Minime. 835



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 835 del 29 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Le stragi in Afghanistan e in Pakistan
2. Giampaolo Cadalanu: Amnesty accusa
3. Umberto de Giovannangeli: Amnesty accusa
4. Dacia Maraini: Aung San Suu Kyi
5. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento
6. Alcuni estratti da "Shock Economy" di Naomi Klein (parte seconda)
7. Benedetto Vecchi presenta "La modernita' in transito" di Francesco
Antonelli
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. LE STRAGI IN AFGHANISTAN E IN PAKISTAN

Ci riguardano le stragi in Afghanistan e in Pakistan.
Sono le stragi di cui consiste la guerra terrorista e stragista cui le forze
armate italiane partecipano in violazione del diritto internazionale e della
legalita' costituzionale.
Sono le stragi che alimentano il terrorismo su scala mondiale.
Sono le stragi che favoriscono la mafia e il totalitarismo, il razzismo e
l'imperialismo, la gangsterizzazione delle relazioni internazionali, il
maschilismo che e' sempre disumanizzante e assassino.
La guerra e' gia' il fascismo.
Gli eserciti e le armi sono sempre nemici dell'umanita'.
Solo la pace salva le vite.
La nonviolenza e' la via.

2. UNA SOLA UMANITA'. GIAMPAOLO CADALANU: AMNESTY ACCUSA
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 28 maggio 2009 col titolo "Migranti,
Amnesty accusa l'Italia" e il sommario "I respingimenti violano i diritti
umani. Con la crisi economica nuovi abusi. E' espressione del disprezzo
verso le persone disperate che cercano aiuto"]

Gli abusi colpiscono sempre i deboli: non piu' solo il dissidente politico,
l'oppositore scomodo, la comunita' ribelle, ma il diseredato a stomaco
vuoto, il membro di una minoranza discriminata, e naturalmente il migrante
in cerca di una vita migliore. La denuncia di Amnesty International e'
chiarissima: fra i diritti umani oggi si deve intendere anche quello alla
sopravvivenza. E non e' accettabile fare come l'Italia, che chiude le porte
ai bisognosi e ignora gli impegni internazionali gia' presi.
Per Christine Weise, presidente di Amnesty Italia, i respingimenti sono
"espressione di un disprezzo dei diritti umani e delle persone disperate che
cercano aiuto". E l'organizzazione considera l'Italia responsabile di quello
che succedera' ai migranti ricacciati nei campi profughi della Libia, da cui
arrivano rapporti di tortura e maltrattamenti.
Ma dal rapporto 2009 di Amnesty si capisce che le "porte chiuse" dell'Italia
sono solo l'ultimo tassello di un mosaico dove i diritti umani sono
indeboliti, declassati o persino ignorati di fronte a preoccupazioni piu'
prosaiche. Ieri era l'emergenza terrorismo, oggi e' la recessione economica:
ma la tutela della dignita' umana, dice Amnesty, deve venire prima dei
bilanci delle banche e delle preoccupazioni artificiose sulla sicurezza.
Invece dietro la crisi si nascondono abusi come "la negazione alle comunita'
indigene del diritto a una vita dignitosa, gli sgomberi forzati di centinaia
di migliaia di persone, l'aumento dei prezzi che ha provocato fame e
malattie, il persistere di violenza e discriminazione delle donne". Per
questo serve una mobilitazione generale, che Amnesty lancia con lo slogan
"Io pretendo dignita'".
C'e' un passo avanti significativo: in discussione non ci sono solo le
politiche repressive dei regimi, ma lo stesso modello di sviluppo
iperliberista che ha spinto verso il baratro il sistema economico
dell'intero pianeta. Ma e' un passo inevitabile se, come dice Daniela
Carboni, responsabile delle campagne, "la poverta' non e' frutto del caso,
e' il risultato di decisioni umane. Ma non e' una condizione accettabile,
ne' immutabile".

3. UNA SOLA UMANITA'. UMBERTO DE GIOVANNANGELI: AMNESTY ACCUSA
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 28 maggio 2009 col titolo "Amnesty accusa:
l'Italia calpesta i diritti umani" e il sommario "Un anno fa aveva lanciato
l'allarme rispetto alla china razzista verso la quale l'Italia si stava
dirigendo. Un anno dopo, Amnesty International documenta nel suo rapporto
una deriva inquietante"]

"Un anno fa lanciammo un preciso allarme rispetto alla china razzista verso
la quale l'Italia si stava dirigendo. A un anno di distanza siamo di fronte
a una realta' ormai definita: l'Italia e' precipitata nell'insicurezza e sta
mettendo a repentaglio l'incolumita' di molte persone, oltre alla propria
reputazione nel panorama internazionale". E ancora: "Come spesso accade,
l'accanimento discriminatorio verso un gruppo piccolo, debole e
marginalizzato come i rom e' stato solo l'inizio. Ha rappresentato il centro
della spirale di disprezzo per i diritti umani che si e' andata poi
allargando e oggi colpisce sempre piu' persone". Un j'accuse possente. Una
denuncia argomentata.
