Nonviolenza. Femminile plurale. 222



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 222 del 4 dicembre 2008

In questo numero:
1. Ida Dominijanni: Potere e politica
2. Vincenza Perilli: Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano
3. Barbara De Vivo: Velare, svelare: il razzismo della Francia coloniale e
postcoloniale

1. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: POTERE E POLITICA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 dicembre 2008 col titolo "Fantasma del
potere, potere della politica"]

Sull'ultimo numero di "Via Dogana", significativamente intitolato "Il
miraggio del potere nel deserto della politica", Luisa Muraro ragiona su un
paradosso, cosi' lo chiama lei stessa, in cui molte che vengono dalla
generazione del femminismo degli anni Settanta e seguenti non mancheranno di
riconoscersi. Il paradosso e' quello di una liberta' femminile che cresce
(meno subordinazione all'uomo e al destino biologico, piu' lavoro, piu'
partecipazione alla vita pubblica, piu' istruzione, piu' autonomia) dentro
una crisi di civilta' che mette a rischio la tenuta della democrazia, la
coesistenza pacifica dei popoli e delle razze, la forza contrattuale della
forza lavoro, la qualita' stessa dei rapporti umani. "Tutto va meglio e
tutto va peggio": un paradosso appunto, che per molte di noi si riflette in
un sentimento di lacerante ambivalenza nei confronti del presente. In Italia
il paradosso non data da oggi: il divario fra la percezione della crescita
della liberta' femminile e il deterioramento della situazione politica
comincia negli anni Ottanta, ed e' un divario che in parte e' riportabile a
una contraddizione della realta' ("nelle epoche di passaggio come questa
bisogna sapere che coesistono fra loro cose molto contrastanti, che possono
apparire piu' contrastanti di quello che appariranno alla luce di sviluppi
futuri che noi ignoriamo"), ma in parte va imputato a un difetto di scambio
fra lo sguardo sulla realta' maturato nella politica delle donne e quello
dominante nella politica della sinistra in tutte le sue variegate
componenti. "Si e' continuato a usare linguaggi differenti e a guardare le
cose da punti di vista differenti, il che consentiva di andare avanti
ignorandoci, la politica delle donne registrando cambiamenti positivi, gli
osservatori della societa' registrando una emorragia di forze e idee a
livello politico e culturale". E sperando che prima o poi la prospettiva
femminista avrebbe contaminato l'altra. Cosa che non accade o accade troppo
poco o troppo lentamente, con la conseguenza doppiamente nefasta che la
politica delle donne resta recintata, e che la politica della sinistra (da
quella istituzionale a quella dei movimenti di contestazione) continua a
pensare che quello che le donne dicono e fanno riguardi una parte
recintabile del reale invece di capire che mette in discussione la visione
del reale nel suo insieme.
Molto dipende, e' ovvio, dalla sordita' maschile, dalla misoginia e dalle
coazioni a ripetere e a ripetersi della politica tradizionale. Ma anche
questa attribuzione di colpe rischia di diventare ripetitiva e inefficace, e
dunque conviene interrogarsi, ed e' quello che Muraro invita a fare, anche
sui limiti della pratica femminista.
Uno in particolare, che chiama in campo la questione del potere. O forse il
fantasma, perche' a onta della sua apparente evidenza e autoevidenza, il
potere e' sempre avvolto in una dimensione fantasmatica: per chi - piu'
uomini che donne - ne fa "la" misura della politica, e per chi - piu' donne
che uomini - tende a tenerlo, e a tenersene, a distanza di sicurezza.
Mancando cosi' entrambi la messa a fuoco di una tensione cruciale: che
"l'agire libero e creativo, in ogni campo, si afferma a spese della logica
del potere, che e' logica dei rapporti di forza, del dominio, del
conformismo, della sopraffazione o della competizione piu' o meno regolata",
e viceversa "la logica del potere si afferma a spese dell'agire libero e
creativo, in ogni campo e in primo luogo nella politica". Fare politica
significa dunque stare efficacemente in questo campo di tensione: non
identificarsi col potere, ne' illudersi di starne fuori, ma "strappare
politica viva ed efficace alla presa del potere che la trasforma in una
specie di grande pretesto per il suo funzionamento". Ovvero lottare per
imporre competenze e pratiche di trasformazione del reale che comportano un
conflitto con le impostazioni, le procedure, le soluzioni codificate dalla
logica del potere. Si tratta dunque di uscire dall'alternativa fra "dentro"
e "fuori", posizioni - l'una tipica del femminismo paritario, l'altra
diffusa nel femminismo della differenza - per trovare quella che Muraro
chiama "la giusta distanza" dal potere e l'indipendenza del pensiero dalla
sua logica. Il che comporta a sua volta un lavoro di analisi dei rapporti
che intercorrono fra politica e potere, per dissipare la nebbia che ce li fa
vedere sovrapposti ma anche l'illusione che ce li fa separare con un taglio
netto. Un lavoro che proprio nelle ultime settimane ha cominciato a fare il
"Grande seminario" di quest'anno della comunita' filosofica Diotima
all'Universita' di Verona, sotto il titolo anch'esso significativo "Potere e
politica non sono la stessa cosa".

