Voci e volti della nonviolenza. 251



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 251 del 27 ottobre 2008

In questo numero:
1. Jean-Marie Muller: Significato della nonviolenza (parte seconda e
conclusiva)
2. Et coetera

1. JEAN-MARIE MULLER: SIGNIFICATO DELLA NONVIOLENZA (PARTE SECONDA E
CONCLUSIVA)
[Riproponiamo ancora una volta questo testo di uno dei massimi studiosi e
amici della nonviolenza; esso e' stato pubblicato nel 1974 e tradotto in
italiano nel 1980 per le cure di Matteo Soccio in Jean Marie Muller,
Significato della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Torino
1980: da questo opuscolo abbiamo ripreso il testo del solo saggio
mulleriano, ivi alle pp. 7-27]

Lo sciopero
Lo sciopero, nel senso in cui l'intendiamo generalmente, e' un metodo che si
apparente direttamente all'azione nonviolenta: e' una azione di
non-cooperazione, di non-collaborazione con le strutture ingiuste. L'analisi
sulla quale si fonda lo sciopero e' questa: se i borghesi, vale a dire i
proprietari dei mezzi di produzione, non possono mantenere il loro potere e
la loro ricchezza che grazie alla collaborazione dei lavoratori, si tratta
per questi di cessare ogni attivita' per obbligarli a cedere.
Sarebbe sicuramente derisorio, e cio' e' al di fuori del nostro proposito,
pretendere di recuperare gli scioperi operai nel grembo della nonviolenza.
Spesso gli scioperi sono stati condotti in un clima di violenza, anche se
queste violenze sono state marginali in rapporto allo sciopero propriamente
detto. Ci si puo' d'altronde chiedere se queste violenze non siano venute
piuttosto a screditare lo sciopero che a rafforzarlo. Parecchi esempi (come
lo sciopero di Perus in Brasile) ci mostrano che uno sciopero puo' essere
condotto con piu' efficacia in una prospettiva nonviolenta.
*
Il boicottaggio
Il boicottaggio e' ugualmente un metodo di non-cooperazione sul piano
economico: rifiuto di far beneficiare l'altro del mio potere d'acquisto che
diventa allora veramente un potere che io oppongo a quello del mio
avversario. C'e' soltanto da constatare che questa forma di lotta e' stata
pochissimo utilizzata se non in maniera troppo spontanea ed effimera;
potrebbe certamente essere utilizzata meglio, in particolare nell'ambito
delle lotte operaie.
Per togliere la segregazione nei grandi magazzini bianchi degli Stati Uniti,
che avevano una fortissima clientela nera e nonostante cio' si rifiutavano
di assumere personale nero - creando per conseguenza situazioni di
sottoimpiego e dunque di miseria -, Martin Luther King e il suo gruppo
decisero il boicottaggio di questi magazzini fino a che un numero
sufficiente di posti di lavoro non fossero stati creati per i neri.  Da quel
giorno piu' nessun nero ando' a rifornirsi in quei magazzini. Molto
rapidamente, dopo una settimana o due, i proprietari di quei magazzini
decisero di soddisfare le richieste di M. L. King.
E' interessante chiedersi quali abbiano potuto essere le ragioni che hanno
indotto i proprietari di quei magazzini a cedere alle rivendicazioni di
Martin Luther King. Si erano forse convinti dei giusti diritti dei neri?  Si
erano forse convertiti? Forse. Noi avremmo torto ad escludere del tutto
questa eventualita'. Tuttavia la piu' verosimile e' che la minaccia del
fallimento, che incombeva su quei magazzini, li ha costretti e cedere: cio'
traduce perfettamente la nozione di costrizione e tuttavia di una
costrizione senza violenze.
*
La lotta di classe
Esaminero' un altro esempio concreto, recente, che illustra in maniera
notevolissima la possibilita' di condurre con la nonviolenza uno sciopero e
un boicottaggio nel quadro della lotta di classe.
Si dice spesso che la nonviolenza puo' forse soddisfare le esigenze
spirituali o intellettuali dei ricchi e dei benestanti, ma che non puo'
assolutamente armare la lotta degli oppressi. Credo che tutto cio' sia
fondato, soprattutto, su malintesi.
