Voci e volti della nonviolenza. 376



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 376 del 22 settembre 2009

In questo numero:
1. Guglielmo Minervini ricorda Tonino Bello (2003)
2. Maurizio De Paoli ricorda Raffaele Bensi (1998)
3. Sergio Zavoli ricorda Giuseppe Dossetti (1997)
4. Elena Cristina Bolla ricorda Nazareno Fabbretti (1998)

1. MEMORIA. GUGLIELMO MINERVINI RICORDA TONINO BELLO (2003)
[Dal mensile "Jesus", n. 4, aprile 2003, col titolo "Monsignor Tonino Bello.
L'uomo del Concilio" e il sommario "Strano a dirsi, il noto 'vescovo di
strada' ebbe una brutta impressione al suo primo approccio con il Vaticano
II. Una volta pero' che il Concilio ebbe aperto la via del dialogo con il
mondo, pochi la seguirono anima e corpo come lui. Oggi, pero', a dieci anni
dalla scomparsa, la profetica figura di don Tonino rischia di finire
rinchiusa nei cliche'"]

Nella terza ora del 20 aprile di dieci anni fa, don Tonino scioglieva il suo
soffio in un ultimo dono di speranza: "Vedrete come, fra poco, la fioritura
della primavera spirituale inondera' il mondo perche' andiamo verso momenti
splendidi della storia. Non andiamo verso la catastrofe. Ricordatevelo.
Queste non sono allucinazioni di uno che delira per la febbre. No, non e'
vero, andiamo in alto. Andiamo verso punti risolutori della storia, verso il
punto omega, cioe' la zeta, ovvero l'ultima lettera dell'alfabeto, non verso
la fine ma verso l'inizio".
Lo sguardo, nonostante il dolore e la sofferenza, le amarezze e le
sconfitte, si chiudeva riconciliato col mondo, con una fresca fiducia nel
futuro. Don Tonino era proprio cosi'. Oggi continua ad attrarre per la
fragranza evangelica che promana dalla sua testimonianza. La sua scomparsa
non ha fatto che dilatarne la popolarita'. In numerosi hanno continuato a
conoscerlo soprattutto attraverso i suoi scritti, nei quali hanno assaporato
una parola inconsueta e sorprendente, lirica ma nel contempo irrequieta,
tersa ma ancora provocatoria.
E' stato studiato, descritto, raccontato. Frammenti della sua complessa
vicenda umana e pastorale sono rimbalzati dovunque, in forme talvolta anche
disordinate, parziali o semplicemente aneddotiche. La sua fama addirittura
sembra essere avviata alla consacrazione ufficiale. Cosi' oggi circolano
tanti don Tonino non sempre congruenti tra loro. Il don Tonino sacerdote, il
vescovo, il terziario francescano, il pacifista, il salentino, il
molfettese, lo studioso mariano, il mistico, lo scrittore, il poeta, il
visionario, l'impegnato, l'eccentrico, e cosi' via. Ciascuno allarga il lato
dal quale ha fatto conoscenza di don Tonino, e tende a rappresentarlo come
unico ed esclusivo. Il risultato e', negli ultimi tempi, la tendenza a
costringere l'eccedente complessita' di don Tonino dentro una tradizionale
cornice devozionistica, meno problematica e piu' immediata da comunicare.
Don Tonino e' uno di quelli che hanno preso sul serio il Vangelo e che hanno
creduto fino in fondo alla possibilita' della sequela. La sua scelta, pero',
non si risolve solo in una personalissima esperienza di fede. Egli avverte
l'urgenza di incarnare la sua storia personale nella storia della fine del
Novecento e nella geografia dove la sua vicenda umana si consuma, nel finis
terrae dello stivale e, quindi, dell'Occidente. In questo movimento di
incarnazione in un "qui" e "ora", per dirla alla Primo Levi, sente di
interpretare la svolta segnata dal Concilio Vaticano II.
Quello sguardo di fiducia verso le cose degli uomini, che non si spegnera'
nemmeno nella sua ora ultima, trae origine proprio dal battesimo
presbiterale che don Tonino ha nel Concilio. Quando il suo vescovo e
maestro, monsignor Ruotolo (un modello di sacerdote del Sud, "una vita
povera" e "in mezzo alla gente", un prete che "profumava di popolo") lo
chiama con se', come esperto teologo, ai lavori del Concilio, don Tonino non
era che un giovane prete di 28 anni, intellettualmente vivace e di
provincia.
Al Concilio don Tonino non ci resta molto tempo, pero'. Solo una manciata di
giorni. Non regge molto a quella geometria di "monsignori con la sottana
paonazza, con la fascia paonazza, con le calze paonazze" che il suo occhio
acuto e gioviale coglie in "curioso contrasto con altri preti stranieri che,
sotto una sottanina trasparente che arriva a mezza gamba, lasciano emergere
mezzo metro di calzoni e un paio di scarpe smisurate". L'insofferenza per i
formalismi e le ritualita' prevale sulla sua curiosita'. Ma quella seppur
breve esperienza e' cosi' profonda da lasciare una traccia indeledibile. Per
la verita' cade in un terreno gia' fertile, perche' solcato, sui temi
sociali, dalla formazione nella scuola bolognese del cardinale Lercaro. Il
mondo non e' la parte impura della creazione, il suo lato "selvatico e non
divino", un impiccio per la Chiesa, un ripostiglio di errori. Al contrario
e' il luogo dove la creazione trae compimento, la storia di salvezza si
dispiega e Dio rinnova la sua alleanza con l'uomo.
