[Nonviolenza] Telegrammi. 2064



 

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 2064 del 3 agosto 2015

Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XVI)

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it , centropacevt at gmail.com

 

Sommario di questo numero:

1. Il mare che trabocca di sangue

2. Pietro Polito ricorda Domenico Sereno Regis

3. Luca Sassetti: Per Vittorio Arrigoni

4. Massimiliano Fortuna presenta il carteggio tra Norberto Bobbio e Aldo Capitini

5. Massimiliano Fortuna presenta "Il bene della pace. La via della nonviolenza" di Enrico Peyretti

6. Enrico Peyretti presenta "Elogio dell'obiezione di coscienza" di Pietro Polito

7. Cinzia Picchioni presenta "Mangiare e' un atto agricolo" di Wendell Berry

8. Per sostenere il centro antiviolenza "Erinna"

9. Segnalazioni librarie

10. La "Carta" del Movimento Nonviolento

11. Per saperne di piu'

 

1. EDITORIALE. IL MARE CHE TRABOCCA DI SANGUE

 

Caro amico,

la strage degli innocenti nel Mediterraneo turbera' certo la sua come la mia coscienza.

Questo mare e' ormai un immenso cimitero, ed ogni giorno altre vittime si aggiungono.

Occorre far cessare questa strage.

E per far cessare questa strage vi e' un solo provvedimento adeguato: riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di entrare in Italia in modo legale e sicuro.

Questo deve legiferare il Parlamento italiano: riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di entrare in Italia in modo legale e sicuro.

In questo modo, e solo in questo modo, la strage cessera' immediatamente. E cessera' immediatamente lo scellerato mercato mafioso e schiavista. E si tornera' alla legalita', alla democrazia, alla civilta', all'umanita'.

Questo occorre: riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di entrare in Italia in modo legale e sicuro.

Salvare le vite e' il primo dovere.

 

2. MEMORIA. PIETRO POLITO RICORDA DOMENICO SERENO REGIS

[Dal sito della rivista "Il foglio. Mensile di alcuni cristiani torinesi" (www.ilfoglio.info) riprendiamo il seguente testo apparso sul n. 389]

 

L'Italia, questo Paese, la nostra democrazia hanno bisogno di idee concrete e di valori vissuti, di nuove esperienze che generino idee e valori, di uomini e donne aperti al futuro e che vivano i valori con coerenza.

Diceva Gobetti: "C'e' un solo valore incrollabile al mondo: l'intransigenza". Domenico Sereno Regis e' stato uno di questi uomini. Insieme ad altri - soli ma non isolati - ha animato esperienze significative che non sono alle nostre spalle, ma sono il punto di partenza per proseguire il cammino perche' quelle esperienze hanno formato altre persone che a loro volta possono dare un contributo alla formazione di altre persone e cosi' via. Penso all'impegno per una Chiesa rinnovata e per un cristianesimo evangelico, al lavoro per la partecipazione, la pace, la nonviolenza, l'obiezione di coscienza, per la creazione di un nuovo modello di sviluppo. In ogni esperienza Sereno Regis e' stato intransigente: intransigente nella scelta dei mezzi rigorosamente nonviolenti, intransigente nel perseguimento della giustizia che e' tanto piu' sicura quanto piu' la violenza si riduce nel mondo.

Chi scrive ha avuto la fortuna di lavorare con lui tra il 1979 e il 1984, l'anno della morte, e di essere stato uno dei tanti obiettori di coscienza di cui egli e' stato amico. Da lui, dal suo esempio, ho appreso la differenza (abissale) tra la tolleranza negativa che si risolve nella pura sopportazione dell'errore altrui e la tolleranza positiva che e' la comprensione delle ragioni degli altri, in particolar modo degli avversari, anche dei nemici. Quando si spinge oltre la convenzione, la tolleranza si trasforma in "apertura all'esistenza, alla liberta', allo sviluppo di ogni essere" (Aldo Capitini).

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L'obiezione di coscienza spezza il circolo vizioso

Mi sono chiesto spesso per quale motivo Domenico "spendeva" ore e ore del suo tempo in interminabili discussioni con noi (allora) giovani nella mitica "cantina" di via Venaria, annessa a quella che e' stata la prima casa della nonviolenza a Torino e che per molti anni, grazie a lui che come si diceva nel gergo degli obiettori ci "copriva", e' stata la sede della Loc (Lega degli obiettori di coscienza). Discussioni franche, anche accese, non sempre convergenti, sempre leali. Piu' di una volta sono andato con lui a parlare di obiezione di coscienza qui a Torino, anche in provincia, dove si recava con una macchinina che lo conteneva appena: per la sua mole immensa egli doveva occupare il posto alla guida e anche quello alle spalle del guidatore.

Pensando e scrivendo queste righe, mi pare di avere trovato la risposta alla domanda che poc'anzi mi sono posto: perche' l'obiezione di coscienza e' stato forse il suo impegno fondamentale? La ragione e' questa: in ogni giovane obiettore egli vedeva una possibilita', un inizio, la possibilita' dell'inizio di una vita sulla strada del bene. Che cos'e' l'obiezione di coscienza? Ecco la sua risposta: "L'obiezione di coscienza - nella sua forma piu' pura - e' una scelta di vita che spezza il circolo vizioso per cui al bene si risponde con il bene, al male con il male". Come i profeti, Domenico pensava che il fuoco si accendesse da un punto e credeva che, perche' il fuoco divampasse, non occorresse essere in molti. Era persuaso della forza dei piccoli gruppi, ancor piu' della forza personale di ciascuno, quella forza che lo porto' in Africa, insieme all'amico Riccardo Lizier, dove diede prova di coraggio e si distinse per l'abilita' mostrata nel lavoro di apertura di una pista nella boscaglia. L'amico Lizier ha ricordato una sua frase, quando la morte era prossima: "Questa e' la strada. Io sono qui fermo al suo inizio". L'obiezione di coscienza e' "l'atto di gettare qualche cosa contro" (Capitini), ma io penso che sia soprattutto un inizio, l'inizio di un nuovo cammino. L'obiezione alla guerra e alla violenza e' una direzione, un indirizzo che uno da' alla propria vita.