*
Quadro a tinte fosche
Un grido d'allarme che va raccolto. A lanciarlo e' Christine Weise,
presidente della sezione italiana di Amnesty International. L'occasione e'
la presentazione del "Rapporto 2009. La situazione dei diritti umani nel
mondo" e della campagna "Io pretendo dignita'" lanciata a livello mondiale
da Amnesty.
Dagli sgomberi ai respingimenti in mare: l'Italia sotto accusa. Rileva la
presidente di Amnesty Italia: "Gli sgomberi delle comunita' rom e sinti sono
proseguiti in diverse citta'. Al contempo, queste minoranze sono state
vittime di aggressioni verbali e fisiche di stampo razzista da parte di
privati cittadini. Ciononostante, la criminalizzazione dei gruppi minoritari
continua ad essere un ingrediente di ogni campagna elettorale, costi quel
che costi". Il rapporto di Amnesty supporta con dati, testimonianze, questa
grave denuncia. "Le riforme delle norme sull'immigrazione - osserva Weise -
procedono senza una precisa pianificazione ma dense di misure atte a colpire
negativamente oggi aspetto della vita delle persone migranti. La norma
palesemente discriminatoria, che distingue la gravita' di un reato a seconda
che sia commesso da un italiano o da un immigrato irregolare, e' gia' legge
dello Stato. E in questi giorni - ricorda la presidente di Amnesty Italia -
e' davanti al Senato una proposta che allontanerebbe i migranti irregolari
da ogni istituzione o edificio statale: dalle scuole, dagli ospedali, dagli
uffici anagrafe comunali. Questo effetto perverso seguirebbe
all'introduzione del reato di ingresso e permanenza irregolare ed e' solo un
elemento della situazione di allontanamento dei migranti irregolari dalla
societa', davanti a cui ci troveremmo in caso di approvazione dell'ultima
parte del cosiddetto 'pacchetto sicurezza'".
*
Mare d'ingiustizia
I respingimenti. Altro dossier caldissimo.
"Cio' che accade ora nel Mediterraneo - spiega la presidente di Amnesty
Italia - sta tenendo alla larga da questa e da altre garanzie le persone che
sono in fuga dalla tortura e dalla persecuzione. Nel corso di questo mese
almeno 500 persone, tra cui richiedenti asilo provenienti dalla Somalia e
dall'Eritrea, sono state fermate in alto mare e portate a forza in Libia, un
Paese che non ha una procedura di asilo".
Non basta. Denuncia ancora Amnesty: "In altri casi - quello della nave Pinar
e' il piu' noto - i migranti e i richiedenti asilo sono stati lasciati in
alto mare, in attesa che l'Italia si attardasse in disquisizioni di diritto
marittimo con Malta, dimenticando una regola fondamentale che la gente di
mare conosce senza doverla imparare: salvare vite umane e' un imperativo
assoluto e ha priorita' su ogni altra considerazione". Avverte Amnesty: "Il
rinvio forzato in Libia e' una politica estrema che si pone nel campo della
responsabilita' degli Stati per illeciti internazionali. Su questo punto -
rimarca Christine Weise - vogliamo essere chiari: l'Italia sara' considerata
responsabile per cio' che accadra' in Libia a ognuna delle persone li'
ricacciate". Dalla Libia, osserva Amnesty, arrivano "persistenti rapporti di
tortura e altri maltrattamenti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in
stato di detenzione, a questi ultimi non e' stata data protezione, come
richiesto dal diritto internazionale sui migranti". Questa prassi - rimarca
Amnesty - e' il frutto amaro, ma non inatteso, di una "cooperazione
incondizionata in cui l'Italia non chiede alla Libia garanzia sui diritti
umani di migranti e rifugiati".

4. MAESTRE. DACIA MARAINI: AUNG SAN SUU KYI
[Dal "Corriere della sera" del 20 maggio 2009 col titolo "Aung San Suu Kyi,
il coraggio di una donna spaventa i generali"]

Aung San Suu Kyi, una donna dalla vita difficile, amarissima. Orfana di
padre a due anni, ha combattuto fin da piccola contro un regime militare
prepotente e violento. Una donna sola contro un esercito di uomini sordi e
ciechi di fronte al malessere di un popolo. Abbiamo visto i monaci mandati
al macello in una Birmania devastata dalla polizia. Le preghiere di un
popolo di monaci e una voce di donna, sola, coraggiosa e indomabile. Tante
volte l'hanno incoraggiata a scappare, ma lei ha sempre detto di no. Non
lascera' il suo Paese. Che si prendano la responsabilita' della sua
detenzione di fronte al mondo! Ricordiamo pero' che non si tratta di una
rivoluzionaria, di una anarchica o di una guerrigliera.