2. RIFLESSIONE. VINCENZA PERILLI: MITI E SMEMORATEZZE DEL PASSATO COLONIALE
ITALIANO
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net/spip3) riprendiamo il
seguente articolo originariamente apparso sul n. 1 della rivista
"ControStorie", col titolo "Miti e smemoratezze del passato coloniale
italiano" e il sommario "Il colonialismo italiano e' una delle pagine piu'
nascoste della storia italiana. Il mito degli 'italiani brava gente' nelle
colonie dell'Etiopia, Eritrea, Libia, Somalia, e' servito a nascondere
massacri, deportazioni, stermini, leggi razziali"]

Come sottolinea Nicola Labanca nel suo libro Oltremare. Storia
dell'espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, e' negli
elenchi stradali italiani che permane il ricordo - altrove rimosso - delle
imprese coloniali dell'Italia unita: una piazza Adua, un corso Tripoli o una
via Mogadiscio, sono frequenti nella toponomastica non immemore delle nostre
citta'.
Piu' difficile sembra, invece, trovare qualcuno/a capace di spiegarcene il
senso.
Ai piu' sfugge, ad esempio, il legame tra una "via Libia" - che a Bologna
costeggia un quartiere familiarmente detto "della Cirenaica" (1) - e i
ripetuti tentativi di "conquista" di queste terre da parte dell'Italia
liberale prima e di quella fascista poi.
Chi ricorda la spietata rappresaglia italiana all'indomani della sconfitta
subita a Sciara Sciat (villaggio alle porte di Tripoli) ad opera dei ribelli
libici nel 1911, la ì"caccia all'arabo" che si scateno' tra le vie della
capitale con impiccagioni collettive nella centrale Piazza del Pane e
deportazioni di massa verso l'Italia che durarono almeno fino al 1916?
Qui (nelle prigioni delle Isole Tremiti, di Favignana, di Gaeta, di Ponza,
di Ustica...) coloro che non erano morti nella traversata, morirono in gran
numero per le condizioni inumane di prigionia, le malattie non curate, il
lavoro forzato e i maltrattamenti.
A tutt'oggi, scrive Angelo Del Boca, "ci sono famiglie in Libia che
vorrebbero almeno sapere dove sono sepolti i loro cari" (2).
E chi ricorda - ancora -, durante la "riconquista" della Libia negli anni
'30, le rappresaglie, le distruzioni sistematiche, le deportazioni di massa
di civili (che causarono 60.000 morti nella sola Cirenaica, anche
bambini/e), l'impiccagione, tra gli altri, il 16 settembre 1931 - in spregio
ad ogni convenzione internazionale - di Omar el Mukhtar, uno dei capi della
resistenza locale?
*
I responsabili di questi ed altri crimini dell'impresa coloniale italiana
non hanno mai pagato. E credo non si possa piu' tollerare che a pagare
siano - ancor oggi - le vittime, con un prezzo che si chiama oblio,
cancellazione, rimozione.
Si chiama mito degli "italiani, brava gente".
Un mito secondo il quale il colonialismo italiano e' stato, a confronto di
altri colonialismi coevi, buono, umano e tollerante. Un colonialismo, come
scrive efficacemente Paola Tabet, "all'acqua di rose" (3).
Un mito talmente persistente che neanche i puntuali studi storiografici - a
partire dall'opera pioniera di Del Boca alle importanti ricerche degli
ultimi decenni di giovani storici e storiche (4) -, sono riusciti realmente
a scalfire.
Piu' facile, o forse comodo, introiettare un mito che e' insieme
tranquillizzante e autoassolutorio piuttosto che farsi carico della
consapevolezza di questo ingombrante passato che getterebbe, certo, una luce
troppo inquietante sul presente (5).
Questo mito e' frutto di un lungo processo di rimozione, perseguito tra
l'altro con tenacia gia' all'indomani della firma del trattato di pace di
Parigi il 10 febbraio 1947 che privava per sempre l'Italia delle colonie,
quando lo stato italiano anziche' avviare un dibattito sul colonialismo,
cerco' di occultare e distorcere con ogni mezzo la realta'. Ne e' un esempio
la pubblicazione in cinquanta volumi, a cura del Ministero degli Affari
Esteri, dell'opera L'Italia in Africa. Spacciata come una sintesi e un
bilancio delle presenza italiana nelle colonie, si rivela invece come una
colossale mistificazione atta a esaltare i meriti della colonizzazione
italiana (6).
*
Indubbiamente rispetto ad altri colonialismi coevi, il colonialismo italiano
presenta alcune "diversita'".
Anzitutto l'Italia era stata unificata da appena un ventennio quando - fra
il 1882 e il 1885 - fece le sue prime esperienze coloniali, che ebbero la
loro fase culminante in anni in cui altre imprese coloniali dovevano gia'
fare i conti con il processo di decolonizzazione.
