Telegrammi. 730



 

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 730 del 5 novembre 2011

Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

 

Sommario di questo numero:

1. A Viterbo commemorate le vittime della guerra. "Ogni vittima ha il volto di Abele"

2. Un appello del Movimento Nonviolento, dell'Associazione per la pace, di Peacelink e del Centro di ricerca per la pace di Viterbo per il 4 novembre: Ogni vittima ha il volto di Abele

3. Bruna Peyrot: Armi, distruzioni, morte

4. Maria G. Di Rienzo: Poesia sociale

5. Maria G. Di Rienzo: La storia in musica (con una intervista dell'International Museum of Women a Caroline Brac de la Perriere)

6. Abigail Disney: Donne, guerra e pace

7. Kate Hughes: Sciarpe verdi

8. Nicholas Kristof: Il mondo di Jessica

9. La "Carta" del Movimento Nonviolento

10. Per saperne di piu'

 

1. 4 NOVEMBRE. A VITERBO COMMEMORATE LE VITTIME DELLA GUERRA. "OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE"

 

La mattina del 4 novembre si e' svolta a Viterbo la commemorazione nonviolenta delle vittime della guerra promossa dall'appello "Ogni vittima ha il volto di Abele".

Dinanzi al tempietto quattrocentesco di S. Maria della Peste, ora sacrario delle vittime della guerra, una delegazione del "Centro di ricerca per la pace" ha ricordato e reso omaggio a tutti gli esseri umani uccisi dalla scellerata follia bellica, e rinnovato l'impegno ad opporsi a nuove guerre e nuove stragi, l'impegno ad opporsi a tutte le uccisioni e le persecuzioni, l'impegno ad operare affinche' ogni essere umano sia di aiuto a tutti gli altri esseri umani, l'impegno ad operare per la pace, la giustizia, la compassione, la solidarieta' e la legalita' che salva le vite.

*

Nel corso della commemorazione e' stato letto il "Canto dei morti invano" di Primo Levi [Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 615]:

 

Sedete e contrattate

A vostra voglia, vecchie volpi argentate.

Vi mureremo in un palazzo splendido

Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco

Purche' trattiate e contrattiate

Le vite dei nostri figli e le vostre.

Che tutta la sapienza del creato

Converga a benedire le vostre menti

E vi guidi nel labirinto.

Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,

L'esercito dei morti invano,

Noi della Marna e di Montecassino

Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:

E saranno con noi

I lebbrosi e i tracomatosi,

Gli scomparsi di Buenos Aires,

I morti di Cambogia e i morituri d'Etiopia,

I patteggiati di Praga,

Gli esangui di Calcutta,

Gl'innocenti straziati a Bologna.

Guai a voi se uscirete discordi:

Sarete stretti dal nostro abbraccio.

Siamo invincibili perche' siamo i vinti.

Invulnerabili perche' gia' spenti:

Noi ridiamo dei vostri missili.

Sedete e contrattate

Finche' la lingua vi si secchi:

Se dureranno il danno e la vergogna

Vi annegheremo nella nostra putredine.

*

Ha partecipato alla commemorazione il professor Osvaldo Ercoli, insigne educatore e maestro di impegno intellettuale, morale e civile per generazioni di viterbesi, per unanime consenso una delle piu' luminose autorita' morali cittadine, che gia' nei giorni scorsi aveva espresso con nitide parole il suo pensiero: "4 novembre 1918,  fine della prima guerra mondiale: il pontefice Benedetto XV defini' la prima guerra mondiale un''inutile strage' ricordandoci l'ovvia verita' che ogni guerra e' inutile, che ogni guerra e' una strage. Il 4 novembre deve cessare di essere il giorno in cui scandalosamente si festeggiano le forze armate e con esse i poteri criminali che sono i padrini di tutte le guerre: la guerra e' il piu' grande crimine contro l'umanita'. Il 4 novembre deve diventare la giornata del ricordo delle 600.000 vittime innocenti che persero la vita per un''inutile strage', la giornata del ricordo delle vittime di tutte le guerre, la giornata del ripudio di tutte le armi, la giornata del ripudio di tutti gli eserciti, la giornata della cancellazione del mercato delle armi, la giornata della riconversione delle industrie belliche a produzioni civili. Occorre il semplice rispetto dell'articolo 11 della nostra Costituzione: 'L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta' degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali'".

*

Il responsabile del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo, Peppe Sini, ha successivamente dichiarato: "La memoria delle vittime di tutte le guerre e' un atto di assunzione di responsabilita': poiche' - come ha scritto Heinrich Boell - 'Ogni vittima ha il volto di Abele', e' compito di ogni essere umano opporsi a tutte le uccisioni, e quindi a tutte le guerre, che delle uccisioni di esseri umani consistono. Cosi' questa giornata di memoria delle vittime, in nome delle vittime, si fa appello alla pace e alla legalita' che salva le vite. Si fa azione diretta nonviolenta affinche' cessino le guerre e le stragi, affinche' alle vittime passate non si aggiungano altre vittime. E dunque questo addolorato omaggio agli esseri umani dalla guerra uccisi e' anche un solenne monito e un ineludibile impegno: mai piu' guerre, mai piu' uccisioni. Ed ha altresi' implicazioni attuali e cogenti: convoca ad agire per salvare le vite, convoca ad agire per la pace, il disarmo, la smilitarizzazione dei conflitti. E quindi: che cessi immediatamente la partecipazione dello stato italiano alle guerre assassine; che cessi immediatamente la persecuzione razzista dello stato italiano nei confronti di migranti e viaggianti; che siano abrogate immediatamente le misure legislative ed amministrative anomiche e disumane in cui si e' concretizzato il colpo di stato razzista; che cessi immediatamente il colossale infame sperpero dei pubblici denari per le armi, gli armigeri, le guerre e le stragi; che si dimetta immediatamente il governo della guerra e del razzismo, delle uccisioni e delle persecuzioni; che si torni al rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana che ripudia la guerra e riconosce e sostiene la vita, la dignita' e i diritti di tutti gli esseri umani. Ogni vittima ha il volto di Abele. Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'".

