...], che serve di piu' delle opzioni semplicistiche, buone per accontentare i tifosi" (Pacifismo concreto, Edizioni dell'Asino, Roma 2010, pp. 2-3).
13. "Nessun uomo puo' essere attivamente nonviolento e non ribellarsi contro l'ingiustizia dovunque essa si verifichi", cfr. Mohandas Karamchand Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, a cura e con un saggio introduttivo di Giuliano Pontara, Einaudi, Torino 1973 (ora 2006), p. 319.
14. Una analisi delle diverse posizioni su questo punto, come sulle accezioni di nonviolenza e violenza, nell'Introduzione di Pontara a Gandhi, Teoria e pratica cit., pp. LXXXV, XC, CXXIII e XLIV-XLVII.
15. Un esempio tristemente chiaro e' l'Intifada palestinese, in cui la prima fase, con l'impegno per l'autonomia sociale e produttiva, ha aperto spazi alle donne, mentre a partire dal '90-'91 il predominio dell'aspetto armato ha tolto loro visibilita' e respiro. Cfr. l'analisi di Elisabetta Donini, Che cosa resta, in "Inchiesta", 1991, n. 91-92.
16. In Occidente fra le primissime a denunciarlo e' Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti (1970), et al., Milano 2010, p. 37: "Il pensiero maschile ha ratificato il meccanismo che fa apparire necessari la guerra, il condottiero, l'eroismo, la sfida fra le generazioni. L'inconscio maschile e' un ricettacolo di sangue e di paura".
17. Nello stupendo Une tragedie francaise. Ete' 1944: scenes de guerre civile, Seuil, Paris 1994, Tzvetan Todorov racconta l'andirivieni spasmodico fra comandi partigiani, tedeschi, fascisti, con cui il sindaco di una cittadina francese cerca di scongiurare un cortocircuito di rappresaglie e controrappresaglie.
18. Molte "belle storie" nelle guerre balcaniche degli anni Novanta sono in Svetlana Broz, I giusti nel tempo del male. Testimonianze dal conflitto bosniaco (2002), trad. it., Erickson, Gardolo (Trento) 2008, e in Research and Documentation Center Sarajevo, Heart Signals, Sarajevo 2010.
19. Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, trad. it., Einaudi, Torino 2003, pp. 107-108.
20. Gabriele Nissim, La bonta' insensata. Il segreto degli uomini giusti, Mondadori, Milano 2011.
21. The Informed Heart e' il titolo originale (1960) del libro di Bruno Bettelheim, Il cuore vigile. Autonomia individuale e societa' di massa, trad. it., Adelphi, Milano 1988.
22 Research and Documentation Center Sarajevo, Heart Signals cit., p. 148.
23. Lonzi, Sputiamo su Hegel cit., p. 9.

4. REPETITA IUVANT. PER SOSTENERE IL CENTRO ANTIVIOLENZA "ERINNA"
[L'associazione e centro antiviolenza "Erinna" e' un luogo di comunicazione, solidarieta' e iniziativa tra donne per far emergere, conoscere, combattere, prevenire e superare la violenza fisica e psichica e lo stupro, reati specifici contro la persona perche' ledono l'inviolabilita' del corpo femminile (art. 1 dello Statuto). Fa progettazione e realizzazione di percorsi formativi ed informativi delle operatrici e di quanti/e, per ruolo professionale e/o istituzionale, vengono a contatto con il fenomeno della violenza. E' un luogo di elaborazione culturale sul genere femminile, di organizzazione di seminari, gruppi di studio, eventi e di interventi nelle scuole. Offre una struttura di riferimento alle donne in stato di disagio per cause di violenze e/o maltrattamenti in famiglia. Erinna e' un'associazione di donne contro la violenza alle donne. Ha come scopo principale la lotta alla violenza di genere per costruire cultura e spazi di liberta' per le donne. Il centro mette a disposizione: segreteria attiva 24 ore su 24; colloqui; consulenza legale e possibilita' di assistenza legale in gratuito patrocinio; attivita' culturali, formazione e percorsi di autodeterminazione. La violenza contro le donne e' ancora oggi un problema sociale di proporzioni mondiali e le donne che si impegnano perche' in Italia e in ogni Paese la violenza venga sconfitta lo fanno nella convinzione che le donne rappresentano una grande risorsa sociale allorquando vengono rispettati i loro diritti e la loro dignita': solo i Paesi che combattono la violenza contro le donne figurano di diritto tra le societa' piu' avanzate. L'intento e' di fare di ogni donna una persona valorizzata, autorevole, economicamente indipendente, ricca di dignita' e saggezza. Una donna che conosca il valore della differenza di genere e operi in solidarieta' con altre donne. La solidarieta' fra donne e' fondamentale per contrastare la violenza]

Per sostenere il centro antiviolenza delle donne di Viterbo "Erinna" i contributi possono essere inviati attraverso bonifico bancario intestato ad Associazione Erinna, Banca Etica, codice IBAN: IT60D0501803200000000287042.
O anche attraverso vaglia postale a "Associazione Erinna - Centro antiviolenza", via del Bottalone 9, 01100 Viterbo.
Per contattare direttamente il Centro antiviolenza "Erinna": tel. 0761342056, e-mail: e.rinna at yahoo.it, onebillionrisingviterbo at gmail.com, facebook: associazioneerinna1998
Per destinare al Centro antiviolenza "Erinna" il 5 per mille inserire nell'apposito riquadro del modello per la dichiarazione dei redditi il seguente codice fiscale: 90058120560.

5. APPELLI. SOSTENERE LA CASA INTERNAZIONALE DELLE DONNE DI ROMA

L'esperienza della "Casa internazionale delle donne" di Roma e' da decenni di importanza fondamentale per tutte le donne e gli uomini di volonta' buona.
In questo momento la "Casa internazionale delle donne" ha urgente bisogno di un particolare sostegno.
Per informazioni e contatti: siti: www.lacasasiamotutte.it, www.casainternazionaledelledonne.org, e-mail: info at casainternazionaledelledonne.org

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LA NONVIOLENZA CONTRO IL RAZZISMO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XX)
Numero 332 del 14 dicembre 2019
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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