La sua vita e' stata una prova, una prova formidabile perche' concreta, che siamo in cammino lungo la strada che puo' condurre a una societa' autogestita in cui le persone vengono prima e valgono piu' delle cose. Per lui, gli istituti su cui si regge la realta' attuale non sono da riformare ma da reinventare.

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Il talismano di Gandhi

Martedi' 24 gennaio, come amici di Domenico, ci siamo riuniti con la signora Maria nella sala Gandhi del Centro Sereno Regis per ricordare l'anniversario della sua scomparsa (24 gennaio 1984) e della sua nascita (7 dicembre 1921). Oggi egli avrebbe novant'anni compiuti. Gli amici hanno ricordato episodi della sua partecipazione alla Resistenza con uno schioppo che se ha tirato qualche colpo non e' mai stato per colpire l'avversario; il suo attivismo a favore dei lavoratori attraverso la Gioventu' operaia cristiana (Gioc); l'impegno per una democrazia di base negli anni '70; la lotta costante per il riconoscimento giuridico dell'obiezione di coscienza, conquistato nel 1972 in una forma parziale e limitata; il lavoro per l'istituzione, l'organizzazione e la valorizzazione del servizio civile. Inoltre gli amici coetanei hanno parlato del suo cristianesimo ribelle che mai lo porto' a disconoscere la propria appartenenza alla Chiesa. Quando gli amici cristiani hanno recitato una preghiera, quando tutti insieme abbiamo letto Il talismano di Gandhi, si e' creato un momento di commozione.

Ti daro' un talismano.

Ogni volta che sei nel dubbio

O quando il tuo "io" ti sovrasta,

fa questa prova:

richiama il viso dell'uomo piu' povero e piu' debole

che puoi aver visto

e domandati se il passo che hai in mente di fare

sara' di qualche utilita' per lui.

Ne otterra' qualcosa?

Gli restituira' il controllo

sulla sua vita e sul suo destino?

In altre parole,

condurra' all'autogoverno

milioni di persone

affamate nel corpo e nello spirito?

Allora vedrai i tuoi dubbi

E il tuo "io" dissolversi.

 

3. MEMORIA. LUCA SASSETTI: PER VITTORIO ARRIGONI

[Dal sito della rivista "Il foglio. Mensile di alcuni cristiani torinesi" (www.ilfoglio.info) riprendiamo il seguente testo apparso nel n. 382]

 

Per uno che muore

travolto dall'onda di odio

che voleva sedare

altri cinquanta, altri cento

rischiano, faticano, soffrono

ignorati dalle cronache

nei luoghi di violenza

a fianco delle vittime

e noi debolmente

da lontano

solidarizziamo

lavoriamo parole

che altri traducono in atti.

Forse e' facile e vile

questo nostro parlare

o forse e' aria, orizzonte

per il loro respiro.

Forse.

A noi, la violenza e' dolore

anche solo a saperla, a vederla.

E loro, nel patirla con forza

solo loro la pagano

la riscattano

diventano puri umani

affinche' noi

almeno

restiamo umani.

 

4. LIBRI. MASSIMILIANO FORTUNA PRESENTA IL CARTEGGIO TRA NORBERTO BOBBIO E ALDO CAPITINI

[Dal sito della rivista "Il foglio. Mensile di alcuni cristiani torinesi" (www.ilfoglio.info) riprendiamo la seguente recensione apparsa sul n. 395 col titolo "Un percorso attraverso il carteggio Bobbio-Capitini"]

 

Aldo Capitini - Norberto Bobbio, Lettere 1937-1968, a cura di Pietro Polito, Carocci, Roma 2012, pp. 139, euro 18.

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La pubblicazione dell'Epistolario di Aldo Capitini presso le Edizioni Carocci e' giunta alla sua quinta tappa; dopo i carteggi con Walter Binni, Danilo Dolci, Guido Calogero e Edmondo Marcucci tocca ora all'atteso scambio di lettere con Norberto Bobbio.

Sia Bobbio che Capitini sono stati assidui scrittori di lettere e possiamo probabilmente dire che esse costituiscono una sorta di "aggiunta", per usare una parola capitiniana, non marginale ai loro saggi maggiori: note che integrano il loro pensiero e ne illuminano alcune sfumature. Ne danno testimonianza per Capitini i cinque volumi citati sopra, per Bobbio questo carteggio e quelli, apparsi di recente, con Enrico Peyretti (Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana 2011) ed Eugenio Garin (Della stessa leva, Aragno 2011).

Lo stile di scrittura di Bobbio e Capitini non e' identico, quello del primo e' piu' analitico, procede per distinzioni, per precisazioni terminologiche, l'altro lo si potrebbe definire piu' poetico, piu' accalorato. E' bene tuttavia non estremizzare troppo questa polarita', nel senso che Capitini non e' esente dal rigore e dalla precisione e la parola di Bobbio non pecca certamente per freddezza, tutt'altro, anzi brucia, al suo fondo, di passione politica e civile. Per quanto riguarda Capitini, si puo' forse dire che in lui la nonviolenza prima che un contenuto, o dei contenuti, va considerata proprio una pratica linguistica, vale a dire un modo di parlare e di confrontarsi. La parola di Capitini appare intrinsecamente dialogica, i suoi libri danno spesso la sensazione di essere concepiti come un confronto aperto con il lettore: la nonviolenza comincia dal modo di esprimersi e la forma e' gia' contenuto, il mezzo e' gia' il messaggio, o almeno una parte di esso. Leggere Capitini puo' gia' considerarsi, in un certo senso, un'esperienza di nonviolenza.

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Nonviolenza come pratica linguistica

Queste lettere offrono diversi stimoli e possibili percorsi di lettura, in questo scritto ne vogliamo ripercorrere uno che prende spunto da alcune prese di distanze che Bobbio, ogni tanto, attua nei confronti di Capitini e del suo pensiero. Nel segnalare alcune differenze e divergenze, Bobbio enuncia alcune parole chiave che vanno a costituire una sorta di ritratto minimale di Capitini e, per contrapposizione, di se stesso.

