La domenica della nonviolenza. 175



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 175 del 3 agosto 2008

In questo numero:
1. Pierluigi Panza ricorda Rudolf Arnheim
2. Fernanda Pivano ricorda Saul Bellow
3. Claudio Strinati ricorda Ernst Gombrich
4. Maurizio Giufre' ricorda Ettore Sottsass

1. MEMORIA. PIERLUIGI PANZA RICORDA RUDOLF ARNHEIM
[Dal "Corriere della sera" del 14 giugno 2007 col titolo "Addio a Rudolf
Arnheim, lo psicologo dell'arte" e il sottotitolo "Era nato a Berlino 102
anni fa. Spiego' che la percezione e' un atto creativo"]

Nel suo piu' celebre libro, Arte e percezione visiva del 1954, Rudolf
Arnheim mostro' come il vedere fosse un atto creativo e come il giudizio
visivo e la comprensione intellettuale del mondo dell'arte fossero tutt'uno
con l'atto stesso del percepire. Con questa intuizione rivoluziono' la
critica e la teoria dell'arte piu' ancora che la psicologia e, per un paio
di decenni (anche con l'affermarsi dello strutturalismo), il suo pensiero
divenne il fulcro delle interpretazioni di quadri e facciate d'architettura.
Rudolf Arnheim e' morto il 9 giugno nella sua casa di Ann Arbor, in
Michigan, all'invidiabile eta' di 102 anni. Ne ha dato notizia la sua
famiglia ieri al "Washington Post".
Arnheim era nato a Berlino il 15 luglio del 1904, dove si era laureato in
psicologia sperimentale con i fondatori della scuola della Gestalt
(disciplina che studia il rapporto tra immagine e percezione) Max
Wertheimer, Wolfgang Kohler e Kurt Lewin. Dai suoi esperimenti sulla
percezione nacque nel 1932 il suo primo libro, Film come arte. Con l'avvento
del nazismo (era di famiglia ebraica) si trasferi' a Roma; quindi, nel 1938
(con la promulgazione delle leggi razziali), si rifugio' a Londra dove
lavoro' anche per la Bbc e da qui, nel 1940, emigro' negli Stati Uniti, dove
ha vissuto per tutto il resto della sua vita. Qui ha lavorato per le
fondazioni Rockefeller e Guggenheim e ha insegnato alla Columbia di New
York, poi ad Harvard e quindi, dal 1974, all'Universita' del Michigan prima
di ritirarsi definitivamente.
Nel '54 pubblico' Arte e percezione visiva (tradotto da Feltrinelli nel
1962) dove stabili' che il vedere era un atto creativo e il giudicare
dipendeva dal ruolo che il vissuto svolgeva attivamente nel campo della
percezione. Opponendosi al formalismo critico, riportando - con la costante
esemplificazione di opere di pittura, scultura e architettura - la forma al
significato e al contenuto, mostro' come si potessero cogliere i significati
delle opere d'arte approfondendo il rapporto tra biografia e forma, spazio,
luce, colore, movimento attraverso il tramite della percezione. Lo
"psicologo" divenne cosi' "critico d'arte", e operando una saldatura tra le
tesi di Arnheim e quelle della psicologia junghiana e dell'iconologia (e di
Erwin Panofsky per quanto riguarda l'architettura) si diede vita a studi che
mostrarono come le scelte dei colori e delle forme nei pittori dipendevano
da modalita' psicologiche e percettive (ricerche che vennero da altri,
specie su Van Gogh) e come anche la interpretazioni critiche fossero
condizionata dalle modalita' percettive del singolo individuo. Si giunse
cosi' a spiegare interi quadri come "Sant'Anna, la Madonna, il Bambino e San
Giovannino" con la duplice presenza femminile materna negli anni infantili
di Leonardo. Nelle universita' di tutto il mondo vennero allora attivate
cattedre di Psicologia della percezione, molte delle quali sono andate via
via sparendo.
Negli anni successivi Arnheim studio' la pittura di Picasso (Guernica.
Genesi di un dipinto, del 1962) e nel 1969 diede alle stampe un altro
importante studio teorico intitolato Il pensiero visivo.
Arnheim si puo' considerare uno dei teorici della cultura visiva, specie
negli aspetti legati alla creazione e ricezione artistica, temi oggi ripresi
da Hans Robert Jauss. Nel 2004, in occasione dei suoi cento anni - e dei 50
anni del suo libro piu' famoso -, ad Arnheim vennero dedicate alcune
celebrazioni in Europa e negli Stati Uniti.

