Minime. 833



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 833 del 27 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Nucleare
2. Giulio Vittorangeli: Per un'Europa che rifiuta il razzismo
3. Stefano Rodota': Il diritto alla verita'
4. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento
5. Giulio Giorello ricorda Eugenio Colorni
6. Alcuni estratti da "La pensabilita' del mondo" di Sebastiano Maffettone
(parte seconda e conclusiva)
7. Letture: Jolanda Insana, Tutte le poesie (1977-2006)
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. NUCLEARE

Che il nucleare - civile e militare - sia una minaccia per l'umanita', tutti
lo sanno.
Che al nucleare - civile e militare - occorra opporsi, tutti dovrebbero
sentirlo come compito proprio e comune.

2. UNA SOLA UMANITA'. GIULIO VITTORANGELI: PER UN'EUROPA CHE RIFIUTA IL
RAZZISMO
[Ringreaziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it)
per questo intervento]

Con l'avvicinarsi delle prossime elezioni europee si riapre la discussione
su quale ruolo avra' l'Unione Europea (strana entita', esistente e pero'
sempre da costruire) a livello mondiale e di come il nuovo Parlamento
decidera' della nostra vita quotidiana. Certo l'Europa e' stata costruita
male, ad iniziare dalla mancanza di un chiaro progetto europeo. Doveva
essere uno strumento di pace e oggi si trova corresponsabile di molte
tragedie del mondo. Doveva essere un progetto di unione e comune convivenza
e oggi si trova ad essere una burocrazia di norme omologanti, sempre piu'
lontana dai cittadini, dalle loro culture e dalle loro storie.
Ridefinire le finalita' dell'unificazione e' oggi piu' che mai
indispensabile. Umberto Allegretti le sintetizza in cinque principali:
l'Europa ha per scopi la pace, all'interno di se' e nel mondo;
l'integrazione economica e lo sviluppo; la difesa e la crescita della
democrazia; l'equita' sociale; infine, un contributo a un maggiore
equilibrio nei rapporti tra i popoli nel campo economico, sociale, culturale
e, di nuovo, della pace.
Si tratta di finalita' che da tutta la storia della costruzione europea
emergono come strettamente congiunte tra loro e che si ripresentano in
condizione diverse e tuttavia con forte continuita'. "E' la fedelta' e la
buona interpretazione di esse che dovremmo esigere dai candidati alle
elezioni europee e dai partiti che li presentano, senza di che la
rappresentanza italiana al parlamento dell'Unione non sara' degna della
fiducia e del mandato che essi ci chiedono" (Umberto Allegretti).
Purtroppo nell'Italia odierna, la cultura dei diritti umani e della pace e'
stata drammaticamente travolta dalla crisi della politica, dalla crisi della
cultura, dalla sfiducia, dallo scetticismo, dalla cieca difesa del
tornaconto egoistico, con il dilagare di xenofobia e razzismo, nella
frammentazione in individui solitari.
Cosi' gli immigrati sono diventati i capri espiatori per tutti i mali che
affliggono il nostro paese. Il tutto autorizzato da un razzismo
istituzionale strisciante, facile da raccogliere, imitare e riproporre
attraverso episodi di violenza che, non a caso, stanno aumentando nelle
nostre citta'.
Anche questa puo' essere una chiave di lettura del successo berlusconiano,
che (non a caso) sfrutta il tema dell'immigrazione come arma elettorale. Ha
scritto recentemente Claudio Cagnazzo: "Perche', a fronte della crisi e del
precipitarci addosso delle contraddizioni del mondo, un popolo spaurito si
rifugia dietro la speranza che qualcuno possa salvarlo. Qualcuno che conosce
l'economia al punto da essersene servito e non esserne invece usato.
Qualcuno che quel bozzolo sentimentale, futile ma intrigante, che il reality
ci mostra, lo apprezza e vuole ricostruirlo con noi. Senza le brutture dei
clandestini cattivi, o dei comunisti accidiosi. Senza le paure della crisi
che possa entrare nelle case dei suoi piccoli fratellini. Senza l'insidia
della feroce realta' quotidiana. Un uomo, un taumaturgo che ci aiuti a
sconfiggere i fantasmi".
Tutto diventa lecito, con grande consenso sociale e senza (o quasi)
opposizione. Si veda l'infame accordo con il regime libico, in virtu' del
quale migranti e rifugiati (cittadini eritrei, somali o nigeriani che
rischiano la vita per fuggire dalla guerra, dalle persecuzioni e da gravi
pericoli) intercettati in mare vengono riconsegnati, senza alcuna eccezione,
ai loro aguzzini (quello che succedera' nei centri di detenzione libici alle
persone respinte non e' certo un problema dell'Italia). Piu' che di
rimpatrio, si tratta di deportazione immediata; usando la Libia come
esecutore della propria politica di deterrenza e isolazionismo e rinunciando
a qualsiasi parvenza di rispetto dei diritti umani piu' elementari.
