Voci e volti della nonviolenza. 429



 

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"

Numero 429 del 21 settembre 2011

 

In questo numero:

1. Mao Valpiana: Omnicrazia

2. Federico Oliveri intervista Giuliano Pontara (aprile 2011)

 

1. EDITORIALE. MAO VALPIANA: OMNICRAZIA

[Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org) per questo intervento.

Mao (Massimo) Valpiana e' una delle figure piu' belle e autorevoli della nonviolenza in Italia; e' nato nel 1955 a Verona dove vive e ha lavorato come assistente sociale e giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel Movimento Nonviolento (si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come metodo innovativo di intervento nel sociale"); attualmente e' presidente del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa della nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile "Azione Nonviolenta", fondata nel 1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al servizio e alle spese militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla campagna per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione della Lega obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario nazionale; durante la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione diretta nonviolenta per fermare un treno carico di armi (processato per "blocco ferroviario", e' stato assolto); e' inoltre membro del consiglio direttivo della Fondazione Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio della War Resisters International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione di Coscienza); e' stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato di sostegno alle forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per la pace da Trieste a Belgrado nel 1991; nel giugno 2005 ha promosso il digiuno di solidarieta' con Clementina Cantoni, la volontaria italiana rapita in Afghanistan e poi liberata. Con Michele Boato e Maria G. Di Rienzo ha promosso l'appello "Crisi politica. Cosa possiamo fare come donne e uomini ecologisti e amici della nonviolenza?" da cui e' scaturita l'assemblea di Bologna del 2 marzo 2008 e quindi il manifesto "Una rete di donne e uomini per l'ecologia, il femminismo e la nonviolenza". Un suo profilo autobiografico, scritto con grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4 dicembre 2002 de "La nonviolenza e' in cammino"; una sua ampia intervista e' nelle "Minime" n. 255 del 27 ottobre 2007; un'altra recente ampia intervista e' in "Coi piedi per terra" n. 295 del 17 luglio 2010.

Aldo Capitini e' nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato, docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per la nonviolenza e la pace. E' morto a Perugia nel 1968. E' stato il piu' grande pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini: la miglior antologia degli scritti e' ancora quella a cura di Giovanni Cacioppo e vari collaboratori, Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche' integrale - ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell'epoca - bibliografia degli scritti di Capitini); ma notevole ed oggi imprescindibile e' anche la recente antologia degli scritti a cura di Mario Martini, Le ragioni della nonviolenza, Edizioni Ets, Pisa 2004, 2007; delle singole opere capitiniane sono state recentemente ripubblicate: Le tecniche della nonviolenza, Linea d'ombra, Milano 1989, Edizioni dell'asino, Roma 2009; Elementi di un'esperienza religiosa, Cappelli, Bologna 1990; Colloquio corale, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2005; L'atto di educare, Armando Editore, Roma 2010; cfr. inoltre la raccolta di scritti autobiografici Opposizione e liberazione, Linea d'ombra, Milano 1991, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2003; gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996; La religione dell'educazione, La Meridiana, Molfetta 2008; segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta. Carteggio con Sara Melauri, Edizioni Associate, Roma 1991. Presso la redazione di "Azione nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org) sono disponibili e possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di Capitini non piu' reperibili in libreria (tra cui Il potere di tutti, 1969). Negli anni '90 e' iniziata la pubblicazione di una edizione di opere scelte: sono fin qui apparsi un volume di Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un volume di Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, seconda edizione ampliata, Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998. Piu' recente e' la pubblicazione di alcuni carteggi particolarmente rilevanti: Aldo Capitini, Walter Binni, Lettere 1931-1968, Carocci, Roma 2007; Aldo Capitini, Danilo Dolci, Lettere 1952-1968, Carocci, Roma 2008; Aldo Capitini, Guido Calogero, Lettere 1936-1968, Carocci, Roma 2009. Opere su Aldo Capitini: a) per la bibliografia: Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Bibliografia di scritti su Aldo Capitini, a cura di Laura Zazzerini, Volumnia Editrice, Perugia 2007; Caterina Foppa Pedretti, Bibliografia primaria e secondaria di Aldo Capitini, Vita e Pensiero, Milano 2007; segnaliamo anche che la gia' citata bibliografia essenziale degli scritti di Aldo Capitini pubblicati dal 1926 al 1973, a cura di Aldo Stella, pubblicata in Il messaggio di Aldo Capitini, cit., abbiamo recentemente ripubblicato in "Coi piedi per terra" n. 298 del 20 luglio 2010; b) per la critica e la documentazione: oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno: Giacomo Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di), Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988; Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini. Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi Aldo Capitini", Elementi dell'esperienza religiosa contemporanea, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998, 2003; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume monografico de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante, La realta' liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999; Mario Martini (a cura di), Aldo Capitini libero religioso rivoluzionario nonviolento. Atti del Convegno, Comune di Perugia - Fondazione Aldo Capitini, Perugia 1999; Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta 2001; Gian Biagio Furiozzi (a cura di), Aldo Capitini tra socialismo e liberalismo, Franco Angeli, Milano 2001; Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Cittadella, Assisi 2004; Massimo Pomi, Al servizio dell'impossibile. Un profilo pedagogico di Aldo Capitini, Rcs - La Nuova Italia, Milano-Firenze 2005; Andrea Tortoreto, La filosofia di Aldo Capitini, Clinamen, Firenze 2005; Maurizio Cavicchi, Aldo Capitini. Un itinerario di vita e di pensiero, Lacaita, Manduria 2005; Marco Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Ega, Torino 2007; Alarico Mariani Marini, Eligio Resta, Marciare per la pace. Il mondo nonviolento di Aldo Capitini, Plus, Pisa 2007; Maura Caracciolo, Aldo Capitini e Giorgio La Pira. Profeti di pace sul sentiero di Isaia, Milella, Lecce 2008; Mario Martini, Franca Bolotti (a cura di), Capitini incontra i giovani, Morlacchi, Perugia 2009; Giuseppe Moscati (a cura di), Il pensiero e le opere di Aldo Capitini nella coscienza delle giovani generazioni, Levante, Bari 2010; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in Angelo d'Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001; e Amoreno Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell'Italia del Novecento, Donzelli, Roma 2006; c) per una bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro di Pietro Polito citato ed i volumi bibliografici segnalati sopra; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini sono nel sito dell'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini: www.aldocapitini.it; una assai utile mostra e un altrettanto utile dvd su Aldo Capitini possono essere richiesti scrivendo a Luciano Capitini: capitps at libero.it, o anche a Lanfranco Mencaroni: l.mencaroni at libero.it, o anche al Movimento Nonviolento: tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it o anche redazione at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org]

