Archivi. 28



 

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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XII)

Numero 28 del 28 gennaio 2011

 

In questo numero:

1. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte tredicesima)

2. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte quattordicesima)

 

1. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE TREDICESIMA)

[Riproponendo il seguente testo che gia' riproducemmo nel nostro notiziario nel 2005, ancora una volta ringraziamo di cuore Bruno Segre per averci permesso di riprodurre sul nostro foglio ampi stralci dal suo utilissimo libro Shoah, Il Saggiatore, Milano 2003, la cui lettura vivamente raccomandiamo. Riportando passi di esso abbiamo omesso tutte le note, ricchissime di informazioni e preziose di riflessioni, per le quali ovviamente rinviamo chi legge al testo integrale edito a stampa.

Bruno Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, ha studiato filosofia alla scuola di Antonio Banfi; si e' occupato di sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell'ambito del movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha insegnato in Svizzera dal 1964 al 1969; per oltre dieci anni ha fatto parte del Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano; per molti anni ha presieduto l'associazione italiana "Amici di Neve Shalom Wahat as-Salam"; nel quadro di un'intensa attivita' pubblicistica, ha dedicato contributi a vari aspetti e momenti della cultura e della storia degli ebrei; dirige la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet" (sito: www.keshet.it). Tra le opere di Bruno Segre: Gli ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003]

 

Omissione di soccorso. Gli "spettatori" come Ponzio Pilato

Quando, nell'analizzare i vari aspetti della Shoah, l'attenzione degli storici si sposta dalle gesta dei carnefici alle reazioni delle vittime e ai comportamenti degli "spettatori" (le varie Chiese cristiane, la Santa Sede, gli Alleati, gli Stati neutrali), il discorso storiografico cambia inequivocabilente registro. Nel considerare il ruolo degli "spettatori", infatti, gli storici devono tenere conto soprattutto di vicende che non ebbero luogo: atti non compiuti, interventi non operati, appelli non uditi o mai pronunciati. Si tratta di vicende che agli occhi degli studiosi si presentano, per cosi' dire, in negativo: il mancato asilo agli ebrei da parte di questo o quello Stato neutrale, la diffusa "omissione di soccorso", l'inspiegabile inerzia di grandi organizzazioni internazionali (come la Croce Rossa), il rifiuto delle aviazioni alleate di bombardare gli accessi ai campi di sterminio, le insufficienze o carenze di solidarieta' all'interno delle comunita' ebraiche, la quasi universale incomprensione della qualita' e delle dimensioni del massacro che andava compiendosi in Europa, e cosi' via. Ed e' praticamente inevitabile che, alla luce degli esiti catastrofici delle politiche di sterminio messe in atto, gli storici siano indotti a valutare tali vicende di inerzia o di indifferenza aderendo pregiudizialmente o al partito degli accusatori o a quello degli apologeti.

Come rammenta Michael R. Marrus, "c'e' un forte pericolo che lo storico applichi ai suoi oggetti di studio i criteri, i sistemi di valori e il punto di vista del presente, invece di quelli che appartenevano al periodo trattato". Ma, soprattutto, lo storico rischia di ricostruire gli eventi, o i "mancati eventi", sulla base di qualche ingegnoso teorema dietrologico o di supposizioni di comodo, confezionando ex post discorsi che obbediscono a un orientamento politico spesso non confessato, anche se ben riconoscibile.

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Decisamente diverso e' il caso di chi, vivendo gli eventi della Shoah in prima persona e trovandosi nel contempo a "scrivere storia", considerava il proprio stesso fare storiografia un'operazione investita di chiare valenze etico-politiche.

In questo senso l'esempio probabilmente piu' illustre e' quello dello storico ebreo Emmanuel Ringelblum (militante nella sinistra sionista), che la Gestapo fucilo' il 7 marzo 1944 insieme con la moglie, il figlio dodicenne e altri trentacinque ebrei che avevano cercato di nascondersi in una cantina tra le rovine del ghetto di Varsavia. Ringelblum animo' tra il 1940 e il 1943 un'articolata iniziativa clandestina di ricerca e raccolta multidisciplinare di materiale documentario (condotta con l'appellativo in codice di Oneg Shabbat, "le delizie del Sabato") destinata a costituire a futura memoria un "archivio" delle sofferenze, delle speranze, delle miserie, dell'agonia insomma, degli abitanti del ghetto di Varsavia e delle altre comunita' ebraiche polacche durante quel triennio infernale. Nella primavera del 1943, poco prima della completa distruzione d'ogni sorta di presenza ebraica in Polonia, il gruppo degli intellettuali attivi nell'operazione Oneg Shabbat nascose il materiale d'archivio e gli Appunti dal ghetto di Varsavia di Ringelblum in una ventina di bidoni di latta sigillati, che vennero seppelliti sotto le macerie del ghetto. Ritrovato dopo la fine della guerra, questo materiale rappresenta, nel quadro della storiografia della Shoah, la piu' remota documentazione disponibile che sia stata messa a punto con approccio e intenti di tipo scientifico.