L'opposizione a tutto questo (le norme peggiori del "pacchetto sicurezza"
riportano alla mente alcune tra le pagine piu' buie della storia recente,
dell'Italia fascista), e' arrivata soprattutto dall'estero: l'Unione
Europea, il Vaticano e le Nazioni Unite, che hanno espresso critiche dure
all'attuale linea securitaria e xenofoba del nostro governo. Come ha
osservato lucidamente Enrico Pugliese, nel nostro Parlamento non c'e' stata
adeguata opposizione contro la radicalita' delle iniziative del governo.
Anzi, luoghi comuni e artifici retorici, in sostanza anti-immigrati, sono
stati usati da esponenti istituzionali del centrosinistra. L'opposizione e'
oggi in gran parte fuori del parlamentare. La sola a chiedere una politica
sociale a favore degli immigrati, a battersi per i loro diritti ad iniziare
dalla dignita' del lavoro, a chiedere di affrontare l'immigrazione in
termini di cittadinanza e di convivenza.
L'Europa (non solo l'Italia) ha disperato e urgente bisogno di cittadini
consapevoli delle proprie grandi responsabilita' storiche, che vogliono
lavorare insieme per la costruzione di una Unione Europea interculturale che
rifiuta il razzismo in ogni sua forma.

3. RIFLESSIONE. STEFANO RODOTA': IL DIRITTO ALLA VERITA'
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 26 maggio 2009 col titolo "La menzogna
in politica e il diritto alla verita'"]

Mai come in questi tempi spazio pubblico e spazio privato si sono cosi'
intensamente mescolati fin quasi a rendere indistinguibili i loro confini.
Addirittura lo spazio privato sembra svanire nell'era di Facebook e di
YouTube, delle infinite e continue tracce elettroniche, dell'impietosa
radiografia mediatica d'ogni mossa, contatto, preferenza. Dobbiamo accettare
la brutale semplificazione di chi ha affermato "la privacy e' finita.
Rassegnatevi"? O dobbiamo ridisegnarne i confini senza perdere i benefici
della trasparenza che, soprattutto nella sfera della politica, le nuove
tecnologie rendono possibili? La politica, appunto. Nel nuovissimo panorama
tornano, intatte e ancor piu' ineludibili, antiche questioni. Quali sono i
doveri dell'uomo pubblico?
Quale dev'essere la sua moralita'? Possono convivere vizi privati e
pubbliche virtu'? Puo' il politico coltivare la pretesa di stabilire egli
stesso fin dove puo' giungere lo sguardo dei cittadini? E soprattutto: qual
e' il rapporto tra verita' e politica nel tempo della comunicazione globale?
"La menzogna ci e' familiare fin dagli albori della storia scritta.
L'abitudine a dire la verita' non e' mai stata annoverata tra le virtu'
politiche e le menzogne sono state sempre considerate giustificabili negli
affari politici". Cosi' Hannah Arendt, che tuttavia in questa lunga
abitudine non vedeva un dato da accettare in nome di un troppo facile
realismo politico. Al contrario, contro la menzogna bisogna lottare non solo
per la sua intrinseca immoralita', ma per i suoi effetti distruttivi proprio
dello spazio della politica. Dove esiste un establishment, un ceto politico
consapevole della necessita' di mantenere la propria legittimita' nei
confronti dei cittadini, la pubblica menzogna sui propri fatti privati porta
all'espulsione del mentitore. John Profumo e' costretto a dimettersi perche'
ha mentito alla Camera dei Comuni sulla sua relazione con Christine Keeler.
Gary Hart e' costretto ad abbandonare la vita politica e le sue ambizioni di
candidato alla presidenza degli Stati Uniti per aver sfidato la stampa
sull'esistenza di sue relazioni sessuali, che i giornalisti, facendo bene il
loro mestiere, impietosamente scoprono. Non un sussulto moralistico, ma
l'affidabilita' stessa del politico rende inammissibile la menzogna.
Questo significa che parlare del rapporto tra menzogna e politica esige
distinzioni. Vi e' la menzogna in nome della salute della Repubblica, quella
su vicende private del politico, quella che vuol salvaguardare uno spazio di
intimita' di cui nessuno puo' essere espropriato. Ne' il primo, ne' l'ultimo
caso possono essere invocati nella vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi.
Per quanto sia divenuta totalizzante l'identificazione sua con i destini del
paese, non si puo' certo ritenere che il suo parlar franco sui rapporti con
una giovane ragazza metta a rischio il sistema politico italiano. Al
contrario, proprio le sue reticenze, i silenzi e le contraddizioni stanno
producendo effetti perversi nella sfera pubblica. La difesa della privacy,
il rifiuto di una politica fatta di un guardare nel buco della serratura?