Gli ambienti spiritualisti, o notoriamente gli ambienti cristiani, hanno per
molto tempo rifiutato di riconoscere non soltanto la lotta di classe, ma la
realta' stessa della lotta di classe. Si diceva che il cristianesimo non
insegnava la lotta di classe, ma l'amore delle classi, come se fosse
possibile l'amore in situazioni di ingiustizia. E' una presa in giro
predicare l'amore quando da una parte esistono poveri che restano poveri e
dall'altra parte ricchi che intendono restare ricchi. Logicamente, cio' non
vuol nemmeno dire che il fatto di riconoscere la lotta di classe e
parteciparvi debba necessariamente sfociare in scontri violenti. Ma c'e' una
certa nonviolenza che non merita nemmeno di essere presa in considerazione:
quando i poveri sono pronti a scendere in piazza per far riconoscere i loro
diritti, forse da quel momento i ricchi saranno tentati di parlare di
nonviolenza. In questo senso vi e' un rischio di recupero della nonviolenza
da parte delle classi privilegiate. Cio' spiega quella diffidenza, cosi'
caratteristica di quelli che sono impegnati nella lotta per la giustizia,
nei confronti della nonviolenza: hanno paura che essa generi una certa
smobilitazione. Ma, al di la' degli equivoci, deve essere invece chiaro che
non soltanto la nonviolenza non e' smobilitazione, ma che e' un appello alla
mobilitazione, un appello alla lotta.
*
L'azione di Cesar Chavez
L'azione di Cesar Chavez condotta in California, purtroppo poco conosciuta
da noi, e' un esempio di come anche quelli che sono i meno preparati hanno
la possibilita' di mettere in opera i metodi nonviolenti, a condizione che i
responsabili dell'azione, i leaders del movimento, diano ordini precisi in
questo senso.
Cesar Chavez non e' venuto in mezzo ai poveri, e' nato in mezzo a loro; e'
nato in mezzo a quegli americani di origine messicana gli "chicanos", che
costituiscono la mano d'opera preferita dai grandi proprietari agricoli
degli Stati Uniti. Se i sindacati operai sono completamente integrati nello
"establishment" della societa' americana, non e' la stessa cosa nel campo
agricolo.
Tradizionalmente, i proprietari di vigneti californiani, che sono veri e
propri imperi industriali, utilizzavano una popolazione di origine
messicana, che costituiva un tipo di sottoproletariato, al tempo stesso
disorganizzato e supersfruttato. Tutti gli sforzi che erano stati compiuti
fino allora per giungere all'organizzazione di questa popolazione erano
falliti. Tanto erano potenti i proprietari di questi vigneti.
Cesar Cbavez ha fatto prima di tutto, per parecchi anni, un lavoro di
"coscientizzazione" e di organizzazione.
Indisse, poi, uno sciopero con certe esigenze precise riguardo alla
nonviolenza, che si estese molto rapidamente. I proprietari, aiutati dalle
autorita' federali, cioe' governative, poterono comunque reclutare
altrettanto rapidamente altri lavoratori messicani che non chiedevano altro
che guadagnare un po' di denaro per sopravvivere. C'erano dunque dei
"crumiri" che hanno permesso il raccolto dell'uva, sebbene ci fossero stati
picchetti di sciopero che, ancora una volta, non intendevano fare uso della
violenza ma tentavano di mostrare il senso dello sciopero e che era
nell'interesse di tutti parteciparvi.
A questo punto, davanti al rischio di veder fallire lo sciopero, Cesar
Chavez decise di affiancare allo sciopero il bolcottaggio. Proclamo' cosi'
il boicottaggio dell'uva, dapprima nelle grandi citta' degli Stati Uniti.
Gli scioperanti organizzarono picchetti di boicottaggio in cui cercavano di
spiegare le ragioni del loro movimento e i suoi obiettivi. Questo
boicottaggio si dimostro', molto presto, di un'efficacia sorprendente.