Fu anche un'esperienza circoscritta nel tempo, poco piu' di 60 anni: dal
1882 in Eritrea, dal 1889 in Somalia, dal 1911 in Libia e dal 1935 in
Etiopia e tutte potevano dirsi concluse nel 1943, come anche il
"protettorato"in Albania e le colonie nelle Isole Sporadi meridionali (dette
impropriamente Isole Egee), storia coloniale tra le piu' dimenticate (7).
Inoltre, rispetto ai ben piu' vasti imperi di altre potenze - si pensi
all'Inghilterra o alla Francia - le colonie italiane erano anche
circoscritte geograficamente, e piu' "povere", quindi economicamente meno
vantaggiose. Infine, fin dalle origini, il colonialismo italiano si
caratterizzo' per un'assoluta ignoranza del territorio e delle popolazioni
che vi abitavano considerate barbare, inette e militarmente incapaci,
sottovalutando di conseguenza anche le loro capacita' di resistenza.
Queste le ragioni che portarono, ad esempio, alla celebre sconfitta di Adua,
quando l'esercito guidato dall'imperatore Menelik II e dall'imperatrice
Taitu' Zeetiopia Berean - figura mitica di donna guerriera, che anticipa
altre celebri resistenti come Kebedech Seyoum (8) - infligge agli italiani
quella che e' unanimemente considerata la piu' grande sconfitta mai subita
dai colonizzatori "bianchi" in Africa, intaccando per sempre "i reticolati
del piu' vasto campo di concentramento della terra" (9).
Ma queste diversita' non hanno determinato una minore brutalita'
dell'impresa coloniale italiana, come il mito degli "italiani brava gente"
vorrebbe farci credere.
Semmai l'Italia, giunta in ritardo sullo scacchiere coloniale, poteva
vantare su una lunga tradizione di "razzismo interno", che trovo' il suo
culmine nella cosiddetta "guerra al brigantaggio", che come ci ricorda Del
Boca "fu anche una 'guerra coloniale', che anticipo', per le inaudite
violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle combattute in seguito in
Africa. Non fu forse il generale d'armata Enrico Cialdini, luogotenente di
re Vittorio Emanuele II a Napoli, a dichiarare: 'Questa e' Africa! Altro che
Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele'?" (10).
Latte e miele che non impedirono certo i massacri e le deportazioni, gli
inferni delle carceri eritree - e tra queste la famigerata Nocra -, il
lavoro forzato in Somalia - chiamato dai somali "schiavismo bianco" -, i
campi di concentramento in Libia, l'uso massiccio di gas come fosgene e
iprite - gia' vietati dalla Convenzione di Ginevra - per piegare la
resistenza etiopica, la strage, tra le altre, di Debra' Libanos o la feroce
rappresaglia che si scateno' per le vie di Addis Abeba in seguito
all'attentato, il 19 febbraio 1937, al vicere' d'Etiopia maresciallo Rodolfo
Graziani (11).
*
Senza dimenticare la politica di segregazione razziale e di "difesa del
prestigio della razza" imposta dal regime fascista in Africa a partire dal
'36, con la proibizione assoluta di rapporti sessuali interrazziali nella
cosiddetta "colonia per maschi" (12). Un aspetto questo essenziale per
un'analisi delle articolazioni - anche odierne - del sessismo e del
razzismo.
L'immagine della donna "indigena", esotica, disponibile e voluttuosa era
stato uno dei cliche' massicciamente diffusi nei primi anni della conquista
coloniale italiana - anche attraverso una serie di cartoline che ebbero
larga diffusione -, funzionando come una sorta di "richiamo erotico" per i
colonizzatori, secondo la sovrapposizione simbolica della conquista sessuale
con quella coloniale gia' collaudata in altri contesti nazionali.
Per i primi quarant'anni il cosiddetto madamato viene largamente tollerato
mentre la presenza delle donne "bianche" in colonia e' generalmente
scoraggiata.
Ma a partire dalla proclamazione dell'Impero le "unioni miste" (sia nella
forma del madamato che del matrimonio) cominceranno ad essere osteggiate
fino ad essere proibite del tutto con il decreto dell'aprile 1937, e mentre
la prostituzione subisce un'impennata la presenza delle donne "bianche" in
colonia - come mogli, anche potenziali, dei "cittadini bianchi" - comincia
ad essere incoraggiata fortemente.
In questo modo si realizza da una parte "l'ufficializzazione della
percezione delle donne native come prostitute" (13) e dall'altra la
celebrazione ulteriore della donna "bianca" come moglie e madre. Del resto
queste ultime sono le uniche a poter accedere allo statuto di "donna", le
altre sono "femmine", come scrive un ex colono italiano nelle sue memorie:
"Femmine ce ne sono in colonia, nere esuberanti e generose; mancano le
donne, le quali non possono essere che bianche" (14).
*
Note
1. La Cirenaica, insieme alla Tripolitania, e' stata una delle regioni
libiche che ha maggiormente subito l'invasione coloniale italiana.
2. Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza
2005, p. 115.