Chi ragiona in questo modo sembra ignorare il modo in cui la vicenda e'
stata resa pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica
Lario, i suoi diretti riferimenti politici. Li' si parlava della figura
pubblica di Berlusconi, non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni,
peraltro, e' cosa nota e consolidata che i politici godono di una piu'
ridotta "aspettativa di privacy", proprio perche' la decisione di vivere in
pubblico e di gestire la cosa pubblica impone loro di rendere possibile una
conoscenza ampia e una valutazione continua proprio da parte di quei
cittadini al cui giudizio il presidente del Consiglio sembra tenere tanto.
Chi, allora, ha "diritto alla verita'"? Questo interrogativo, che divise
Immanuel Kant e Benjamin Constant, e' proprio quello che sta al centro della
discussione italiana. Al deciso universalismo di Kant, Constant opponeva che
"nessun uomo ha diritto a una verita' che nuoccia ad altri". Qui possiamo
astenerci dal ripercorrere quella storica discussione, perche' proprio la
rilevanza politica del caso esclude comunque che la verita' possa nuocere a
persona diversa dal presidente del Consiglio, mentre il silenzio o la
menzogna pregiudicano proprio quel diritto di sapere che costituisce ormai
uno dei caratteri della democrazia, che sfida il machiavelliano uso politico
della menzogna come strumento per mantenere il potere. Molte volte si e'
sottolineato che le procedure di occultamento della verita' hanno sempre
accompagnato i regimi totalitari, mentre l'accesso alla verita' e' sempre
stato una prerogativa delle libere assemblee, a partire dalla democrazia di
Atene.
Il diritto alla verita', in questo caso piu' che mai, e' diritto di tutti.
E' stato proprio il presidente del Consiglio a rendere ineludibile la
questione con le sue reticenze, le doppie versioni, il distogliere lo
sguardo da fatti incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a domande
specifiche, e tutt'altro che pretestuose proprio perche' riferite a dati
precisi, assomiglia assai a quella "facolta' di non rispondere" di cui
giustamente puo' giovarsi l'indagato o l'imputato. "Nemo tenetur se
detegere", recita un'antica e civile formula giuridica, che si puo' spiegare
con le parole di un vecchio commentatore: "non imporre a nessuno, neppure
allo scellerato piu' infame, di rivelare il malfatto". Quali consiglieri,
ammesso che ce ne siano, hanno suggerito al presidente del Consiglio di
seguire una strada cosi' scivolosa?
Una menzogna puo' acquietare i fedeli di un politico, ma lo spinge a
rinserrarsi nel suo campo trincerato, corrode la fiducia dei cittadini in un
tempo in cui proprio la produzione di fiducia e' considerata un elemento
indispensabile per restituire alla politica un vero consenso. Non e' il
moralismo a spingere verso questa conclusione, anche se oggi soffriamo
proprio di un deficit spaventoso di moralita' pubblica. La democrazia,
ricordiamolo, non e' solo governo del popolo, ma governo "in pubblico". Qui,
in questa semplice e profonda verita', sta l'inammissibilita' della menzogna
in politica, che si trasforma proprio nella pretesa di non rendere conto dei
propri comportamenti da parte di chi ha liberamente scelto di uscire dal
rassicurante spazio privato per essere protagonista nello spazio pubblico.

4. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il
seguente appello]

Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile
sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di
promozione sociale).
Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente
soldi gia' destinati allo Stato.
Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e'
facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il
numero di codice fiscale dell'associazione.
Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235.
Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 per mille.
Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non
fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola
quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato,
la gratuita', le donazioni.
I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del
Movimento Nonviolento e in particolare per rendere operativa la "Casa per la
Pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la
generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la
promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi
estivi, eccetera).
Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre
quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della
nonviolenza. Grazie.
Il Movimento Nonviolento
*
Post scriptum: se non fate la dichiarazione in proprio, ma vi avvalete del
commercialista o di un Caf, consegnate il numero di Condice Fiscale e dite
chiaramente che volete destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento.
Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261
(corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle
Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a
tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno.
*
Per contattare il Movimento Nonviolento: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax: 0458009212, e-mail: redazione at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

5. MEMORIA. GIULIO GIORELLO RICORDA EUGENIO COLORNI
[Dal "Corriere della sera" del 25 maggio 2009 col titolo "Per far crescere
la scienza bisogna abbattere gli idoli. Un volume e due convegni celebrano
Eugenio Colorni"

"Alla base di ogni grande scoperta, di ogni rivoluzione nel campo della
scienza, c'e' una conquista morale: l'abbattimento di un idolo saldamente
insediato e abbarbicato fra le pieghe della nostra anima", amava ripetere
Eugenio Colorni.