 

Omnicrazia. Il potere di tutti.

La marcia Perugia-Assisi e' la prefigurazione dell'ideale capitiniano.

 

2. RIFLESSIONE. FEDERICO OLIVERI INTERVISTA GIULIANO PONTARA (APRILE 2011)

[Riportiamo la seguente intervista apparsa su "Scienza e Pace", rivista del Cisp, Universita' di Pisa (per contatti: tel. 0502211200/1, fax: 0502211206, e-mail: redazione at cisp.unipi.it, sito: http://scienzaepace.unipi.it) col titolo "Una conversazione con Giuliano Pontara" a cura di Federico Oliveri; intervista risalente all'aprile 2011 e gia' ripubblicata anche nella newsletter del Centro Sereno Regis.

Federico Oliveri si e' formato in filosofia della politica e del diritto tra la Scuola Normale Superiore di Pisa, di cui e' stato allievo ordinario e perfezionando, e le Universita' di Pisa e Paris X - Nanterre. Dal 2006 e' professore a contratto del corso di Governance e cittadinanza attiva presso il Centro Interdipartimentale di Scienze per la Pace dell'Universita' di Pisa, nel cui ambito si occupa di deliberazione pubblica, normative e metodologie per la partecipazione, responsabilita' sociale d'impresa, consumo critico e altre iniziative dei cittadini in ambito sociale ed economico. Nel dibattito giuridico-politico in corso, la sua attenzione va alle trasformazioni della cittadinanza e dello Stato e, in particolare, all'impatto che la riorganizzazione del sistema produttivo, del mercato del lavoro e dell'offerta pubblica di beni e servizi ha sull'essere o no cittadini a pieno titolo. Da qui anche il suo specifico interesse per le "frontiere" del diritto e dei diritti, dalla posizione sociale e giuridica dei migranti al ruolo delle identita' e dell'appartenenza in una societa' plurale, alle controversie in ambito bioetica e biomedico. Queste ricerche sono sostenute dallo studio e dal recupero di alcune correnti del pensiero contemporaneo, come la teoria critica della societa' (Marcuse, Habermas), la sociologia critica (Bourdieu, Sayad, Bauman), la genealogia (Foucault), le teorie radical-democratiche (Arendt, Benhabib) e democratico-sociali (Th. Marshall, Bobbio). Dal 2003 collabora regolarmente con il Consiglio d'Europa di Strasburgo, presso la Direzione Generale della Coesione Sociale. Per conto di questa organizzazione ha organizzato due forum europei (nel 2003, sul senso d'insicurezza collettivo e sulle risposte in termine di nuovo modello sociale; nel 2006, sull'uso e abuso delle differenze culturali nelle politiche per immigrati - materiali accessibili al sito del Council of Europe -), ha scritto diversi articoli (sulla legislazione a sostegno dell'economia solidale, sulle discriminazioni strutturali dei lavoratori immigrati, sulle politiche di un "multiculturalismo di giustizia") e ha curato quattro volumi collettivi a partire dai due forum menzionati (materiali in parte accessibili al sito del Council of Europe). Attualmente coordina un gruppo di lavoro incaricato di redigere una Guida alla coesione sociale in un'Europa plurale: indirizzata a decisori politici, amministratori e membri di Ong, tale Guida si propone di innovare le politiche pubbliche per e con i migranti, a partire dalla critica degli stereotipi e dei loro effetti pregiudizievoli sul benessere dei cittadini stranieri e dei loro discendenti. Collabora infine con la rivista "Jura Gentium" e con l'Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa. Per quest'ultimo ha scritto recentemente due saggi, sulla garanzia dei diritti sociali nella Carta Sociale Europea e sul diritto alla salute dei nella Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e nella sua giurisprudenza (accessibili al sito www.europeanrights.eu).