Cbavez ottenne subito il concorso dei militanti del movimento di M. L. King,
e in particolare degli studenti impegnati in quel movimento. In breve tempo,
il boicottaggio dell'uva divenne effettivo su tutto il mercato nazionale.
Allora, come in tutte le azioni nonviolente d'un qualche rilievo, la
repressione si abbatte' su questo movimento: gli scioperanti ebbero a subire
violenze fisiche; ci furono processi promossi dai proprietari, il presidente
Nixon prese posizione contro gli scioperanti e arrivo' al punto di prendersi
beffa di loro mangiando un grappolo d'uva davanti alle telecamere. Per
vendere il loro prodotto i proprietari decisero di esportare l'uva: interi
mercantili furono spediti a Londra; ma i dockers di Londra, per solidarieta'
col movimento di Cesar Chavez, si rifiutarono di scaricare l'uva. Ultimo
tentativo fu quello di spedire l'uva ai soldati americani nel Vietnam che
dovettero mangiare uva dalla mattina alla sera. Ma cio' non e' stato
sufficiente. Dopo uno sciopero e un boicottaggio durati cinque anni, i
proprietari furono costretti a cedere alle rivendicazioni di Cesar Chavez.
Oggi, questi e' diventato il leader di tutti gli operai agricoli americani;
i sindacati riprendono sempre di piu' questi metodi nonviolenti e tentano di
accoppiare lo sciopero col boicottaggio.
Per mostrare come per Cesar Chavez la nonviolenza non fosse un aspetto
secondario della sua lotta, conviene precisare il suo atteggiamento di
fronte ai rischi di violenza che ha dovuto fronteggiate.
Se l'azione nonviolenta consiste in un primo tempo nel risvegliare
l'aggressivita' dei poveri, nel creare il conflitto, e' dunque inevitabile
che ci siano rischi di violenze. Se si risveglio la coscienza degli oppressi
e se questi prendono coscienza del loro stato di oppressione, non ci sara'
da stupirsi se da un momento all'altro, esasperati, ricorrono alla violenza.
Ma a questo punto, Cesar Chavez, al fine di evitare la crescita della
violenza, intraprese un digiuno sia per motivi personali che per ragioni
tattiche (sapeva bene che se scoppiava la violenza, i proprietari avrebbero
potuto benissimo scatenare una repressione brutale). Digiuno' per
venticinque giorni, non perche' i proprietari cedessero alle sue esigenze,
ma perche' gli operai stessi accettassero di attenersi ai principi
dell'azione nonviolenta. Dopo quei 25 giorni di digiuno, essi giunsero ad un
accordo, cio' che ha certamente reso possibile al movimento di durare e
infine di riuscire.
*
Il boicottaggio del caffe' dell'Angola
Ricordiamo anche il boicottaggio del caffe' dell'Angola organizzato nei
Paesi Bassi agli inizi del 1972.
Una delle fonti piu' importanti per il finanziamento della guerra coloniale
condotta dal Portogallo proveniva dalle imposte che pesavano
sull'esportazione dei prodotti agricoli delle colonie.
Ora, da una parte, il caffe' dell'Angola rappresentava una parte importante
dell'esportazione totale (32%) e, dall'altra parte, i Paesi Bassi erano il
secondo paese importatore di questo caffe' (21% del totale).
Nel febbraio 1972 un comitato d'azione per l'Angola lancia il boicottaggio
del caffe' organizzando una campagna d'informazione sulla situazione nelle
colonie portoghesi e mostrando come il fatto di consumare del caffe'
angolano e' un atto di collaborazione con la politica condotta dal
Portogallo. Questa azione ebbe una larga eco tra la popolazione olandese e
il boicottaggio riscontro' rapidamente un grande successo. Alla fine di un
mese, nemmeno un grano di caffe' dell'Angola era piu' in vendita sul mercato
dei Paesi Bassi.
Il Portogallo aveva perduto una battaglia e l'opinione pubblica olandese era
mobilitata per altre battaglie.
*
La disobbedienza civile
La piu' forte azione di non-collaborazione e' l'azione di disobbedienza
civile.