Aung San Suu Kyi e' stata eletta con la maggioranza dei voti dal suo popolo
che la voleva primo ministro. Ma i militari non hanno accettato la sconfitta
e l'hanno chiusa in una cella per anni. Poi liberata per le proteste di
mezzo mondo, e nonostante abbia ricevuto il premio Nobel per la Pace, e'
stata relegata nella sua casa agli arresti domiciliari. Una prigione piu'
comoda certo, ma sempre prigione, dove stava chiusa e isolata, senza potere
ne' comunicare ne' vedere nessuno. Nemmeno il marito che stava morendo di
cancro. Poche settimane fa un esaltato americano approda alla villa dove
vive prigioniera, dopo avere attraversato a nuoto il lago. Aung San Suu Kyi
lo ospita per una notte, non avendo cuore di ributtarlo in acqua. Il suo
comportamento umano diventa un pretesto per processarla di nuovo e
condannarla al carcere duro.
Contro un regime di uomini armati, ecco una donna piccola e risoluta.
Incredibile che faccia paura. Eppure e' cosi'. La sua forza non sta nei
fucili o nelle bombe e neanche in una ideologia minacciosa della morte per
suicidio, ma nella ferma risoluta decisione di opporsi all'arbitrio
attraverso la nonviolenza e la fratellanza. Il suo potere sta nel prestigio,
nella fiducia che la sua gente ha in lei, nell'esempio che ha sempre dato,
nella serenita' che emana dalla sua piccola e fragile persona.

5. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il
seguente appello]

Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile
sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di
promozione sociale).
Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente
soldi gia' destinati allo Stato.
Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e'
facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il
numero di codice fiscale dell'associazione.
Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235.
Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 per mille.
Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non
fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola
quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato,
la gratuita', le donazioni.
I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del
Movimento Nonviolento e in particolare per rendere operativa la "Casa per la
Pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la
generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la
promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi
estivi, eccetera).
Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre
quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della
nonviolenza. Grazie.
Il Movimento Nonviolento
*
Post scriptum: se non fate la dichiarazione in proprio, ma vi avvalete del
commercialista o di un Caf, consegnate il numero di Condice Fiscale e dite
chiaramente che volete destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento.
Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261
(corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle
Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a
tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno.
*
Per contattare il Movimento Nonviolento: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax: 0458009212, e-mail: redazione at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

6. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "SHOCK ECONOMY" DI NAOMI KLEIN (PARTE SECONDA)
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Naomi Klein, Shock Economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli,
Milano 2007 (ed. originale: The Shock Doctrine, 2007)]

Da pagina 18
La shockterapia torna a casa
Il movimento di Friedman, la Scuola di Chicago, ha conquistato territori in
tutto il mondo a partire dagli anni Settanta, ma fino a poco tempo fa la sua
ideologia non era mai stata applicata pienamente nel suo Paese di origine.
Certo, Reagan aveva fatto passi avanti, ma gli Stati Uniti avevano comunque
un sistema di welfare, sicurezza sociale e scuole pubbliche, in cui i
genitori si aggrappavano, nelle parole di Friedman, al loro "irrazionale
attaccamento a un sistema socialista".
Quando i repubblicani assunsero il controllo del Congresso nel 1995, David
Frum, canadese trapiantato in America e futuro autore dei discorsi di George
W. Bush, era fra i cosiddetti neoconservatori che propugnavano una
rivoluzione economica basata sulla shockterapia negli Stati Uniti. "Ecco
come penso che dovremmo procedere. Anziche' fare piccoli tagli - un po' qua,
un po' la' - propongo di eliminare, in un solo giorno quest'estate, trecento
programmi, ciascuno dei quali costa meno di un miliardo di dollari. Forse
questi tagli non faranno una gran differenza, ma - ragazzi - avranno un
grande valore simbolico. E si possono fare subito".