Ben strano tipo di filosofo nel panorama italiano della prima meta' del
Novecento, Colorni aveva preso le mosse dall'estetica di Croce, si era poi
confrontato con quel mirabile inventore di metodi e artista di sistemi che
era stato Leibniz: dalla matematica al diritto, dalla logica alla
tecnologia. Era stato, pero', il contatto con Umberto Saba, "il poeta
libraio di Trieste che parla il gergo della psicanalisi", ad affrancare
Eugenio da quel tipo di "malattia" che prende il filosofo quando rende i
"bisogni che sorgono in modo oscuro dalle profondita' della sua coscienza"
veri e propri feticci cui sacrificare chiarezza e concretezza. Tale
"liberazione", che ha reso Colorni autentico filosofo della scienza, e' oggi
ricostruita nel volume che raccoglie i suoi scritti filosofici e
autobiografici e che reca il titolo La malattia della metafisica, a cura di
Geri Cerchiai (Einaudi, pp. XLVIII + 382, euro 24).
Si tratta, come nota il curatore, della parabola di "un'intelligenza sempre
pronta a rimettersi in discussione". Quel che piu' mi colpisce e' quella che
Colorni stesso definiva "acredine iconoclasta", cioe' la capacita' di
attaccare qualunque "idolo" blocchi la crescita intellettuale del singolo e
il miglioramento della societa'.
Il risvolto politico di tale iconoclastia aveva gia' risvegliato l'interesse
di Norberto Bobbio (che aveva scritto un'introduzione per una selezione di
Scritti di Colorni pubblicata del 1975 dalla Nuova Italia). Ma la lotta
politica non risparmia nemmeno l'impresa scientifica: idoli nel senso di
Colorni sono stati il geocentrismo dell'astronomia prima di Copernico, il
mondo chiuso prima di Bruno o di Galileo, l'idea di un piano della natura
prima di Darwin; e lo erano pure lo spazio e il tempo assoluti di Newton
prima della relativita' di Einstein, o la nozione di un rigido nesso causale
tra gli eventi prima della meccanica quantistica... Lo scienziato, per
Colorni, deve dar prova di un occhio chiaro degno di Spinoza: analizzando
gli stessi dogmi della ricerca scientifica e sbloccando le categorie in cui
pretende di incasellare l'esperienza, riesce a superare quel "cieco amore
per se stessi", che altrimenti impedirebbe ogni innovazione sia nella
scienza sia nella vita civile.
Nell'immergersi nella scienza Colorni, pero', non dimenticava la dimensione
tragica dell'esistenza. Tutta la civilta' e tutta la cultura gli apparivano
frutto delle nostre inquietudini: "E' il fatto che dobbiamo morire che da'
un senso concreto e finito alla nostra attivita', che ci permette di
misurare il tempo e di spenderlo come un tesoro non illimitato". Nato da
famiglia ebraica (Milano, 22 aprile 1909), educato in ambiente liberale,
militante antifascista vicino alla prospettiva del socialismo, gettato in
carcere e al confino, Colorni ha saputo far fruttare il "tesoro" che la vita
gli aveva concesso. Evaso e passato alla lotta clandestina, doveva venire
ferito gravemente da una pattuglia della banda Koch il 28 maggio 1944, per
spirare due giorni dopo.
Vorrei terminare con una constatazione strettamente personale, essendo nato
nel maggio dell'anno successivo, quando la lotta di Liberazione si era
appena conclusa: e' anche grazie a uomini come Eugenio Colorni che la mia
generazione ha potuto crescere e studiare in un clima di (difficile)
liberta'.

6. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "LA PENSABILITA' DEL MONDO" DI SEBASTIANO
MAFFETTONE (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Sebastiano Maffettone, La pensabilita' del mondo. Filosofia e governanza
globale, il Saggiatore, Milano 2006]

Da pagina 33
D'altra parte, non c'e' nulla di sorprendente in quanto m'appresto a
sostenere. Una liberta' astratta, se fosse mai possibile, in uno scenario
segnato da drammatica poverta' e dalla perdita delle proprie tradizioni, non
e' di certo auspicabile. Come del resto non lo e' un'eguaglianza priva di
liberta' e dignita' culturale, oppure un culto della tradizione perseguito a
danno di liberta' ed eguaglianza. Solo mettendo d'accordo questi tre
fattori, si puo' ipotizzare un progetto di "pace perpetua", come avrebbe
detto Immanuel Kant, o quantomeno si puo' nutrire la speranza di un futuro
accettabile per l'umanita'. Se, in quest'ottica, si guarda alla governanza
della globalizzazione, allora diritti e democrazia devono congiungersi a un
sistema economico aperto e distributivamente equo, costruito su una rete di
istituzioni che tutelino le identita' degli individui e dei gruppi.
Ne risulta un modello normativo complesso, il cui esito, in breve, e' che
l'integrazione delle parti del pianeta in conflitto potenziale tra loro,
nell'eta' attuale della globalizzazione, non dipende dall'imposizione
dall'alto di un modello vincente di produzione-distribuzione e di legalita'
etico-politica, ma riflette al contrario le esperienze locali e periferiche
di soggetti complessi, ricercandone i luoghi di incontro o di scontro
reciproci. Si tratta del modello basato - come si e' detto - sulla
"integrazione pluralistica dal basso", nozione che sacrifica di certo
l'eleganza in cambio, si spera, di una certa chiarezza delle sue intenzioni
fondamentali. In merito a questa, si puo' affermare quanto segue:
1) l'allocazione delle risorse via mercato trova, in questo modello, un
correttivo nella distribuzione egualitaria a tutela della sostenibilita' del
sistema, in maniera specificamente legata alle culture di appartenenza delle
popolazioni interessate;
2) allo stesso modo, la ragione pubblica si espande fino a concepire i
diritti anche come diritti economico-sociali, e in sintonia con le identita'
differenti;
3) Le questioni identitarie, in quanto tali, fanno si' che il modello debba
essere proposto in forma "inside-out", cioe' facendo emergere le
caratteristiche normative dall'interno delle varie culture.