Nella lettera del 23 novembre 1946 Bobbio scrive: "Io mi muovo su una linea diversa, tanto per intenderci, razionalistica e critica. Ma capisco - e ne ho avuto sempre gran beneficio - la tua posizione religiosa-umanistica". In quella del 28 maggio 1948: "Questa della societa' aperta e' una delle suggestioni piu' vive che mi provengono dal tuo pensiero [...], mi piacerebbe approfondirlo su un piano diremo cosi' sociologico (per dire non-metafisico)". Il 14 agosto 1951: "Vedo che le nostre strade sono divergenti, tu sempre piu' verso l'ideale del filosofo-profeta, io sempre piu' verso l'ideale del filosofo positivo. [...] Non credere che non ami piu' stare a colloquio coi profeti. Ma preferisco normalmente cose piu' terra terra, piu' solide [...]. Mi pare d'altra parte che voi - religiosi - abbiate troncato troppo presto il vostro tirocinio nel mondo, e vi siate messi troppo presto a predicare".

A proposito di "predicare", Polito riporta nell'introduzione un documento davvero interessante, una scheda di lettura stilata da Bobbio per Einaudi relativa a un libro, Nuova societa' e riforma religiosa, che poi verra' pubblicato dalla casa editrice nel 1950. Il parere e' complessivamente favorevole alla pubblicazione, ma rivela un giudizio (che poi Bobbio almeno in parte rivedra') per certi aspetti severo nei confronti dei libri di Capitini, qui si dice infatti che "gli altri libri di C. sono piu' o meno delle prediche (nobilissime, del resto), questo, oltre ad una predica, e' anche un documento".

Dunque in queste lettere e in questo parere editoriale Bobbio inquadra Capitini con il filtro di alcune utili parole chiave: predicatore, religioso, profeta, metafisico. La prima si puo' leggere in contrapposizione a uno "sfogo" di Bobbio datato 6 ottobre 1963, qui, lamentandosi dei molti inviti che da varie parti d'Italia gli provengono per tenere conferenze, scrive che non bisogna costringere "dei sedentari per vocazione come i professori a girare l'Italia come delle trottole". Se questo - "sedentario per vocazione" - e' il modo in cui Bobbio sceglie di descrivere se stesso, verrebbe da dire che la vocazione di Capitini era, al contrario, quella del non sedentario: la sua inclinazione si volgeva al movimento, percorrere strade per diffondere la parola della nonviolenza era la sua stella polare. In alcuni scritti autobiografici, come Antifascismo tra i giovani o Attraverso due terzi di secolo, si sofferma, con una sorta di soddisfazione, a ricordare la quantita' di persone incontrate, soprattutto giovani, in giro per l'Italia.

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Un diverso modo di guardare

Si potrebbe forse dire che, in un certo senso, Capitini vede se stesso nel ruolo dell'apostolo che si sente inviato a "convertire" gli altri alla cultura della pace, mentre Bobbio si concepisce soprattutto nelle vesti del professore che ha come compito primario quello di fornire gli strumenti intellettuali per la comprensione della societa' e della politica. Forse, dovendo sintetizzare con una battuta, potremmo dire che Capitini mira ad "aprire i cuori" e Bobbio ad "aprire le menti".

In ogni caso, sintesi estreme a parte, e' ben percepibile un modo diverso di guardare alla realta' e al significato della pace. Nel senso che per Capitini la pace si direbbe passare anzitutto attraverso un'affermazione, vale a dire l'affermazione delle forze migliori e costruttive che sono nell'uomo, che si trovano gia' li' e che, in un certo senso, si tratta semplicemente di portare alla luce, appunto con la forza della predicazione, dell'esortazione e dell'esempio; mentre per Bobbio la pace passa innanzitutto attraverso una negazione, ovverosia un contenimento, un freno, al contrario, delle potenzialita' umane piu' distruttive, e questo contenimento e' frutto in primo luogo di una costruzione, di un'architettura istituzionale e costituzionale, che comporta un equilibrio di pesi e contrappesi, che bisogna saper creare e continuamente riaffermare e rafforzare. Di questa costruzione sembra a volte che Bobbio percepisca una sorta di fragilita' intrinseca, sempre pericolosamente esposta a quell'istinto di distruzione che in qualsiasi momento puo' risvegliarsi nell'uomo come un fiume in piena e sovvertire l'ordine democratico e repubblicano, distruggendo tutto. Gli ultimi anni di Bobbio si direbbero attraversati dalla preoccupazione di vedere venire meno in Italia, sottoposta a progressiva erosione, questa rete di protezione culturale e sociale fondata su una determinata cultura costituzionale e giuridica.

Potrebbe essere lecito riferirsi a questi autori nei termini accademici di pessimismo e ottimismo antropologico. Ma forse sarebbe bene cercare altre parole, quella che probabilmente piu' di altre si adatta a Capitini e' "fiducia", Bobbio stesso in queste lettere lo definisce uomo di "fiducia illuminata". Fiducia, ma non meno speranza e entusiasmo; anche se tutto questo non va confuso con una sorta di ottimismo ingenuo e superficiale, dal momento che Capitini certamente non banalizza la presenza del male e della sofferenza nella storia e nella natura, anzi ne avverte per intero il peso e il tormento. Le parole che meglio si attagliano a inquadrare Bobbio potrebbero invece essere: cautela, dubbio, malinconia.

Per comprendere meglio dove poggino in Capitini questa fiducia e questa speranza puo' essere utile riprendere un'altra delle parole adoperate da Bobbio: "metafisico". Anzi, forse per Capitini si potrebbe usare un termine ancora piu' specifico, vale a dire "escatologico", che riguarda dunque le cose ultime, ta eskata, i destini estremi dell'uomo. Centrale, a questo riguardo, nel pensiero di Capitini e' la dimensione della compresenza dei morti e dei viventi.