Non v'e' aspetto saliente della vita del ghetto che Ringelblum non abbia registrato nei suoi Appunti. Gran parte del materiale da lui raccolto gli veniva da fonti esterne: amici politici, naturalmente, ma soprattutto profughi con i quali aveva modo di parlare durante il suo lavoro quotidiano, membri dei comitati di caseggiato, uomini dell'inviso Judenrat (il Consiglio ebraico), e persino gli universalmente odiati agenti della polizia ebraica. Pur senza dissimulare i propri sentimenti, Ringelblum si sforzava di scrivere nel modo piu' obiettivo: "tutta la verita' (...) per quanto amara (...), le nostre fotografie sono genuine, non ritoccate". Il tono che egli si imponeva era di "calma epica: la calma del cimitero". La sua visuale, amplissima, cercava di cogliere anche cio' che avveniva nel resto della Polonia: l'insorgere, il diffondersi e lo spegnersi del tifo; i diversi metodi di accattonaggio, dei bambini e degli adulti; le varie forme di contrabbando "sopra il Muro", tra il ghetto e "l'Altra Parte"; i comportamenti dei soldati tedeschi ricoverati negli ospedali situati nel ghetto; l'atteggiamento degli esattori delle tasse.

Di contro agli infiniti esempi di coraggio, di socialita', di immensa solidarieta' dei quali Ringelblum offre la testimonianza (come l'eroico sacrificio del dottor Janusz Korczak, immolatosi con i duecento orfani affidati alle sue cure), vi sono negli Appunti molte pagine dedicate a una tematica quanto mai dolorosa, quella del collaborazionismo e della corruzione degli Judenraete e della polizia ebraica: fenomeni che contribuirono a rendere ancora piu' miserabile, se possibile, l'esistenza dei morituri del ghetto.

"Gli ebrei delatori e servi della Gestapo" annotava Ringelblum nel maggio 1942 "si stanno dando da fare per trovarsi un alibi. Cercano in ogni modo di avere l'aria di persone di buon cuore, o di dimostrare, almeno, che sono veri ebrei, ebrei autentici, ebrei che pensano all'interesse comune". E ancora: "Gli agenti [della polizia ebraica] si sono distinti per la loro corruzione e immoralita'. Il vertice della perfidia, tuttavia, lo hanno raggiunto durante il trasferimento. Non hanno pronunciato una sola parola di protesta contro il disgustoso incarico di condurre i loro fratelli al macello. A questo lavoro lercio gli uomini della polizia erano psicologicamente preparati e l'hanno eseguito a puntino. (...) Da dove hanno tratto gli ebrei tanta violenza omicida? Quando mai, nella nostra storia, abbiamo prodotto tante centinaia di assassini, di uomini capaci di rapire i bimbi per la strada per caricarli sui carri e trascinarli alla Umschlagplatz? (...) Non c'e' ebreo di Varsavia, non c'e' donna o bambino che non possano citare atti di crudelta' inumana e di violenza da parte degli uomini della polizia ebraica. Sono atti che i sopravvissuti non dimenticheranno mai, atti che bisogna punire e saranno puniti".

Il 26 giugno 1942, Ringelblum scriveva: "Oggi e' stato un gran giorno per gli Oneg Shabbat. Stamattina, la radio inglese ha dato annuncio, in una trasmissione, della sorte che stanno subendo gli ebrei di Polonia. (...) Erano mesi che pativamo perche' il mondo era cieco e sordo alla nostra tragedia senza pari. (...) Ma adesso pare che finalmente i nostri interventi abbiano raggiunto lo scopo. (...) Oggi c'e' stata una trasmissione in cui si e' fatto il punto della situazione: si e' parlato di 700.000 ebrei uccisi in Polonia. (...) Il gruppo degli Oneg Shabbat ha assolto un grande compito storico. (...) Abbiamo inferto al nemico un fiero colpo. Abbiamo smascherato il suo disegno satanico di annientare la collettivita' ebraica di Polonia, un disegno che egli voleva attuare nel massimo silenzio. (...) E se l'Inghilterra manterra' la parola, ricorrendo ai formidabili bombardamenti a tappeto che ha minacciato, allora, forse, saremo salvi...".

A Varsavia dunque, alla fine di giugno del 1942, gli ebrei "sapevano" che gli Alleati anglo-americani "sapevano". Non v'e' dubbio che per i prigionieri del ghetto tale consapevolezza costituisse un appiglio, sia pure tenue, cui aggrapparsi: tant'e' che nelle frasi di Ringelblum che ho ora riferito si accennava ancora a qualche vaga probabilita' di salvezza, era avvertibile insomma un barlume di residua speranza. Ma proprio di li' a tre settimane i nazisti diedero inizio alla cosiddetta "grande azione", nel corso della quale trasferirono 310.000 ebrei da Varsavia alle camere a gas di Treblinka. E nei settantun giorni in cui la "grande azione" si consumo', non venne messo in campo dagli Alleati alcun intervento sicuramente dissuasivo. A Londra il governo non si commosse. Contro i tedeschi non vi furono attacchi tali da infliggere loro alcun "fiero colpo".

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In effetti, nessuna delle grandi potenze impegnate a combattere militarmente la Germania hitleriana riusci' a emergere dalla vicenda della Shoah con le mani pulite. Gli Alleati occidentali, i cui servizi di informazione non mancavano di trarre vantaggio dalle storie di morte che, con tetra regolarita', trapelavano dall'Europa sotto occupazione nazista, non fecero nulla per aiutare in pratica le vittime; addirittura, in piu' d'un caso, negarono agli ebrei ogni via di scampo. Pio XII, e' vero, tacque in pubblico ma diede, in modo coperto, un indiretto contributo a salvare la vita di qualche migliaio di ebrei consentendo che conventi, monasteri e parrocchie li ospitassero nell'ora di maggiore pericolo. Winston Churchill (1874-1965) e Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) si espressero ampiamente in pubblico, ma la loro politica consistette nell'abbandonare gli ebrei al loro destino.