Si rimprovera spesso alla nonviolenza di promuovere talvolta la
disobbedienza alle leggi.
Se da sinistra siamo accusati di disinnescare la rivoluzione e di
smobilitare le energie e le volonta' necessarie nella lotta per la
giustizia, cosi' da destra siamo accusati di rimettere in discussione la
legalita' e l'ordine stabilito e di preparare la strada ad una rivoluzione
che non sarebbe affatto nonviolenta.
E' vero che la nonviolenza preconizza la disobbedienza alle leggi, ma non la
preconizza a sproposito. In ogni societa' le leggi hanno una loro funzione.
La funzione della legge e' insieme quella di mantenere l'ordine e di
promuovere la giustizia; essa percio' deve difendere i diritti dei piu'
poveri contro i privilegi dei piu' ricchi. C'e' da dire poi che le leggi non
sono stabilite una volta per tutte: bisogna costantemente rimetterle in
discussione per migliorarle. Quando la legge non adempie piu' alla sua
funzione, anzi, al contrario, viene a difendere maggiormente gli interessi
dei privilegiati, dei ricchi e dei potenti contro, invece, gli interessi dei
piu' sfavoriti, quando la legge copre e garantisce l'ingiustizia, non
soltanto e' un diritto, ma e' un dovere disobbedire ad essa.
Non si tratta evidentemente di predicare la disobbedienza alla legge in
maniera sistematica; si tratta semplicemente di non predicare
sistematicamente l'obbedienza alla legge.
La legge della maggioranza non puo' imporsi a noi su dei problemi di
coscienza. E' ragionevole che noi ci sottomettiamo su problemi di ordine
puramente tecnico alla legge della maggioranza, anche perche' su tali
problemi le nostre non sono convinzioni ma soltanto opinioni. Su problemi
che impegnano invece realmente la nostra responsabilita' morale, non ci e'
possibile rimetterci in maniera pura e semplice alla legge della
maggioranza. E' a questo punto che la nonviolenza preconizza la
disobbedienza civile. Questa possibilita' di disobbedire alla legge e'
necessaria all'equilibrio stesso della democrazia.
Infatti, non si tratta di cessare di essere solidali: colui che in coscienza
obietta, accetta di essere solidale, ma si rifiuta di essere complice.
Nella dottrina ufficiale degli Stati, ogni cittadino ha veramente la
possibilita' di esprimersi votando. Se non dobbiamo disprezzare il suffragio
universale (penso a certi amici nostri che sono in lotta nei paesi
totalitari per ottenere il suffragio universale) dobbiamo, pero',
riconoscerne i limiti. Bernanos diceva che "il suffragio universale non
rende alla fin fine piu' liberi gli uomini di quanto la lotteria nazionale
non li renda ricchi".
Non conviene operare soltanto perche' il potere cambi politica o per
provocare un cambiamento di potere, conviene esercitare effettivamente il
proprio potere di cittadino libero rifiutando da questo momento, con un atto
di disobbedienza civile, ogni collaborazione personale con l'ingiustizia.
Gandhi afferma: "la vera democrazia non verra' dalla presa del potere da
parte di qualcuno, ma dal potere che tutti avranno un giorno di opporsi agli
abusi delle autorita'". Sulla strada che conduce alla vera democrazia, la
presa del potere per il popolo e' una delle piu' pericolose deviazioni dove
si finisce molto spesso per perdersi. La nonviolenza ci insegna, percio', a
evitare questa deviazione: nel suo aspetto rivoluzionario, essa non ha per
proprio fine la presa del potere per il popolo, ma la presa del potere
direttamente da parte del popolo stesso. Non e' lo Stato forte a costituire
la vera democrazia, ma i cittadini liberi.
Tra l'insufficienza della scheda elettorale e l'inefficacia del lancio di
pietre, la disobbedienza civile appare qui come una via privilegiata per
l'azione politica.
*
La vera figura di Gandhi
Prendero' un esempio concreto di disobbedienza civile nella lotta condotta
da Gandhi per l'indipendenza dell'India.