Quando il Concilio rovescia gli atteggiamenti verso il mondo contemporaneo
per attrezzarsi di fronte ai profondissimi mutamenti in atto, don Tonino era
gia' pronto, la sua sensibilita' gia' matura. Appena a margine del Concilio
scrive: "Forse la poverta' che il mondo d'oggi attende dalla Chiesa e'
soprattutto poverta' culturale, e cioe' la purezza evangelica del suo
messaggio e la fiducia nella ragione umana". La fede si apre alla storia non
per attendere arcigna l'apocalisse o il trionfo del male ma per farsi
viandante, compagna di strada che sostiene la ricerca di senso. Quest'idea
si conficca non solo nella testa ma anche nel cuore. E feconda di ragioni la
sua cultura di meridionale e salentino, inguaribilmente intrisa di
semplicita', apertura e accoglienza.
Allora, la domanda cui don Tonino ha, con la sua testimonianza, inteso
rispondere e': l'immagine di Chiesa, cioe' di fede, di sacerdozio, di
laicato, disegnata dal Concilio, e' realizzabile? E' possibile tradurre,
anche nella pastorale, la scelta di una Chiesa che non si isoli ne' si
sovrapponga al mondo per "prendere da esso le distanze, e tanto meno per
giudicarlo e per condannarlo" ma che semplicemente gli si faccia accanto
"per comprenderlo, per amarlo, per farne propri, per quanto e' possibile e
sempre criticamente, le istanze e i valori"?
E' questo il filo rosso che congiunge i molteplici aspetti delle sue
attivita' e dei suoi interessi ma anche le distinte stagioni della sua vita.
E' questo soprattutto il tema generatore con cui si possono leggere gli
intensi dieci anni di episcopato vissuti a Molfetta come anche la
trascinante pagina della presidenza nazionale di Pax Christi.
Don Tonino accetta di divenire vescovo, peraltro dopo ripetute
sollecitazioni, perche' intende giocarsi la sfida della costruzione, da
pastore appunto, di una Chiesa di strada, partecipe delle cose degli uomini
e delle donne, una Chiesa, come quella disegnata dal Concilio, con al centro
non se stessa ma l'annuncio da offrire al mondo.
Don Tonino raccoglie questo suo manifesto di rinnovamento della Chiesa nel
piano pastorale "Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi", la
sua unica opera compiuta e sistematica. La stessa genesi del testo
costituisce un'assoluta novita'. Invece di somministrare il suo pensiero
alla diocesi, don Tonino disegna un complesso itinerario attraverso il quale
matura una vera e propria "scrittura collettiva" del piano pastorale. Le
decine di matrici da ciclostile che furono perforate nelle afose notti
dell'estate del 1984 (era vescovo da poco piu' di un anno) si trasformarono,
per la prima volta, in un decisivo timone restituito nelle mani del suo
popolo per orientare la rotta del proprio futuro.
Specie da vescovo e' stato poco nei ranghi. Scende in piazza con gli operai,
lotta con i marittimi, accoglie sfrattati e prostitute in episcopio,
solidarizza con i profughi albanesi, s'indebita (se stesso, non la diocesi)
fino all'ultimo capello per fondare comunita' d'accoglienza, gira di notte
nelle zone d'ombra della citta' raccogliendo ladri, ubriachi e sbandati,
litiga con gli amministratori pubblici, denuncia l'impianto clientelare
delle politiche sociali. Dinanzi all'omicidio del sindaco mette sul banco
degli imputati le responsabilita' collettive della citta' piuttosto che
quelle soggettive del "mostro", promuove petizioni per lo sviluppo civile e
non militare del suo territorio, raccoglie firme degli altri vescovi per
impedire di rovesciare la Puglia "da arca di pace in un arco di guerra",
sostiene leggi per l'inasprimento dei controlli e dei vincoli sul commercio
delle armi made in Italy.
Ancora: scrive a parlamentari, ministri, presidenti del consiglio per
ricordare lo sbarramento insormontabile posto dall'articolo 11 della
Costituzione alla guerra ("l'Italia svergogna la guerra"). E, infine, dona
la sofferenza del suo cancro a una Sarajevo violentata dalle bombe e dalla
guerra. Un folle di Dio, secondo alcuni. Un'ira di Dio, secondo molti altri.
Don Tonino e' stato l'ultimo riformatore sociale del Mezzogiorno. Ha
infranto le regole del buoncostume episcopale, frantumato le sbarre
invisibili dell'esclusione sociale, sovvertito l'ordine dei valori
dominanti. Come tutti i grandi riformatori, ha misurato la fatica del
cambiamento prima sui problemi concreti, strutturali, quelli che si toccano:
la casa, la disoccupazione, il disagio, le criminalita', lo sviluppo. La
polvere e la strada. E poi sulle cose che non si toccano e, quindi, forse le
piu' dure: le culture, le relazioni, lo scetticismo, le coscienze.