In sede storica e' stato ormai dimostrato inequivocabilmente come le informazioni circa i massacri degli ebrei in Polonia e nell'Unione Sovietica giungessero in Inghilterra fin dall'inizio del 1942. Pubblicate dapprima da organi della stampa ebraica di Londra (come il "Jewish Chronicle" e la "Zionist Review"), queste notizie venivano riprese quasi subito anche dai giornali statunitensi e di altri paesi. In Europa circolavano in quei mesi informazioni il cui significato difficilmente poteva essere frainteso dai servizi segreti degli Alleati o dai responsabili della Croce Rossa internazionale. Una lettera datata 27 luglio 1942, indirizzata da Gisi Fleischmann del Consiglio ebraico di Bratislava al dottor Adolf Silberschein, direttore a Ginevra del ReliCo (il Comitato di soccorso del Congresso ebraico mondiale), informava che 60.000 ebrei slovacchi, comprendenti vecchi, donne incinte, bambini e lattanti, erano stati deportati nel Governatorato generale e nella parte orientale dell'Alta Slesia, cioe' ad Auschwitz. A cura di Silberschein, questo messaggio venne subito trasmesso alla Croce Rossa internazionale. Il 20 agosto il "New York Times", citando il quotidiano francese "Paris Soir" del giorno innanzi, segnalava che gli ebrei di Francia stavano per essere deportati nella Slesia polacca. Un rapporto inviato a Londra dalla Lega socialista ebraica polacca nel maggio 1942 riferiva per la prima volta che gli ebrei del distretto di Lodz venivano uccisi con i gas all'interno di un tipo di "autoveicolo speciale" presso il villaggio di Chelmno, in Polonia. Il periodico newyorkese "Jewish Frontier", riprendendo la notizia nel novembre 1942 con una descrizione piu' particolareggiata dell'eccidio di Chelmno, offriva precise informazioni circa le camere a gas mobili montate su autocarri. A seguito di queste notizie, i quotidiani ebraici di Palestina del 23 novembre uscirono listati a lutto.

Secondo Yehuda Bauer, "non vi possono essere dubbi circa il fatto che chiunque leggesse i giornali, ascoltasse la radio o leggesse i resoconti quotidiani della "Jewish Telegraphic Agency" potesse disporre di tutte le informazioni sugli ebrei europei necessarie per capire che era in corso un omicidio di massa". Cosi', finalmente consapevoli che la "soluzione finale" era una pesantissima realta', undici governi dell'alleanza antitedesca, affiancati anche dal Comitato nazionale francese facente capo al generale de Gaulle, emanarono il 17 dicembre 1942 una dichiarazione (pubblicata contemporaneamente a Washington, Londra e Mosca) che condannava la "bestiale politica di sterminio" delle "persone di razza ebraica", "eseguita a sangue freddo" dalle autorita' tedesche, e annunciava che i responsabili non sfuggiranno "alla sanzione". Tale dichiarazione era in gran parte frutto delle informazioni ricevute dalla Croce Rossa internazionale a Ginevra, il cui vicepresidente, Carl J. Burckhardt, in un colloquio con il diplomatico americano Paul C. Squire (7 novembre 1942), aveva ufficialmente dichiarato che i nazisti stavano effettivamente uccidendo gli ebrei. Ma ancora piu' importante fu il rapporto fatto uscire dalla Polonia dal corriere clandestino polacco Jan Karski, sul quale riferiro' piu' avanti.

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Dopo lunghe ricerche condotte negli archivi del Dipartimento di Stato di Washington, David S. Wyman giunse alla conclusione che l'"intelligence" statunitense era perfettamente informata dello sterminio sistematico degli ebrei europei fin dal novembre 1942. Ma nell'aprile del 1943, durante un convegno di funzionari britannici e americani, si decise ufficialmente di non fare nulla per fermare la Shoah e vennero scartati tutti i piani per mettere in salvo gli ebrei. Il Foreign Office e il Dipartimento di Stato temevano entrambi che il Terzo Reich fosse disposto a fermare le camere a gas, a svuotare i campi di concentramento e a lasciare che centinaia di migliaia (se non milioni) di superstiti ebrei emigrassero in Occidente, verso la liberta'. Non piu' tardi del 1943, il Foreign Office "rivelo' in via confidenziale" al Dipartimento di Stato il suo timore che, se si fossero esercitate troppe pressioni sulla Germania per liberare gli ebrei, sarebbe potuta succedere proprio una cosa del genere. E del resto il presidente Roosevelt, che pure era straordinariamente popolare presso la comunita' ebraica americana ma non era disposto a correre rischi per gli ebrei d'Europa, si astenne per ben tredici mesi dall'assumere alcuna concreta iniziativa atta a salvarli. Quando venne finalmente istituita un'agenzia per i rifugiati di guerra, con lo scopo di mettere in salvo gli ebrei e le altre vittime del nazismo, quest'organismo non pote' avvalersi di alcun serio appoggio da parte dell'amministrazione di Washington, ne' sul piano operativo ne' su quello finanziario. I fondi per il suo funzionamento vennero messi a disposizione per il 90 per cento da associazioni ebraiche.