3. Paola Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997, p. VII.
4. Impossibile fornire nel contesto di questo breve articolo una
bibliografia esaustiva. Mi limitero' a segnalare alcuni testi di Angelo del
Boca, tra i quali i quattro volumi de Gli italiani in Africa orientale editi
da Laterza (Dall'unita' alla marcia su Roma, 1976; La conquista dell'impero,
1979; La caduta dell'Impero, 1981; Nostalgia delle colonie, 1984) e L'Africa
nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Laterza,
Bari 1992; i testi di Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher,
Torino 1973 e "L'impiego dei gas nella guerra d'Etiopia. 1935-1936", in
"Rivista di storia contemporanea", n. 1, 1988, pp. 74-109; il volume di
Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993. Per quanto
riguarda la lettura delle vicende coloniali italiane in una prospettiva di
genere, ricordo il saggio di Gabriella Campassi, "Il madamato in A.O.:
relazioni tra italiani e indigene come forma di aggressione coloniale", in
"Miscellanea di storia delle esplorazioni", XII (1987) e i volumi di Giulia
Barrera, Dangerous liaisons. Colonial Concubinage in Eritrea, 1890-1941,
Evanstone (Illinois), Northwestern University 1996 e Barbara Sorgoni, Parole
e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interraziali
nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori, Napoli 1998. Vorrei inoltre
ricordare, a quasi tre anni dalla morte, Riccardo Bonavita con il suo saggio
"Lo sguardo dall'alto. Le forme della razzizzazione nei romanzi coloniali e
nella narrativa esotica", in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna
della razza, Grafis, Bologna 1994.
5. Mi sembra di poter cogliere un sintomo di questa rimozione anche nel
linguaggio cosiddetto "critico" o "militante", dove la tendenza - oramai
consolidata - all'uso di metafore o immagini che rinviano al passato per
descrivere o contestare il presente, solo in rare eccezioni trova
nell'impresa coloniale italiana un utile serbatoio dal quale attingere. I
recenti "rastrellamenti" di migranti sui mezzi pubblici in diverse citta'
italiane come anche l'odioso atto di razzismo di un capotreno contro una
passeggera migrante, hanno evocato il segregazionismo nell'America razzista
del secolo scorso o l'apartheid sudafricano, ma non la politica di
segregazione razziale imposta dall'Italia fascista a partire dal '36 nelle
sue colonie africane.
6. Cfr. Angelo Del Boca, "Gli studi storici e il colonialismo italiano",
prefazione a Enrico Castelli (a cura di), Immagini & colonie, Centro
documentazione del museo etnografico Tamburo Parlante, Montone 1998, pp.
7-8.
7. Nicholas Doumanis (1997), Una faccia, una razza. Le colonie italiane
nell'Egeo, Bologna, Il Mulino, 2003.
8. A Kebedech Seyoum, splendida combattente durante l'occupazione fascista
dell'Etiopia, Gabriella Ghermandi dedica una delle sue "storie" nel
bellissimo Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007.
9. Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. Dall'unita' alla
marcia su Roma, op. cit., p. 701.
10. Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, op. cit., p. 57.
11. Tre giorni di vera e propria "caccia all'uomo" (uomini, donne,
bambini/e) che provoco', a seconda delle fonti, da un minimo di 1.400 a un
massimo di 30.000 morti.
12. Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una
storia di genere, Ombre Corte, Verona 2007.
13. Barbara Sorgoni, Parole e corpi, op. cit., p. 244.
14. Ibidem.

3. RIFLESSIONE. BARBARA DE VIVO: VELARE, SVELARE: IL RAZZISMO DELLA FRANCIA
COLONIALE E POSTCOLONIALE
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net/spip3) riprendiamo il
seguente articolo (originariamente apparso sul n. 1 della rivista
"ControStorie", dedicato all'intreccio tra razzismo, genere, classe) dal
titolo "Velare, svelare: il razzismo della Francia coloniale e
postcoloniale" e la nota introduttiva "'Razzismo, genere, classe', questo e'
il titolo del primo numero di 'ControStorie', una rivista autoprodotta e
autofinanziata, che vive grazie alla passione per le idee e il dibattito
politico di attiviste e attivisti impegnate/i a tutto tondo nel mondo
eterogeneo di quel che resta del movimento dei movimenti. Il titolo del
primo numero in realta' e' una sorta di dichiarazione d'intenti: queste tre
categorie intersecate tra loro saranno la griglia d'analisi con cui la
rivista intende guardare al mondo, analizzarlo. Sin dagli anni '70 l'analisi
sull'intersezione tra sessismo, razzismo e classismo e' patrimonio del
femminismo grazie all'elaborazione politica del black feminism. Secondo
questa analisi il genere non e' una categoria a cui si sommano altra
categorie come la classa e la razza, ma il genere e' costruito anche dalla
razza e dalla classe, cosi' come la razza e' costruita sulla base del genere
e della classe di cui si fa parte. Quindi genere, razza, classe sono
interrelati, intersecati, inscindibili"]

La questione del velo rende visibile il filo storico che lega "la diffusione
dell'universalismo emancipatore" - invocata nella colonizzazione francese
dell'Algeria - all'islamofobia e al razzismo di Stato di oggi. Ricostruire
questa storia e' necessario per contrastare le pericolose concessioni fatte
al razzismo anche dai movimenti.