Giuliano Pontara e' uno dei massimi studiosi della nonviolenza a livello internazionale, riproduciamo di seguito una breve notizia biografica gia' apparsa in passato sul nostro notiziario (e nuovamente ringraziamo di tutto cuore Giuliano Pontara per avercela messa a disposizione): "Giuliano Pontara e' nato a Cles (Trento) il 7 settembre 1932. In seguito a forti dubbi sulla eticita' del servizio militare, alla fine del 1952 lascia l'Italia per la Svezia dove poi ha sempre vissuto. Ha insegnato Filosofia pratica per oltre trent'anni all'Istituto di filosofia dell'Universita' di Stoccolma. E' in pensione dal 1997. Negli ultimi quindici anni Pontara ha anche insegnato come professore a contratto in varie universita' italiane tra cui Torino, Siena, Cagliari, Padova, Bologna, Imperia, Trento. Pontara e' uno dei fondatori della International University of Peoples' Institutions for Peace (Iupip) - Universita' Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace (Unip), con sede a Rovereto (Tn), e dal 1994 al 2004 e' stato coordinatore del Comitato scientifico della stessa e direttore dei corsi. Dirige per le Edizioni Gruppo Abele la collana "Alternative", una serie di agili libri sui grandi temi della pace. E' membro del Tribunale permanente dei popoli fondato da Lelio Basso e in tale qualita' e' stato membro della giuria nelle sessioni del Tribunale sulla violazione dei diritti in Tibet (Strasburgo 1992), sul diritto di asilo in Europa (Berlino 1994), e sui crimini di guerra nella ex Jugoslavia (sessioni di Berna 1995, come presidente della giuria, e sessione di  Barcellona 1996). Pontara ha pubblicato libri e saggi su una molteplicita' di temi di etica pratica e teorica, metaetica  e filosofia politica. E' stato uno dei primi ad introdurre in Italia la "Peace Research" e la conoscenza sistematica del pensiero etico-politico del Mahatma Gandhi. Ha pubblicato in italiano, inglese e svedese, ed alcuni dei suoi lavori sono stati tradotti in spagnolo e francese. Tra i suoi lavori figurano: Etik, politik, revolution: en inledning och ett stallningstagande (Etica, politica, rivoluzione: una introduzione e una presa di posizione), in G. Pontara (a cura di), Etik, Politik, Revolution, Bo Cavefors Forlag,  Staffanstorp  1971, 2 voll., vol. I, pp. 11-70; Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino, Bologna 1974; The Concept of Violence, Journal of Peace Research , XV, 1, 1978, pp. 19-32; Neocontrattualismo, socialismo e giustizia internazionale, in N. Bobbio, G. Pontara, S. Veca, Crisi della democrazia e neocontrattualismo, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 55-102; tr. spagnola, Crisis de la democracia, Ariel, Barcelona 1985; Utilitaristerna, in Samhallsvetenskapens klassiker, a cura di M. Bertilsson, B. Hansson, Studentlitteratur, Lund 1988, pp. 100-144; International Charity or International Justice?, in Democracy State and Justice, ed. by. D. Sainsbury, Almqvist & Wiksell International, Stockholm 1988, pp. 179-93; Filosofia pratica, Il Saggiatore, Milano 1988; Antigone o Creonte. Etica e politica nell'era atomica, Editori Riuniti, Roma 1990; Etica e generazioni future, Laterza, Bari 1995; tr. spagnola, Etica y generationes futuras, Ariel, Barcelona 1996; La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Breviario per un'etica quotidiana, Pratiche, Milano 1998; Il pragmatico e il persuaso, Il Ponte, LIV, n. 10, ottobre 1998, pp. 35-49; L'antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ega, Torino 2006. E' autore delle voci Gandhismo, Nonviolenza, Pace (ricerca scientifica sulla), Utilitarismo, in Dizionario di politica, seconda edizione, Utet, Torino 1983, 1990 (poi anche Tea, Milano 1990, 1992). E' pure autore delle voci Gandhi, Non-violence, Violence, in Dictionnaire de philosophie morale, Presses Universitaires de France, Paris 1996, seconda edizione 1998. Per Einaudi Pontara ha curato una vasta silloge di scritti di Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, nuova edizione, Torino 1996, cui ha premesso un ampio studio su Il pensiero etico-politico di Gandhi, pp. IX-CLXI". Una piu' ampia bibliografia degli scritti di Giuliano Pontara aggiornata fino al 1999 (che comprende circa cento titoli), gia' apparsa nel n. 380 de "La nonviolenza e' in cammino", abbiamo successivamente riprodotto nel n. 121 di "Voci e volti della nonviolenza"]

 

- Federico Oliveri: Il 2011 e' iniziato nel segno delle rivolte nel mondo arabo, seguite ora con entusiasmo ora con allarme da un'Europa destabilizzata dalla crisi e attraversata da mobilitazioni contro le politiche di austerita'. In Tunisia e in Egitto le proteste sono riuscite in tempi abbastanza rapidi a sostituire i governi autoritari e corrotti in carica da decenni, avviando una faticosa stagione di riforme in nome di maggiore liberta' e democrazia. In altri paesi, come la Siria, lo Yemen e il Bahrein, le rivolte popolari non hanno ancora trovato sbocco politico, anzi sono oggetto di repressione da parte dei governi in carica. In Libia la situazione e' precipitata in un conflitto armato aperto tra fazioni pro e contro Gheddafi, queste ultime protette militarmente dalle potenze occidentali. Qual e' la natura di questi movimenti di rivolta dall'esito cosi' diverso? Si tratta di un unico grande movimento o prevalgono le differenze nazionali?