Durante i tre anni e mezzo di guerra contro la Germania, i profughi ebrei ammessi negli Usa furono solo 21.000: un numero che non superava il 10 per cento delle gia' misere "quote nazionali" autorizzate. Nel 1944, quando non potevano esservi piu' dubbi circa l'annientamento sistematico degli ebrei europei, il ministero americano della Guerra ignoro' diversi appelli che chiedevano con disperazione che si bombardassero le camere a gas dei campi di sterminio, nonche' le linee ferroviarie lungo le quali centinaia di migliaia di persone erano portate a morire. Il pretesto che veniva addotto, secondo i documenti ufficiali dell'aviazione Usa, era che missioni di quel tipo avrebbero indebolito il sostegno aereo da assicurare ad altre operazioni gia' programmate. Oltre a cio', si affermava che l'aviazione americana non disponesse di basi adatte per consentire agli aerei di raggiungere quegli obiettivi. Tutto cio' non era vero, giacche' dal maggio 1944 la quindicesima squadriglia dell'aviazione Usa, di stanza nell'Italia meridionale, era perfettamente in grado di bombardare Auschwitz e gli altri campi: tant'e' che questi aerei riuscirono a colpire obiettivi militari a ottanta chilometri dai campi, spingendosi per ben due volte a soli otto chilometri dalle camere a gas.

Secondo Wyman il presidente Roosevelt, chiamato a fare i conti - all'indomani della grande depressione dei primi anni trenta - con l'isolazionismo e la profonda ostilita' degli americani nei confronti dell'immigrazione, paventava che un'ondata di profughi potesse mettere a repentaglio il consenso di cui godeva. Di qui la sua indifferenza nei confronti degli ebrei europei, sulla cui sorte era perfettamente informato: un'indifferenza che, a giudizio di Wyman, costitui' il piu' grave errore della sua presidenza.

Nella sua ricerca, Wyman chiama in causa la stessa comunita' ebraica americana: una collettivita' di ben cinque milioni di persone (di cui quasi la meta' concentrata a New York), che di fronte alla tragedia degli ebrei d'Europa si rivelo' sostanzialmente incapace di esercitare sul governo di Washington una pressione politica efficace. Divisi al proprio interno fra le diverse etnie, timorosi che un'eccessiva pressione su Roosevelt potesse dare luogo a reazioni improntate ad antisemitismo, gli ebrei americani non riuscirono a mettere in atto una mobilitazione vincente per il salvataggio dei correligionari europei, anche perche' gli sforzi in tale direzione trovarono un parziale ostacolo "interno" nella componente sionista, la quale, piu' compatta e organizzata delle altre, naturalmente tendeva a considerare prioritario l'impegno per la creazione dello Stato ebraico in Palestina.

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Negli anni cruciali della Shoah vi furono, in Palestina e altrove, gruppi ebraici che si diedero da fare per scoprire se all'interno delle politiche naziste di assassinio di massa non vi fosse qualche sorta di discontinuita', qualche crepa o anche solo qualche  smagliatura, penetrando nella quale si potesse bloccare la macchina omicida, favorire l'emigrazione di ebrei dai territori sotto controllo dei nazisti e in tal modo salvare vite, poche o tante, persino mediante il ricorso alla corruzione dei carnefici. Vite umane in cambio di soldi, insomma.

Gia' nel 1933, qualche mese dopo l'ascesa di Hitler al potere, diversi alti dirigenti sionisti si erano recati a Berlino per negoziare con i nazisti l'immigrazione in Palestina degli ebrei tedeschi e il trasferimento dei loro beni. A quell'epoca, tuttavia, l'accordo sulla haavarah (in ebraico "trasferimento") - cosi' chiamato anche nei documenti nazisti - era il frutto della complementarita' fra gli interessi del governo nazista e quelli del movimento sionista: il primo voleva cacciare gli ebrei dalla Germania, il secondo voleva accoglierli in Palestina. Non va pero' neppure taciuto il fatto che i desideri dei sionisti non coincidevano inizialmente con le aspirazioni degli ebrei tedeschi, la maggior parte dei quali avrebbe preferito, in quei primi anni, restare nel proprio paese.

Questo tipo d'operazione diede frutti piu' tardi, soprattutto  nel periodo 1938-1939. Sullo sfondo infatti della crescente tendenza degli inglesi a limitare, e persino ad arrestare, l'immigrazione ebraica in Palestina, fra singoli ebrei rappresentanti di organizzazioni sioniste, o soltanto di se stessi, ed esponenti nazisti quali Adolf Eichmann vi furono negoziati intesi a incrementare l'esodo di ebrei dalla Germania e dall'Austria e la loro immigrazione in Palestina. Per contro, a partire dall'invasione della Polonia, nel settembre 1939, sino al 1942 inoltrato - ossia durante il periodo del massimo predominio tedesco -, questa "compravendita di ebrei" (ma si trattava, in realta', della "collaborazione" tra un persecutore e gli esponenti di gruppi di vittime che tentavano con qualsiasi mezzo di sfuggire a una trappola mortale) incontro' ostacoli vieppiu' seri, giacche' da parte delle principali istituzioni naziste l'interesse ad avviare negoziati con ebrei si rivelava sempre piu' tenue. Le trattative, e' vero, non furono mai interrotte completamente, dato che il capo delle SS Heinrich Himmler intendeva servirsene per tenere aperto uno spiraglio a eventuali negoziati di pace separata con gli Alleati occidentali. Tuttavia, la politica del nazismo verso gli ebrei era ormai passata dall'espulsione coatta alla strategia dello sterminio, cosicche' molti fra i tentativi di salvataggio - in particolare quelli a favore delle comunita' ebraiche in Slovacchia e in Ungheria - andarono incontro a penosi fallimenti.