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"Il morto e' ben morto"

Alla base della compresenza sembra innanzitutto esserci un'idea sul significato della morte, su questa soprattutto vogliamo soffermarci. Partiamo ancora una volta da Bobbio, per dire che il suo modo di intendere la morte e' trasparente e chiaramente espresso. Nel carteggio con Peyretti, ad esempio, sono presenti un paio di lettere nelle quali si dice senza ambiguita' che la morte di un individuo coincide con la sua totale scomparsa, nessuna possibilita' di "ritorno" o di sopravvivenza personale e' data; se esiste in Bobbio un sopravvivere alla morte, questo si configura semplicemente come un essere vivi nel ricordo degli altri e nell'opera che si lascia. In queste lettere a Capitini, toccando il tema dello storicismo, esprime considerazioni analoghe: "lo storicismo, con la sua idea della storia come fiumana cui tutti i viventi hanno contribuito, e' un modo per salvare e ricuperare il mondo dei morti: la storia presente, cioe' la storia dei viventi, e' il prodotto di tutta la storia precedente, ininterrottamente e globalmente; noi siamo quello che siamo perche' dietro a noi ci sono tutti coloro che sono morti prima di noi" (lettera del 19 settembre 1966).

L'idea di Capitini invece, ma forse sarebbe appropriato adoperare il termine "fede", e' che la morte non sia l'annientamento totale di un individuo e la sopravvivenza non possa considerarsi unicamente un essere vivo nel ricordo altrui o nell'eredita' della propria opera. Rispondendo a questa lettera di Bobbio lo sottolinea: "il punto di partenza e' il rifiuto di accettare che il morto sia morto, e quindi la netta differenza con lo storicismo il quale mi dice: il morto e' ben morto, anzi egli moriva ogni volta che ti dava la sua opera, la realizzazione di un valore che ti ha costituito come sei" (lettera del 28 settembre 1966). Per Capitini gli uomini sembrerebbero invece attesi da una sorta di resurrezione, una resurrezione che peraltro non riguarderebbe solo gli esseri umani ne', piu' in generale, solo gli esseri viventi, ma l'intero complesso della realta' e della natura in ogni loro, pur minima, manifestazione. La realta' liberata su cui Capitini insiste ripetutamente, e di cui si fa annunciatore e profeta (un'altra delle parole usate da Bobbio) si direbbe essere una realta' liberata non soltanto dalle ingiustizie sociali e dalla violenza politica, ma una realta' totalmente redenta e trasfigurata, affrancata anche dai vincoli della morte.

Qualcuno si e' domandato se per essere nonviolenti, e anche nonviolenti al modo di Capitini, sia indispensabile credere nella compresenza e in questa concezione escatologica della realta', e se le sue idee nonviolente possano perdere di efficacia senza l'adesione a questa visione religiosa. La sensazione e' che cosi' non sia, che cioe' la nonviolenza capitiniana mantenga per intero la sua validita' e la sua forza anche se scissa dalla filosofia della compresenza, salvo non dimenticare che questa dimensione ha un ruolo di primo piano nel pensiero di Capitini e nella sua visione del mondo.

 

5. LIBRI. MASSIMILIANO FORTUNA PRESENTA "IL BENE DELLA PACE. LA VIA DELLA NONVIOLENZA" DI ENRICO PEYRETTI

[Dal sito della rivista "Il foglio. Mensile di alcuni cristiani torinesi" (www.ilfoglio.info) riprendiamo la seguente recensione apparsa sul n. 400 col titolo "La pace si fonda su un ordine naturale, la guerra no"]

 

Enrico Peyretti, Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella 2012, pp. 157.

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L'ultimo libro di Enrico Peyretti e' una raccolta di riflessioni che ruotano intorno al tema della pace. Riflessioni non connesse in modo sistematico tra loro e poco organiche, come sostiene lo stesso autore. Ci si sofferma su alcune tipologie di pacifismo, sulle analisi delle diverse forme di violenza, sul rapporto tra religioni e pace, sul significato della nonviolenza, e molto altro ancora.

Si possono pero' individuare delle coordinate di fondo che tengono assieme queste riflessioni? Ci sembra di si'. Il taglio che caratterizza il libro, anche in questo caso a suggerircelo e' lo stesso Peyretti, e' innanzitutto etico. Aggiungeremmo che ci pare altresi', in certa misura, parenetico e omiletico, vale a dire di esortazione alla rettitudine e di ammonimento morale. Ci si muove piu' sul piano dell'enunciazione di principi che su quello della concreta analisi sociale e politica; il compito che queste pagine si sono assunte sembra vertere principalmente sull'indicazione degli obiettivi verso i quali dovrebbe tendere il lavoro della pace, meno sull'analisi delle soluzioni pratiche capaci di condurre al perseguimento degli obiettivi in questione. Il dove si vuole arrivare ("il nuovo pacifismo richiede una mutazione antropologica, dalla civilta' della competizione alla civilta' della collaborazione, della solidarieta'") forse finisce per "sporgere" un po' troppo sul come arrivarci.

E' nostra convinzione, non possiamo non dirlo, che nel dedicarsi alla ripetuta affermazione di alcuni grandi valori di fondo (la giustizia, il rispetto per la vita, la ricerca del bene, ecc.) si possa a volte finire con il peccare di astrattezza, arrivando a sovrapporre schemi troppo rigidi alla complessita' della realta'. Ad esempio, parlare in modo generico di "rispetto per la vita" e della vita come "valore da conservare e sviluppare", puo' farci dimenticare che il termine "vita" corrisponde a un fenomeno complesso che non necessariamente richiede uno sguardo di indiscussa benevolenza. Vengono in mente alcune pagine pungenti che Christoph Tuercke in Violenza e tabu' (Garzanti 1991) dedica alla formula del "rispetto per la vita" e ad Albert Schweitzer, il suo piu' noto teorico, al quale anche Peyretti si richiama: "Nulla", scrive Tuercke, "e' piu' concreto della vita, ma nulla e' piu' astratto del suo concetto generalizzato. Finche' questo non viene precisato, l'affermazione della vita puo' significare qualsiasi cosa" - sono vita anche quei batteri patogeni all'annientamento dei quali Schweitzer ha dedicato gran parte della sua esistenza.