Cosa ricordare, a dieci anni dalla sua morte? La domanda, in questo tempo di
cesure, passaggi e, dunque, bilanci, e' ancora piu' pertinente perche' e'
sul giudizio attorno al Concilio che si giocano il futuro e le prospettive
della Chiesa. Allora, la figura di don Tonino diviene un ricchissimo scrigno
di stimoli e di indicazioni per sostenere il piu' ampio cammino di una fede
che non cada nella tentazione di ergersi maestra sulla realta', di
rinchiudersi nella protezione di alcuni spazi mondani, ma continui ad
alimentare l'ansia di cambiamento con le armi della profezia e della
verita'.
Il mondo di oggi ha ancora la febbre. Oscilla ancora tra la misura della
giustizia e della convivenza e quella dell'esclusione e della guerra. Ma il
bisogno piu' intimo e' di una coscienza. Di una voce morale profonda. Una
Chiesa cosi' come lui l'ha sognata: "Come Chiesa non siamo chiamati a
entrare in competizione, non dobbiamo rivestirci dei segni del potere. Noi
abbiamo il potere dei segni, non i segni del potere... Abbiamo invece il
potere di collocare dei segni sulla strada a scorrimento veloce su cui
cammina la gente, segni di condivisione, di poverta'".
*
Postilla.
Don Tonino Bello era nato ad Alessano (Lecce) il 18 marzo 1935. Ordinato
prete nel '57, esercito' il ministero anzitutto come animatore in seminario
e come parroco. Nel 1982 fu nominato vescovo di Molfetta, e dal 1985 divenne
presidente nazionale di Pax Christi.
Per il decimo anniversario della scomparsa di don Tonino, i suoi "eredi"
hanno organizzato due convegni di studio. Il primo, ad Assisi dal 4 al 6
aprile, e' promosso dalla Fondazione intitolata all'ex vescovo di Molfetta e
dalla Biblioteca della Pro civitate christiana, ed e' dedicato a "Don Tonino
Bello, costruttore di speranza nella Chiesa italiana di fine Novecento". La
seconda iniziativa e' il convegno nazionale "Don Tonino, un vescovo secondo
Concilio", organizzato dal 24 al 26 aprile a Molfetta dalla diocesi, dalla
Fondazione, da Pax Christi, dalla Facolta' teologica di Molfetta e dalle
edizioni La Meridiana. Intervengono, tra gli altri, monsignor Giancarlo
Bregantini, vescovo di Locri, e l'ex presidente della Repubblica Scalfaro.

2. MEMORIA. MAURIZIO DE PAOLI RICORDA RAFFAELE BENSI (1998)
[Dal mensile "Jesus", n. 3, marzo 1998, col titolo "Don Raffaele Bensi.
Padre e maestro" e il sommario "'E' stato come un vescovo nella nostra
citta'. Un punto luminoso di riferimento'. Per il cardinale Silvano
Piovanelli, arcivescovo di Firenze, non c'e' dubbio: senza don Raffaele
Bensi, padre spirituale, educatore e maestro che ha solcato da protagonista
discreto piu' di sessant'anni di vita della Chiesa fiorentina, 'non saremmo
quello che siamo'"]

Sfogliare la storia della diocesi di Firenze degli ultimi settant'anni
significa imbattersi in straordinarie figure di grande spessore profetico:
Giorgio La Pira, don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci, padre David
Maria Turoldo, per citarne solo alcune. Sono questi i protagonisti di cui
tutti conoscono il nome. Ma c'e' stato un sacerdote, un protagonista
nascosto e meno noto ai piu', che ha percorso come un fiume carsico
sessantasei anni della storia della Chiesa fiorentina lasciando un'impronta
che resta ancora oggi indelebile in migliaia di cristiani e nel tessuto
religioso, ma anche sociale del capoluogo toscano.
Si tratta di don Raffaele Bensi, del quale - nell'introduzione ad un libro
che ne raccoglie la biografia, curato da Raffaello Torricelli - l'attuale
arcivescovo di Firenze, cardinale Silvano Piovanelli, scrive: "Don Bensi e'
stato come un vescovo nella nostra citta'. Un punto luminoso di riferimento.
Un sacramento personale di Gesu' che accoglie e perdona. Un padre sempre
pronto ad ascoltarti, a farti coraggio e a metterti sulle orme del Cristo
con le ali dell'entusiasmo".
Originario di Scandicci, dov'era nato l'11 febbraio 1896, don Bensi e'
ordinato sacerdote il 6 aprile 1919. Pochi mesi dopo sceglie quello che
sara' lo scenario del suo ministero pastorale per tutta la sua vita: diventa
curato a San Michele Visdomini, in via dei Servi, a pochi passi dalla
cattedrale e da Palazzo Pucci, sede dell'Azione cattolica, della Fuci, della
stampa cattolica e di altre associazioni laicali. Da quel momento, don Bensi
diventa il padre spirituale di migliaia di giovani fiorentini a cui
trasmette l'entusiasmo della sua fede coerente, forte e genuina, maturata
all'ombra di quello che possiamo considerare il motto del suo servizio
pastorale: "L'uomo si agita e Dio lo conduce". E sara' sempre con questa
totale disponibilita' a seguire la voce del Dio che guida la storia che
assumera' via via gli incarichi che gli verranno affidati: nel 1922
assistente dell'associazione "Italia Nova", un'organizzazione che si occupa
della formazione religiosa degli studenti delle scuole medie superiori,
fondata da padre Giovannozzi e da don Giulio Facibeni; dal 1922 al 1932
dirige le pagine fiorentine di "Avvenire". Quindi da' vita alla San Vincenzo
de' Paoli giovanile, nella quale si mette subito in evidenza un giovane
professore siciliano trapiantato a Firenze, Giorgio La Pira. Don Bensi fonda
quindi il Circolo per i militari, punto di riferimento per molti giovani
provenienti da tutta Italia per il servizio di leva.