In questa materia singolarmente delicata e controversa affonda la sua sonda - con acutezza ma anche con molto equilibrio - Yehuda Bauer, docente di storia all'universita' di Gerusalemme e direttore della ricerca allo Yad Vashem (il museo della Shoah in Israele). Al termine di un'indagine lunga e approfondita, costui ha pubblicato una monografia che, attingendo a fonti mai prima consultate, riesce a riannodare in modo magistrale i fili di una vicenda complicatissima di "patti con il diavolo" e di oscuri intrighi diplomatici. Lo scenario entro cui si muove la storia che Bauer ricostruisce e' popolato da una folla di personaggi per la maggior parte ambigui che pero', pure tra una congerie di imbrogli, ricatti, furti e  tradimenti, ebbero talvolta il merito di mettere in salvo qualche migliaio di vite umane.

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Proprio nell'autunno del 1942, durante il quale i nazisti riuscirono a massacrare oltre un milione di ebrei, da Varsavia giunse prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti Jan Kozielewski, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Jan Karski, un membro dell'Ufficio di informazione e propaganda (Bip) dell'Esercito dell'interno (Ak), principale organizzazione della Resistenza polacca. Quest'emissario venne ricevuto a Londra da varie personalita', fra cui il ministro degli Esteri Anthony Eden (1897-1977). Oltre Atlantico incontra' il presidente Roosevelt. Fra i compiti affidatigli v'era anche la denuncia presso le autorita' alleate dello sterminio in atto degli ebrei polacchi.

Prima di iniziare l'avventuroso viaggio che doveva condurlo in Inghilterra, Karski riusci' a visitare il ghetto di Varsavia e il campo di sterminio di Belzec, dove si rese conto di persona di cio' che stava accadendo. "Mi recai nel ghetto due volte" raccontera' 45 anni piu' tardi. "Vidi scene spaventose, e non solo di terribile fame e miseria. Fui anche testimone delle 'cacce all'uomo', con i ragazzi della 'Hitlerjugend' che sparavano addosso alla folla che fuggiva terrorizzata. Sono scene che ricordero' per tutta la vita, mi sono rimaste davanti agli occhi per molti anni dopo la guerra".

Karski ebbe un drammatico colloquio anche con esponenti delle due maggiori organizzazioni politiche degli ebrei polacchi (il Bund e i sionisti). Costoro lo informarono che nel ghetto di Varsavia i giovani stavano progettando e preparandosi a dare vita a una rivolta. E inoltre lo invitarono a farsi portavoce, presso i governi dei paesi alleati, di una richiesta di misure eccezionali, quali: iniziative tese a informare la popolazione tedesca mediante la radio, il lancio di volantini e cosi' via, circa i delitti perpetrati dal governo nazista contro gli ebrei; un appello ufficiale al popolo tedesco perche' facesse pressione sul proprio governo per bloccare lo sterminio (e se cio' non fosse avvenuto, la responsabilita' delle stragi sarebbe ricaduta sull'intero popolo tedesco); una dichiarazione pubblica e ufficiale volta a informare la popolazione tedesca che, qualora lo sterminio non fosse stato fermato, i governi alleati avrebbero bombardato determinati obiettivi in Germania, attribuendo a tali bombardamenti il valore di atti di rappresaglia per i crimini commessi contro gli ebrei.

Della sua visita al Lager di  Belzec, Karski rammentava che gli ebrei vi venivano sterminati "con l'uso dei gas di scappamento dei motori smontati dai carri armati sovietici. Era un metodo assai poco efficace; i motori si surriscaldavano e il processo di uccisione durava molto a lungo. Accadeva che non si fosse ancora finito di liquidare un trasporto, che arrivava gia' quello successivo; in tal caso lo si rispediva a Sobibor, dove la macchina della morte funzionava molto meglio".

Nel rievocare i numerosi colloqui politici che ebbe a Londra, Karski ricordava che gli interlocutori gli avevano posto molte domande, nessuna delle quali, peraltro, concerneva in qualche modo la sorte degli ebrei. Soltanto Lord Selbourne, responsabile dei contatti con i movimenti di Resistenza nell'Europa occupata dai tedeschi, "mi dimostro' maggiore interesse. Mi disse tuttavia, molto francamente, che le misure eccezionali richieste dagli ebrei polacchi non erano realizzabili, poiche' l'obiettivo fondamentale degli Alleati era vincere la guerra. Tutto cio' che non aveva un significato strettamente militare doveva essere considerato come una 'side issue', una faccenda marginale".

W. D. Rubinstein riprende a oltre mezzo secolo di distanza il medesimo punto di vista che Lord Selbourne aveva espresso, parlando con Jan Karski, nei mesi a cavallo tra i 1942 e il 1943. Rubinstein presenta la politica degli Alleati, e in particolare quella della Gran Bretagna a fronte dell'eccidio degli ebrei d'Europa, in termini decisamente apologetici. Per porre un termine alla follia della Shoah, si domanda quest'autore, che altro avrebbero potuto davvero fare i britannici se non concentrare ogni proprio sforzo nell'abbattere il regime hitleriano con le armi? Rubinstein ritiene che, a partire dal 1933, la comunita' ebraica inglese abbia fatto tutto il possibile per allertare e mobilitare l'opinione pubblica britannica contro i nazisti e per sottrarre allo sterminio, mediante una politica accorta, cospicue masse di ebrei che rischiavano il massacro. E' vero che, dopo lo scoppio della guerra, la maggior parte delle comunita' ebraiche d'Europa si trovo' chiusa in una morsa letale, ma su un totale di 525.000 ebrei tedeschi, circa 350.000 riuscirono a salvarsi prima che i nazisti bloccassero (nel maggio 1941) l'emigrazione; e di questi profughi dalla Germania (nonche' dai territori ex austriaci ed ex cecoslovacchi), 56.000 trovarono rifugio in Gran Bretagna, e poco piu' di 70.000 riuscirono in qualche modo a raggiungere la Palestina.