Nel 2004 in Francia venne approvata a larga maggioranza la legge che impone
il divieto di indossare simboli religiosi a scuola. Sebbene la legge vieti
qualsiasi tipo di abito che sia palesemente religioso, il dibattito e' nato
intorno a studentesse che indossavano il velo.
In questo articolo vorrei non tanto riprendere le fila del dibattito che si
scateno' intorno alla questione del velo in Francia quanto piuttosto dare
degli elementi di analisi per ricostruire il contesto che ha portato a
questa legge, e soprattutto sottolineare come il velo e il corpo delle donne
siano stati usati per imporre leggi restrittive, discriminatorie che
palesano il "razzismo di stato" in Francia.
A favore della legge sul velo e all'espulsione dalle scuole delle ragazze
che lo indossavano si sono espressi una varieta' di soggetti politici con
argomentazioni diverse.
Prima tra tutte l'estrema destra che vedeva nel velo il simbolo palese
dell'islamizzazione della Francia, poi la destra liberista che rintracciava
nel velo il segno della sconfitta delle politiche di integrazione degli
immigrati e delle generazioni successive, nonche' gran parte delle sinistra
socialiberista e radicale che vedevano nel velo il simbolo dell'oppressione
patriarcale e della minaccia alla laicita'.
Quello che sorprende nel dibattito francese e' che il velo e' stato letto
unicamente come un simbolo religioso legato a ragioni mistiche, omettendo
completamente le ragioni materiali che portano le ragazze ad indossare il
velo: il posto che le figlie e i figli dell'immigrazione occupano nella
societa' francese, la storia coloniale francese, il nuovo assetto
geopolitico mondiale che fa dell'Islam il nuovo nemico dell'Occidente,
l'islamofobia, ovvero il razzismo contro l'arabo che ha assunto una forte
rilevanza dopo l'11 settembre e lo scoppio della guerra in Medioriente.
Con il nuovo ordine mondiale post-guerra fredda l'imperialismo degli Usa ha
spostato il nemico nel Medioriente. Le ragioni economiche dell'imperialismo
e della guerra globale e permanente hanno necessitato di argomentazioni
ideologiche per armare gli eserciti e per giustificare lo stato di terrore
post 11 settembre. La caccia al terrorista islamico ha nutrito il razzismo
nei confronti delle popolazioni di fede musulmana o proveniente da paesi
detti arabi, che vivono in Occidente.
L'11 settembre e la nuova crociata contro l'Islam hanno aperto due fronti di
guerra: uno in Medioriente contro le popolazioni civili, l'altro in
Occidente contro gli immigrati e le immigrate (e le generazioni successive
al percorso migratorio) che portano sulla propria pelle il segno di
appartenenza ad un ipotetico mondo arabo. La battaglia contro il velo ne e'
un esempio.
*
La questione del velo in Algeria durante il colonialismo
La questione del velo nella storia francese non nasce oggi, nasce in
Algeria, nelle colonie occupate dai francesi gia' dalla fine degli anni '50,
riesplode in Francia alla fine degli anni '80 e arriva fino ad oggi.
Il 13 maggio 1958, in piena guerra di liberazione algerina contro il dominio
coloniale francese, donne velate salirono su un palco in una piazza centrale
dell'Algeri francese, Place du Gouvernement (l'occupazione di Algeri
divideva la citta' in settore francese e settore indigeno). Donne francesi
colonizzatrici erano li' accanto a loro per svelarle e bruciare i veli sulla
pubblica piazza utilizzando la retorica emancipazionista della
colonizzatrice giunta in colonia per portare modernita' e valori supremi
universali.
In epoca coloniale, la retorica sulla condizione della "donna musulmana" e'
servita a produrre un apparato discorsivo volto a decretare
l'inammissibilita' delle popolazioni colonizzate e a negare loro la
cittadinanza francese.
Non solo, ma nel contesto di dominazione coloniale, e in particolar modo in
momenti di estrema tensione quali la guerra d'Algeria, il corpo della donna
velata diviene metonimia per l'intero territorio: e' necessario svelarla,
strappare il velo per poter controllare attraverso di lei le misteriose
abitazioni della casbah. [...]
Ecco quindi che in piena guerra d'Algeria diventa fondamentale conquistare
le donne, sollevarne il velo, per mettere in scena ancora una volta la
propria superiorita', ma soprattutto per umiliare i colonizzati. I corpi
femminili velati divengono terreno di scontro, mezzo attraverso cui due
campi avversi si danno battaglia. Ma il velo e' esso stesso oggetto di
riappropriazione politica: molte donne algerine che avevano smesso di
portarlo lo rimettono in segno di resistenza contro l'occupazione e le
combattenti lo utilizzano strategicamente come strumento di guerra, come
inscenato dal film La battaglia di Algeri.
Al tempo stesso, per la Francia la "battaglia del velo" e' un modo per
distogliere lo sguardo dai massacri e dalle torture.