Voglio aprire una parentesi sulla figura di Gandhi perche' nella maggior
parte dei casi mi pare lo si conosca male. Il suo personaggio e' stato
volgarizzato da qualche immagine di Epinal che ce lo rappresenta seduto per
terra, il dorso nudo, che fila la lana, e ci diciamo allora volentieri che
questo saggio orientale non ha nulla da dirci sui nostri problemi.
Facciamo nostra la sprezzante espressione di Churchill che derideva Gandhi
accusandolo di non essere che un "fachiro magro e nudo". Se riconosciamo che
Gandhi ha potuto acquistare l'indipendenza del suo paese di fronte
all'impero britannico, attribuiamo allora il merito di questo al "fair-play"
dei gentlemen britannici, come se a quell'epoca l'impero britannico fosse
pronto a lasciare le Indie e come se fosse bastata la santita' attribuita, a
torto o a ragione, a Gandhi perche' gli Inglesi accettassero di partire.
Credo che sarebbe interessante studiare a fondo quali siano le azioni di
Gandhi e quale fu la sua strategia. E' utile sottolineare, a questo
proposito, che i membri del Congresso dell'India, primo dei quali Nehru, non
condividevano le convinzioni religiose e morali di Gandhi. Se Nehru accetto'
di seguire Gandhi nella pratica della nonviolenza e' soltanto perche' questa
si dimostro' efficace. E il popolo indiano non era per niente pronto ad
attenersi alle esigenze della nonviolenza di Gandhi, che e' estranea alla
tradizione religiosa dell'India. Come tutti gli altri popoli, e forse piu'
ancora degli altri, il popolo indiano oscilla tra la rassegnazione e la
violenza. Infatti, la nonviolenza di Gandhi non e' orientale ma occidentale,
non invita alla meditazione al di fuori dei conflitti ma all'azione
all'interno dei conflitti.
*
La marcia del sale
Nel 1930, Gandhi decise di sfidare il governo (ogni azione di disobbedienza
civile e' una sfida al governo) organizzando la disobbedienza ad una legge
che nel contesto globale della dominazione britannica appariva irrisoria: si
trattava della legge sul sale. Essa imponeva a tutti gli indiani di pagare
una tassa relativamente alta al governo inglese. Questa minima ingiustizia
veniva a simboleggiare tutta l'ingiustizia della dominazione britannica.
Gandhi organizzo' una lunga marcia attraverso l'India per diverse centinaia
di chilometri. In ogni villaggio che attraversava, coscientizzava gli
abitanti e li invitava alla disobbedienza civile. Giunto sulla spiaggia del
mare, compi' il simbolico gesto di raccogliere dell'acqua per poterne
estrarre il sale. Da quel momento preciso, Gandhi per l'impero britannico
era diventato un ribelle. Il governo, a dir la verita', era molto
imbarazzato perche', o arrestava Gandhi, facendone cosi' un martire e
aumentandone di conseguenza il prestigio presso le masse indiane, o non lo
arrestava affatto, dimostrando cosi' di tollerare la sfida aperta e dando,
in tal modo, prova di debolezza. Il riflesso professionale delle autorita'
ebbe il sopravvento nella risoluzione di questo dilemma: si arresto' Gandhi
ma si dovettero arrestare pure tutti quelli che lo avevano imitato; perche'
questi, non soltanto accettavano di andare in prigione, ma esigevano di
andarci. Esiste, pero', un limite di saturazione delle prigioni oltre il
quale un governo non puo' piu' governare in completa serenita'. Si puo'
discutere sulla proporzione necessaria di quelli che sono disposti ad andate
in prigione per far si' che un popolo sia piu' forte di qualsiasi governo -
Martin Luther King parlava di un 5 per cento.
Alla fine il governo dovette cedere e accettare di negoziare con Gandhi: non
soltanto discussero del problema del sale, ma anche del problema
dell'indipendenza.
*
La violenza e' l'arma dei ricchi
Vorrei ancora insistere su questo punto che mi pare essenziale: di fronte
alle situazioni d'ingiustizia, arriviamo spesso a pensare e a dire che non
esiste piu' che una sola soluzione e che questa soluzione e' la violenza.