*
Da pagina 128
Lo scetticismo filosofico sulla fondazione dei diritti umani e' tradizionale
e antico. Da un punto di vista della controversia culturalista, e' curioso
quanto ci sia coincidenza, e quanto poco questa coincidenza sia notata, tra
critiche tradizionali e critiche recenti al paradigma filosofico dei diritti
umani. In realta', le critiche tradizionali, che per esempio i romantici
rivolgevano agli illuministi e che spesso gli storicisti riprendevano dai
romantici, insistevano sull'omogeneizzazione e il sacrificio delle
differenze che una visione illuminista e universalista dei diritti umani
comportava. I diritti, in questa prospettiva, rappresentano un improprio
livellamento di fertili differenze interindividuali e interculturali. Che
cosa fanno i critici postmoderni dei diritti umani se non radicalizzare
questo tipo di critica, riproponendola magari - come Derrida - in termini di
antilogocentrismo e tutela delle differenze? Quando lo stesso Derrida
sostiene che puntare sui diritti umani equivale ad abbracciare un'opzione
mistica, non fa altro in realta' che ribadire, in versione
differenzialistica, l'anatema romantico nei confronti dei diritti umani.
Juergen Habermas attribuisce l'esercizio sistematico del sospetto sui
diritti umani a due scuole di pensiero, di cui l'una teoretica risale a
Heidegger e l'altra politica a Carl Schmitt. Si puo' notare che nella
visione postmoderna spesso la critica scettica dal punto di vista teoretico
si congiunge con l'opzione politica decisionista.
Lo scetticismo filosofico sui diritti umani non e', pero', solo
differenzialista e decisionista, romantico, storicista e antilluminista. E'
anche reazionario, come nel caso di de Maistre, rivoluzionario, come nel
caso di Marx, o iperdemocraticista, come nel caso di Bentham. Tranne
l'ultimo caso, che da questo punto di vista e' piu' complesso, a me sembra
che romantici, rivoluzionari e reazionari convergano, nel loro essere contro
i diritti umani, e che il collante sia costituito da una cultura poco
sensibile o addirittura francamente ostile al liberalismo. Questo
antiliberalismo e' anche il trait d'union che rende possibile la ricordata
congiunzione tra heideggeriani e schmittiani nell'esercitare il sospetto sui
diritti umani. Anche in questo caso, e' da notare che i relativisti, come
critici dei diritti umani, possono trovare una fonte in Heidegger, laddove i
realisti possono cercare ispirazione in Schmitt. Se il collante di visioni
cosi' differenti e' l'antiliberalismo, e magari la volonta' non sempre
esplicita di giustificare regimi autoritari, non dovrebbe sorprendere che
una difesa filosofica dei diritti umani poggi su una visione liberale della
giustizia.
La diffusione dello scetticismo filosofico sui diritti umani eccede pero' di
gran lunga i limiti delle culture tradizionalmente poco sensibili al
liberalismo. Hans Kelsen e Benedetto Croce, entrambi liberali ma contrari ai
diritti umani, sono un esempio mirabile di cio'. Fatto e' che una fondazione
filosofica dei diritti umani rappresenta intrinsecamente un'impresa
difficile, per cosi' dire indipendentemente dal tipo di impostazione
teoretica preferita. Impresa che, naturalmente, e' resa ancora piu'
difficile quando si apre la questione della diversita' culturale. Non e'
complicato, fortunatamente, comprendere la ragione concettuale piu' evidente
alla base di questa difficolta'. Questa ragione ha a che fare con la natura
ambigua, assieme empirica e filosofica, come la si e' chiamata prima, dei
diritti umani. I diritti umani sono essenzialmente diritti morali, e quindi
indipendenti da ogni ordinamento giuridico e da ogni applicazione in norme
concrete. E, in realta', proprio questa loro indipendenza dal piano legale
in senso stretto, e questa loro natura morale, li rendono una pietra di
paragone e una riserva critica per il diritto positivo. Ciononostante, e'
praticamente impossibile pensare ai diritti umani senza tenere conto del
fatto che esiste una loro validita' effettiva e un insieme di fonti
riconosciute. Il discorso filosofico sulla natura morale dei diritti umani
non puo', in altre parole, prescindere dalla loro istituzionalizzazione
effettiva.