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L'iniziativa "Ogni vittima ha il volto di Abele" si svolge a Viterbo ogni 4 novembre da circa un decennio, e da alcuni anni ha cominciato a svolgersi anche in altre citta' italiane.

Quest'anno un appello a tal fine e' stato copromosso da alcune delle piu' rilevanti esperienze pacifiste e nonviolente italiane: il Movimento Nonviolento, l'Associazione per la Pace, Peacelink.

Dai dati gia' disponibili, in tutte le regioni italiane e perlomeno in pressoche' tutti i capoluoghi di provincia si sono svolte iniziative nonviolente di commemorazione delle vittime e di opposizione alla guerra assassina.

 

2. DOCUMENTAZIONE. UN APPELLO DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO, DELL'ASSOCIAZIONE PER LA PACE, DI PEACELINK E DEL CENTRO DI RICERCA PER LA PACE DI VITERBO PER IL 4 NOVEMBRE: OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE

[Riproponiamo il seguente appello]

 

Intendiamo proporre per il 4 novembre l'iniziativa nonviolenta "Ogni vittima ha il volto di Abele".

Proponiamo che il 4 novembre si realizzino in tutte le citta' d'Italia commemorazioni nonviolente delle vittime di tutte le guerre, commemorazioni che siano anche solenne impegno contro tutte le guerre e le violenze.

Affinche' il 4 novembre, anniversario della fine dell'"inutile strage" della prima guerra mondiale, cessi di essere il giorno in cui i poteri assassini irridono gli assassinati, e diventi invece il giorno in cui nel ricordo degli esseri umani defunti vittime delle guerre gli esseri umani viventi esprimono, rinnovano, inverano l'impegno affinche' non ci siano mai piu' guerre, mai piu' uccisioni, mai piu' persecuzioni.

*

Queste iniziative di commemorazione e di impegno morale e civile devono essere rigorosamente nonviolente. Non devono dar adito ad equivoci o confusioni di sorta; non devono essere in alcun modo ambigue o subalterne; non devono prestare il fianco a fraintendimenti o mistificazioni. Queste iniziative di addolorato omaggio alle vittime della guerra e di azione concreta per promuovere la pace e difendere le vite, devono essere rigorosamente nonviolente.

Occorre quindi che si svolgano in orari distanti e assolutamente distinti dalle ipocrite celebrazioni dei poteri armati, quei poteri che quelle vittime fecero morire.

Ed occorre che si svolgano nel modo piu' austero, severo, solenne: depositando omaggi floreali dinanzi alle lapidi ed ai sacelli delle vittime delle guerre, ed osservando in quel frangente un rigoroso silenzio.

Ovviamente prima e dopo e' possibile ed opportuno effettuare letture e proporre meditazioni adeguate, argomentando ampiamente e rigorosamente perche' le persone amiche della nonviolenza rendono omaggio alle vittime della guerra e perche' convocano ogni persona di retto sentire e di volonta' buona all'impegno contro tutte le guerre, e come questo impegno morale e civile possa concretamente limpidamente darsi. Dimostrando che solo opponendosi a tutte le guerre si onora la memoria delle persone che dalle guerre sono state uccise. Affermando il diritto e il dovere di ogni essere umano e la cogente obbligazione di ogni ordinamento giuridico democratico di adoperarsi per salvare le vite, rispettare la dignita' e difendere i diritti di tutti gli esseri umani.

*

A tutte le persone amiche della nonviolenza chiediamo di diffondere questa proposta e contribuire a questa iniziativa.

Contro tutte le guerre, contro tutte le uccisioni, contro tutte le persecuzioni.

Per la vita, la dignita' e i diritti di tutti gli esseri umani.

Ogni vittima ha il volto di Abele.

Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

*

Movimento Nonviolento

per contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org

Associazione per la pace

per contatti: tel. (+39) 348392146, e-mail: luisamorgantini at gmail.com, sito: www.assopace.org

Peacelink

per contatti: e-mail: info at peacelink.it, sito: www.peacelink.it

Centro di ricerca per la pace di Viterbo

per contatti: e-mail: nbawac at tin.it, web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

3. OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE. BRUNA PEYROT: ARMI, DISTRUZIONI, MORTE

[Ringraziamo Bruna Peyrot (per contatti: peyrotb at libero.it) per questo intervento.

Per un profilo di Bruna Peyrot, dall'intervista apparsa nei "Telegrammi della nonviolenza in cammino" n. 313 riprendiamo la seguente breve notizia biografica "Bruna Peyrot, originaria del Piemonte, ha lavorato presso il Consolato italiano di Belo Horizonte (Brasile) come responsabile dell'Ufficio Scuola e Cultura. Studiosa di storia sociale, pubblicista, conduce da anni ricerche sulle identita', le memorie culturali e i percorsi di costruzione democratica dei singoli e dei gruppi sociali, specie comparando Europa e America Latina, continente che frequenta da oltre dieci anni. Collaboratrice di periodici e riviste, vincitrice di premi letterari, e' autrice, fra l'altro, di La roccia dove Dio chiama. Viaggio nella memoria valdese fra oralita' e scrittura (Forni, 1990); Vite discrete. Corpi e immagini di donne valdesi (Rosenberg & Sellier, 1993); Storia di una curatrice d'anime (Giunti, 1995); Prigioniere della Torre. Dall'assolutismo alla tolleranza nel Settecento francese (Giunti, 1997); Dalla Scrittura alle scritture (Rosenberg & Sellier, 1998); Una donna nomade: Miriam Castiglione, una protestante in Puglia (Edizioni Lavoro, 2000); Mujeres. Donne colombiane fra politica e spiritualita' (Citta' Aperta Edizioni, 2002); La democrazia nel Brasile di Lula. Tarso Genro da esiliato a ministro (Citta' Aperta Edizioni, 2004). Di recente pubblicazione: La cittadinanza interiore (Citta' Aperta Edizione, 2006), ipotesi che lega il diritto al senso del suo valore come autostima personale. Ultima pubblicazione: Chi e' l'America Latina. Percorsi e speranze di Unione latinoamericana, Torino, l'Harmattan. E un libro on line per Filef (www.emigrazionenotizie.org), Cartas. Lettere dal Brasile minuto per minuto. Collabora alla rivista brasiliana on line www.sul21.com.br Sito: www.brunapeyrot.net"]