Ci pare inoltre, anche avvalendoci di altri scritti di Enrico Peyretti, che a reggere l'intero impianto etico del libro sia una prospettiva filosofica caratterizzata da una precisa metafisica e forse anche da una determinata idea della storia. Forse e' possibile riassumerle, approssimativamente, adoperando le stesse parole che l'autore impiega per descrivere le linee generali della Pacem in terris di Giovanni XXIII: "La pace si fonda su un ordine naturale voluto da Dio. Violenza e guerra non sono naturali. L'ordine naturale e' capace di pace, secondo il bene originario che gli da' origine. La legge della pace e' scritta nei cuori, nella coscienza umana". La verita' e il bene corrisponderebbero dunque a qualcosa di fondamentalmente oggettivo, che l'uomo ascoltando la voce della sua coscienza e' in grado di individuare valori ai quali e' chiamato a improntare la propria condotta di vita. E' vero che Peyretti sostiene che la pace e' un cammino e il suo orizzonte non e' definibile una volta per tutte, ne' rigidamente inquadrabile, ma e' anche vero che la sua concezione etica sembra, in buona sostanza, sostenersi sulla ricerca di un fondamento morale universale e assoluto, continuo nel tempo e uniforme nello spazio.

All'inizio di un suo bel libro, La filosofia dopo la filosofia (Laterza 1989), Richard Rorty richiama la nostra attenzione sulla cesura filosofica fondamentale che esiste tra i pensatori che ritengono che la verita' sia una "scoperta", quindi data nella realta' esterna all'essere umano, e quelli che ritengono che essa sia una "costruzione", dunque fondata su delle convenzioni, interna al linguaggio e alle culture degli uomini. Enrico Peyretti ci sembra un pensatore del primo tipo, convinto dell'esistenza di valori inscritti, per cosi' dire, nella natura, che rappresentano dei binari imboccando i quali l'umanita' si muove in direzione di un progressivo aumento del bene della pace nella storia. Una posizione legittima naturalmente, che altrettanto legittimamente si puo' prestare a critiche, che potrebbero ad esempio focalizzarsi sulla sottovalutazione della storicita' delle culture umane e della difficolta' a adoperare in termini assoluti, e dunque astorici, un concetto come "coscienza".

Posizione legittima quella di Peyretti, dicevamo, laddove meno legittimo sarebbe invece ritenere che non si dia la possibilita' di costruire un pensiero della nonviolenza e divenire operatori di pace a partire da premesse filosofiche e gnoseologiche differenti. Una filosofia e un'etica, ad esempio, piu' legate all'idea di contingenza che a quelle di necessita' e di assoluto, e portate a non inquadrare la natura e la storia entro schemi finalistici. Contingenza che e', ad esempio, al centro del summenzionato libro di Rorty, secondo il quale l'obiettivo primario della solidarieta' fra gli uomini - il non infliggersi vicendevolmente dolore - non puo' sperare di fondarsi su un "dover essere" intrinseco a una supposta essenza umana, ma semmai su un consenso intersoggettivo che si crea nel "gioco" delle circostanze storiche. Contingenza che e' anche un concetto decisivo nel pensiero dell'evoluzione. Ne parla fra gli altri, con competenza, Telmo Pievani in un suo saggio recente (La vita inaspettata, Cortina 2011), soffermandosi anche sul riverbero che l'idea di contingenza evolutiva rimanda sul piano dell'etica. La specie umana e' un frammento di natura che all'interno dell'evoluzione ha elaborato, o meglio sta provando a elaborare, un esperimento di fratellanza democratica e giustizia sociale del quale non trova una matrice preformata in una "natura" originaria che lo precede, perche' anzi in questo senso comportamenti del genere risultano per tanti aspetti ben poco "naturali". Secondo Pievani "autentico e' l'uomo che in questa condizione di consapevolezza [la radicale contingenza della nostra presenza] vive per la giustizia, per l'uguaglianza nei diritti, per il bene e la solidarieta', e proprio nel fare unilateralmente questa scelta rinuncia all'idea che l'essere naturale presupponga in quanto tale l'etica".

Altro non si puo' fare comunque che lasciare sempre aperto il confronto intellettuale tra prospettive differenti, o almeno parzialmente divergenti; in fondo conta che qualcuno faccia il possibile per non infliggere sofferenza e dolore agli altri viventi, piu' che il motivo che lo induce a farlo.

 

6. LIBRI. ENRICO PEYRETTI PRESENTA "ELOGIO DELL'OBIEZIONE DI COSCIENZA" DI PIETRO POLITO

[Dal sito della rivista "Il foglio. Mensile di alcuni cristiani torinesi" (www.ilfoglio.info) riprendiamo la seguente recensione apparsa nel n. 409 col titolo "La voce dell'altro in me"]

 

Pietro Polito, Elogio dell'obiezione di coscienza. Scritti e conversazioni, Biblion 2013, pp. 178, euro 12.

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Il libro di Polito e' stato presentato il 16 novembre nella nuova sala Gabriella Poli nel Centro Studi Sereno Regis, da parte di Marco Revelli e Paolo Mirabella. Tema: l'obiezione al militare, le altre obiezioni, la coscienza. Nel suo libro, Pietro Polito, dopo la testimonianza personale, offre un chiaro saggio-elogio sulla obiezione delle coscienze, nella storia repubblicana italiana, alle armi e alle responsabilita' connesse, come ad altre forme dell'uccidere o del mettere in pericolo le vite. A questa parte segue una raccolta di saggi su sei figure rilevanti, da Capitini ad Ada Gobetti, a Bobbio, Sereno Regis, Danilo Dolci, Lorenzo Milani, e poi ancora una serie di interviste di Bobbio, Rodolfo Venditti, Goffredo Fofi, Pietro Pinna. Oggi che il professionismo militare vorrebbe frustrare l'obiezione delle coscienze alle armi, questo materiale di informazione e riflessione e' prezioso per tenere desti gli animi contro le gravi folli spese in armamenti, contro l'idea della guerra umanitaria e protettiva, contro la frustrazione del "ripudio della guerra", contro un'economia distruttiva dell'ambiente.