Con l'aiuto del Movimento di solidarieta' femminile, associazione
caritatevole fondata da Madame Salam, moglie del comandante delle truppe
francesi in Algeria, i colonialisti inscenano le cerimonie di "svelamento"
al grido di "Viva l"Algeria francese" (1).
Le donne sono stata al cuore della guerra di liberazione algerina. L'uso del
velo le facilitava nel nascondere la propria identita' e nel trasportare
armi e bombe. Frantz Fanon (2) sostiene che l'occupazione coloniale francese
ha enfatizzato "il dinamismo storico del velo", mutando la sua funzione in
contesti strategici diversi. Il velo non solo era usato strumentalmente per
trasportare armi ma anche per identificare l'appartenenza politica delle
donne velate identificandole come militanti per la liberazione. In un
contesto in cui le divisioni tra coloni e nativi aveva raggiunto livelli
netti l'appartenenza politica delle donne veniva identificata a partire dai
loro vestiti (3).
A seconda della circostanza l'Algeria velava e svelava se stessa, giocando
di sorpresa contro le ipotesi dell'occupante coloniale. Benche' ai soldati
francesi fossero stati consegnati ufficialmente dei volantini che chiedevano
il rispetto delle donne musulmane, ci sono state numerose e ben documentate
occasioni in cui i loro processi investigativi, la torture, finivano nello
stupro, nella tortura e nell'assassinio delle persone sospette. A volte
queste donne venivano messe in fila, denudate da chi le aveva catturate e
fotografate in questo stato prima della loro morte. Si svelava l'Algeria,
per gli occhi crudeli della civilta' francese (4).
Come in ogni guerra di occupazione il corpo delle donne diventa qualcosa di
cui appropriarsi.
Tutte le guerre del passato e del presente a livello simbolico hanno sempre
creato un legame tra la terra da conquistare e la donna da possedere,
civilizzare, liberare. La stessa retorica e' stata utilizzata, ad esempio,
per inviare soldati armati in Afghanistan a liberare le donne dal burqa:
uomini europei e nordamericani armati pronti a liberare donne afghane dagli
uomini locali attraverso le bombe, la violenza, lo stupro.
In Algeria la retorica della liberazione della donna da parte dei
colonizzatori e' stata smentita dalla storia: i pieni diritti delle donne e
la scolarizzazione iniziarono ad essere conquistati solo con l'inizio della
guerra di liberazione non prima.
Le donne velate sono state, dunque, il bersaglio e la preda di coloro che
cercavano di imporre le ragioni del colonizzatore per spezzare le resistenze
locali.
Il sessismo, il razzismo, l'islamofobia (in Algeria leggi contro l'Islam
crearono un regime di segregazione religiosa) in colonia furono armi per
dividere, sottomettere e inferiorizzare i colonizzati.
*
La questione del velo in Francia
L'affare del velo continua in Francia nel 1989.
Tre ragazze che indossavano il velo vennero espulse da una scuola pubblica
di Creil, il caso fini' sulle prime pagine di tutti i giornali e porto' ad
un dibattito in parlamento. Al cuore del dibattito c'era la presunta
minaccia all'identita' nazionale francese e al laicismo di stato messo in
crisi dall'immigrazione, dalla religione e dalle lotte degli immigrati e
delle generazioni successive. Molti di coloro che si sono opposti al velo
l'hanno fatto in nome del laicismo. Ma la definizione di laicismo francese
e' poco chiara. Secondo Edgar Morin, il laicismo era una prospettiva critica
contro il monopolio ideologico della chiesa cattolica.
Era stato proposto come uno sforzo pluralistico. Tuttavia oggi l'ideale
pluralistico ha aperto la strada ad una versione del laicismo che maschera
l'intolleranza dietro l'apparenza della scienza e del razionalismo. [...]
L'influenza del velo e' dovuta in gran parte al fatto che le ragazze
indossavano il velo a scuola. Fin dal XIX secolo, il sistema educativo
francese e' stato il piu' importante meccanismo per la creazione
dell'identita' nazionale. L'istruzione laica - piu' che per garantire la
liberta' religiosa - era stata avviata per sottrarre l'istruzione dal
controllo della chiesa cattolica: una chiesa i cui ideali erano contrari a
quelli della Repubblica. Eppure si tratta di un laicismo cattolico. Le
scuole pubbliche francesi fanno delle concessioni al cattolicesimo: alcune
scuole hanno un cappellano; molte chiudono in anticipo di mercoledi', per
permettere agli studenti di frequentare il catechismo; le vacanze
scolastiche (e, di conseguenza, quelle nazionali) coincidono con le maggiori
festivita' cattoliche (5).
La questione del velo del 1989 cadde in un clima politico di lotte che
avevano come protagoniste le seconde generazioni di figlie e figli di
immigrati provenienti dal Maghreb. Le proteste delle seconde generazioni si
scagliarono contro la disoccupazione, il razzismo, le limitazioni
nell'accesso all'istruzione superiore, le discriminazioni. In quegli anni
nacquero anche grandi associazioni antirazziste come "Sos Racisme" vicina al
Partito Socialista, che fini' poi per deludere le aspettative del movimento.