- Giuliano Pontara: E' ancora troppo presto per rispondere con sicurezza a queste domande. Siamo quotidianamente esposti a notizie contraddittorie, non sempre verificabili da chi, come me, non e' stato in loco. Le valutazioni cambiano a seconda di quello che ciascuno di noi ha letto, ascoltato o visto attraverso i media a sua disposizione. Credo che si possa comunque operare una prima distinzione all'interno delle mobilitazioni in corso. Da una parte troviamo dei movimenti di rivolta partiti spontaneamente dal basso, composti in grandissima parte da giovani, molti dei quali forniti di istruzione oltre che di videofonini, di computer e di un accesso a reti di informazione e comunicazione che hanno permesso loro di sviluppare uno sguardo esterno e critico rispetto al proprio mondo. Lo scarto tra aspettative e condizioni di vita, acuito dalla crisi economica e dalla staticita' dei regimi autoritari esistenti, ha acceso una sollevazione animata soprattutto dal bisogno di maggiore autonomia e di maggiore controllo sulla propria esistenza e sulle scelte di fondo della societa'. Non e' un caso che la componente studentesca abbia giocato un ruolo importante in queste mobilitazioni: tradizionalmente gli studenti sono tra i primi a muoversi, in quanto piu' informati, piu' aperti, e piu' colpiti dall'assenza di prospettive e di mobilita' sociale. Dall'altra parte troviamo una costellazione variegata di forze e soggetti che, in qualche modo, cercano di "cavalcare" il movimento di protesta. Questo secondo aspetto, per ovvie ragioni, e' molto meno trasparente, piu' complesso e piu' ambivalente del primo.

Mentre la dimensione spontanea delle rivolte mi sembra un tratto unificante, confermato dalla composizione e dalle rivendicazioni del movimento di protesta, la dimensione politica retrostante mi sembra vari molto da paese a paese. Su questa base e' possibile distinguere, ad esempio, le rivolte popolari in Tunisia e in Egitto da quelle in Libia che hanno assunto l'aspetto di una guerra civile. Le due dimensioni delle rivolte, quella popolare e spontanea, e quella politica, oggi sono unite sul piano degli intenti e delle controparti, e agiscono di concerto. Ma non e' detto che tale convergenza sia duratura: non sarebbe la prima volta che delle mobilitazioni popolari abbiano alla fine un esito politico diverso da quello atteso, soprattutto quando si fa sentire l'influenza di potenze straniere. Qui sta il grande problema e la grande sfida per il futuro di questi paesi, specie quelli come l'Egitto in cui e' molto forte il ruolo degli Stati Uniti. Ricordiamoci che, dopo Israele, l'Egitto e' il principale beneficiario delle forniture di armi da parte di Washington, e che l'esercito egiziano e' da molto tempo vicino agli Stati Uniti, com'e' stato fin qui evidente nelle politiche verso Israele. Insomma, i giochi sono ancora tutti aperti. Se io fossi uno dei coraggiosi giovani che ha dato inizio alle rivolte sarei molto prudente, e cercherei di non dare per scontato il successo della transizione democratica.

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- Federico Oliveri: A proposito della Libia, dove la rivolta assume i tratti preoccupanti di una guerra civile, qual e' la composizione dei cosiddetti "ribelli" auto-costituitisi in Consiglio Nazionale Libico e in governo provvisorio, e quanto pesano i loro rapporti con i governi occidentali? L'unica cosa certa che sappiamo e' la loro opposizione a Gheddafi e la loro ferma intenzione di arrivare ad un cambio di regime. Ma per il resto le informazioni di prima mano sono poche e le notizie sono spesso di parte e comunque contraddittorie: la verita', come sappiamo, e' una delle prime vittime della guerra.

- Giuliano Pontara: Per rispondere a questa domanda e' necessario fare un passo indietro: a sollevare dubbi e domande e' stato soprattutto il rapido esito armato della crisi. Anche in Libia, come in Tunisia ed in Egitto, la rivolta e' partita in forme sostanzialmente non armate, come movimento abbastanza improvviso e spontaneo. L'onda lunga delle vicine e riuscite sollevazioni popolari e' arrivata anche qua, toccando ancora una volta soprattutto i giovani e intrecciandosi con una tradizionale ostilita' al regime, radicata soprattutto nella regione di Bengasi. Non credo si possa dire, come qualcuno pure sostiene, che il movimento sia stato fin dall'inizio orchestrato dall'esterno, ossia dalle potenze occidentali. E' senz'altro vero, d'altra parte, che queste stesse potenze, prima fra tutte la Francia, hanno saputo molto velocemente cavalcare il movimento in direzione di un cambio di regime. Anche per questo la fase spontanea e non armata della protesta e' durata poco, superata e resa piu' complessa da altre dinamiche. In Egitto e in Tunisia non c'e' stata da parte della popolazione nessuna contro-reazione violenta agli attacchi della polizia, che pure non sono mancati: un grande esempio di lotta nonviolenta. In Libia le cose sono andate diversamente.

Da quello che possiamo capire, la repressione in grande stile di Gheddafi e' cominciata quando la rivolta e' diventata armata ed ha configurato di fatto la separazione della regione di Bengasi dal resto del paese. Per quale ragione la Francia ha riconosciuto quasi subito il governo alternativo di Bengasi, di cui fanno parte anche alcuni ex sostenitori di Gheddafi? L'ultima ragione a cui penso e' quella dell'amore per la democrazia, visto il comportamento assai ambiguo tenuto da Parigi nei confronti della rivolta tunisina contro Ben Ali'. Sulla retorica democratica e umanitaria prevalgono decisamente le ragioni di potenza, la ricerca di un rilancio della propria influenza nell'area, il tentativo di ritagliare un ruolo di primo piano per le proprie compagnie petrolifere, insomma argomenti tipici di Realpolitik. Anche l'Italia non ha potuto fare a meno di intervenire dopo le reticenze iniziali, per difendere il proprio ruolo nell'area e per tutelare, ad esempio, la continuita' dei contratti dell'Eni. Quello che e' certo e' che la violenza va crescendo, il numero delle vittime civili sale, creando una situazione che merita tecnicamente e giuridicamente un solo nome: quello di guerra. Con buona pace del Presidente Napolitano.