 

La guerra: un termine che evoca armi, distruzioni, morte. Piu' invecchio e piu' mi chiedo se davvero non possa essere creato un altro sistema di relazioni umane che renda inutile aggredirsi vicendevolmente. Ho due convinzioni che mi sono cresciute dentro, stando nella mischia, potremmo dire. La prima e' che la non aggressione comincia da "due" come dice Luce Irigaray, cioe' dalla persona piu' vicina che abbiamo con la quale sperimentare democrazia e rispetto. La seconda e' che la guerra e' un enorme traffico di potere con al centro la compravendita di armi. La guerra - tutte le guerre, anche quelle che possono apparire "giuste" - al loro  nesso intimo hanno una questione di potere-economia. In altre parole, la guerra ha due dimensioni: quella soggettiva, legata alla nostra dimensione interiore di non rispetto verso l'altro(a), spesso nata dalla paura che il diverso lascia in noi; e quella "oggettiva", basata su un sistema di relazioni che si spartisce territori e sovranita'. Cio' che tuttavia osservo oggi e' una tendenza all'erigere muri e barriere (economiche, culturali, anche reali come i vari muri che impalano i popoli da Israele al Messico...) da un lato, ma dall'altro a un crescere sotterraneo di infiniti gruppi e nuclei comunitari di solidarieta' che non sono visibili, che sono collegati in tante forme reticolari e che - ne sono sicura - riusciranno a sgretolare questo mondo ormai desueto.

 

4. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: POESIA SOCIALE

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento.

Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005; (a cura di), Voci dalla rete. Come le donne stanno cambiando il mondo, Forum, Udine 2011. Cfr. il suo blog lunanuvola.wordpress.com Un piu' ampio profilo di Maria G. Di Rienzo in forma di intervista e' in "Notizie minime della nonviolenza" n. 81; si veda anche l'intervista in "Telegrammi della nonviolenza in cammino" n. 250, e quella nei "Telegrammi" n. 425]

 

"Una 'normale' obiezione alla scelta nonviolenta consiste nello spacciare per naturale ed inevitabile la violenza. Sono le pulsioni profonde dell'umanita', dira' l'oppositore, non potete pretendere di far andare il mondo in modo diverso da quello in cui e' sempre andato: guardate le societa' primitive, solo una certa dose di violenza permette loro di sopravvivere, e la posizione della donna in tali societa' e' ovviamente inferiore eccetera eccetera. In realta', le originarie comunita' umane hanno ignorato la violenza per millenni, e le ricerche storiche ed archeologiche degli ultimi quarant'anni lo hanno provato al di la' di ogni dubbio: l'eguaglianza fra i sessi era tra l'altro uno dei loro fondamenti. Quindi non solo non e' 'sempre andata cosi'', la cosa piu' importante e' che parecchie societa' pacifiche esistono ancora..." Cosi' scrivevo in un articolo per "Azione nonviolenta" del 2008, passando poi a descrivere un paio delle societa' pacifiche menzionate ed i loro modi di affrontare e risolvere i conflitti.

E cosi' scriveva Michael Kaufman (sociologo canadese, trainer internazionale, autore di mezza dozzina di libri su genere, mascolinita' ecc., co-fondatore della "Campagna del nastro bianco", conosciuto anche in Italia dove ha lavorato con i gruppi anti-violenza) qualche tempo fa: "I ricercatori ci dicono che meta' delle societa' tribali su cui si e' indagato durante il secolo scorso avevano livelli molto bassi di violenza o non la conoscevano proprio. Stupro sconosciuto. Niente violenza domestica. Niente scazzottate. Niente guerra. Questa e' la prova migliore che abbiamo che gli esseri umani in generale, e quelli di sesso maschile in particolare, non sono geneticamente programmati per usar violenza l'uno contro l'altro". Kaufman proseguiva spiegando come la violenza la si apprenda: "Ne siamo circondati. I bambini la ingoiano con il primo cucchiaio di omogeneizzato. Vedranno 18.000 morti violente in televisione prima di uscire dalla scuola superiore. Apprenderanno che pallottole e bombe fanno gli eroi. Sentiranno i nostri rispettati leader politici dirci perche' dobbiamo cominciare un'altra guerra. Saranno picchiati dai loro genitori e crederanno che amore e violenza siano inseparabili", e si diffondeva sugli effetti nefasti dell'equiparazione fra mascolinita' e violenza e della glorificazione di quest'ultima.

Ma se l'essenza della mascolinita' non e' la violenza, non e' il dominio, non e' la forza fisica - si chiedera' qualcuno - su che diamine questi altri popoli la costruiscono? Ah, ho capito: devono essere degli effeminati, dei deboli, dei subordinati alle loro madri o mogli, eh? No, caro qualcuno, ti sbagli. Nelle societa' pacifiche tuttora esistenti, essere un "vero uomo" significa principalmente essere in armonia con se stesso e gli altri membri maschi e femmine della comunita'. Non significa non discutere, non significa nemmeno non arrabbiarsi mai facendolo, ma sicuramente significa che non c'e' bisogno di usare un bastone per vincere una discussione: si preferisce capire, argomentare, negoziare e vincere assieme al proprio oppositore la ritrovata armonia.