Rubinstein ricorda correttamente che, proprio a seguito di vigorose pressioni del governo di Londra, la Spagna franchista (un paese che, almeno sulla carta, si considerava alleato di Hitler e Mussolini) consenti' a oltre 35.000 ebrei, che da ogni parte d'Europa fuggivano verso occidente, di attraversare il proprio territorio; ma su un altro versante l'autore sembra sottovalutare i pesantissimi riflessi che, sugli esiti della Shoah, ebbero le drastiche limitazioni imposte dagli inglesi all'immigrazione ebraica verso la Palestina: quella Palestina che, dopo la prima guerra mondiale, la Societa' delle Nazioni aveva affidato in mandato alla Gran Bretagna e che, alla fine degli anni trenta, molti ebrei consideravano ormai come l'ultimo rifugio possibile. E' vero che il "Libro bianco" sulla Palestina del maggio 1939, con il quale gli inglesi imponevano severe restrizioni all'immigrazione degli ebrei, fu dettato al governo di Londra dall'esigenza di mantenere la calma nel sovreccitato mondo arabo alla vigilia di una guerra a tutto campo contro i nazisti. Ma non v'e' dubbio che, nel contesto globale dell'impegno bellico degli inglesi, e anche degli americani, il salvataggio e l'accoglienza degli ebrei europei non ebbero mai la dignita' di obiettivi prioritari. Per tutta la durata del conflitto, inglesi e americani dimostrarono una grande perizia nel rimandare qualsiasi serio tentativo di soccorso. E cosi' la sorte degli ebrei venne sistematicamente sacrificata sull'altare di esigenze strategiche considerate piu' importanti.

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In conclusione, ritengo che vada riconosciuto a Yehuda Bauer il merito di avere chiarito, con parole pacate ma graffianti, la natura della trappola entro cui  rimasero mortalmente schiacciati, durante la seconda guerra mondiale, gli ebrei d'Europa. Nell'epilogo del suo magistrale Ebrei in vendita? troviamo il seguente passaggio: "Gli Alleati non capirono veramente mai la politica antiebraica dei nazisti. (...) Pensavano che l'antisemitismo nazista fosse uno strumento per conquistare il potere e mantenerlo: non si resero conto che, per loro, esso non era un mezzo, bensi' uno scopo.  Si creo' cosi' uno squilibrio: i nazisti vedevano negli ebrei i propri principali nemici, quelli che stavano dietro a tutti gli altri e li controllavano; gli Alleati non compresero, e forse non potevano comprendere, che quella demonizzazione, puramente illusoria, che trasformava una minoranza impotente e indifesa in una minaccia globale, era presa sul serio. Per loro gli ebrei erano solo una seccatura, e per gli inglesi una minaccia ai propri interessi nazionali in Palestina e Medio Oriente. La storia si prese la sua vendetta: gli inglesi non persero solo la Palestina, ma tutto l'Impero".

 

2. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE QUATTORDICESIMA)

 

L'ambiguita' del bene

Nella scia del dramma di Rolf Hochhuth Der Stellvertreter (Il vicario, in italiano) (1962-1963) e delle aspre polemiche attorno ai rapporti tra la Chiesa cattolica e la Germania nazista che ne seguirono, lo storico israeliano Saul Friedlaender pubblico' nel 1967 un'affascinante ricerca sul personaggio che Hochhuth aveva messo in scena all'apertura del dramma stesso: il trentasettenne ufficiale delle SS Kurt Gerstein, arruolatosi per "vedere cio' che accadeva" nell'inferno hitleriano e poterne informare il mondo. Friedlaender, che vi aveva gia' fatto cenno brevemente nel suo Pio XII e il Terzo Reich, dedico' il nuovo libro a un piu' profondo lavoro di scandaglio nella vita di quest'inquieto e contraddittorio spirito religioso: una vita sconcertante, sotto molti aspetti indecifrabile. "Attraverso la vita di un uomo" scriveva Friedlaender "cercheremo di penetrare i dilemmi di un'intera societa'".

Figlio di un funzionario prussiano all'antica (un Landgerichtspraesident, cioe' un presidente di tribunale, ossequiente per tradizione all'autorita'), Gerstein nacque a Muenster (Westfalia) nel 1905. Crebbe a Saarbruecken, Halberstadt e Neu Ruppin presso Berlino, si laureo' in ingegneria mineraria e dal dicembre 1936 all'inizio della guerra  segui' studi regolari di medicina. Fervente evangelico, trascorse la giovinezza nei circoli e nei campeggi delle organizzazioni protestanti fino a che, nel 1933, il nazismo giunse al potere. Suo padre, un profugo espulso dalla Saar dai francesi, saluto' con entusiasmo l'avvento di Hitler, nel quale vide il riparatore delle ingiustizie di Versailles.

Anche il giovane Gerstein fu attratto dalle promesse rinnovatrici del nazismo. Si iscrisse alla Nsdap il 2 maggio 1933, ma un anno e mezzo dopo era gia' pentito del suo gesto. Attivissimo nell'organizzazione dei "Bibelkreise" (circoli biblici), si trovo' ben presto in contrasto con l'arroganza totalitaria del regime. Agli inizi del 1935, la Gioventu' hitleriana aveva organizzato a Hagen la rappresentazione di un lavoro teatrale di Edmund Kiss, d'ispirazione anticristiana, intitolato Wittekind. Durante lo spettacolo Gerstein si alzo' in piedi e grido' qualcosa in difesa del cristianesimo. Un gruppo di fanatici gli balzo' addosso e lo tempesto' di pugni. Fu allontanato dalla sala con il volto sanguinante e qualche dente in meno.