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- Federico Oliveri: Quest'analisi implica una critica della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che lo scorso 17 marzo ha istituito una no fly zone sulla Libia allo scopo dichiarato di difendere i civili e di favorire il cessate il fuoco, o almeno una critica dell'applicazione che ne stanno facendo gli Stati che si sono fatti carico di realizzarla. Erano i giorni in cui, nel sostanziale silenzio della diplomazia mondiale, le truppe fedeli a Gheddafi assediavano Bengasi, dopo che le milizie mercenarie avevano sparso il terrore tra la popolazione. L'intervento militare, oltre a impedire agli aerei di Tripoli di alzarsi in volo, ha colpito le forze terrestri fedeli a Gheddafi impedendo loro di proseguire l'assedio e costringendole a ritirarsi. Lo stesso Obama qualche giorno fa ha giustificato l'intervento, affermando che avrebbe permesso di salvare molte vite umane. Il fine giustifica qualsiasi mezzo e rende accettabile qualsiasi effetto?

- Giuliano Pontara: Per quanto riguarda la valutazione di legittimita' della risoluzione 1973, essa dipende dal punto di vista da cui la si guarda. Dalla prospettiva delle grandi potenze, ispirate da ragioni di Realpolitik, la risoluzione ha dato copertura legale ad un intervento militare altrimenti inaccettabile per la comunita' internazionale. L'iniziativa e' partita soprattutto da due governi "volenterosi", quelli di Nicolas Sarkozy e di David Cameron. Proviamo a chiederci, in maniera disincantata, perche'. Il primo e' in forte calo di consensi nel suo paese. Il secondo e' alle prese con una difficile situazione sociale, ben visibile nelle grandi manifestazioni di piazza della settimana scorsa, contro i tagli allo stato sociale e all'istruzione superiore. Il primo ha da anni annunciato una nuova politica mediterranea, fin qui con modesti risultati. Il secondo ha operato in sostanziale continuita' con la politica interventista di Blair. Francia e Gran Bretagna si sono mosse molto rapidamente, anche prima dell'intervento massiccio di Gheddafi contro i rivoltosi. Hanno cosi' avuto il tempo sufficiente per formulare una risoluzione accettabile in sede di Consiglio di Sicurezza, e stendere una fitta nebbia sui rispettivi obiettivi di potenza, anche cooptando nell'azione anche altri soggetti come la Lega Araba e l'Unione Africana. Quali sono stati i giochi di potere all'interno del Consiglio di Sicurezza per arrivare, ad esempio alla determinante astensione della Cina e della Federazione Russa? Cosa e' stato offerto alla Lega Araba? Si possono fare delle ipotesi. La Cina in questi anni sta letteralmente comprando pezzi sempre piu' vasti di territorio africano: il governo di Pechino e' molto attento a quello che succede nel continente, ma in questo frangente ha preferito stare a guardare, per tenersi aperte tutte le strade. La Federazione Russa spera forse che le potenze occidentali si impelaghino in una nuova situazione ingestibile, come in Iraq o in Afghanistan, uscendone alla lunga indebolite. Quanto ai paesi della Lega Araba, molti dei quali stanno reprimendo le loro stesse rivolte popolari, la promessa potrebbe essere stata quella di non intervenire nei loro confronti.

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- Federico Oliveri: Se questa prassi venisse accettata e si consolidasse, non passerebbe nel diritto interazionale il principio innovativo per cui sarebbe lecito intervenire negli affari interni degli Stati per "difendere la pace e la sicurezza"? Quanto e' legale, oltre che legittimo, invocare la "responsabilita' di proteggere" i civili, specialmente se poi si interviene per determinare un cambio di regime a vantaggio di quelle che vengono identificate come "forze di progresso" meritevoli di sostegno?

- Giuliano Pontara: In punto di diritto, la vigente Carta delle Nazioni Unite e' chiara. Il comma 7 dell'articolo 2 stabilisce che "nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengano alla competenza interna di uno Stato". La risoluzione 1973 invoca la "responsabilita' di proteggere" in base al quale il Consiglio di Sicurezza, una volta accertata una grave violazione dei diritti umani da parte di uno Stato, puo' dichiarare che si tratta di una minaccia della pace e della sicurezza internazionale, ricorrendo a mezzi coercitivi anche militari. Ma se si considera quella in Libia una guerra civile, allora si deve anche ammettere che la risoluzione in questione ha forzato la Carta delle Nazioni Unite. Quanto alla sua applicazione, l'eccedenza rispetto a quanto stabilito dal Consiglio di Sicurezza e' abbastanza evidente. All'inizio la no fly zone aveva come finalita' quella di impedire che gli aerei libici si alzassero in volo per colpire i civili. In realta' ad essere protetti dall'intervento sono soprattutto le forze anti Gheddafi. Ad essere obiettivo delle azioni militari non sono stati solo i dispositivi aerei dell'esercito libico, ma le sue strutture militari in genere, fino al bunker del rais. Dubito che queste azioni aiuteranno, nel breve periodo, la pacificazione: siamo di fronte ad una escalation della violenza, di cui ignoriamo l'esito. Cosi' si mette in moto soltanto la reciproca sfiducia, la disumanizzazione dell'altro, la criminalizzazione del nemico, rendendo sempre piu' difficile una soluzione nonviolenta del conflitto.