Ma dobbiamo chiederci: quale soluzione puo' essere la violenza? E anche: la
violenza puo' veramente essere una soluzione?
Prendo un esempio su cui abbiamo molto parlato: quando M. L. King mori',
ovunque si sostenne che con lui la nonviolenza era finita, che se egli aveva
potuto migliorare di qualcosa la sorte dei neri, spettava ora ai movimenti
violenti di condurre in porto il lavoro che lui aveva incominciato. Pareva
allora che il "Potere Nero", il partito delle "Pantere Nere", i "Musulmani
Neri", fossero in grado, e solamente loro, di liberare i neri. Ci si poteva
chiedere, gia' da allora, se era ragionevole credere che i neri ponendosi
sul piano della violenza, sarebbero stati in grado di riuscire vincitori e
di stabilire un rapporto di forza in loro favore.
Quando si pensa alla capacita' di repressione di cui dispone il potere
bianco, era realista per i neri situarsi sul piano della violenza per
intraprendere la prova di forza?
Ora, accadde quello che poteva gia' essere previsto: i movimenti neri che si
richiamano alla violenza si trovarono nella incapacita' di mettere in opera
azioni rilevanti all'infuori di qualche colpo di mano che potevano
effettuare. La stampa ne parlo': il partito delle "Pantere Nere" che e'
stato il piu' rappresentativo di questo movimento violento e' attualmente
smantellato, si trova ad essere completamente disorganizzato sotto i colpi
della repressione del potere bianco. Certamente Eldridge Cleaver puo'
moltiplicare, da Algeri dove si trova in esilio, le dichiarazioni
fracassanti contro il potere bianco, ma cio' non puo' venire in aiuto ai
neri che sono negli USA; cosi' pure Stokely Carmichael, che fu uno dei
leaders del "Potere Nero", che milito' nelle file delle "Pantere Nere" e che
si trova ora in Guinea, di la' non puo' proporre ai suoi fratelli degli
Stati Uniti che un impossibile ritorno verso la madre terra Africa.
Cosi' nel nome stesso del realismo, non cadiamo troppo facilmente nella
affermazione che solo la violenza puo' essere una soluzione?
Sapete pure che questo argomento e' stato trattato da dom Helder Camara
quando gli e' stato chiesto se non sarebbe, almeno in un primo momento,
necessario usare la violenza. "Certo, potremo avere qualche arma, ma il
nostro avversario avra' sempre un numero maggiore di armi e piu' perfette
delle nostre; e' vano voler intraprendere su questo terreno la nostra prova
di forza".
Il Padre Comblin e' venuto a confermarci nell'aprile '72 le affermazioni di
dom Helder Camara: "Una piccola parte dell'opposizione e' entrata nella
clandestinita', ha creato dei piccoli movimenti di guerriglia, ha lanciato
delle operazioni di terrorismo. Questo ha provocato da parte del potere un
apparato di repressione estremamente potente, che e' riuscito praticamente
non solo a contenere questa opposizione violenta ma anche a ridurla sempre
piu'. E, in questo momento, il potere alimenta una psicosi d'angoscia che
sta creando un "circolo vizioso del terrore" che coinvolge lo stesso potere:
sentendosi minacciato, esso reagisce in maniera angosciosa, donde dei
controlli sempre raddoppiati, cosa che mantiene nelle masse un sentimento di
paura, la quale provoca a sua volta una piu' grande angoscia nei
dirigenti... e cosi' di seguito". ("Informations catholiques
internationales", 15 aprile '72).
Forse che noi non possiamo arrivare a questa ipotesi di lavoro: la capacita'
di violenza degli oppressori sara' sempre smisuratamente piu' grande della
capacita' di violenza degli oppressi? Abbandonare il piano della giustizia
per porci sul piano della violenza e', in fondo, un errore strategico:
quando un movimento di resistenza ricorre esso stesso alla violenza, viene
ad offrire all'avversario le ragioni di cui ha bisogno per giustificare la
sua repressione.