Nel 2004, la questione del velo riesplose e il parlamento francese decise di
sancire la svolta nel dibattito, approvando a maggioranza una legge che
vieta di indossare segni religiosi all'interno delle scuole in rispetto al
principio della laicita'.
Il dibattito divise la sinistra e vide parte del movimento femminista
francese appoggiare la legge fatta da un governo di destra, mentre episodi
di razzismo contro le donne che indossavano il velo iniziarono a
moltiplicarsi.
All'inizio dell'anno scolastico nel 2004, quarantaquattro ragazze velate
sono state escluse, senza peraltro poter valutare quante avessero deciso di
non iscriversi e quale fosse lo stato d'animo di coloro che avevano "scelto"
di togliersi il velo per poter proseguire gli studi.
In nome di un principio universale, quello di laicita', e' stata messa in
atto una discriminazione nei confronti delle cittadine francesi musulmane:
e' stato sottratto loro l'universale diritto all'istruzione. Non solo, ma la
violenza della legge si e' espressa anche nelle sue "sbavature": zelanti
funzionari si sono serviti della legge come pretesto per discriminare donne
velate, dalle studentesse che hanno avuto problemi a iscriversi
all'universita', alle mamme a cui e' stato vietato di accompagnare i figli
in uscita scolastica, fino alla richiesta di carta di soggiorno rigettata a
causa di un velo (6). [...]
Viene allora da chiedersi: ma la laicita' non dovrebbe essere la separazione
tra religione e insegnamento, nel caso della scuola, e non la
regolamentazione e il disciplinamento dei credi degli studenti? E se la
scuola francese e' laica perche' il calendario degli insegnamenti e'
regolato in base alle festivita' e occorrenze cattoliche?
In Francia circa quattro milioni e mezzo di persone sono di fede musulmana.
L'islam e' la seconda religione, ed e' principalmente la religione degli
immigrati e delle generazioni successive alla migrazione, provenienti dalle
ex colonie francesi.
L'imposizione della laicita' puo' velare, allora, il razzismo di stato che
mira a colpire i cittadini che provengono dalle ex colonie del Maghreb. Lo
stato interviene per etnicizzare i cittadini francesi dividendoli in arabi e
non arabi e costruendo argomentazioni sulle differenze culturali
irriducibili. Il velo diventa cosi' secondo le logiche razziste di chi lo
vieta segno d'appartenenza all'Islam fondamentalista e mancanza di
integrazione repubblicana nella societa' francese.
Nel corso del 2004 e del 2005 il governo francese ha utilizzato misure
politiche che sanciscono il legame con il passato coloniale, un passato
ancora vivo che modella la politica francese attuale: La legge antifoulard
ha preceduto la risposta repressiva di un governo che per "pacificare" le
banlieues ha instaurato per tre mesi lo stato di emergenza servendosi di una
norma del 1955, promulgata durante la guerra d'Algeria.
Contemporaneamente alle rivolte si e' aperta inoltre una vasta polemica sul
passato coloniale francese anche in seguito all'approvazione della legge del
23 febbraio 2005, il cui articolo 4, alla fine ritirato dopo la protesta di
storici ed associazioni, prevedeva di inserire una lettura apologetica del
colonialismo all'interno di manuali scolastici e testi universitari. Si
comprendera' quindi come in Francia concetti quali "colonialismo",
"postcolonialismo", "razzismo", "storia e memoria", siano direttamente
legati a questioni d'attualita' politica e sociale, e come anzi tale urgenza
politica abbia contribuito a riaprire una discussione sulla costruzione del
modello nazionale francese attraverso il processo di espansione coloniale, e
sull'immaginario che tale processo ha inevitabilmente prodotto (7). Non
stupisce allora che in un paese come la Francia, dove la scuola vorrebbe
dare una visione civilizzatrice del colonialismo, ragazze che non si sentono
da cio' rappresentate, decidano di mettersi il velo rivendicando visibilita'
contro la norma che le esclude. Eppure: [...] le ragazze velate sono state
descritte sia come vittime, oppresse da una cultura o da una famiglia
retrograda, sia come complici (sotto influenza, manipolate) di gruppi
fondamentalisti islamici.
La legge rappresenterebbe un baluardo contro il fondamentalismo, dato che le
ragazze velate a scuola costituirebbero una minaccia per le ragazze non
velate che hanno scelto la modernita', ovvero l'emancipazione repubblicana.
Descrivendo le ragazze velate come inevitabilmente oppresse, la famiglia
musulmana come un santuario di tradizione, e i giovani musulmani come
inevitabilmente oppressori, intrappolati in una virilita' estrema -
violenti, "velatori", violentatori - i media e le forze politiche sembrano
voler riproporre il diritto di sguardo esercitato nelle colonie. Il velo e'
stato letto inequivocabilmente come segno di oppressione, indipendentemente
dal fatto che numerosi studi abbiano dimostrato il significato soggettivo
plurimo che esso puo' rivestire, e la specificita' storica del velo nel
contesto francese.