Naturalmente c'e' spesso anche modo di essere non solo dei "veri uomini", ma degli "eccellenti veri uomini". Per i Buid e gli Hanunoo, ad esempio, essere un vero uomo e' essere un poeta: e se per ventura sei un grande poeta, sei un uomo davvero eccellente. Questi due gruppi fanno parte, assieme ad un'altra mezza dozzina, dell'etnia Mangyan che vive negli interni montuosi di Mindoro, nelle Filippine. Tutti i Mangyan, qualsiasi sia il loro dialetto, possono comunicare tramite la poesia. Buid e Hanunoo parlano lingue totalmente diverse, ma usano le stesse parole per la forma di poesia stilizzata detta "ambahan", e a differenza degli altri gruppi che si limitano a recitarla (a cantarla, in verita') ne conservano la scrittura.

Gli ambahan sono stati definiti dagli studiosi "poesia sociale": si usano infatti non solo per esprimere idee e descrivere sentimenti, ma servono proprio a stabilire relazioni. I dialoghi "normali" sono condotti nel linguaggio d'appartenenza del gruppo, ma quando vi e' da dire qualcosa di delicato e di prezioso, o anche di spiacevole e imbarazzante, lo si fa con un ambahan. Persino i bambini ne creano per parlare tra di loro, sebbene le composizioni siano ovviamente meno elaborate e piu' brevi. I genitori possono usare gli ambahan per istruire i figli, un visitatore puo' chiedere tramite un ambahan di essere ospitato e salutare con un altro quando se ne va; inoltre, gli ambahan sembrano indispensabili all'amore e la gioventu' - ambo i sessi - ne fa grande uso per il corteggiamento. Questo e' un ambahan in cui il ragazzo dice alla ragazza, con una metafora, che c'e' posto solo per lei nel suo cuore e nella sua casa: "Salod anong bugtungan - Dayo madig luyunan - Yami bay paglabagan - Ud wa has suglat lukban - Sunson hayo manyawan", e cioe' (piu' o meno, tentando di mantenere un po' di rima): "Tu soave, che ho cara come amore - Passeggia un po' con me per favore - Fino a quella casa distante - Tutto ciò che la' abbiamo e' fragrante - sia pianta o albero ondeggiante".

E questo e' l'ambahan di un ragazzo alla ragazza che lo ha respinto: "No kawo ti magduyan - Sumay kanta yi limtan - No ako ti magduyan - Sumay padi kalimtan - Hanggan sa manundugan": "Puoi decidere altroche' - ch'io non sia fatto per te - Ma se posso dir la mia - il nostro incontro non scordero' - finche' fiato e vita avro'". E' un po' diverso, vero, dal coprirla di insulti, dal diffamarla con i conoscenti, dal tormentarla con sms e telefonate, dall'aspettarla fuori casa per darle una lezione, o peggio: tutti comportamenti invece assai familiari ai "veri uomini" nostrani quando una donna dice loro di no.

E va bene, sbotta il qualcuno di passaggio, saranno anche piu' gentili o educati o che ne so, ma e' possibile che non desiderino il brivido della competizione, della lotta, della conquista? Se ne stanno tutti insieme in armonia a contarsi le dita? Che noia! I Mangyan non la pensano cosi': quando sono insieme nelle grandi occasioni (festivita', ricorrenze, ecc.), si sfidano a chi e' miglior poeta. Uno comincia con un ambahan che solleva un problema, o pone una domanda, diretto ad un altro e cio' da' inizio alla gara. La gente si affolla attorno ai due poeti (senza regole, senza scommesse) e ascolta la risposta dello sfidato, che ovviamente contiene un'altra questione a cui chi ha cominciato deve replicare. Entrambi sono vigorosamente e allegramente incoraggiati dai loro sostenitori e la gara puo' durare sino a notte inoltrata: il vincitore e' quello che recita l'ambahan a cui l'altro non sa dare risposta, ma i Mangyan non ci fanno neppure caso: che importa chi ha vinto, dicono, la cosa veramente importante e' quanto ci siamo divertiti ad ascoltarli.

Il qualcuno freme: diciamo pure che questa brava gente non ha conflitti al proprio interno (no mio caro, li ha, solo che li maneggia in modo piu' umano del nostro), ma non gli capita mai di scontrarsi con chi non e' Mangyan e non capisce 'sta roba dell'armonia? Certo. Soffrono discriminazioni perche' considerati "inferiori" agli altri filippini: ad esempio, i prodotti della loro agricoltura sono pagati meno. E l'esercito filippino li sta molestando pesantemente per avere gratis le loro terre e le loro foreste.

Quindi, che hanno fatto le pacifiche sette tribu' Mangyan?, si chiede il qualcuno gongolando un poco, Stanno subendo, immagino. O cantano ambahan? La risposta esatta e' la seconda. Nell'aprile scorso si sono incontrati in 500, rappresentanti di tutti i gruppi: parlavano sette lingue diverse ma come sappiamo il linguaggio degli ambahan e' comune, ed ha permesso loro di stringere un'alleanza nella determinazione di difendere i propri diritti umani. Hanno cantato della violenza dei soldati, delle ferite inflitte alla loro terra, dei problemi che le miniere creano (lo stato vende le miniere in territorio Mangyan a corporazioni transnazionali), della necessita' di contrastare una diga, di come opporsi in modo nonviolento alla distruzione dell'ambiente, della volonta' di essere uniti.