Dal 1926, e per quarant'anni, don Bensi e' anche insegnante di religione:
oltre trentacinquemila gli studenti che lo hanno come maestro di
spiritualita' e testimone di fede sui banchi della scuola. Una delle sue
alunne, Nicchia Furian Ruffo, in un libro di ricordi, lo descrive cosi':
"Don Bensi, il nostro padre di religione, era un prete diverso da tutti gli
altri: malgrado i capelli bianchi, pareva proprio un ragazzo come noi. 'In
Paradiso', diceva, 'faremo le capriole con gli angeli'. Ci educava alla
liberta', all'amicizia, all'amore, ci insegnava la ricerca dell'essenza
delle cose, dell'essere e non del parere. Nei nostri incontri-scontri con
lui, non ci dava mai la quiete dell'anima, anzi spesso ce la toglieva".
Grazie a questo suo rigore e a questa sua capacita', tutta toscana, di dire
la verita' senza sconti ma con rispetto per l'interlocutore, don Bensi
diventa punto di riferimento anche per molti sacerdoti che a Firenze sono i
protagonisti di quella stagione inquieta che trovera' poi nel Concilio il
suo punto di riferimento. A conferma dell'autorevolezza morale di don Bensi
c'e' l'episodio che Raffaello Torricelli rivela nel suo libro: all'epoca del
caso dell'Isolotto, che divise drammaticamente la Chiesa fiorentina, i
vescovi della Toscana pensano che ci sia un uomo in grado di comporre il
dissidio: don Bensi. In Vaticano si dicono d'accordo, e per don Raffaele e'
pronta la nomina a vescovo ausiliare. Ma quel Dio che "conduce l'uomo che si
agita" decide diversamente. Non se ne fa nulla. E don Bensi continua la sua
opera di padre, maestro, testimone, fino al momento della morte, il Giovedi'
santo del 1985, quando se ne va dopo essersi preoccupato di non lasciare
dietro di se' documenti, lettere, carte che ne perpetuino la memoria.
Tutto inutile: Firenze non l'ha dimenticato. Ne' potrebbe, se e' vero quanto
scrive ancora il cardinale Piovanelli: "Senza di lui, don Bensi, non saremmo
quello che siamo. Per mezzo di lui Dio si e' fatto prossimo alla nostra
vita, con forza paterna, con tenerezza materna".

3. MEMORIA. SERGIO ZAVOLI RICORDA GIUSEPPE DOSSETTI (1997)
[Dal mensile "Jesus", n. 3, marzo 1997, col titolo "La lezione di Dossetti
cittadino e persona" e il sommario "Dossetti tenne unite storia ed etica,
politica e morale, accettando che la regola personale trasferisse la sua
forza nella sfera comune. A due mesi dalla morte, lo hanno ricordato al San
Fedele di Milano il fratello Ermanno, il cardinale Martini, Sorge, Monaco e
Zavoli"]

La vicenda di Dossetti cittadino e Dossetti persona ha il suo esordio
storico quando i cattolici, nella riconquistata liberta', consolidano, dopo
vent'anni di fascismo, la scelta democratica di Sturzo. Il radiomessaggio
per il Natale del 1944, pronunciato da un Papa al tempo stesso ieratico e
controverso, conteso tra la prudenza della storia e il passo della profezia,
ha del resto sancito che un sistema democratico e' lo strumento di governo
meglio corrispondente alla realta' della persona e alle sue esigenze di
partecipazione politica. Dossetti vi coglie quella parola a lui sacra,
persona, e ne fa una sorta di divisa civile.
Quanto all'altra espressione del Pontefice, partecipazione politica, essa
s'incardina nelle due linee di tendenza dei cattolici decisi a scendere in
campo: mentre De Gasperi interpreta subito la necessita' di dar vita a una
libera iniziativa economica da cui far nascere un Paese al di fuori dei
dirigismi statali e delle logiche collettivistiche, Dossetti propende per
una liberta' politica cui va invece affiancata una economia anche statale in
grado di garantire la tutela delle categorie subalterne, certamente piu'
deboli rispetto ai potere contrattuale delle grandi forze economiche nei
loro assetti proprietari, con la loro grande incidenza sulle decisioni
politiche generali.