Ogni dibattito pubblico che sara' aperto da atti di violenza non vertera'
sulle motivazioni politiche che hanno ispirato quegli atti, ma sui mezzi,
sui metodi che sono stati utilizzati. L'azione armata attira l'attenzione
dell'opinione pubblica sulla violenza che io commetto, non sull'ingiustizia
che io combatto.
La forza della nonviolenza consiste nel rifiutare di offrire all'avversario
i pretesti che giustifichino la sua repressione. Con questo non voglio dire
che i movimenti nonviolenti non diano luogo a repressione - e' certo che in
una prova di forza che si prolungasse, ci sarebbe una repressione esercitata
sul movimento nonviolento e la sua forza consistera' nella misura della
capacita' che avra' di resistere a questa repressione - ma questa
repressione restera' senza vera giustificazione; essa arrivera' al contrario
a screditare quelli che l'esercitano e ad accreditare, per cio' stesso, il
movimento.
*
La nonviolenza e' preferibile
Data l'ignoranza e insieme il disprezzo nei quali e' stata tenuta fino ad
ora la nonviolenza, non e' concepibile che essa sia in grado di risolvere
tutti i nostri problemi e subito.
Molti conflitti si sono sviluppati in un crescendo di violenza dall'una e
dall'altra parte; non e' facile, a partire di la', tentare di intravvedere
una soluzione nonviolenta.
Ma noi potremmo almeno metterci d'accordo su questa ipotesi di lavoro: se la
nonviolenza e' possibile, allora essa e' preferibile.
Ad un algerino che durante e dopo la rivoluzione algerina aveva ricoperto
cariche di grossissima responsabilita' nel governo rivoluzionario, chiedevo
se credesse che la nonviolenza avrebbe potuto essere impiegata dal popolo
algerino. Mi diede questa risposta paradossale: "In linea di fatto, Gandhi
era il maestro al quale ci ispiravamo". Perche' diceva questo? Precisamente
perche' Gandhi fu il primo a scuotere il giogo del colonialismo. Ci siamo
lasciati prendere forse troppo dall'idea che il colonialismo britannico
fosse un colonialismo dove il "fair-play" prevaleva sulla brutalita' - cio'
costituisce, invece, una contro-verita' storica. Gandhi appariva in effetti
ai popoli colonizzati come colui che, per primo, si oppose a questa
oppressione. Ma, aggiungeva quest'algerino, non conoscevamo proprio niente
di questa nonviolenza, non ne eravamo per niente preparati, e non ci era
assolutamente possibile costruire la nostra lotta in questa prospettiva.
Diceva ancora - ed e' proprio questo che mi pare molto interessante:
"attualmente mi interesso e studio sulla possibilita' della nonviolenza,
perche' se la nonviolenza e' possibile, sarebbe criminoso per un
rivoluzionario usare la violenza".
Se la nonviolenza e', dunque, da preferire, ci spetta ora il compito di
studiare le possibilita' offerte dalla nonviolenza.
Bisogna ammettere che finora non l'abbiamo mai fatto. Ci siamo sempre
accontentati di idee ricevute, di schemi prefabbricati e di vere e proprie
caricature della nonviolenza; cio', evidentemente, ci permetteva di
condannarla piu' facilmente.
Se misuriamo gli investimenti che a destra o a sinistra sono stati fatti per
la violenza, e se misuriamo gli investimenti che non sono stati compiuti per
la nonviolenza, allora avremo la giusta misura di cio' che puo' essere
fatto, cercando di discernere cio' che e' possibile da cio' che non lo e'.
Comunque, se la nonviolenza non puo' permetterci di risolvere subito tutti i
nostri problemi, ci permette almeno di impostarli in maniera giusta.
E concludo con questa riflessione di Rilke: "entrando insieme nelle vere
questioni, finiremo certamente con l'entrare insieme nelle vere risposte".

2. ET COETERA

Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente,
ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle
alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E'
direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution
non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece
obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni
nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari
francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative
Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione
democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per
schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far
fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato
dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza,
Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977;
Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e
metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico
della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses
Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire
de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005.

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Numero 251 del 27 ottobre 2008

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