Questo sfondo ha una sua controparte piu' strettamente filosofica. Una
fondazione filosofica dei diritti umani puo' assumere o un punto di vista
esterno alle pratiche in cui i diritti si affermano, oppure un punto di
vista interno a queste pratiche. Nel primo caso, si sottolinea l'aspetto
morale dei diritti umani e la fondazione appare forte e significativa nella
prospettiva di una critica normativa della prassi esistente. Ma, se si
esclude l'ipotesi di un giusnaturalismo classico o comunque della
condivisione di una Weltanschauung religiosa, come avviene nella dottrina
cristiana del diritto naturale, risulta assai impervia. Nel secondo caso,
invece, accade esattamente il contrario. E' piu' plausibile essere
d'accordo, ma piu' che fondare una teoria dei diritti umani si cerca spesso
la conferma nella teoria di una prassi legale gia' esistente. Con la
conseguenza di un indebolimento notevole delle capacita' critiche della
propria posizione teorica. C'e' anche chi, come Jacques Maritain, sostiene
la compatibilita' di queste due opzioni: bisognerebbe essere, secondo questa
visione, fervidamente convinti di una tesi fondazionale specifica, ma al
tempo stesso ogni plausibile accordo su reali diritti umani sarebbe basato
sulla necessita' di mettere da parte provvisoriamente la disputa sui
fondamenti.
Credo che la maggior parte delle critiche alla fondazione filosofica dei
diritti umani non sfugga al quesito posto da questa impasse. Come vedremo
piu' avanti, quando si discute di diritti umani e diversita' culturale, le
due opzioni principali, cioe' il relativismo morale e l'universalismo
monistico, oscillano anche esse tra queste due polarita'. Tipicamente, il
relativismo appare una fondazione dei diritti umani troppo interna rispetto
al loro rapporto con una cultura, mentre l'universalismo risulta troppo
esterno. La mia tesi, in proposito, e' semplicemente che questo e' un buon
motivo per andare alla ricerca di una soluzione terza rispetto
all'universalismo e al relativismo, in modo da sfuggire al dilemma che
questi estremi pongono. L'idea alla base di questa terza soluzione consiste
innanzitutto nel distinguere opportunamente tra fondazione e
giustificazione. Dove la fondazione vera e propria risulta improbabile, non
e' detto che una giustificazione sia impossibile. Qualsiasi sia il tipo di
giustificazione favorito - dialogico, contrattualista, fenomenologico ecc. -
la giustificazione, come contrapposta alla fondazione, ha sempre la
caratteristica di attribuire significato parzialmente normativo ad alcuni
elementi del contesto effettuale. Il costruttivismo, come contrapposto, per
esempio, all'intuizionismo, puo' costituire una base filosofica per la
giustificazione.
Nell'ambito di un processo generale giustificativo, a mio avviso, e' poi
opportuno distinguere qui tra giustificazione e legittimazione. In un'ottica
liberaldemocratica, entrambe dipendono dal consenso dei cittadini, ma come
gia' detto altrove, la legittimazione e' procedurale ed empirica e la
giustificazione trascendentale o virtuale. Cio' vuol dire che la
legittimazione ha sullo sfondo il consenso empirico oppure la correttezza de
ll'iter procedurale, mentre la giustificazione il consenso ipotetico in
condizioni ideali opportunamente definite. Nel prosieguo cerchero' di
applicare questa distinzione tra giustificazione e legittimazione alla
questione del rapporto tra universalita' dei diritti umani e tutela della
diversita' culturale.
*
Da pagina 178
Sviluppo sostenibile e filosofia politica
Sviluppo sostenibile: alle origini di un'idea
Negli anni in cui studiavo all'Universita' di Napoli, verso la fine degli
anni Sessanta, esisteva una convinzione diffusa in Europa occidentale
secondo la quale il capitalismo versava in una crisi profonda e
irreversibile. La ragione di questa crisi aveva molto a che fare con una
vicenda centrale nella parabola di quello che due economisti marxisti, molto
popolari a quel tempo, Baran e Sweezy, chiamavano il "capitale
monopolistico". La crescita economica capitalistica, a sentire questi
autori, era vincolata a una sorta di coazione a ripetere, il cui imperativo
principale consisteva nella necessita' di stimolare continuamente domanda e
consumo. Questa stessa necessita' rendeva cieca e non controllabile la
crescita dell'economia capitalistica. E indirettamente offriva il verso alla
critica di tutti coloro che, ispirandosi a personaggi piu' fantasiosi degli
economisti sopra ricordati, quale per esempio il filosofo tedesco Herbert
Marcuse, ritenevano la "dimensione" capitalistica non compatibile con una
decente qualita' della vita. La critica neomarxista dell'economia si
congiungeva cosi' con l'ansia libertaria per comporre quel cocktail creativo
comunemente chiamato "Sessantotto". In maniera strana, ma sicuramente
originale, l'impossibilita' di una riconciliazione tra capitale e lavoro
nell'ambito dell'economia neoclassica, che era parte importante del progetto
comunque industrialista e modernizzatore di Marx, finiva per incontrare la
resistenza tardoromantica e neoschilleriana all'impero della tecnica e della
produzione, questa invece sostanzialmente antimodernizzatrice e
antindustrialista. Una resistenza che evocava anche ritualisticamente la
qualita' contro la quantita', l'autenticita' in vece dell'omologazione, la
fantasia al posto della coazione a ripetere, l'umano piuttosto che la
tecnica, lo sviluppo in luogo della mera crescita e cosi' via.