Con il passare degli anni, la sua opposizione al regime prese slancio. Accusato d'avere preparato e, in larga misura, realizzato nel luglio 1936 la diffusione massiccia di opuscoli proibiti della Chiesa confessante, venne incarcerato una prima volta il 26 settembre 1936 per quattro settimane e interdetto dai pubblici uffici. Incolpato con altre sei persone di preparare una restaurazione della monarchia, fu arrestato nuovamente dalla Gestapo il 14 luglio 1938 e internato nel campo di concentramento di Welzheim. Ne usci' sei settimane dopo, con la diffida a non partecipare a pubbliche manifestazioni.

Nel settembre 1939 il governo hitleriano decreto' segretamente l'eliminazione dei malati di mente e dei portatori di handicap psichici (con il cosiddetto "programma di eutanasia", o "Azione T4"): un'iniziativa cui il regime fu costretto poi a rinunziare, almeno "ufficialmente",  nell'agosto 1941, soprattutto sotto la spinta della vasta risonanza che ebbero in Germania le prediche di vibrante condanna pronunziate dal vescovo protestante del Wuerttemberg, Theophil Wurm (19 marzo 1940), dal vescovo cattolico di Berlino, Konrad von Preysing (9 marzo 1941) e  dal vescovo cattolico di Muenster, conte Clemens August von Galen (3 agosto 1941). Dal gennaio all'agosto 1940, nelle apposite "stazioni di eutanasia" (di Grafeneck, Hadamar e di altri luoghi) dotate delle prime camere a gas funzionanti a ossido di carbonio, vennero uccisi piu' di settantamila malati di mente, tra i quali anche una cognata di Gerstein, Berta Ebeling. "Fu allora che decisi di entrare nelle Waffen SS" egli dichiarera' nel giugno1945 "per condurre una battaglia attiva e conoscere meglio gli obiettivi dei nazisti e i loro segreti".

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Arruolato il 10 marzo 1941 non tardo', grazie alla sua elevata competenza tecnica e alla preparazione medica, a fare una rapida carriera quale responsabile della disinfezione nell'Ufficio del capo dell'igiene delle Waffen SS, di stanza a Berlino. Cosi' fu assegnato alla costruzione di apparecchi per la disinfezione e di filtri per l'acqua potabile destinata alle truppe e ai campi di prigionia e di concentramento.

E finalmente nell'agosto 1942 arrivo' il giorno tanto atteso. Gerstein ricevette l'ordine riservatissimo di curare personalmente il trasporto di 100 chilogrammi di acido prussico da una fabbrica situata a Kolin, in Boemia, verso una localita' segreta della Polonia, Belzec, nei pressi di Lublino. Qui conobbe il comandante di brigata Odilo Globocnik, capo delle SS e della polizia nella regione di Lublino, che gli disse: "E' un affare dei piu' segreti, anzi il piu' segreto di tutti. Chi ne parlera' sara' fucilato. Proprio ieri due chiacchieroni sono stati fucilati". Globocnik aggiunse che, fra gli incarichi di Gerstein, v'era anche quello di "migliorare il servizio delle nostre camere a gas, che funzionano per mezzo dello scappamento di un motore Diesel. Occorre un gas piu' tossico e di piu' rapido effetto, quale l'acido prussico. (...) Il Fuehrer ordina di accelerare tutta l'operazione!". Il 17 agosto 1942, Gerstein si trovo' per la prima volta dinanzi a un campo di sterminio. Piu' tardi ebbe a rammentare: "Quel giorno non si videro morti, ma un odore pestilenziale ammorbava tutta la zona".

L'indomani mattina, alle 7, assistette all'arrivo da Leopoli di 45 vagoni ferroviari con un carico di seimila ebrei, 1.450 gia' morti al loro arrivo. Duecento ucraini incaricati di questo servizio aprirono le porte e con fruste di cuoio cacciarono gli ebrei fuori dalle vetture. Un altoparlante dava le istruzioni. I prigionieri dovevano spogliarsi, consegnare occhiali, dentiere, orologi, oggetti di valore, denaro, le donne e le ragazze dovevano farsi tagliare i capelli nella baracca del "parrucchiere", e poi avviarsi, tutti completamente nudi, verso le cosiddette "docce e inalazioni" (cosi' venivano denotate le camere a gas). In un angolo, un robusto SS ripeteva: una volta dentro, "dovete solo respirare molto profondo, questa inalazione fortifica i polmoni, e' un mezzo per evitare le malattie contagiose".

Gerstein e' annichilito. Che puo' fare? "Molti recitano le loro preghiere (...). Io prego con loro. Mi stringo in un angolo e imploro il mio e il loro Dio. Come avrei voluto entrare con loro nelle camere a gas, come mi sarebbe stato caro morire condividendo la loro sorte! Si sarebbe trovato nelle camere a gas un ufficiale delle SS in uniforme: si sarebbe creduto a un incidente, e l'affare sarebbe stato archiviato".

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In quel preciso frangente Gerstein maturo' la decisione di sabotare la macchina di morte del nazismo (con un pretesto fece in modo che il suo quintale di acido prussico non fosse utilizzato), e di informare il mondo sulle atrocita' dei campi di sterminio.