Detto questo, il problema di come regolamentare a livello di diritto internazionale eventuali azioni per risolvere in modo pacifico i conflitti interni agli Stati, potenzialmente non meno cruenti di quelli tra Stati, resta aperto. Da un lato, si tratta di riprendere la via interrotta della riforma delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza, le cui funzioni non possono essere innovate attraverso la prassi ma richiedono un momento realmente costituente. La stessa Carta delle Nazioni Unite dovrebbe essere applicata integralmente, a partire dalla costituzione di forze proprie di intervento, anche civili, in funzione di interposizione e di mediazione nei conflitti intra- ed inter-statali. Supponiamo ad esempio che questa risoluzione fosse valida, che ci fosse bisogno di intervenire, e che non ci fossero piu' altre alternative: l'intervento sarebbe stato piu' credibile se fosse stato condotto da una forza riconosciuta come neutrale, e non dai paesi che lo stanno conducendo attualmente, i cui interessi economico-politici sono ben noti e che sono tra l'altro tra i piu' grandi produttori e venditori mondiali di armi. In ogni caso, tutte le riforme di tipo tecnico-giuridico delle istituzioni internazionali risulterebbero insufficienti senza una trasformazione della prospettiva politica dei principali attori coinvolti, senza cioe' che gli stati piu' influenti prendessero definitivamente congedo da una politica di potenza, cosa assai problematica nell'attuale contesto di crisi e di esaurimento delle risorse a livello planetario.

Comunque, anche se si arrivasse ad un regime legalizzato di "azioni di polizia internazionale", un punto critico fondamentale resterebbe aperto, a ricordarci la necessita' di pensare sempre ad alternative rispetto ad un intervento militare: mi riferisco ai cosiddetti "danni collaterali". Io non accetto la distinzione tra danno diretto e danno collaterale, che per le vittime non fa nessuna differenza. Inoltre, vanno messi in conto anche gli effetti sulle giovani generazioni e sulle generazioni future. Non ci sono solo i morti civili: avendo vissuto da ragazzo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, posso dire anche del trauma che questi attacchi provocano sui piu' piccoli. Nella prima settimana del conflitto, le navi e i sottomarini occidentali presenti nel Mediterraneo hanno sparato sulla Libia circa 150-200 missili all'uranio impoverito: secondo molti studi, l'uranio impoverito e' pericoloso nel lungo periodo anche per la salute dei nascituri, oltre che delle persone gia' nate. La stessa nozione di danno collaterale va dunque estesa su piu' generazioni.

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- Federico Oliveri: Le pratiche di criminalizzazione e di disumanizzazione del nemico sono una costante delle ultime guerre - o forse sono tipiche di ogni guerra che deve giustificare se stessa agli occhi dell'opinione pubblica e che deve stimolare la motivazione dell'esercito. Saddam Hussein e' stato spesso presentato come un nuovo Hitler. L'immagine di Gheddafi ha vissuto un repentino processo di trasformazione, da amico affidabile dell'occidente a mostruoso, sanguinario dittatore. Questi meccanismi vengono messi in campo anche contro chi dissente dall'intervento, che viene accusato di difendere un criminale, di essere complice dei suoi massacri, di stare a guardare mentre altrove si lotta e si muore per la liberta'. Eppure, ai tempi della guerra in Iraq, il movimento mondiale contro la guerra e' riuscito a dare una risposta coerente e di massa, nonostante una analoga campagna denigratoria. Adesso le dimensioni del movimento sembrano molto minori e quello che era il fronte dei pacifisti, soprattutto rispetto ai non militanti, si e' molto frammentato. Cos'e' cambiato dal 2003, anno delle grandi manifestazioni mondiali contro la guerra in Iraq?

- Giuliano Pontara: Sul cambiamento di umore ha, con molta probabilita', influito proprio la stagione delle rivolte popolari nel mondo arabo che, anche nel caso della Libia, ha suscitano l'appoggio di gran parte parte dell'opinione pubblica "progressista". Qualcuno presenta la guerra civile in corso come una "guerra di liberazione", ma non sappiamo se lo sara' davvero. A questo vanno aggiunti altri due elementi, altrettanto se non piu' rilevanti per comprendere la distanza dal 2003. Allora ci si opponeva "senza se e senza ma" alla "guerra di G.W. Bush", a cui mancava l'autorizzazione formale delle Nazioni Unite. Non era presentata ne' come una "guerra umanitaria" ne', in un primo momento almeno, come una "guerra per la democrazia": era una guerra preventiva per scongiurare la minaccia nucleare di Saddam Hussein, poi rivelatasi infondata. Inoltre, quando ci si mobilitava, la guerra non era ancora iniziata e l'obiettivo del movimento era proprio quello di fermarla dal basso. Adesso la guerra e' gia' partita, e si e' creata una situazione internazionale e interna che ha fatto percepire come inesistenti tutte le alternative diplomatiche e nonviolente.