E' appena il '45 quando scrive: "La Democrazia cristiana non vuole e non
puo' essere un movimento conservatore, ma vuole essere un movimento tutto
permeato dalla convinzione che tra l'ideologia e l'esperienza del
liberalismo capitalista e l'esperienza, se non l'ideologia, dei nuovi grandi
movimenti anticapitalistici, la piu' radicalmente anticristiana non e' la
seconda, ma la prima". Non saprei dire quanto da queste parole traspaia, e
faccia sua, applicandola all'ideologia capitalistica, la distinzione
stabilita da Maritain tra fascismo e comunismo: mentre il primo, cioe',
andava considerato una forza estranea agli ideali cristiani in quanto
sceglieva e perseguiva un ideale di Stato-guida, che permea di se' tutto,
dagli ordinamenti ai cittadini e alla persona, il secondo e' visto anche
come una sorta di "eresia cristiana", cioe' un sistema sociale che
lontanamente richiama originarie ispirazioni cristiane, seppure esprimendole
in forme tali da stravolgerne il senso piu' vero e profondo.
Non spetterebbe a me introdurre, o semplicemente sfiorare, questa specifica
premessa politica se non intendessi ricavarne il senso stesso
dell'identita', come si diceva all'inizio, di Dossetti cittadino e persona.
Di qui passa certamente il suo percorso civile vero e proprio, ma qui
s'incontra soprattutto la qualita' di una scelta piu' radicale e profonda,
che ne ha fatto un testimone scomodo - per quanto fu raro, esigente,
talvolta persino mal tollerato - di cio' che si puo' dare alla politica
senza farlo venir meno alla morale, al pragmatismo senza sottrarlo alla
coerenza, al cittadino, per l'appunto, senza privarlo della persona.
Chi non ha in mente questa fedelta' senza incrinature, laica e insieme
religiosa, al primato dell'uomo, quello della sua intrinseca dignita' e
liberta' personale, stentera' a farsi largo negli aspetti non di rado
impervi della testimonianza di don Giuseppe Dossetti. Non a caso, al culmine
dell'inscindibilita', non della separazione, del suo doppio agire, egli fa
sempre coincidere l'unicum cui si ispira affrontando la politica come il
momento in cui ci si fa responsabili personalmente, in quanto individui, di
cio' che scegliamo per l'orientamento di noi stessi e nei confronti degli
altri. Ecco, allora, la base su cui poggiare tutto il peso, appunto, della
scelta: il principio costituzionale dell'eguaglianza tra i cittadini, da
perseguire attraverso la ricerca e la messa a punto di un modello di
statualita' sottratta, insieme, alle vischiosita' della conservazione
borghese e a una giustizia sociale i cui costi gravino sulle liberta'
personali; e cio' nell'assoluta preminenza dei diritti primari, inalienabili
di una persona partecipe della speranza collettiva - laica, ragionata,
organizzata dalla politica dentro la storia -, ma nella intangibile
responsabilita' della risposta individuale, la quale sfugge a ogni
contingenza e interesse temporale.
Si e' detto di Dossetti che aveva i principali nemici, per paradosso, nelle
sue idee. Certo, il voler trarre da una vocazione personale di tanto rigore
e originalita' un patrimonio di principi da comunicare a masse di cittadini
comportava un'impresa tra virtuosa e pedagogica tale da infastidire quel
bisogno di duttilita', tolleranza, laicismo che la gran parte di un popolo
appena rinato alla democrazia coltivava nel limbo della propria coscienza
civile; in cui, per legittimarsi anche spiritualmente, bastava esibire
l'alibi del "non possiamo non dirci cristiani" di crociana memoria; tale da
indispettire chiunque, a cominciare dai cattolici, intendeva la lotta
politica come un esercizio il cui fondamento era la pregiudiziale
anticomunista e da tenere in sospetto una parte della stessa sinistra, la
quale si sentiva come insidiata nella sua dimensione piu' difficile, quella
dell'autocritica filosofica e pragmatica.
Questi condizionamenti non giovarono all'immagine pubblica di Dossetti, ma
al tempo stesso ne esaltarono la dimensione, per dir cosi', piu' sottesa e
invisibile. Dossetti, tra gli uomini che hanno rifondato lo spirito
democratico del nostro Paese, e' quello che ha reso piu' tangibile e
manifesto il significato morale del far politica, alzandolo a un tale
livello di esemplarita' da essere, non di rado, irriconoscibile. Mi rendo
conto che, cosi' dicendo, si fa torto al politico; ma quanto gli si toglie
nella sfera pubblica, alla sfera pubblica ritorna proprio attraverso quella
privazione. E' il paradosso-Dossetti: e' la sua storia e la sua coscienza.
Oggi non dichiareremmo i duri, controversi, ma alti meriti di Mani pulite se
la Repubblica avesse nelle sue carni le cicatrici morali lasciate dai
processi che uomini come Giuseppe Dossetti aprirono, ogni giorno, per tutto
il tempo del loro impegno pubblico.
Pochi eletti di quegli anni, e di anni piu' recenti, hanno uniformato i
propri gesti al monito di quella lezione. Egli ne fu a tal punto consapevole
che prese sul proprio corpo, e assunse nel proprio animo, il segno di
contraddizione che egli stesso aveva finito per rappresentare. E quando
comincio' a capire che la parola, passando per strade e piazze votate ormai
alla facilita' degli slogan, all'intelligenza pratica e quindi alla
convenienza del giorno per giorno, non suscitava piu' le risposte che
avrebbe voluto udire, la porto' nel deserto e ne rimase attento, paziente,
incorruttibile custode.