All'epoca Frum non ottenne la sua shockterapia domestica, soprattutto
perche' non c'era una vera crisi su cui far leva. Ma nel 2001 la situazione
cambio'. Al momento degli attacchi terroristici, la Casa Bianca era piena di
discepoli di Friedman, tra cui il suo amico intimo Donald Rumsfeld. La
squadra di Bush e' riuscita a cogliere l'attimo di vertigine collettiva con
una prontezza di riflessi sconcertante: non, come ha sostenuto qualcuno,
perche' l'amministrazione abbia dolosamente pianificato la crisi, bensi'
perche' le figure centrali dell'amministrazione, veterani di precedenti
esperimenti di capitalismo dei disastri in America Latina e nell'Europa
dell'Est, facevano parte di un movimento che implora le crisi come i
contadini pregano per la pioggia in tempi di siccita', e come gli evangelici
fondamentalisti supplicano di essere rapiti in cielo appena prima della fine
del mondo. Quando il disastro colpisce, sanno all'istante che il momento
tanto atteso e' finalmente giunto.
Per trent'anni, Friedman e i suoi seguaci avevano sistematicamente sfruttato
i momenti di shock negli altri Paesi - i loro equivalenti dell'11
settembre - a iniziare dal colpo di Stato di Pinochet, l'11 settembre 1973.
L'11 settembre 2001 accadde che l'ideologia covata nelle universita'
americane e fortificata nelle istituzioni di Washington pote' tornare
finalmente a casa.
L'amministrazione Bush uso' fin da subito la paura generata dagli attacchi
non solo per lanciare la cosiddetta "Guerra al Terrore", ma per assicurarsi
che essa fosse un'impresa quasi completamente volta al profitto, una nuova e
fiorente industria che avrebbe soffiato nuova vita nella stagnante economia
americana. Lo si comprende meglio se lo si chiama "complesso del capitalismo
dei disastri": possiede tentacoli molto piu' lunghi rispetto al complesso
militare-industriale contro cui Dwight Eisenhower aveva messo in guardia
alla fine della sua presidenza. Questa e' una guerra globale combattuta a
ogni livello da aziende private il cui coinvolgimento e' pagato con denaro
pubblico, con un mandato vitalizio per proteggere la patria americana in
eterno, eliminando il "male" oltreconfine, in ogni sua forma. Nel giro di
pochi anni, il complesso ha gia' espanso il suo mercato potenziale, dalla
lotta al terrorismo al peacekeeping internazionale, alle amministrazioni
locali, alla risposta ai sempre piu' frequenti disastri naturali. Il fine
ultimo delle grandi imprese al centro del complesso e' riportare il modello
di governo for-profit, che avanza cosi' rapidamente in circostanze
straordinarie, entro il funzionamento ordinario e quotidiano dello Stato. Il
fine ultimo e' privatizzare il governo.
Per mettere in moto il complesso del capitalismo dei disastri,
l'amministrazione Bush ha subappaltato, senza alcun dibattito pubblico,
molte delle funzioni piu' delicate e importanti del governo: dall'assistenza
sanitaria per l'esercito agli interrogatori dei prigionieri, alla raccolta e
gestione di informazioni riservate su ciascun cittadino. Il ruolo del
governo in questa guerra senza fine non e' quello di un amministratore che
dirige una rete di appaltatori, ma di un imprenditore dalle tasche gonfie,
che fornisce il capitale necessario per l'avviamento del complesso ma
diventa anche il miglior cliente dei servizi che il complesso offre. Per
citare solo due dati che mostrano la portata della trasformazione: nel 2003,
il governo americano mise sotto contratto 3.512 agenzie private per
esercitare funzioni di sicurezza; nei ventidue mesi fino all'agosto 2006, il
dipartimento per la Sicurezza nazionale ha firmato piu' di 115.000 contratti
di questo tipo. L'industria globale della "sicurezza interna" -
economicamente insignificante fino al 2001 - e' ora un settore da duecento
miliardi di dollari. Nel 2006, la spesa del governo americano per la
sicurezza interna raggiungeva una media di 545 dollari per famiglia.
E questo e' solo il fronte interno della Guerra al Terrore: i soldi veri
servono a portare la guerra altrove. Oltre alle industrie militari, che
hanno visto i loro profitti impennarsi grazie alla guerra in Iraq, mantenere
l'esercito americano e' oggi una delle economie di servizio piu' fiorenti
del pianeta. "Due Paesi che hanno entrambi un McDonald's non hanno mai
combattuto una guerra tra loro", dichiaro' incautamente l'editorialista del
"New York Times" Thomas Friedman nel dicembre 1996. Non solo fu smentito nel
giro di due anni, ma, grazie al modello della guerra for-profit, oggi
l'esercito americano va in guerra con Burger King e Pizza Hut a rimorchio,
appaltando ristoranti per le truppe nelle basi militari, dall'Iraq alla
"mini-citta'" attualmente in costruzione a Guantanamo.