E in un ambahan hanno siglato il loro accordo. Uomini veri, vere donne. Poeti.

 

5. ALGERIA. MARIA G. DI RIENZO: LA STORIA IN MUSICA (CON UNA INTERVISTA DELL'INTERNATIONAL MUSEUM OF WOMEN A CAROLINE BRAC DE LA PERRIERE

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo testo]

 

Il 9 giugno 1984, membri del Parlamento algerino ebbero successo nel far passare un nuovo "Codice di Famiglia". In base a tale legge, le donne non potevano scegliersi liberamente un marito senza ottenere il previo consenso dei loro "guardiani" o "tutori" (usualmente i padri, ma anche fratelli, zii e persino figli). All'interno del matrimonio, sempre secondo il Codice, le donne erano tenute ad obbedire ai loro mariti e non avevano custodia legale dei figli. L'accesso delle donne al divorzio era limitato e dovevano ricevere una quota minore delle eventuali eredita' rispetto ai parenti di sesso maschile. Secondo i sostenitori del Codice di Famiglia algerino, esso era coerente con la giurisprudenza e l'etica islamiche, secondo le donne istituzionalizzava una classe inferiore di cittadinanza.

Il 2004 segno' il ventennale delle legge. Determinate, in tale occasione, a mettere fine all'oppressione sistematica che la legge comportava, un gruppo di donne algerine fondo' il collettivo "20 ans, Barakat!" (20 anni sono abbastanza!) e produsse un video musicale che denunciava il Codice di Famiglia.

Venti donne provenienti da background differenti registrarono la canzone "Ouek dek yal qadi" ("Che ti e' preso, giudice?") e proclamarono: "Questa legge dev'essere disfatta e mai piu' rifatta". Distribuito via radio, tramite la tv francese e internet, il video musicale e' un esempio di come le donne, lavorando creativamente, incitarono l'opinione pubblica a cambiare le politiche algerine.

Guardatelo su: http://imow.org/wpp/stories/viewStory?storyid=1328

Quella che segue e' parte di un'intervista che l'International Museum of Women fece a Caroline Brac de la Perriere, membro del collettivo che produsse il video.

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- International Museum of Women: Come si formo' "20 ans, Barakat!"?

- Caroline Brac de la Perriere: Nel 2004 il Codice di Famiglia sarebbe stato in vigore da vent'anni. Io ho una figlia e pensavo: "Mia figlia conoscera' solo questo Codice. Non e' possibile, non voglio questo!". Ne avevamo veramente abbastanza, ed e' cosi' che il nome "Barakat" e' venuto fuori, ma si riferisce anche alla guerra d'indipendenza algerina (1954-1962). Alla fine dei sette anni di guerra contro la Francia, gli algerini cominciarono a combattere gli uni contro gli altri. Reagendo alla persistente violenza la gente sciamo' nelle strade gridando: "Sette anni sono abbastanza!". Pensammo quindi che questo nome si sarebbe fissato nella mente delle persone.

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- International Museum of Women: Perche' avete usato la musica per ottenere la riforma?

- Caroline Brac de la Perriere: Volevamo fortemente che i giovani si unissero a noi, perche' stavamo diventando esauste e, si', stavamo anche invecchiando. Pensammo: "E va bene, facciamo una canzone". Ma che tipo di canzone? Amici del collettivo erano molto vicini ad alcuni musicisti e conduttori radiofonici algerini. Erano molto conosciuti e avevano connessioni in Algeria e un po' ovunque. Cosi' decidemmo di lavorare insieme con loro, perche' anche a loro andava bene: ognuno puo' fare qualcosa. Fu una cosa buona che venne dalla nostra diaspora, perche' molti vivevano in Francia e potemmo registrare il video a Parigi. Tutte le artiste parteciparono gratuitamente e le intervistammo sulla loro relazione con il Codice di Famiglia e sulle loro vite come cantanti algerine. Eravamo molto ambiziose. Volevamo una canzone che piacesse ai giovani, ma volevamo anche una canzone che ogni donna anziana potesse ascoltare alla radio della cucina. Poiche' molto raramente una donna anziana lascia la casa, volevamo capisse che la canzone e il messaggio erano diretti anche a lei. Era necessario che la canzone fosse molto "algerina", che i suoni fossero realmente algerini. E volevamo che le tre lingue parlate nel paese - arabo, berbero e francese - si sentissero nel video.

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- International Museum of Women: Avete incluso nel progetto molte persone diverse, e anche uomini. Come mai?

- Caroline Brac de la Perriere: Desideravamo che la canzone parlasse a tutti gli algerini, femmine o maschi. Percio' invitammo una donna dal sud dell'Algeria, una dall'ovest e una dall'est. Abbiamo coinvolto donne di tutte le origini. Abbiamo anche tentato di avere persone conosciute. E volevamo che la canzone risuonasse con i migranti. Per cui, quando nel video vedi donne che cantano in francese, quelle sono donne migranti, piu' esattamente sono donne algerine migranti. Sebbene non conoscano l'arabo sono algerine e sono comprese nel Codice di Famiglia, perche' queste leggi ti seguono ovunque tu vada. Ci siamo assicurate la partecipazione di professioniste, alcune molto note altre meno. Una di loro recitava in una soap opera algerina, e tutti la conoscevano, percio' siamo state molto felici che volesse partecipare. Abbiamo chiesto la presenza di due cantanti internazionali: le puoi vedere nel video, sono Annie Flore Batchiellilys, la voce d'oro dell'Africa, e Barbara Luna che e' argentina. Barbara ha imparato a cantare in arabo per il video. E poi volevamo coinvolgere gli uomini, e' per quello che alla fine del video appaiono. In effetti, gli uomini non erano poi cosi' convinti: dei quindici a cui chiedemmo di partecipare solo quattro risposero positivamente. Ad ogni modo, volevamo il loro coinvolgimento perche' sebbene fosse importante per noi parlare del peso che le donne sopportavano, volevamo dire che il futuro e' qualcosa che appartiene a tutti.