La cultura dell'obiezione, sempre necessaria, non e' negativa: e' un primo passo indispensabile verso la pace da stabilire nelle morali e nelle istituzioni, anche se poi si deve andare oltre: il pacifismo (per non morire, per non uccidere), il ripudio dei mezzi mortali, ha la sua maturazione nella nonviolenza attiva, cioe' la gestione dei conflitti con la forza dei mezzi vitali e dei fini costruttivi.

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Che cos'e' la coscienza

Nel bel libro amo evidenziare il tema della coscienza su quello dell'obiezione. Il primato della coscienza sulla legge, antico come l'evoluzione piu' alta dell'umanita', va dalla "legge non scritta" (Antigone), oppure scritta nei cuori (profezia biblica ed evangelica), alle affermazioni dell'Umanesimo, della Riforma, del liberalismo sociale, di ogni pensiero critico, del Concilio Vaticano II, di papa Francesco, e di un cammino aperto.

Su cosa sia la coscienza ci sono teorie antiche e decostruzioni contemporanee: la voce di Dio, il dovere categorico della ragione, il super-io sociale, un dato rilevato dalle neuroscienze, l'angelo custode che imparammo da bambini? Mi e' sovvenuto il socratico "Conosci te stesso": sii soggetto e anche oggetto del tuo conoscere; co-scienza, un sapere che e' anche sapere di se', una luce gettata non soltanto sulla realta' esterna, ma su di me che vedo e agisco. Come vedo? Come e a qual fine agisco?La domanda implica una stimolante alterita', che scopro in me, un necessario sapere di me, prima di (e anche per) sapere del mondo. Chi sono io che cerco di sapere, di giudicare e di toccare la realta'? Sono soltanto il soggetto o anche l'oggetto della mia necessita' di sapere? E questa alterita' in me che cosa e'? E' un dio? Un daimon, lo spirito mio proprio, che in ogni individuo e' unico e irripetibile, e ineludibile, a pena di tradirsi? E' comunque un appello che impegna me, senza che io debba giudicare la risposta degli altri? E' forse l'altro umano che ho di fronte e che trovo anche in me, il quale - dal mio interno e non solo dall'esterno - mi chiama e mi attira a cio' che e' giusto e mi distoglie dal fare ingiustizia?

"Non sopportare la sofferenza altrui" e' un principio dell'etica confuciana che esprime il sentimento dell'umanita' in ciascuno: la sofferenza altrui e' anche mia inseparabile sofferenza (cfr. Pier Cesare Bori e Saverio Marchignoli, Per un percorso etico tra culture, Carocci 2003, pp. 58-60 con l'apologo di Mencio sulla prova dell'essere umano). Infatti, non sono solo. Altri sono in me, come richiamo al mio essere umano. Un richiamo molto forte: "Tutte le volte che sorge dal profondo di un cuore umano il lamento del fanciullo che Cristo stesso non ha saputo trattenere: 'Perche' mi viene fatto del male?', li' vi e' certamente ingiustizia". Quel grido e' infallibile. Li' c'e' certamente la verita'. E questo perche' "c'e' nell'intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l'esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. E' questo, prima di tutto, che e' sacro in ogni essere umano" (Simone Weil, La Persona e il sacro, 1942-1943). Se ascolto nell'altro questo appello veramente sacro, difendo e faccio vivere il sacro in me. Il contrario avviene, se non ascolto. Nessun appello mi e' cosi' intimo, costitutivo, condizione di vita.

Quel precetto centrale - che non e' unicamente evangelico, perche' l'universale "regola d'oro" implica la parita' di valore tra me e l'altro - "Ama il prossimo tuo come te stesso" viene anche letto, nell'originale ebraico, "... perche' e' te stesso". Le religioni, le sapienze spirituali, sono introspezione, ma sono altrettanto relazione con l'essere altrui, universale: "religentes esse oportet" (Aulo Gellio).

Anche nella societa' politica pluralistica vale il principio "Ci sono anche gli altri", che Aldo Moro ricordava a certuni dei suoi che avevano programmi della sola sua parte.

Polito propone, nel suo Elogio, una visione individualistica dell'obiezione. Intendo chiaramente che non si tratta del singolo separato, atomizzato in una societa' disgregata: questo significato e' ben criticabile. La sottolineatura dell'individuo fatta da Polito reagisce al rischio di identificazione e riduzione della persona a parte eteronoma di un organismo, senza una propria autonomia. Significa l'unicita' irripetibile di ognuno (ogni-uno), che e' principio della liberta', uguale in tutti: percio' non e' liberta' contro giustizia, ma liberta' per essere giusti. Unicita' e comunione sono la nostra umanita'.

Possiamo intendere: sii te stesso, non sei riducibile a "uniforme", a numero in un corpo compatto, dunque non essere conforme (che e' pure il principale appello morale di san Paolo: "non conformatevi al mondo presente", Romani 12,2), ma rispondi a te stesso, in profondita', e cosi' risponderai anche all'altro che e' in te, e all'altro vero tu che e' in lui, nell'uomo davanti a te.

Quindi: ne' riduzione organicistica; ne' scissione atomistica di monadi chiuse. Mi pare feconda la concezione della persona unica e comunitaria (Emmanuel Mounier), costituita in relazioni, una via verso un'etica universale (Kueng, Bori), sebbene plurale (Panikkar). Cosi' pure la visione dell'"uomo inedito" (Bloch, Balducci, e anche Capitini in altri termini): al di la' dell'uomo finora edito, si tratta di diventare un tale uomo libero e solidale, aperto ad ogni altra forma civile di umanita', nella cooperazione e non nella competizione e rivalita' escludenti.