Per tornare alle rivolte popolari, e chiarire la mia nota di scetticismo, voglio dire che quando si parla di liberta' occorre essere precisi, a costo di sembrare distaccati dalle mobilitazioni in corso. Di quale liberta' stiamo parlando? La domanda e' lecita proprio a partire dal grado sempre piu' basso di liberta' di cui godiamo anche nei nostri paesi, in cui i parlamenti nazionali decidono tra alternative determinate dall'esterno e comunque tutte interne alla logica di un mercato iniquo e sregolato, che alimenta la competizione globale e chiede la riduzione dello Stato sociale. Se questo e' lo scenario nei nostri paesi, possiamo aspettarci che la liberta' nei paesi arabi sara' un progresso rispetto agli attuali regimi di polizia, ma cosa esattamente sara' e' molto difficile dirlo. I giovani in lotta non sembrano molto organizzati dal punto di vista politico. Anche per questo e' difficile prevedere quale sbocco e quale rappresentanza istituzionale troveranno le loro rivendicazioni. Per quanto riguarda la Libia, e' certo che le forniture di petrolio e forse anche il controllo dell'immigrazione a vantaggio dell'Europa continueranno anche con un nuovo regime. La questione e' di sistema: senza una modifica profonda delle politiche globali, tale da invertire la rotta rispetto alla crescita esponenziale delle disuguaglianze, allo sfruttamento della mano d'opera a basso costo, alla devastazione dell'ambiente, alla privatizzazione dei beni comuni, allo squilibrio tra Nord e Sud del mondo, cosi' come tra le elites e il resto della popolazione, il cambiamento democratico rischia di essere fragile e superficiale. Da parte nostra, quello che possiamo fare e' appoggiare con forza tutti i movimenti democratici nonviolenti interni ai paesi in transizione, promuovendo la loro connessione coi movimenti globali impegnati per la giustizia sociale.

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- Federico Oliveri: Un importante elemento dell'attuale crisi in Nord Africa e' costituito anche dalla questione migratoria. Gestiti in maniera strumentalmente emergenziale dal governo italiano, che prima ha creato il "caso Lampedusa" ed ora impone alle Regioni la costruzione di tendopoli-lager propedeutiche ai rimpatri, i flussi migratori di queste settimane ci ricordano che per anni i regimi di Ben Ali' e Gheddafi hanno esercitato un pesante "blocco alle partenze", ossia hanno svolto per conto dell'Unione Europea il controllo delle nostre frontiere meridionali. Appare evidente la fragilita' e l'insostenibilita' storica dell'attuale sistema dei controlli all'immigrazione, funzionali alla divisione del lavoro internazionale. Quanto tempo ancora potra' reggere questo sistema? E quando sara' possibile inserire nell'agenda politica europea e mondiale un diverso governo delle migrazioni, ispirato ad una progressiva liberta' di circolazione?

- Giuliano Pontara: Da decenni ormai l'Unione Europea si e' costituita in una fortezza circondata da filo spinato, spostando sempre piu' in la' e fuori dai propri confini il controllo delle migrazioni. Ad essere precisi, non si tratta solo di politiche di respingimento, ma di selezione: nel caso di professionalita' altamente qualificate, come medici, ingegneri, ricercatori si sviluppano politiche attive di "attrazione", con effetti negativi di "drenaggio dei cervelli" dai paesi del Sud del mondo che pure hanno speso proprie risorse per formarli. Questa gestione delle migrazioni, accompagnato dalla crescita di sentimenti xenofobi e neo-razzisti che la crisi economica rischia di acuire ulteriormente, ha contribuito non poco a spostare a destra l'intero continente: non e' un caso che oggi solo due governi, la Spagna e la Grecia, siano di centro-sinistra ma sul punto non si discostino quasi per nulla dagli altri. Anche in Svezia alle ultime elezioni politiche sono entrati per la prima volta in parlamento esponenti di un partito di destra, i Democratici svedesi, che ha al primo punto del suo programma la chiusura delle frontiere. Il governo di centro-destra e' un governo di minoranza e dunque questo partito e' diventato l'ago della bilancia. Anche in Danimarca un partito analogo alla Lega e' diventato in grado di condizionare pesantemente l'azione del governo. In questo quadro, un ripensamento delle politiche dell'immigrazione e' molto difficile da mettere in agenda. Eppure, l'introduzione graduale e ben regolata di un principio di libera circolazione globale sarebbe auspicabile e persino piu' praticabile dell'attuale sistema, evidentemente in crisi. D'altra parte, la mobilita' dei capitali non conosce piu' confini, si muove liberamente da paese a paese, da continente a continente, istantaneamente. La mobilita' umana, invece, e' rigorosamente controllata, e nei suoi riguardi prevale un punto di vista nazionale, quando invece sarebbero necessarie forme macro-regionali e globali di regolazione. Il tema ci impegnera' ancora a lungo, ed avra' ancora effetti negativi sulla tenuta della cultura anti-razzista nei nostri paesi. Prevedo che ci saranno forti migrazioni anche in futuro: e' inevitabile, visto che il pianeta e' reso sempre piu' piccolo dalla globalizzazione e gli squilibri continuano a crescere.

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- Federico Oliveri: Il conflitto in corso in Libia, non a caso un importante produttore di petrolio e gas naturale, si inserisce in un quadro di crisi molteplici: crisi economica e finanziaria, certo, ma anche crisi ambientale e climatica. Questa inedita convergenza di problemi rende molto difficile pensare di poter proseguire sulla strada battuta nel secolo scorso, invocando semplicemente nuova crescita e perseguendo uno sviluppo economico senza aggettivi e senza qualificazioni, ma comunque orientato al profitto invece che alla soddisfazione dei bisogni. Sono temi di portata tale da scoraggiare l'azione politica o un'alternativa di societa' sta, nonostante tutto, facendosi strada? E come giudicare il livello di consapevolezza collettivo raggiunto su questi temi, sia sui rischi a cui siamo esposti che sull'esistenza di alternative praticabili?