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- International Museum of Women: Che impatto ha avuto la canzone?

- Caroline Brac de la Perriere: Da quando il nostro movimento e' nato (ed ora e' pieno di giovani donne e giovani uomini), si sono cominciati a verificare cambiamenti nel Codice di Famiglia. Non voglio dire sia tutto merito nostro, non so effettivamente quanto abbiamo contribuito, ma dal video in poi nel 2005 ogni giorno il Codice di Famiglia era discusso sulla stampa algerina. Il dovere di una moglie di obbedire al marito e' stato rimosso, e questa e' una gran cosa. Le divorziate ora hanno la custodia legale dei loro figli: le vedove hanno visto finalmente le loro vite cambiare. La parte sul divorzio non e' ancora egualitaria. Ad ogni modo, siamo felici dei cambiamenti che ci sono stati: significano che il Codice puo' essere cambiato, che alcuni articoli possono essere rimossi. Prima era un tabu', non potevi parlarne. Adesso non e' piu' un argomento proibito.

 

6. LIBERIA. ABIGAIL DISNEY: DONNE, GUERRA E PACE

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Abigail Disney.

"L'11 ottobre scorso, commentando l'assegnazione del Premio Nobel per la Pace, Abigail Disney ha presentato il suo nuovo lavoro. Il testo che segue e' un estratto dal suo articolo. Abigail e' l'autrice del film "Pray the devil back to hell" che documenta la lotta per la pace delle donne liberiane. Ora ha creato "Women, War and Peace", una serie televisiva in cinque puntate, in onda dall'11 ottobre all'8 novembre, che narra i ruoli delle donne nei contesti di conflitto armato. Cfr. la pagina web http://video.pbs.org/video/2074770753/ " (mgdr)]

 

Cinque anni fa, quando andai in Liberia, non avevo idea che il mio ruolo successivo sarebbe stato documentare e celebrare le donne che costruiscono la pace. Ma una storia di lotta e trionfo dopo l'altra, una storia di guida e sopravvivenza dopo l'altra, seppi che c'era qualcosa sotto la superficie della liberazione del paese che necessitava di essere portato alla luce.

Due anni piu' tardi, usci' il documentario "Pray the Devil Back to Hell": parla di un gruppo di donne coraggiose ed ispirate - in semplici magliette bianche - che uniscono le loro forze attraversando regioni e religioni, per chiedere la pace. La loro leader, Leymah Gbowee, era intuitiva e innovativa. I suoi piani brillanti, le sue tecniche semplici ed efficaci, ed il messaggio diretto: le donne liberiane vogliono la pace.

Oggi e' un giorno di cui tener nota, che celebra donne notevoli. L'attivista e giornalista Tawakkul Karman e' la prima donna araba a ricevere il Premio Nobel per la Pace. E' stata detenuta in Yemen all'inizio di quest'anno e ha detto che il riconoscimento a lei conferito e' una vittoria per il suo paese e per l'intera "primavera araba". Ellen Johnson Sirleaf e' stata premiata con il Nobel per aver condotto avanti un paese devastato. Leymah Gbowee ha vinto in nome di tutte le sue sorelle nei movimenti pacifisti dell'Africa occidentale.

Ci sono delle Leymah, delle Ellen e delle Tawakkul in tutto il mondo. Ed e' sperabile che questo primo riconoscimento fara' vedere quanto trasformative sono le donne per la pace e la democrazia. Dopo il documentario, ho capito quale era il mio compito: raccontare le storie delle donne che costruiscono la pace. Il risultato e' "Women, War e Peace", che va in onda sulla rete Pbs. Nel costruire la serie televisiva con le co-creatrici Pamela Hogan e Gini Reticker, ho avuto il privilegio di conoscere alcune di queste costruttrici di pace.

Tramite loro, e tramite anni di ricerche, ho finito per comprendere cosa significa costruire la pace. Cosa connette le costruttrici nella decisione collettiva del creare la pace nei loro rispettivi paesi. Come individui sono tutte speciali ed uniche, ma come costruttrici di pace mettono radici nella somiglianza con le altre. Sono orientate all'azioni, "fattrici", creatrici. Coloro che costruiscono la pace si guardano intorno e non solo credono ci si possa muovere fuori dalla guerra e dal caos, ma prendono decisioni per portarci la'. La pace e' la scelta attiva di vivere in comunione con gli altri.

So che tutti noi possiamo svolgere un ruolo nei movimenti che costruiscono la pace. Possiamo essere tutti costruttori di pace: di taglia piccola, media o grande. Possiamo respingere l'estetica della violenza e l'infinita romanticizzazione del combattimento che sta alle fondamenta del complesso industriale hollywoodiano. Possiamo scegliere di agire. Imparare di piu'. Fare di piu'. Possiamo scegliere di vivere nella comunita' globale costruendo pace.

Oggi e' un giorno straordinario per le donne costruttrici di pace. Facciamo in modo che non sia l'ultimo.

 

7. AFGHANISTAN. KATE HUGHES: SCIARPE VERDI

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Kate Hughes, "Green Scarves for Solidarity with Afghan Women", del 24 ottobre 2011.

Kate Hughes lavora alle campagne globali relative a donne, sicurezza e pace per Oxfam. Ha studiato relazioni internazionali all'Universita' di Exeter in Gran Bretagna e all'Universita' delle donne Ewah in Corea del Sud, laureandosi con una tesi sulla Risoluzione NU 1325]

 

Dieci anni orsono, alle donne afgane fu promesso un radioso futuro. Dopo decenni di guerra civile e l'oppressivo dominio talebano, entravano in una nuova era in cui potevano di nuovo lavorare fuori casa, mandare le loro figlie a scuola e presentarsi alle elezioni parlamentari. Ci sono ora due milioni e settecentomila ragazze che vanno a scuola e le donne sono di nuovo al lavoro, ma la presenza di donne elette a qualsiasi livello e' crollata dal 31% del 2006 al 18,5% di oggi, e piu' dell'87% delle donne afgane ha sperimentato qualche forma di violenza.