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Quando nasce la coscienza

L'obiettore di coscienza testimonia che si deve "obbedire a Dio piu' che agli uomini", alla legge interiore piu' che alle autorita' esterne, come affermano Pietro e gli apostoli davanti al Sinedrio (Atti 5,29, e anche 4,19), proprio come Socrate davanti al tribunale (Apologia 29-d). L'obiettore testimonia, col prezzo che paga, questa insorgenza del piu' profondo umano. Puo' pure produrre argomentazioni per la sua scelta, ma non puo' attendere il consenso generale: l'appello di coscienza e' una direzione, non una conclusione ne' un contratto. Non e' dissociazione, ma libera proposizione di fedelta' all'umano di tutti. Non obbliga e non giudica, ma non tace e non elude.

Nell'obiezione (un "gettarsi contro") la coscienza non nasce (era gia' viva, pur se assopita nella situazione tranquilla) ma si risveglia e si solleva di fronte all'inaccettabile. Il negativo e' un appello al positivo che giace in noi. E' una presenza del bene quella che giudica che il male e' male: altrimenti sarebbe "normale". E' una luce, per tenue che sia, nella coscienza: una luce che "illumina ogni uomo" (vangelo di Giovanni 1,9, versetto-guida per i quaccheri). La coscienza distoglie dal male, senza dare direttive precise (cosi' gia' in Socrate) perche' conosce l'orizzonte del bene, anche se non detta le singole vie. "E' lo scandalo della violenza esercitata da uomini su altri uomini che mette in movimento il pensiero filosofico; e' la certezza che questo male non deve essere che provoca la riflessione. Noi vogliamo sostenere che la rivolta del pensiero davanti alla violenza che fa soffrire gli uomini e' l'atto fondatore della filosofia. Noi vogliamo affermare che il rifiuto di ogni legittimazione di questa violenza fonda il principio di nonviolenza" (Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Pisa University Press 2004, p. 22). Cosi' il pensiero-coscienza di giustizia e pace si mette in movimento, e ha davanti a se' un gran lavoro di ricerca e di azione.

 

7. LIBRI. CINZIA PICCHIONI PRESENTA "MANGIARE E' UN ATTO AGRICOLO" DI WENDELL BERRY

[Dal sito del Centro studi Sereno Regis (http//:serenoregis.org) riprendiamo la seguente recensione]

 

Wendell Berry, Mangiare e' un atto agricolo, Lindau, Torino 2015, pp. 252, euro 19,50.

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"Quando vorranno farti comprare qualcosa, ti chiameranno. Quando vorranno sacrificarti al profitto, te lo faranno sapere. Percio', amici miei, fate tutti i giorni qualcosa d'irragionevole. (...) Prendete cio' che avete e fatevi poveri. (...) Approvate cio' che vi sfugge (...) perche' quello che l'uomo non ha ancora scoperto non ha ancora distrutto. (...) Interrogatevi sulle domande senza risposta" (p. 151).

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Gli ultimi saranno i primi

Lasciatemi cominciare con alcune parole (quelle qui sopra) che sono alla fine del libro, e lasciatemi condividere la gioia di averle trovate in questo libro, che non avrebbe alcun bisogno di essere recensito (e di certo non per convincere qualcuno a leggerlo, averlo e acquistarlo. Il nome dell'autore parla da solo). Sto parlando del Manifesto del contadino impazzito. Da anni, da quando l'ho letto per la prima volta concludo quasi sempre gli interventi, le presentazioni, le serate a cui mi invitano per parlare della semplicita' volontaria con quel brano di Wendell Berry. Immeritatamente a volte dichiaro che quelle parole riassumono un po' il "cinziapensiero" in modo piu' efficace di quanto potrei fare io in ore di "spiegazioni". Resto sempre un po' delusa, pero', quando chiedo "Qualcuno conosce Wendell Berry?" e la risposta e' praticamente sempre negativa.

Cosi' plaudo all'iniziativa della casa editrice, per aver deciso di pubblicare Wendell Berry (so che intende editare anche altri suoi lavori), e per aver sistemato alla fine del libro (proprio come una "summa") il Manifesto dell fronte di liberazione del contadino impazzito (1973). Dall'altra parte di questa azzeccatissima "fine" c'e' un altrettanto azzeccato "inizio": il titolo. Evocativo e commovente, e' un altro esempio di sintesi perfetta di un piu' articolato e lungo pensiero (e nel caso di Berry anche di stile di vita): Mangiare e' un atto agricolo. Ho gia' parlato di questo libro con qualcuno che mi ha detto: "Ah si'! L'ho visto, mi ha attirato il titolo...". Mangiare (l'ultima azione) e' un atto agricolo (la prima azione). Questo e' il significato che abbiamo scordato: mangiamo senza considerare l'origine del nostro atto di mangiare. E cosi' non ci preoccupiamo (ne' ci occupiamo) dell'unico bene che meriterebbe la nostra totale attenzione: la terra (e la Terra) e chi la coltiva.

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Wendell Berry profeta

Da 40 anni - e anche in questo libro - l'autore ci indica dove condurranno i nostri errori: "Per 50 o 60 anni ci siamo cullati nell'illusione che finche' avremo denaro avremo cibo. Ci siamo sbagliati. Se continueremo a offendere la terra e il lavoro che ci consentono di nutrirci, le scorte alimentari diminuiranno e ci ritroveremo con un problema molto piu' grave del crollo di quest'economia di carta. Il governo non sara' in grado di produrre cibo semplicemente regalando centinaia di miliardi di dollari alle societa' di agribusiness" (dall'Introduzione di Michael Pollan, p.14).

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Per scrittori e agricoltori

Pollan racconta di tenere i libri di Wendell Berry su uno scaffale "a portata di mano" e di attingervi quando ha bisogno di chiarirsi le idee, ed e' proprio cosi', anche nel caso di questo libro. Ci sono elenchi di pratiche subito adottabili (pp. 35 ss.), magari non tutte e subito... rivolti soprattutto a chi non fa il contadino. Ma ci sono "piani d'azione" anche per un agricoltore (pp. 49 ss.) e per la gestione di una fattoria.