Poi ci sono gli aiuti umanitari e la ricostruzione. Aiuti e ricostruzione
for-profit, sperimentati per la prima volta in Iraq, sono gia' diventati il
nuovo paradigma globale, ed e' ininfluente che la distruzione iniziale sia
provocata da una guerra preventiva, come l'attacco di Israele al Libano nel
2006, o da un uragano. Il flusso dei nuovi disastri aumenta di continuo, a
causa della scarsita' di risorse e dei mutamenti climatici, e far fronte a
queste emergenze e', semplicemente, un mercato in ascesa troppo allettante
per lasciarlo alle organizzazioni non-profit. Perche' mai dovrebbe essere
l'Unicef a ricostruire le scuole quando puo' farlo la Bechtel, una delle
piu' grandi imprese di costruzione degli Stati Uniti? Perche' mandare i
rifugiati del Mississippi in case popolari vuote, quando possono essere
ospitati su navi da crociera Carnival? Perche' impiegare forze di pace
dell'Onu in Darfur, quando agenzie di sicurezza private come la Blackwater
sono alla ricerca di nuovi clienti? Ed e' questa la differenza del dopo-11
settembre: prima, le guerre e i disastri offrivano opportunita' a un settore
ristretto dell'economia - per esempio i costruttori di jet da combattimento,
o le aziende che ricostruivano i ponti bombardati. Il fine economico
primario delle guerre, tuttavia, era quello di offrire un mezzo per aprire
nuovi mercati che erano stati isolati e generare boom del dopoguerra. Oggi
invece, le risposte alle guerre e ai disastri sono cosi' completamente
privatizzate che sono esse stesse il nuovo mercato. Non c'e' bisogno di
aspettare la fine della guerra per il boom: il mezzo e' il messaggio.
Un vantaggio decisivo di questo approccio postmoderno e' che, in termini
commerciali, non puo' fallire. "L'Iraq e' stato meglio del previsto": con
queste parole un analista finanziario ha definito un trimestre
particolarmente positivo per l'industria energetica Halliburton. Era
l'ottobre 2006, il mese piu' violento dell'anno fino ad allora, con 3.709
civili iracheni morti. Eppure, pochi azionisti restarono impassibili di
fronte a una guerra che aveva generato venti miliardi di dollari in ricavi
per questa sola azienda.
Fra il commercio d'armi, i soldati privati, la ricostruzione for-profit e
l'industria della sicurezza nazionale, il risultato emerso dall'impronta
data dall'amministrazione Bush alla shockterapia post-11 settembre e' una
nuova economia pienamente articolata. E' stata costruita nell'era Bush, ma
ora esiste in maniera del tutto autonoma da una particolare amministrazione,
e restera' ben salda finche' non verra' identificata, isolata e sfidata
l'ideologia suprematista del business che ne costituisce la premessa. E'
dominata dalle aziende americane ma e' globale: le aziende britanniche, per
esempio, portano la loro esperienza in materia di onnipresenti telecamere a
circuito chiuso, le ditte israeliane offrono la loro expertise nella
costruzione di recinti e muri ad alta tecnologia, e l'industria canadese del
legname invia rappresentanti in giro per il mondo per vendere case
prefabbricate che sono svariate volte piu' costose di quelle prodotte
localmente. "Credo che nessuno prima d'ora avesse mai guardato alla
ricostruzione delle aree colpite da disastri come a un vero mercato
immobiliare", dice Ken Baker, direttore generale di un gruppo leader nel
commercio di legname. "E' una strategia a lungo termine per diversificare".
Fatte le debite proporzioni, il complesso del capitalismo dei disastri e'
paragonabile ai boom del "mercato emergente" e delle telecomunicazioni negli
anni Novanta. Anzi, gli addetti ai lavori sostengono che i contratti oggi
sono ancora migliori che nei giorni delle dot.com, e che la bolla della
sicurezza ha preso il posto delle altre scoppiate in precedenza. Insieme ai
profitti in rapida crescita dell'industria delle assicurazioni (che in
proiezione dovrebbero aver raggiunto la cifra record di 60 miliardi di
dollari nel 2006 nei soli Stati Uniti), e agli utili elevatissimi
dell'industria del petrolio (che contribuisce a generare le catastrofi da
cui trae profitto), l'economia dei disastri ha fatto molto per salvare il
mercato mondiale dalla grave recessione che rischiava alla vigilia dell'11
settembre.