Quando le forze internazionali entrarono in Afghanistan i diritti delle donne erano molto discussi. Le mogli dei leader internazionali parlarono pubblicamente a sostegno delle donne afgane, in particolare Cherie Blair e Laura Bush; Cherie Blair disse che il nostro sostegno alle donne afgane era vitale: "affinche' esse possano creare l'Afghanistan migliore che tutti vogliamo vedere".

Pure, mentre il conflitto continuava e le nazioni occidentali diventavano sempre piu' stanche di guerra, il focus si e' spostato sul come e quando portare a casa gli eserciti. Sfortunatamente, chi lavora per le istanze delle donne ha visto crescere le difficolta' di accedere ai fondi di cui ha bisogno. Per esempio, sebbene l'Afghanistan abbia il secondo piu' alto tasso di mortalita' materna (in gravidanza o durante il parto), l'"Independent" ha riportato che: "Non un solo penny del budget annuale del governo britannico per la ricostruzione afgana, 178 milioni di sterline, e' stato speso per tentare di salvare le decine di migliaia di donne che muoiono partorendo".

Nonostante le difficolta' aumentino, un coraggioso e orgoglioso movimento delle donne afgane sta premendo per il cambiamento. La Rete delle Donne Afgane (Rda) e' un deciso e mobile gruppo di attiviste che serve da coordinamento per il crescente numero di organizzazioni femminili all'opera nel paese. Rda ha una forte presenza a Kabul, Herat e Jalalabad e lavora tramite i gruppi locali nelle province afgane. I suoi progetti spaziano dalla lotta alla violenza di genere al lavoro per la gioventu' e l'istruzione per le bambine.

"Una delle nostre maggiori preoccupazioni e' l'assenza delle donne afgane nelle discussioni e nelle decisioni che riguardano la pace", dice Samira Hamidi, direttrice di Rda, "Nessuna negoziazione o decisione puo' essere completa se viene ignorato il punto di vista di meta' della popolazione". Durante le elezioni presidenziali del 2009, Rda lancio' la campagna "Cinque milioni di donne", che mobilito' le donne affinche' influenzassero l'agenda politica di diversi candidati. La campagna non tento' di appellarsi o allinearsi ad un candidato specifico: mirava invece ad unire le donne in un forte blocco di elettrici e presentava le istanze femminili come una carta vincente per i candidati. Per dare all'azione un'identita' visiva, le donne indossavano sciarpe verdi con strisce rosse e nere (i colori della bandiera afgana) sulle quali avevano ricamato messaggi del tipo: "Il nostro voto e' il nostro futuro". Gli uomini si unirono alla campagna indossando capelli verdi con bande rosse e nere.

Un altro gruppo che sta attraversando l'attivismo delle donne in Afghanistan e' Giovani Donne per il Cambiamento (Gdc), concentrato sulla lotta alla diseguaglianza di genere e alla violenza contro le donne. Quest'anno, marce contro le molestie in strada si sono tenute in tutto il mondo. La marcia che si e' tenuta in Canada nell'aprile 2011 ha funzionato come scintilla per un movimento globale contro le molestie in strada che si e' diffuso in America, India ed Europa. Anche le donne afgane, guidate da Gdc, sono scese in strada nel luglio scorso contro la violenza di strada, qualcosa di difficilmente immaginabile solo dieci anni fa. Sebbene i loro messaggi e le loro istanze echeggino il femminismo globale, il terreno locale su cui si muovono e' esponenzialmente sempre piu' difficile. Si deve ricordare che le donne in Afghanistan sono tuttora soggette agli attacchi con l'acido, alla violenza domestica, e persino all'essere uccise perche' lavorano fuori di casa: quest'estate, due donne di Kandahar sono state assassinate precisamente per tale ragione.

L'attivismo internazionale ha un ruolo importante nel sostenere la lotta delle donne afgane. Il 5 dicembre prossimo, la comunita' internazionale si riunira' a Bonn in Germania per tracciare il corso del proprio coinvolgimento in Afghanistan oltre il 2014 (che dovrebbe segnare il ritiro degli eserciti stranieri dal paese). E' un'occasione d'oro per chiedere ai leader mondiali di prendere impegni a favore delle donne e delle bambine afgane. Noi cittadine e cittadini possiamo ricordare ai nostri governi la strombazzata retorica dei "diritti delle donne" con cui giustificavano il loro intervento in Afghanistan, e dobbiamo chiedere loro di non vendere le donne afgane "per il bene della pace", a nessun prezzo.

Per mostrare solidarieta' con il movimento delle donne in Afghanistan, Oxfam ed altre organizzazioni hanno lanciato la campagna "Sciarpe verdi", che chiama le persone a postare una propria fotografia con indosso una sciarpa verde. Le immagini saranno usate per costruire un muro di fotografie alla Conferenza di Bonn e mostrare cosi' la solidarieta' globale con le donne afgane. Aqlima Moradi, di Giovani Donne per il Cambiamento, sottolinea l'importanza della solidarieta' nel video che lancia la campagna: "La lotta per i diritti umani e' responsabilita' di ogni persona".

Aggiungete oggi il vostro volto alla petizione fotografica: http://ch16.org/afghanwomen

Agire e' nostra responsabilita'.