Come dicevo, la miscela sessantottarda di marxismo e neoromanticismo era
anomala, per cosi' dire, intrinsecamente. Non stupisce cosi' che abbia
fallito i suoi obiettivi piu' significativi. Quando si fa un'analisi delle
ragioni di quel fallimento si sottolineano di solito gli aspetti
eccessivamente utopici del progetto etico-politico che sottostava al
movimento del Sessantotto. E bisogna riconoscere che c'e' molto di vero in
questa critica retrospettiva. Analisi del genere, pero', non mettono in
rilievo adeguatamente due altri aspetti della questione, aspetti peraltro
che a me sembrano fondamentali. Intendo riferirmi da un lato a quanto c'era
di buono in quella miscela del Sessantotto, e che potremmo considerare anche
oggi attuale e interessante, e dall'altro lato a quanto di nuovo e
significativo si e' prodotto da allora a oggi nel mondo delle idee
etico-politiche che, in un certo senso, potrebbe rivitalizzare la parte
migliore di quel progetto esaurito. A mio avviso, non e' pero' troppo
difficile azzardare un'ipotesi interpretativa in proposito. Il meglio del
progetto del Sessantotto ha a che fare con la sua capacita' di riunire, in
un unico paradigma, la ricerca della qualita' della vita con la questione
economico-sociale, sarebbe a dire con il modo di produzione capitalistico e
l'ingiustizia sociale che ne deriva. Le piu' significative proposte
etico-politiche, che si sono affacciate sul mercato delle idee da allora a
oggi, riguardano gli sviluppi del paradigma della giustizia distributiva da
John Rawls ad Amartya Sen.
Naturalmente, tutto cio' visto dopo il 1989 acquista una luce diversa.
Perche' possiamo affermare che i nostri interessi morali, politici, ma anche
estetici, per una difesa della qualita' della vita contro una concezione
puramente quantitativa della crescita economica sono ancora simili a quelli
che si nutrivano quasi quarant'anni fa, come e' tra l'altro testimoniato
dall'affermarsi progressivo di movimenti ecologisti e di strumenti economici
qualitativi da allora a oggi. Quello che, invece, e' diventato piu'
difficile e' credere nella componente neomarxista della miscela 1968,
perlomeno se presa alla lettera, come risposta alle domande poste dalla
questione economico-sociale. Se si accetta questa impostazione del problema,
allora diventa immediato chiedersi se quello che ho chiamato il paradigma
delle teorie della giustizia distributiva possa sostituire l'anello
mancante, cioe' la lettura marxista della questione economico-sociale. Il
ragionamento sottostante una proposta del genere e' infatti chiaro: se la
miscela del 1968 aveva di buono l'unione di difesa della qualita' della vita
e questione economico-sociale, o se volete il rendere compatibili le cause
di miseria e degrado (non solo materiale); se la questione economico-sociale
non puo' piu' essere riproposta come allora in termini di neomarxismo; se le
teorie della giustizia da Rawls a Sen costituiscono un modo innovativo e
interessante per discutere la questione economico-sociale; allora si puo'
tentare di riproporre la difesa della qualita' della vita nell'ottica di una
teoria della giustizia distributiva.
Quanto detto finora costituisce la premessa motivazionale da cui dipende
questo capitolo su sviluppo sostenibile e filosofia politica. La tesi
principale, sostenuta qui, verte su un'interpretazione filosofica dello
sviluppo sostenibile. Secondo questa interpretazione, proprio una teoria
dello sviluppo sostenibile permette quella congiunzione di difesa della
qualita' della vita e questione economico-sociale, di cui il Sessantotto si
fece portavoce. Se vogliamo, sto sostenendo che la questione della tutela
del capitale naturale (contrapposto a capitale artificiale), che sta sotto
l'idea di sostenibilita', non puo' essere scissa da quella dell'equita'
distributiva. Se, pero', nel 1968 difendere il capitale naturale e
promuovere l'equita' sociale poteva coincidere con il progettare la
rivoluzione comunista, oggi non e' piu' cosi'. La filosofia politica dello
sviluppo sostenibile, che qui propongo, assume che sia possibile una
conciliazione liberal e socialdemocratica di produzione via mercato,
distribuzione equa e tutela del capitale naturale. Per difendere questa
tesi, nel prossimo paragrafo cerchero' di delineare al meglio l'ambito di
una filosofia dello sviluppo sostenibile. Non e' questo un compito facile,
date le difficolta' teoriche e pratiche implicite nell'idea di sviluppo
sostenibile, e l'ulteriore complessita' che e' dovuta al voler riproporre
tale idea in termini di giustizia distributiva. La proposta generale di
questo capitolo consiste nell'includere la questione dell'eguaglianza
economico-sociale all'interno del grande tema dello sviluppo sostenibile,
trattando pero' quest'ultimo nei modi in cui si discute di solito di
giustizia distributiva. Nel terzo paragrafo discuto le basi morali e
psicologiche di questa visione, presentando un'ipotesi psicologico-sociale
basata sul concetto di limite. Nel quarto, cerco di estendere il paradigma
alla globalizzazione economica in atto, tentando anche di riformulare
l'ipotesi sul limite in termini di mutamenti della struttura economica. E
nel quinto, traggo alcune conclusioni dal percorso intellettuale qui
proposto, con la consapevolezza che piu' che un teorema etico-politico ho
esposto un'idea in nuce, la possibilita' di un legame che riguarda fenomeni
significativi che caratterizzano il nostro tempo.