Quando si tenta di ripercorrere la storia della crociata ideologica che e'
culminata nella radicale privatizzazione della guerra e del disastro, si
ripresenta un problema: l'ideologia e' in realta' proteiforme, sempre pronta
a cambiar nome e assumere nuove identita'. Friedman si definiva un liberal,
ma i suoi seguaci americani, che associavano i liberals alle tasse alte e
agli hippie, tendevano a identificarsi come "conservatori", "economisti
classici", "fautori del libero mercato" e, piu' tardi, favorevoli alla
Reaganomics o al laissez-faire. In gran parte del mondo, la loro ortodossia
e' nota come "neoliberismo", ma spesso e' chiamata free trade o
semplicemente "globalizzazione". Solo dalla meta' degli anni Novanta il
movimento intellettuale, capeggiato dai think tanks di destra con cui
Friedman era associato da tempo - la Heritage Foundation, il Cato Institute
e l'American Enterprise Institute - ha iniziato a definirsi
"neoconservatore", una visione del mondo che ha sfruttato la forza della
macchina militare Usa al servizio di obiettivi economici.
Tutte queste incarnazioni hanno in comune la devozione a una santa
trinita' - eliminazione della sfera pubblica, liberazione delle corporation
da qualunque vincolo e spesa sociale ridotta all'osso - ma nessuno di questi
nomi sembra perfettamente adeguato per definirne l'ideologia. Friedman
qualificava il suo movimento come un tentativo di liberare il mercato dallo
Stato, ma l'esperienza di cio' che accade quando la sua visione e' applicata
al mondo reale e' ben diversa. In ogni Paese in cui negli ultimi trent'anni
sono stati applicati i principi della Scuola di Chicago, cio' che e' emerso
e' una potente alleanza di dominio tra poche enormi corporation e una classe
di politici quasi invariabilmente ricchi: e i confini tra i due gruppi sono
sfumati e sempre mutevoli. In Russia, i soggetti privati nell'alleanza sono
chiamati "oligarchi"; in Cina, "principini"; in Cile, "piranha"; negli Stati
Uniti, sono i "pionieri" della campagna Bush-Cheney. Ben lungi dal liberare
il mercato dallo Stato, questi gruppi politici e aziendali si sono
semplicemente fusi insieme, scambiandosi favori per assicurarsi il diritto
di appropriarsi di risorse preziose che prima erano di pubblico dominio: dai
pozzi di petrolio russi ai poderi collettivi della Cina ai contratti di
ricostruzione in Iraq concessi senza aste d'appalto.
Una definizione piu' consona per un sistema che cancella i confini tra il
Big Government e il Big Business non e' liberal, conservatore o capitalista,
ma corporativista. Le sue caratteristiche principali sono enormi
trasferimenti di beni pubblici ai privati, spesso accompagnati
dall'esplosione del debito pubblico, uno iato sempre piu' largo tra gli
scintillanti ricchi e i poveri usa-e-getta, e un nazionalismo guerrafondaio
che giustifica spese illimitate per la sicurezza. Per chi si trova
all'interno della bolla di estrema ricchezza creata da questo sistema, non
puo' esserci modo piu' conveniente per organizzare una societa'. Ma a causa
degli evidenti svantaggi per la vasta maggioranza della popolazione che
resta fuori dalla bolla, tra le altre caratteristiche dello Stato
corporativo ci sono gli arresti di massa, la sorveglianza aggressiva (ancora
una volta, con il governo e le grandi aziende che si scambiano favori e
contratti), la riduzione delle liberta' civili e spesso, anche se non
sempre, la tortura.
*
Da pagina 23
La tortura come metafora
Dal Cile alla Cina all'Iraq, la tortura e' stata un partner silenzioso nella
rivoluzione liberista globale. La tortura, pero', e' ben piu' che uno
strumento utile per imporre scelte politiche indesiderate a chi si ribella:
e' anche una metafora della logica alla base della dottrina dello shock.
La tortura - o, nel linguaggio della Cia, l'"interrogatorio coercitivo" - e'
un insieme di tecniche pensate per indurre nei prigionieri uno stato di
assoluto disorientamento e shock, allo scopo di obbligarli a fare
concessioni contro la loro volonta'. La logica di fondo e' resa esplicita in
due manuali della Cia, desecretati nei tardi anni Novanta. In essi si spiega
che per piegare le "fonti che oppongono resistenza" bisogna creare rotture
violente tra i prigionieri e la loro capacita' di dare senso al mondo che li
circonda. In primo luogo, si elimina ogni input sensoriale (con cappucci in
testa, tappi alle orecchie, manette, isolamento totale), poi si bombarda il
corpo con stimoli estremi (luci stroboscopiche, musica a tutto volume,
percosse, elettroshock).