 

8. SIERRA LEONE. NICHOLAS KRISTOF: IL MONDO DI JESSICA

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Nicholas Kristof apparso sul "New York Times" il 9 ottobre 2011]

 

Freetown, Sierra Leone. In un Centro di cura per gli stupri, qui, ho incontrato una paziente di tre anni, di nome Jessica, che coccolava un orsacchiotto. Jessica sembrava malata e perdeva peso, ma non era in grado di dire cosa non andava. Sua madre la porto' in una clinica ed il medico attesto' la verita'. La bambina era stata stuprata ed aveva la gonorrea.

Mentre sostavo nel corridoio del Centro, turbato dall'incontro con Jessica, una bimba di quattro anni veniva condotta all'interno per essere medicata. Anche lei risultava infettata da una malattia a trasmissione sessuale dopo uno stupro. Nel Centro, quel giorno, c'erano anche una decenne e una dodicenne, assieme a ragazze piu' grandi.

La violenza sessuale e' una crisi di salute pubblica nella maggior parte del mondo, e le donne e le ragazze fra i 15 ed i 44 anni d'eta' hanno piu' probabilità di essere mutilate o uccise da uomini che dalla malaria, dal cancro, dalla guerra e dagli incidenti stradali tutti insieme, secondo uno studio del 2005. Tale violenza resta un problema significativo negli Usa, ma e' particolarmente prevalente in paesi come la Sierra Leone, la Liberia o il Congo che hanno sofferto la guerra civile. Lo schema e' che dopo lo stabilirsi della pace gli uomini smettono di sparare l'uno contro l'altro, ma continuano a stuprare donne e bambine in percentuali allucinanti, e spesso di eta' giovanissima.

L'International Rescue Committee, che gestisce il Centro di cura qui a Freetown, la capitale del paese, dice che il 26% delle vittime di violenza sessuale che arrivano da loro ha undici anni o meno. Il mese scorso, hanno curato una bambina stuprata di dieci mesi.

"Si da' la colpa alle bambine", nota Amie Kandeh, che dirige i programmi per le donne dell'International Rescue Committee (www.rescue.org), "Se la bambina violata ha piu' di cinque anni, e' colpa del modo in cui era vestita. Ma abbiamo avuto qui una piccina stuprata di due mesi e mezzo. E' stato il modo in cui la mamma le metteva il pannolino?" La piccola e' morta a causa delle ferite interne inflittele durante lo stupro, aggiunge Amie Kandeh.

La lotta contro la violenza sessuale sara' vinta o perduta in primo luogo all'interno di ogni paese, ma gli Usa potrebbero dare una mano se il Congresso reintrodurra' e fara' passare l'International Violence Against Women Act, che introdurrebbe passi in avanti, seppur modesti. E gli Usa potrebbero peggiorare le cose se i repubblicani riusciranno ad eliminare i finanziamenti al Fondo per le Popolazione delle Nazioni Unite, che lavora in luoghi come la Sierra Leone per contrastare la violenza sessuale. Alla fine, l'unico modo per fermare l'epidemia di violenza sessuale e' rompere il silenzio, cancellare l'impunita' e mandare i perpetratori in prigione. Ma questo non accade quasi mai. La signora Kandeh mi dice che i Centri dell'International Rescue Committee hanno curato piu' di 9.000 pazienti dal 2033, e meno dello 0,5% degli stupri ha avuto come risultato la detenzione dei criminali.

Nella citta' orientale di Kenema, ad un giorno di viaggio dalla capitale, ho incontrato una ragazzina di 13 anni, TaJoe, che e' stata curata per lo stupro subito, ed il cui caso svela perche' le sopravvissute non parlano. TaJoe e' una sveglia scolara delle medie, la terza come eccellenza negli studi nella sua classe. Non molto tempo fa, una sera, aveva bisogno di andare al gabinetto (fuori di casa - ndt) e chiese alla sorella di scortarla. La sorella si nego' e disse che non ce n'era bisogno. TaJoe ando' quindi da sola, e sulla via del ritorno fu afferrata da un uomo d'affari, sbattuta a terra e violentata.

Spaventata e vergognosa, TaJoe non si fido' di parlarne a nessuno, ma contrasse una malattia a trasmissione sessuale che le causo' febbre altissima. Smise di mangiare, la sua salute peggioro'. Quando i familiari la portarono in ospedale, i medici scoprirono qual era il problema e TaJoe "confesso'".

L'uomo d'affari era sospettato di aver stuprato altre due ragazzine nel villaggio, ma era istruito e ricco. Quando TaJoe fece il suo nome, la polizia agi' in modo molto rapido: mise in prigione la ragazza e sua madre, accusandole di sporcare il nome di un rispettato membro della comunita'. Piu' tardi furono rilasciate, ma l'episodio terrorizzo' TaJoe. Inoltre, mi dice, l'uomo d'affari le ha promesso che, se restera' libero, paghera' tutte le future tasse scolastiche di TaJoe: una "mazzetta" che le da' la speranza di completare la sua istruzione e di trasformare la sua vita.

Quando le ho domandato che cosa si dovrebbe fare per il suo caso, la sua risposta e' stata chiara: "Non voglio il processo. Non voglio causare fastidi". E se quell'uomo continua a violentare ragazzine?, ho detto io. TaJoe ha replicato che forse ha imparato la lezione. Sa benissimo che avere una vita normale nel villaggio, e forse le sue speranze di una carriera medica, dipendono dalla sua resa. "Ho persino paura che lo arrestino", dice TaJoe.

Dunque, la situazione e' cosi' disperata? Ma con mia sorpresa, ho trovato cenni di progresso: in special modo quando una fanciulla adolescente mi ha chiesto di aiutarla a mandare in prigione il suo stupratore.

 

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

 

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

 

10. PER SAPERNE DI PIU'

 

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 730 del 5 novembre 2011

 

Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it, sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

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