Di ritorno da Belzec, il 20 agosto 1942, per una circostanza del tutto fortuita incontro' sul treno Varsavia-Berlino il barone von Otter, a quel tempo segretario della legazione svedese. "Tutti gli scompartimenti erano occupati; passammo la notte nel corridoio. La', sotto un'impressione tanto recente, gli raccontai ogni cosa, con la preghiera di riferire tutto al suo governo e agli Alleati. Mi chiese una referenza sul mio conto. Gli detti percio' l'indirizzo a Berlino del vescovo evangelico dottor Otto Dibelius, capo dell'opposizione protestante contro il nazismo". Il barone von Otter, allora trentacinquenne, si mise in contatto con Otto Dibelius; redasse inoltre un rapporto dettagliato del suo colloquio con Gerstein, e lo trasmise ai suoi superiori. Ma in quel momento il governo di Stoccolma era timoroso di irritare Hitler (il documento stilato da von Otter fu reso pubblico solo tre anni dopo, il 7 agosto 1945, quando Gerstein era gia' morto), anche se la Svezia non chiuse mai le sue frontiere agli ebrei che cercavano rifugio nel suo territorio.

Gerstein non si limito' a tenersi in relazione con von Otter (che incontro' una seconda volta a Berlino). Tento' di mettersi in contatto anche con monsignor Cesare Orsenigo, nunzio apostolico a Berlino. "Mi si domando' se ero soldato. Allora mi si rifiuto' qualunque colloquio e mi si chiese di lasciar stare la legazione di Sua Santita'. Riferisco cio' per mostrare quanto fosse difficile anche a un tedesco che fosse nemico acerrimo dei nazisti arrivare a screditare quel governo criminale...". Informo' ancora la famiglia del pastore Martin Niemoeller; l'addetto stampa della legazione svizzera a Berlino, dottor Hochstrasser; il dottor Winter, consigliere giuridico del vescovo cattolico di Berlino, Konrad von Preysing ("perche' trasmettesse le mie informazioni al vescovo e al papa"); il dottor Otto Dibelius. Fece anche in modo d'avvertire il governo inglese, che pero' era gia' informato attraverso i dispacci fatti pervenire, fin dall'agosto 1942, dal Bureau del Congresso mondiale ebraico di Ginevra. I governi alleati proclamarono che, dopo la vittoria, avrebbero punito i criminali, ma rifiutarono di adottare misure immediate, per esempio di favorire l'esodo degli ebrei dalla Bulgaria verso la Palestina.

Gerstein riteneva che gli Alleati avrebbero dovuto lanciare sulle citta' tedesche manifestini che informassero la popolazione dello sterminio degli ebrei, ma la proposta non fu accolta. La Svizzera, con una circolare confidenziale del Consiglio federale del 13 agosto 1942, ordinava di ricacciare chiunque varcasse clandestinamente il confine, tranne i prigionieri di guerra evasi, i disertori e i profughi politici accertati. "Coloro che sono fuggiti solo a motivo della loro razza, per esempio gli ebrei" si precisava "non devono essere considerati rifugiati politici". La Finlandia invece, informata da Gerstein (secondo una testimonainza resa dalla moglie Elfriede il 16 febbraio 1961), rifiuto' di consegnare i suoi ebrei all'alleato tedesco.

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Costretto a condurre una doppia vita, di esemplare ufficiale delle SS nell'apparenza, ma di antinazista convinto nelle sue attivita' segrete, Gerstein non tardo' a dare segni di un'intensa depressione. Dietro le sembianze di un tipo decisamente "germanico", biondo, alto (un metro e 86) e capace di parlare come "loro", con il tono giusto, si nascondeva un uomo malato, torturato dall'ansieta' e ben presto al limite delle sue forze. Voleva informare il maggior numero di persone, ma nello stesso tempo sapeva che, se fosse stato scoperto, sarebbe stato torturato e ucciso. Non poteva rivelare il suo segreto al padre, nazista convinto, doveva nasconderlo in larghissima misura anche alla moglie per evitare che, scoperto lui, fosse perseguitata la sua famiglia. Verso la fine della guerra, viveva nel continuo terrore d'essere assassinato dalle SS e appena pote', il 22 aprile 1945, si consegno' alle truppe francesi di stanza a Reutlingen, raccontando tutto.

Dapprima fu trattato con riguardo, ma poi, il 5 luglio, fu incarcerato come criminale di guerra "per assassinii e complicita'" nella prigione militare parigina di Cherche-Midi. Il 25 luglio 1945 fu trovato morto nella sua cella. La tesi ufficiale, sostenuta dalla polizia francese, fu che si trattasse di suicidio. Ma le lettere e i documenti che avebbero dovuto avvalorare questa tesi non vennero mai rinvenuti. Qualcuno sostenne che Gerstein, un personaggio decisamente scomodo, fosse stato ucciso dagli altri prigionieri nazisti.

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Il rapporto che egli scrisse dopo il suo arresto il 22 aprile 1945 (il cosiddetto Gerstein Bericht), destinato agli ufficiali francesi cui si era consegnato, pur con qualche inesattezza rimane una delle testimonianze piu' importanti sulle atrocita' naziste nei campi della morte.

"Il vero dramma di Gerstein" scrive in conclusione del suo libro Friedlaender "e' stato quello di trovarsi solo nella sua azione. Il silenzio e la completa passivita' dei tedeschi, l'assenza di qualunque reazione da parte degli Alleati e degli Stati neutrali, o per dir meglio dell'intero Occidente cristiano di fronte allo sterminio degli ebrei, fanno di Gerstein un personaggio altamente tragico, chiuso in un cerchio invalicabile di solitudine e di incomprensione: come i suoi appelli erano stati senza eco, cosi' il suo sacrificio apparve 'inutile' e divenne 'colpevole'".

(segue)

 

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