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Per allevatori

In un capitolo opportunamente intitolato Assurdita' concentrata (un saggio del 2002), Berry ci parla degli allevamenti industriali, della regola che "Piccolo e' meglio" e anche dell'economia (per chi debba vivere anche allevando animali) dimostrando che: "A fronte di un allevamento industriale che vende 1,2 milioni di polli per ricavare un profitto di 20-30.000 dollari, conosco una famiglia di agricoltori che l'anno scorso, nella sua piccola azienda ben diversificata, ha allevato 2.000 polli ruspanti con un ricavo netto di 6.000 dollari" (p. 98).

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Per animali

Due saggi (uno del 1996 e uno del 1980) raccontano il rapporto con gli animali, l'uso della trazione con i cavalli e l'allevamento delle pecore. Tutto "dal vivo", cioe' non "teoria" (pur bella). Wendell Berry conosce uno per uno gli agricoltori e gli allevatori di cui narra in questo libro; e' andato a trovarli, ha trascorso del tempo con loro, ha visitato le loro fattorie, ha visto da vicino il lavoro dei cavalli o le stalle e gli ovili. Li chiama per nome (e diventano i titoli di capitolo: Charlie Fisher, Elmer Lapp e la sua fattoria),  ce ne svela l'eta' e il carattere. A proposito di carattere, non perdetevi la foto di copertina: Wendell Berry e il suo sorriso (insieme con un cane in bianco e nero, come tutta la foto. Ottima scelta).

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Per famiglie

Naturalmente non puo' mancare un capitolo sulla fattoria a conduzione familiare (saggio del 1986), che inizia con queste parole: "Difendere la fattoria a conduzione familiare e' un po' come difendere la Costituzione, il Discorso della montagna o le tragedie di Shakespeare. Stupisce doverlo fare, eppure ci si presta di buon grado sapendo che (...) definisce la nostra umanita'" (p. 55). Secondo me questo e' uno dei capitoli piu' belli, da cui - non a caso - sono state tratte alcune parole per uno dei risguardi di copertina: differenza tra "fabbricare" e "fare"; vivere nell'attesa dei week end, delle ferie e della pensione; l'individuo lavora non perche' il lavoro sia degno, ma per poterlo lasciare; "Grazie a Dio e' venerdi'"; "lo svilimento della mente del lavoratore" che invece sarebbe chiamato a mettere amore nel proprio lavoro, a essere artista.

La piccola fattoria, sostiene Berry, e' uno degli ultimi luoghi in cui tutti i componenti della famiglia che la difende e sostiene possono "farsi artisti, imparare a porre amore nell'opera delle proprie mani (...) in cui colui che fa - alcuni agricoltori dicono ancora cosi', 'fare il raccolto' - e' responsabile per intero del proprio lavoro, dall'inizio alla fine" (pp. 60-61).

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Per poeti

La Terza parte - Storie di cibo quotidiano - e' composta da racconti, tutti che riguardano, come recita il titolo, il cibo. Sempre per ricordarci, anche con la letteratura e la narrativa, quanto e' vero che "mangiare e' un atto agricolo". E la Quarta parte, da sola, e' interamente dedicata al "Manifesto del fronte per la liberazione del contadino impazzito". Mica tanto impazzito. Siamo noi "mangiatori" ad essere impazziti, poiche' dimentichiamo troppo spesso che all'origine di tutti i nostri pasti (e quindi della nostra sopravvivenza) c'e' qualcuno che al posto nostro ha coltivato tutto cio' che mangiamo. Pensiamoci. Niente cibo, niente vita. Perfino leggere dipende dalla terra: possiamo stare senza leggere? Si'. E senza mangiare?

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Wendell Berry

Wendell Berry (Henry County, 5 agosto 1934) e' uno scrittore, poeta e ambientalista statunitense.

Dopo gli studi di letteratura inglese svolti presso l'Universita' del Kentucky, insegno' letteratura e scrittura creativa in seno a diverse sedi universitarie del Kentucky, di New York e della California, fra il 1957 ed il 1965. Nel 1965 ritorno' nel Kentucky, e si stabili' nella fattoria dove nacque e dove la sua famiglia risiede dall'Ottocento. Vi coltiva 125 acri seguendo metodi tradizionali e biologici. Gli scritti di Berry pongono in risalto le questioni che maggiormente gli stanno a cuore: l'ambiente, l'agricoltura, la famiglia, le comunita' tradizionali, le responsabilita' dell'individuo e la coesistenza armoniosa fra l'uomo e la natura. Profondamente etiche, spirituali, intime e pratiche, le sue opere vertono essenzialmente sulla salute del mondo. Wendel Berry e' stato indicato dal "New York Times" come "il profeta dell'America rurale".

 

8. REPETITA IUVANT. PER SOSTENERE IL CENTRO ANTIVIOLENZA "ERINNA"

 

Per sostenere il centro antiviolenza delle donne di Viterbo "Erinna" i contributi possono essere inviati attraverso bonifico bancario intestato ad Associazione Erinna, Banca Etica, codice IBAN: IT60D0501803200000000287042.

O anche attraverso vaglia postale a "Associazione Erinna - Centro antiviolenza", via del Bottalone 9, 01100 Viterbo.

Per contattare direttamente il Centro antiviolenza "Erinna": tel. 0761342056, e-mail: e.rinna at yahoo.it, onebillionrisingviterbo at gmail.com, sito: http://erinna.it

Per destinare al Centro antiviolenza "Erinna" il 5 per mille inserire nell'apposito riquadro del modello per la dichiarazione dei redditi il seguente codice fiscale: 90058120560.

 

9. SEGNALAZIONI LIBRARIE

 

Riletture

- Elena Craveri Croce, Poeti e scrittori tedeschi dell'ultimo Settecento, Laterza, Bari 1951, pp. 230.

- Elena Croce, Lo snobismo liberale, 1964, Adelphi, Milano 1990, pp. 92.

- Elena Croce, La patria napoletana, 1974, Adelphi, Milano 1999, pp. 142.

- Elena Croce, Il congedo del romanzo, Mondadori, Milano 1982, pp. 144.

 

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

 

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

 

11. PER SAPERNE DI PIU'

 

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 2064 del 3 agosto 2015

Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XVI)

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it , centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

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