Aveva cosi' descritto il senso di quel viaggio fruttuoso: "Il mio sacerdozio
e' nato... da uno sbocco credo coerente con la vita che gia' conducevo, una
vita consacrata, nell'intenzione e nella forma, al dominio dell'orazione
sull'azione... tutta orientata a diffondere tra i laici cristiani una
formazione che stesse a monte del pensiero socio-politico e che lo sanasse
continuamente dai suoi pericoli: perche' il pensiero politico e'
continuamente insidiato da grandi pericoli". E subito dopo, come per
ricomporre nella sua fondamentale unita' il senso dell'altra scelta, dice:
"Noi non siamo monaci, conduciamo una vita molto simile, o quasi
integralmente eguale alla vita dei monaci, pero' negli istituti monastici
tradizionali non mi riconosco... La penso unita a un vescovo, sottomessa
alla sua volonta' e inserita nel presbiterio diocesano".
Nasceva, qui, la necessita' di radicare in un certo luogo - con una
testimonianza tangibile anche per i significati di memoria e di monito che
cio' finiva per assumere - la motivazione centrale, ultima, definitiva della
scelta di Monte Sole come punto di riferimento e di irradiazione verso la
Palestina, l'Oriente, le cento terre, le cento patrie, le cento paci
promesse. Monte Sole e' una sorta di vulcano alla rovescia dove si e'
compiuta una violenza senza tempo, in quanto consumata davanti al giudizio
di Dio. E' quindi il luogo della preghiera continua, di una richiesta di
perdono senza soste.
Qui Dossetti vuole un radicamento e si conforma a una regola. Egli e' "uomo
delle regole". Viene da una cultura giuridica, sa che la civilta' del
diritto si fonda sul "contratto". Si tratta di regolare quel "contratto".
Nella Costituzione, come nel Concilio, come nella stessa "piccola regola"
che si dara' il monastero di Monte Sole. Un "contratto" che rimetta insieme,
anzitutto, storia ed etica, politica e morale. Non si tratta di trasferire
nella vita civile quello che ricavi dalla vita religiosa, non e'
integralismo, ne' zelo, ne' mera virtu': si tratta di rivivere la dimensione
pubblica secondo il principio della condivisione della solidarieta',
accettando che la regola personale trasferisca la sua forza nella sfera
comune.
C'e' un fascino di Dossetti che sta, per me, anche in questo enigma, o
mistero: quel continuo contemplare e agire, e quell'indomito mettere in
crisi cio' a cui pensa per sottoporlo alla prova di cio' in cui crede. Un
esempio: egli vedeva in lontananza una grande crisi religiosa, anche di
cristianita', forse per l'insorgere di culture pragmatiche, portatrici di
grandi doni quotidiani, dispensatrici di straordinari sollievi terreni,
annunciatrici di enormi risorse pratiche, ma cosi' spesso ingannevoli e
persino alienanti. Anche di qui il suo sguardo all'Oriente, in cerca di una
grande scaturigine di religiosita', da attingere in un grembo vasto,
limpido, universale. Il mistero, per me, sta nell'aver visto queste
distanze, nell'aver concepito quel viaggio, dal suo fedele, piccolo stare a
Monteveglio, centro della sua intoccabile, appartata totalita'.
"Non e' possibile purificarsi da solo o da soli; purificarsi si', ma
insieme; separarsi per non sporcarsi e' la sporcizia piu' grande". Sono
parole di Tolstoj e don Giuseppe le sa a memoria, tanto che avverte il
bisogno di dire: "Si puo' convenire che chi si facesse monaco per questo
sarebbe in partenza un monaco fallito. Perche', al contrario, il vero monaco
e' tale, e lo diventa sempre piu', in quanto piu' sente in se' e su di se'
l'impurita' e il peccato proprio e di tutto il mondo, in una solidarieta'
sempre sofferta e sempre ricomposta, momento per momento, e unicamente,
nella fiducia in una pura fede".
La sua vita e' stata giudicata, per come l'ha vissuta nella sua parte
finale, una fuga dal mondo. Dossetti stesso annotava: "E qualcuno (anche tra
cattolici e persino teologi) parla della vita monastica non solo come di
fuga dal mondo, ma persino dalla Chiesa". Qui trovo una possibile
conclusione, in queste parole: "Al termine di ogni via c'e' la scoperta
dell'Amore del Padre per noi in Cristo; c'e' l'unico e definitivo Mistero,
il Mistero di Gesu' di Nazareth, figlio di Dio e figlio di Maria, che con la
sua croce e la sua morte volontaria, gloriosa e vivificante, e' divenuto il
primogenito dai morti ed ha aperto per noi la via della Risurrezione".
Qui Dossetti chiude il suo libro. Morira' il 15 dicembre del '96. Credenti e
non credenti parteciperanno alle esequie in gran numero. Intorno alla bara,
per un tratto della cerimonia funebre, si alterneranno vecchi partigiani con
i loro nipoti e pronipoti, i nuovi bambini della comunita'. Laicamente
destinati a capire, io spero, i valori anche civili che lo spirito -
Dossetti ce lo dimostra - sa mettere nella storia.
Una storia - e' sotto gli occhi di tutti - cui serve un non piu' rimandabile
ritorno alle regole attraverso la prima delle regole: la ricongiunzione del
cittadino con la persona, della politica con la moralita', dello Stato con
gli interessi generali della popolazione. E sempre nell'idea che l'uomo e',
continuamente, il destino di se stesso.