Lo scopo di questa fase di "ammorbidimento" e' provocare una specie di
uragano nella mente: i prigionieri subiscono una regressione tale, e sono
cosi' spaventati, che non riescono piu' a pensare razionalmente ne' a
proteggere i propri interessi. E' in questo stato di shock che la maggior
parte dei prigionieri da' a chi li interroga cio' che questi desidera:
informazioni, confessioni, abiura di convinzioni precedenti. Uno dei manuali
della Cia fornisce una spiegazione particolarmente esplicita: "C'e' un
intervallo - che puo' essere estremamente breve - di animazione sospesa, una
sorta di shock o paralisi psicologica. E' provocata da un'esperienza
traumatica o subtraumatica che fa esplodere, per dir cosi', il mondo che e'
familiare al soggetto, oltre all'immagine che egli ha di se' entro quel
mondo. Gli specialisti riconoscono questo effetto quando si manifesta e
sanno che in quel momento la fonte e' molto piu' aperta ai suggerimenti,
molto piu' disposta a collaborare, di quanto non fosse appena prima di
subire lo shock".
La dottrina dello shock imita alla perfezione questo processo, cercando di
ottenere su vasta scala cio' che la tortura ottiene su una singola persona
in una cella per interrogatori. L'esempio piu' chiaro e' stato lo shock
dell'11 settembre, che, per milioni di persone, ha "fatto esplodere il mondo
a loro familiare" e ha dato il via a un periodo di forte disorientamento e
regressione, che l'amministrazione Bush ha sfruttato con estrema abilita'.
All'improvviso ci siamo ritrovati a vivere in una sorta di Anno Zero, in cui
tutto cio' che sapevamo del mondo fino a quel momento poteva essere
sbrigativamente definito "pensiero pre-11 settembre". I nordamericani, che
peraltro non erano mai stati grandi esperti di storia, sono diventati "un
foglio bianco" sul quale "possono essere scritte le parole piu' nuove e piu'
belle", come Mao disse del suo popolo. Un nuovo esercito di esperti si e'
materializzato all'istante per scrivere nuove e bellissime parole sulla
ricettiva tela delle nostre coscienze postraumatiche: "scontro di civilta'",
hanno scritto. "Asse del Male", "islamofascismo", "sicurezza nazionale".
Mentre tutti ci preoccupavamo delle nuove e mortifere guerre tra culture,
l'amministrazione Bush e' stata in grado di ottenere quello che prima
dell'11 settembre poteva solo sognare: combattere guerre privatizzate
all'estero e affidare la sicurezza della patria a un complesso di aziende.
E' cosi' che funziona il capitalismo dei disastri: il disastro originario -
il colpo di Stato, l'attacco terroristico, il crollo dei mercati, la guerra,
lo tsunami, l'uragano - getta l'intera popolazione in uno stato di shock
collettivo. Le bombe che cadono, le grida di terrore, i venti sferzanti sono
piu' efficaci, nel rendere malleabili intere societa', di quanto la musica
assordante e i pugni nella cella di tortura non indeboliscano i prigionieri.
Come il prigioniero terrorizzato che rivela i nomi dei compagni e abiura la
sua fede, capita che le societa' sotto shock si rassegnino a perdere cose
che altrimenti avrebbero protetto con le unghie e con i denti. Jamar Perry e
gli altri sfollati al centro d'accoglienza di Baton Rouge avrebbero dovuto
perdere le loro case popolari e le loro scuole pubbliche. Dopo lo tsunami, i
pescatori dello Sri Lanka avrebbero dovuto cedere la loro preziosa spiaggia
ai proprietari di alberghi. Gli iracheni, se tutto fosse andato come
previsto, avrebbero dovuto essere cosi' scioccati e terrorizzati da
rinunciare al controllo delle riserve di petrolio, alle loro aziende
pubbliche e alla loro sovranita', cedendoli alle basi militari e alle zone
verdi americane.
(Parte seconda - segue)

7. LIBRI. BENEDETTO VECCHI PRESENTA "LA MODERNITA' IN TRANSITO" DI FRANCESCO
ANTONELLI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 23 maggio 2009 col titolo "Appunti su un
mondo in continuo divenire" e il sommario "In un saggio la lunga parabola di
Alain Touraine"]

Francesco Antonelli, La modernita' in transito, Franco Angeli, pp. 187, euro
19.
*
Alain Touraine e' uno dei piu' prolifici eredi della grande tradizione
sociologica francese, quella che annovera, tanto per fare un nome, Emile
Durkheim tra i suoi padri fondatori. E' dunque uno studioso che ha sempre
puntato a spiegare quell'oggetto misterioso che e' la "societa'" a partire
dai movimenti e dai conflitti presenti nella modernita'. Non e' forse un
caso che i suoi primi lavori hanno riguardato il movimento operaio e le
violente diseguaglianze di classe nella societa' industriale. Sono quelli
gli anni dove il conflitto operaio plasma l'intera societa' e dove la
modernita' e' il progetto incompiuto che solo quel conflitto puo' portare a
termine. Ma Touraine ama anche il dettaglio, i piccoli e impercettibili
mutamenti, che lo conducono a teorizzare in un saggio l'avvento della
societa' postindustriale.