*
Da pagina 206
E' il capitalismo moralmente accettabile?
Capitalismo e morale
Per molti studiosi, e spesso anche per l'uomo della strada, la democrazia
politica e' un regime in crisi. Al contrario, il capitalismo sembra, al
colto come all'inclita, florido piu' che mai. Il problema che mi sono posto
nasce da qualche dubbio in proposito. Se guardato, infatti, in una
prospettiva globale, il capitalismo puo' essere considerato parzialmente
inefficiente e soprattutto causa di profonda ingiustizia. Questo capitolo
nasce proprio dalla constatazione che spesso l'operare del mercato
capitalistico contrasta - in primo luogo per l'ineguaglianza e la miseria
che genera - con il nostro senso di giustizia. Il titolo del capitolo
consiste in una domanda alquanto brutale: "E' il capitalismo moralmente
accettabile?". La risposta immediata che io do' a questa domanda: "No, non
e' moralmente accettabile", almeno se per accettabile si intende "in grado
di superare il test di una giustificazione filosofica". Nell'affermarlo,
sono ben consapevole che il termine capitalismo e' vago, tanto da costituire
per molti un punto di partenza inadeguato. Tuttavia, in questo caso
"capitalismo" basta, a mio avviso, a catturare un'intuizione comune, e a me
non serve piu' di tanto. Evidenti sono anche i limiti della prospettiva
teorica che contraddistingue il mio argomento. Da un punto di vista
analitico, infatti, la mia risposta alla domanda assai generica posta dal
titolo del capitolo adopera gli strumenti dell'etica degli affari, vista
nell'ottica della filosofia politica. Ed e' ovvio che il problema qui posto
puo' essere posto anche in un'ottica diversa e piu' generale. Comunque sia,
la conclusione cui pervengo e' che, dati questi strumenti teorici, non e'
possibile trovare una giustificazione etica del mercato capitalistico.
Questa tesi, pero', non equivale a un rifiuto radicale ne' dell'etica degli
affari ne' tantomeno del mercato capitalistico. Anzi, nel prosieguo sostengo
che, su queste basi, e' possibile reperire un'ulteriore legittimazione del
mercato capitalistico, oltre a quelle strettamente legate all'efficienza
economica. Si puo' anche dire che un capitalismo moralmente decente, e
quindi legittimato, e' il presupposto di ogni giustificazione etica del
capitalismo. E' anche opportuno aggiungere che la stessa prospettiva
analitica prescelta esclude, in quanto tale, il ricorso a forme di
giustificazione critica del capitalismo piu' radicali, in cui non sussista
un meccanismo di selezione dell'informazione del tipo del mercato. Ma, per
comprendere il senso di queste affermazioni, bisogna necessariamente fare un
passo indietro, cominciando con l'esaminare natura e problemi dell'etica
degli affari.

7. LETTURE. JOLANDA INSANA: TUTTE LE POESIE (1977-2006)
Jolanda Insana, Tutte le poesie (1977-2006), Garzanti, Milano 2007, pp. 664,
euro 19,50. Il libro raccoglie versi gia' apparsi in vari volumi del periodo
considerato, e in coda un'antologia della critica. Leggere i versi di
Jolanda Insana e' una sfida: la realta' piu' cruda vi e' ostesa travestita
da carnevale, il ribollire insensato e infernale della lingua vi e'
raggelato in favola di fantasime, onomaturgia e glossolalia occultano e
quindi disvelano sofisticatissime mescidazioni barocche di basso e sublime,
di sermo plebeius e creaturale che cozza con ogni aulica tradizione e si
frange in mille iridescenze. "E' una poesia - diceva iersera Annibale
Scarpante - che a me non piace, giurabacco, proprio no, per quanto ha di
incontrollato e di sofistico a un tempo, di eruttivo e di ipercalittico, ma
corpo di mille fulmini e' pur poesia"; Annibale nostro e' fatto cosi', chi
ci capisce e' bravo.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 833 del 27 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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