4. MEMORIA. ELENA CRISTINA BOLLA RICORDA NAZARENO FABBRETTI (1998)
[Dal mensile "Jesus", n. 11, novembre 1998, col titolo "Nazareno Fabbretti.
Giullare e profeta" e il sommario "A un anno dalla morte, resta vivissimo il
ricordo di un cristiano difficile da inquadrare in categorie troppo rigide:
giornalista, attore, predicatore, frate francescano, amico dei premi Nobel
come dei mendicanti, Fabbretti rimase fedele al suo stile gioioso di
testimoniare una fede autentica fino all'ultimo dei suoi giorni terreni"]

E' passato un anno, fra Nazareno, e ancora non ti decidi ad essere morto.
Gli amici ti si radunano intorno, come al solito. Parliamo di te ogni
giorno. Si ripubblica il tuo primo libro. Le commemorazioni si moltiplicano.
Ma quale Fabbretti commemorare? Lo scrittore? Il giornalista? Il sacerdote?
Il francescano? Il profeta? L'anticipatore del Concilio? L'amico di
Mazzolari, Milani, Turoldo? Il giullare di Dio dei mass media?
Nazareno dai mille volti. Ne avevi uno per ogni amico. Con ciascuno sapevi
essere te stesso e diverso. E a ciascuno sapevi dare l'impressione di essere
l'unico, il piu' caro, l'insostituibile, il depositario delle tue confidenze
piu' vere. Ora che ci ritroviamo insieme a confrontare i ricordi, ne esce un
ritratto sconcertante. "E io che credevo di conoscerlo...", e' il ritornello
che ha sostituito l'altro: "Nessuno lo conosceva meglio di me".
Nessuno ti conoscera' mai davvero, Gino Nazareno Fabbretti. A chi ti
definiva la sua luce, rispondevi: "Ho sempre amato anche le zone d'ombra".
Su di esse hai scelto di tacere. E tra i rimasti, per amor della tua
memoria, e' passata la consegna del silenzio. Percio', una ricostruzione
"storica" del personaggio Fabbretti e' praticamente impossibile.
Personaggio? Personaggi. Sei stato uno splendido attore, fra Nazareno.
Possiamo ben dirtelo, ora che un Papa ex attore non scandalizza piu'
nessuno. Della tua vita hai fatto un'ininterrotta "sacra rappresentazione",
sul pulpito, al tavolo del conferenziere, nei salotti, nelle chiese, davanti
alle telecamere. Un attore metodo Stanislavskij come il tuo san Francesco,
giullare e profeta della comunicazione di massa: tu vivevi, tu eri ogni
volta il tuo personaggio. Anzi, i tuoi personaggi. Non a caso raccontavi che
Macario, tuo "penitente" e amicone, voleva convincerti a cambiar mestiere e
a seguirlo sul palcoscenico.
Lo raccontavi. Ma sara' vero? Affabulatore inguaribile, trasfiguravi
ricordi, avvenimenti, nomi, luoghi, incontri, persone. Di un fatto di
cronaca, di un episodio storico, eri capace di sfornare tre o quattro
versioni differenti. Anche per iscritto: eterno leitmotiv dei nostri
bisticci. Ti fidavi della tua formidabile memoria, ma spesso la memoria
diventava fantasia. "Ma perche' non controlli le fonti?", ti urlavamo a ogni
svarione un po' troppo grosso. E tu: "Sono anch'io una fonte". "Si', di
guai...".
Ovviamente, della tua "sacra rappresentazione" eri fonte, sceneggiatore e
regista. Eri tutti i personaggi, e tutti erano te. Lo scrittore di successo,
l'umorista feroce, il frate mondano, l'amico dei Vip. Ma anche il ragazzo
ombroso e malinconico, il francescano radicale, il sacerdote accorato e
appassionato. E tanti altri. La tua migliore interpretazione - da Oscar - e'
comunque la riedizione moderna del personaggio di san Francesco. Agli occhi
del mondo, nessuno, in questo secolo, ha saputo come te incarnarne tutti gli
aspetti, tutti i carismi. Altri ne ha imitato la poverta', o la letizia, o
la sofferenza (pensiamo a padre Pio): ma tu l'hai "recitato" a tutto tondo,
dalle giullarate all'ascesi, dalla poverta' alle sante provocazioni, dalla
letizia alle stigmate. Anche il tuo molteplice "ministero della parola" reca
l'impronta fondante di quel grandissimo comunicatore che fu san Francesco.
E li', davvero, tu eri re. Capace di buttar giu' un articolo in cinque
minuti, d'improvvisare discorsi per un'ora sugli argomenti piu' ardui, senza
preparazione. Pistoiese, conterraneo di Petrocchi (Dizionario della lingua
italiana), incantavi tutti con i tuoi aggettivi, il ritmo della frase,
l'accattivante cadenza toscana, rimasta intatta negli anni. Nelle querele
(quante!) ti difendevi da solo e magari finivi amico degli avvocati di parte
avversa. Sei entrato nelle antologie con i tuoi cinquanta e piu' libri
(nemmeno tu sapevi quanti) e nella memoria di tutti per quelle tue
trascinanti prediche dal tono appassionato e dalla sintassi incredibilmente
perfetta. Eppure i tuoi manoscritti erano un disastro. "Sei il peggior
dattilografo d'Italia", ti urlavamo al telefono. Ma tu ridevi, ben sapendo
che noi, tuoi "segretari", pronti a rimediare ai refusi, eravamo legione. Ti
perdonavamo anche questa. Ti perdonavamo tutto, ahime'. Forse non ci siamo
accorti in tempo che quelle distrazioni, quelle dimenticanze,
preannunciavano insidiose il male che ti avrebbe distrutto lentamente, con
inesorabile ironica crudelta'.