Un saggio, quello di Touraine, dove e' definito nero su bianco il programma
di lavoro che il sociologo francese sta tutt'ora sviluppando. C'e' la crisi
delle forme di vita stratificate nella societa' industriale, il nodo del
potere come perdita di legittimazione dello stato e contestazione del
monopolio della decisione politica da esso esercitato. C'e' lo sviluppo di
movimenti sociali nati al di fuori della fabbrica che puntano comunque a
trasformare in senso egualitario la societa'. C'e' l'inafferrabilita' del
"soggetto". Temi, tutti, che hanno accompagnata da allora tutta la
produzione di Touraine e che questo saggio di Francesco Antonelli ripercorre
sapientemente.
La tesi che viene elaborata da questo giovane ricercatore e' segnata da una
grande ammirazione per lo studioso francese. Fattore che non gli impedisce
tuttavia di segnalarne, problematizzandoli, limiti e aporie. Come annuncia
anche il titolo del volume, la modernita' non e' la fine della storia,
bensi' un progetto in divenire che modifica il suo corso, interrompendo
cosi' lo sviluppo lineare della storia. Dunque la modernita' e' sempre in
transito, manifestando la sua propensione universalistica a espandersi al di
fuori dal continente - l'Europa - che l'ha vista nascere. E in questo
nomadismo deve continuamente plasmare, trasformando le realta' e le sue
caratteristiche iniziali. Cambiano quindi le classi sociali, gli stati, le
elite e le logiche stesse dell'azione collettiva. Delinearne le mappe e le
coordinate della societa' conduce cosi' lo studioso a cambiare la propria
cassetta degli attrezzi teorici. Da qui la sua attenzione verso i movimenti
sociali che si sviluppano al di fuori della fabbrica e che hanno come
elemento fondante identita' "parziali" - i disoccupati, gli studenti - o
single issue - gli ecologisti e gli antinucleari -. Insomma tutti quei
movimenti che hanno popolato conflittualmente la scena pubblica della
tarda-modernita', termine quest'ultimo che Touraine utilizza con molta
cautela. Ma anche questa e' materia ampiamente analizzata nel volume di
Francesco Antonelli.
C'e' da dire, pero', che Touraine nella spiegazione di come si muovono i
movimenti sociali e come si formano le elite enfatizza, quasi
sacralizzandola, la questione del potere, relegando cosi' tanto i movimenti
sociali che le elite a variabili dipendenti dello stato. Aspetto questo
fortemente problematico, perche' cosi' facendo Touraine relega ai margini
quei processi di soggettivazione politica che definiscono il quadro di
autonomia dal potere statale da parte proprio dei movimenti sociali. Fattore
tuttavia che stride con l'inchiesta dedicata da Touraine a Solidarnosc,
laddove lo studioso francese si e' dilungato sulle relazioni e le forme di
vita che costituiscono sempre l'indispensabile rete su cui poggia ogni
movimento sociale. Di questa incongruenza nel saggio di Antonelli ci sono
pero' solo accenni. Incongruenza, invece, che ritornera' in tutta la
produzione di Touraine sulla crisi della modernita' e della sua
rappresentazione piu' nota, la globalizzazione economica.
Mettere a tema l'apriori su cui nascono i movimenti sociali aiuterebbe
infatti a comprendere la disgregazione se non la dissoluzione delle forme
politiche della modernita', i sindacati e i partiti di massa e la
contemporanea riduzione dello stato nazionale a appendice di organizzazioni
sovranazionali. C'e' da ricordare che Touraine ha scritto, e molto, di crisi
della modernita', di globalizzazione e di neoliberismo. E spesso le sue
prese di posizione manifestavano la condivisione della critica che i
movimenti sociali muovevano alla globalizzazione. Ma e' su questo crinale
che la sua analisi e' risultata spesso priva di mordente e di capacita'
esplicativa della realta' sociale. Francesco Antonelli lascia trasparire tra
le pagine dell'ultimo capitolo un certo scetticismo rispetto alla
riflessione dell'ultimo Touraine. Il libro ha pero' la grande capacita' di
restituire l'intera parabola di questo studioso. E nel fare questo
riconcilia con la riflessione di Touraine chi lo ha molto letto, senza pero'
mai condividerlo del tutto.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 835 del 29 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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