In una prima ricerca, nel 1994, erano stati individuati tre tipi di veli: il
velo tradizionale delle anziane immigrate di prima generazione, il foulard
delle adolescenti, usato per negoziare spazi di liberta' e mobilita' e per
conquistare la fiducia della famiglia, ed il velo "militante" di giovani
donne, che costituirebbe una rivendicazione di autonomia culturale, in
risposta al razzismo e alla stigma sociale. In generale gli studi e le
interviste apparsi in concomitanza alla legge hanno mostrato come il velo
sia frutto nella maggior parte dei casi di una scelta meditata, reversibile,
scelta che esprime il tentativo di conciliare multiple identita' ed
appartenenze (francesi e musulmane) e di marcare la propria solidarieta' nei
confronti della comunita' di origine (8).
Sul velo come libera scelta indossato per rivendicare identita' ed
appartenenze multiple insistono le femministe che fanno parte del Mouvement
des Indigenes de la Republique: un movimento di figlie e figli
dell'immigrazione originaria dalla ex colonie francesi. Les Indigenes hanno
rappresentato l'esperienza piu' avanzata e radicale di autorganizzazione di
terze e quarte generazioni in Francia. Cio' che li caratterizza e' un
discorso a tutto tondo sul passato e sul presente coloniale francese e sulla
lotta al razzismo (9).
Le femministe "indigene" sono una componente del pensiero femminista
contemporaneo che lega nelle proprie analisi razzismo e sessismo. Se in un
certo femminismo il genere e' l'unica categoria d'analisi che struttura i
rapporti di potere e sottomissione tra gli esseri umani, le femministe
indigene, eredi delle femministe africane americane, delle femministe
chicane e delle femministe postcoloniali, sono qui a ricordarci, che nella
strutturazione del genere la classe, la "razza", la nazionalita' che si ha
in tasca, la religione, contano e che il soggetto monolitico donna non
esiste ma e' un'invenzione di quel femminismo bianco e borghese che si erge
ad universale. Quel femminismo che identificando le ragazze velate come
vittime del patriarcato, il 6 marzo 2004 a Parigi le ha sbattute fuori dal
corteo organizzato in occasione della giornata internazionale della donna.
L'affare del velo dimostra come il razzismo sia un'arma capace di dividere
chiunque, anche i movimenti che lottano per cambiare o migliorare il mondo.
*
In Italia il razzismo oggi e' lo strumento maggiormente utilizzato dalla
destra al potere, strumento che sta contaminando a fondo la societa'
italiana. Anche in Italia l'Islam in quanto religione degli immigrati e'
sotto attacco. La Lega Nord e la destra in generale sono sempre in prima
linea contro l'Islam, impedendo fisicamente la costruzione di moschee, ad
esempio, o conducendo discorsi apertamente islamofobi che insistono,
inoltre, sulle radici cristiane dell'Italia, oppure attraverso campagne
fortemente razziste.
La sinistra italiana dal suo canto sconta una completa impreparazione
teorica e di azione sul piano dell'antirazzismo e della lotta
all'islamofobia. Se azioni di lotta sono quanto mai necessarie contro la
deriva razzista dell'Italia contemporanea, allo stesso tempo e' necessario
conoscere, capire, studiare le storie dell'immigrazione, il valore della
religione per l'immigrazione, la storia del razzismo e del colonialismo, per
fare solo alcuni esempi.
Questo articolo, vuole essere un contributo per dare visibilita' a cio' che
spesso rimane nell'ombra.
*
Note
1. Chiara Bonfiglioli, "La battaglia del velo. Laicismo e femminismi nella
Francia postcoloniale", in "Zapruder", n. 13, maggio-agosto 2007, Donne di
mondo. Percorsi transnazionali dei femminismi, Odradek, pp. 83-84.
2. Frantz Fanon (Fort de France, Martinica, 1925 - Washington, 1961) di
origini martinicane e di formazione francese, dopo la laurea in medicina e
gli studi in filosofia, si specializzo' in psichiatria. Trasferitosi in
Algeria svolse la sua attivita' presso il manicomio di Blida. Le difficolta'
qui incontrate lo convinsero che era la condizione stessa di colonizzato, e
la violenza culturale su cui si fondava, a vanificare il suo intervento
terapeutico sul disagio psichico. A partire dal 1956 la sua breve ma intensa
vita politica, accanto alla collaborazione con il Fronte di liberazione
nazionale algerino, lo vide tra gli intellettuali che maggiormente si
adoperarono per inscrivere in una prospettiva internazionale la lotta di
liberazione dei paesi africani.
3. Cfr. Robert J. C. Young, Introduzione al postcolonialismo, Roma, Meltemi
2005, p. 103.
4. Ivi, pp. 103-104.
5. Cfr. Nadine Thomas, "Sui veli e l'eterogeneita': prospettive sull'affaire
des foulards in Francia", disponibile sul sito del Laboratorio Sguardi sulle
differenze.
6. Chiara Bonfiglioli, op. cit, p. 85.
7. Ivi, pp. 82-83.
8. Ivi, pp. 84-85.
9. Cfr. http://indigenes-republique.org/spip.php?rubrique7 per la sezione
femminista del sito.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 222 del 4 dicembre 2008

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