Ti definivi "handicappato felice", alludendo al tuo piede zoppo. "Purche'
non sia zoppo lo spirito", ribattevamo citando Montaigne. Parole
agghiaccianti, con il senno di poi. Quando il cuore comincio' a tradirti, ci
scherzavamo su: "L'hai usato troppo". Ma c'era poco da scherzare. Il cuore
alimenta anche il cervello, e non per metafora. E tu lo capivi. Forse e'
stata questa la tua croce piu' pesante. Se ti salverai, Nazareno, se ti sei
salvato, molto ti e' stato certamente perdonato per come hai accettato
quella croce. Da grande.
Finche' e' stato possibile, ti abbiamo fatto quadrato intorno, noi amici.
Perche' il mondo non sapesse che Nazareno Fabbretti stava perdendo la
memoria, la facolta' di scrivere, la parola, le idee. E tu hai continuato a
lavorare fino all'ultimo, negli intervalli di coscienza normale. Tu eri
morto, e ancora usciva sulle riviste il tuo ultimo articolo.
Morto? No, non siamo d'accordo. "Fra tre mesi nessuno si ricordera' di lui",
pontificavano i profeti di sventura. E invece e' passato un anno e non e'
cambiato nulla. Tu continui a riunirci intorno a te come prima, e a regnare
sulla "corte" dei tuoi amici. Quelli che erano lontani si sono avvicinati.
Quelli che non si conoscevano si sono incontrati. Quelli che si davano del
lei si danno del tu. E ogni giorno ne spuntano di nuovi. Gli amici non ti
bastano mai. Gli amici non ti bastavano mai. Forse ti sei fatto frate anche
per questo: un solo amore umano non ti avrebbe appagato. Tu eri di quelli
che "scelgono tutto". Come, era il tuo segreto, e anche il tuo dramma. Per
quanto tu potessi gettare interamente il tuo cuore in un sogno, in un'idea,
in una creatura, te ne restava sempre d'avanzo. E allora il saio, a braccia
aperte, abbracciava il mondo. Ma a quale prezzo, lo sa solo Dio. Non
giudichiamo. Ti faranno teologo dell'amicizia, in concorrenza con Aelredo di
Rievaulx.
A chi ti dava del teologo rispondevi con un insulto e un lampo di malizia
negli occhi beige. Eppure hai predicato per tutta la vita questa "teologia
dell'amicizia", ad alto e basso livello, ai premi Nobel e a chi non apriva
mai un tuo libro. Ti capivano anche gli analfabeti. Dicevi amicizia - il tuo
"ottavo sacramento" - ma intendevi amore. Era questo il tuo modo di
veicolare la carita', che e' amore, che e' Dio. Con l'intellettuale, con il
mendicante, con il signore, con il bambino, con il religioso, con la donna,
sapevi essere l'amico perfetto. E forse anche il perfetto nemico.
Nemici non te ne mancano, anche da morto. Le tue provocazioni, le tue
"eresie" ormai sono ortodossia postconciliare, ma c'e' ancora chi ti
brucerebbe in effigie, per piu' di un motivo. E non si possono proprio
dargli tutti i torti. Tu pero' ti "vendichi" andando ancora a caccia di
amici. Cosi' si resta vivi. Non riposare in pace, fra Nazareno.
*
Postilla
Nazareno Fabbretti, dei Frati minori, era nato a Iano, presso Pistoia, nel
1920. Ordinato sacerdote nel 1943, dopo un'esperienza nell'insegnamento si
dedico' al giornalismo e all'attivita' di scrittore. Segui' i lavori del
Concilio come inviato del quotidiano torinese "La gazzetta del popolo". A
Genova, dove visse dal 1949 al 1963, fu tra i fondatori del periodico "Il
gallo".
Nel 1963 padre Fabbretti lascio' Genova, su sollecitazione del cardinale
Siri, contrario alle sue "aperture progressiste", e si trasferi' a Voghera,
continuando l'attivita' di giornalista, scrittore e conferenziere.
Nell'agosto dello scorso anno, a seguito di un aggravarsi dei disturbi
cardiaci di cui soffriva da tempo, venne ricoverato a Voghera e quindi, l'8
settembre, all'Istituto Don Gnocchi di Salice Terme, dove mori' all'alba di
sabato 25 ottobre. E' sepolto nel cimitero di Voghera, tra la gente comune,
com'era suo desiderio.
Sono molti i libri scritti da padre Nazareno Fabbretti, ad iniziare dal
primo, Nessuno, che risale al 1953, fino a Preghiera della cicala,
pubblicato nel 1994 dalla San Paolo, editore per il quale, nel 1987, aveva
scritto I vescovi di Roma, breve e vivace storia dei Papi, con la prefazione
di Enzo Biagi.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 376 del 22 settembre 2009

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