- Giuliano Pontara: L'esaurimento delle risorse e' un tema sempre piu' ineludibile. Per risolverlo siamo gia' partiti alla conquista dello spazio: i romanzi di Jules Verne sulla colonizzazione di altri pianeti potrebbero, da qui a qualche decennio, risultare meno visionari di quanto apparivano un secolo e mezzo fa. Il tema e' cosi' pressante, anche per le sue connessioni col riscaldamento climatico, che ha in parte messo in ombra il rischio di una guerra collegata alla proliferazione nucleare che, non va dimenticato, prosegue nonostante gli accordi internazionali anche recenti in materia. Se da un lato si mettono via le vecchie armi, dall'altro dispositivi sempre piu' sofisticati prendono il loro posto. Anche se la probabilita' di una guerra nucleare e' molto bassa, essa non e' pari a zero: il danno, moltiplicato per questa probabilita' pur minima, sarebbe comunque elevatissimo.

Su questi problemi il livello generale di consapevolezza non mi pare adeguato alle necessita'. Si tratta di questioni angoscianti, che si tende costantemente a rimuovere proprio perche' appaiono superiori alle forze individuali. In Occidente poi viviamo in societa' iper-consumistiche e iper-mediatizzate: tutto concorre a distrarci da questi problemi, come dalle contraddizioni di fondo del nostro modo di vivere. Non dico che ci sia un "piano di distrazione di massa": si tratta di un effetto di sistema, attraverso cui si impone una manipolazione delle informazioni, delle percezioni e dei bisogni che i marxisti classici avrebbero chiamato "alienazione". Nella vita quotidiana ci viene chiesto essenzialmente di lavorare, quando si trova lavoro, e di consumare. Le nostre solidarieta' e le nostre responsabilita' generali vengono ridotte al minimo, e soprattutto si oscurano le responsabilita' degli attori piu' potenti, le cui scelte pesano in proporzione di piu' sull'attuale situazione.

Eppure, non è affatto impossibile estendere la consapevolezza critica da gruppi militanti, gia' sensibilizzati ed attivi, al resto della popolazione creando movimenti di massa in grado di modificare il senso comune e spingere per un cambiamento radicale di rotta. Non dobbiamo stancarci di sostenere le iniziative e di diffondere i risultati dei movimenti impegnati, su scala locale e globale, a riorganizzare le nostre societa' sulla base di principi di giustizia sociale, ambientale e intergenerazionale. Tra questi, un ruolo importante va riconosciuto alle mobilitazioni per la difesa dei beni comuni e alla ri-pubblicizzazione della loro gestione, come sta avvenendo in Italia con i movimenti dell'acqua. Anche la nozione di impegno politico sta cambiando, nel senso che c'e' spazio anche per chi non e' per cosi' dire "militante a tempo pieno": il sistema delle organizzazioni no profit offrono a tutti la possibilita' di un impegno sociale e civile, e contribuiscono a modificare la percezione dei problemi e della modificabilita' delle situazioni. Altri luoghi chiave, in questo senso, possono essere le scuole attraverso progetti e iniziative di rilievo sociale che coinvolgano docenti, studenti, genitori, associazioni locali, istituzioni. Certamente, per innescare un cambiamento duraturo e' opportuno che questi movimenti trovino il modo di agire anche all'interno della sfera politica, o interagendo alla pari con i partiti ed i sindacati piu' innovativi e critici, o trasformandosi essi stessi in partito, com'e' avvenuto in Germania coi Verdi. Non dobbiamo inoltre dimenticare che un nuovo movimento operaio e' in formazione nei paesi del Sud del mondo, dove i lavoratori si organizzano sempre per resistere all'iper-sfruttamento e per arrestare i processi di spoliazione e di distruzione dell'ambiente.

Al tempo stesso, dobbiamo essere consapevoli che "il bastione del capitalismo" e' il piu' difficile da espugnare. Poche multinazionali controllano i mercati e alimentano una spirale apparentemente infinita di produzione e consumo, senza rapporto con gli effettivi bisogni delle popolazioni e con i limiti delle risorse disponibili, soprattutto energetiche. Il mantenimento degli attuali livelli di consumo fa apparire lo stesso ricorso all'energia nucleare, per quei paesi che vi fanno ricorso, come insostituibile. Lo shock di quanto successo a Fukushima ha riportato all'attenzione generale quello che, in fondo, sapevamo gia': ossia che i rischi di incidenti, ancorche' bassi, sono ineliminabili ma che le grandi potenze industrializzate sono incapaci di pensare ad alternative, tranne che per brevi periodi. Passata l'emozione collettiva, si ritorna alla normalita'. In Svezia era stato avviato un percorso di uscita dal nucleare, ma qualche tempo fa questo orientamento e' stato rimesso in discussione: quando gli attuali reattori in funzione cesseranno il loro ciclo di vita, saranno sostituiti da nuovi impianti, ma senza finanziamenti pubblici. Voglio essere sincero: allo stato delle attuali tecnologie, non mi sembra che le energie rinnovabili siano in grado di offrire una risposta all'altezza delle necessita'. Inoltre, il settore da diverso tempo e' preda di nuovi gruppi industriali che speculano sugli incentivi statali messi a disposizione dai governi. Nessuna fonte energetica alternativa mi sembra potra' soddisfare le nostre esigenze se non si mettera' in discussione il modello di vita e di produzione attualmente dominante, accompagnando la conversione energetica alla riduzione dei consumi, ad interventi per l'efficienza energetica, a modelli di gestione democratica dell'energia prodotta. Quando penso a questi problemi, mi dico che sarebbe interessante vedere cosa sara' del nostro mondo tra cinquecento anni. Sempre che esista ancora.

 

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Numero 429 del 21 settembre 2011

 

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