2. MEMORIA. FERNANDA PIVANO RICORDA SAUL BELLOW
[Dal "Corriere della sera" del 6 aprile 2005 col titolo "E' morto Saul
Bellow: racconto' l'anima dell'uomo moderno"]

Come faremo senza Saul Bellow, senza la sua ironia, senza la sua eleganza,
senza la sua inesorabile tenacia? L'aria e' piena di suoi ricordi, sue
frasi, sue battute, le stanze sono piene di sue immagini, suoi incontri, sue
attese, le strade sono piene di sue passeggiate, di suoi pensieri, di suoi
rimpianti, le fotografie sono piene del suo viso, della sua sicurezza, della
sua indipendenza.
E lui, Saul Bellow, dov'e'? Il primo ricordo che mi viene in mente e' di
qualche giorno favoloso che abbiamo passato a Capri, quando lui aveva 69
anni, capelli d'argento sui grandi occhi a mandorla, asciutto e
affascinante, tre divorzi con un figlio per divorzio, quarta moglie romena,
una quindicina di libri tra romanzi, commedie e raccolte di saggi e di
racconti, Premio Pulitzer e tre National Book Awards, innumerevoli premi
internazionali e lauree ad honorem, tutto culminato nel 1976 col Premio
Nobel. Prima di venire a Capri a prendere il Premio Malaparte di Graziella
Lonardi si e' fermato a Roma in un albergo del centro, ha cenato una sera
con Paolo Milano, suo intimo amico, e una sera con me. E' andato
dall'ambasciatore americano a una riunione in onore del colonnello Joe
Kittinger, trasvolatore solitario dell'Atlantico in mongolfiera, commentando
l'avvenimento: "Molto coraggioso. Ma occorre piu' coraggio per affrontare un
matrimonio".
A Capri, fra un solleone e un acquazzone, ha partecipato a una cena alla
Grande Gatsby nella ex casa della principessa Mafalda di Savoia, e' andato
alla Villa di Tiberio in cerca del fantasma dell'imperatore, ha detto
davanti a un pubblico di intellettuali: "Se dovessi cercare un eremo in cui
vivere sicuramente sceglierei Capri, ma sento di dover restare nella lotta
di Chicago", ha passato una giornata chiuso nella camera dell'albergo di
lusso di Capri, l'indomani ha subito senza drammi l'insolenza di un giovane
editore che si e' presentato al lunch in suo onore con un'ora di ritardo e
tutto sbracato perche' arrivava "dalla barca" con un gruppo di amici
sbracati come lui, e la sera si e' accorto che gli editori lo avevano
lasciato solo a Capri, tra grandi risate l'ho accompagnato a Roma io e sono
stata con lui a cena a luci basse a parlare piu' delle sue donne che dei
suoi libri.
Caro Saul Bellow, fascinoso e rubacuori, che raccontava le sue esperienze
con gli orgoni di Wilhelm Reich, e i suoi problemi piu' o meno sessuali con
le varie mogli e solo di sfuggita parlava dei suoi libri o di quello che
stava scrivendo o delle sue proteste per recensioni con cui non era
d'accordo. Ormai di lui tutti sappiamo tutto perche' e' uscita líanno
scorso, anche in Italia, una superba biografia di James Atlas, di quelle
americane dove si trova tutto, tutte le notizie come su Internet, ma senza
errori. La biografia comincia con l'affermazione che "gli scrittori
americani per lo piu' sono autodidatti".
La cultura era un'attivita' marginale, Chicago, come diceva il suo massimo
poeta Carl Sandburg, era la citta' "dalle grosse palle", la letteratura
autoctona produceva romanzi come The Pit (del 1903) di Frank Norris sugli
speculatori del grano, The Jungle (1906) di Upton Sinclair su una famiglia
di immigrati lituani, la trilogia su Frank Cowperwood di Theodore Dreiser
ispirata da un magnate della ferrovia, i romanzi amorosi di Sherwood
Anderson; ma il Rinascimento di Chicago esisteva, ed Henry Louis Mencken
sosteneva che era impossibile trovare uno scrittore americano che non avesse
qualche legame col mattatoio sulle rive del lago Michigan.
Eppure per i giovani Chicago rappresentava nel XX secolo quello che Parigi
era stata nel XIX per il protagonista di un romanzo di Honore' de Balzac;
rappresentava, come dice Saul Bellow nella sua autobiografia, la prova "che
la vita vissuta nei grandi centri manifatturieri, con la puzza di carne
macellata, immensi slums, carceri e ospedali, era anche vita umana". In
questa citta' si e' trovato a crescere Saul Bellow, che l'ha fatta diventare
un personaggio: la sua ventina di libri l'ha resa familiare quanto la
Dublino di James Joyce. A permetterglielo e' stata la fiducia nel proprio
destino di artista, cioe', diceva Saul Bellow, "di una persona consacrata
alla funzione piu' alta di cui e' capace l'essere umano: fare, appunto,
l'artista".
Non c'e' dubbio che artista Saul Bellow e' stato, senza esitazioni e fino in
fondo: in quella Chicago ha vissuto in una famiglia di emigrati, ma nato nel
Nuovo Mondo, cioe' "diverso" dal resto della famiglia. Che era costituita
dal padre poverissimo, la madre figlia di un rabbino e dai loro cinque
figli, di cui Saul era il minore. A tre anni Saul si e' trovato trasferito
con la famiglia a Montreal e a otto anni e' finito in un ospedale dove ha
letto La capanna dello Zio Tom e, ha detto piu' tardi, ha visto la morte in
faccia (ha descritto l'esperienza in Humbold't Gift), e in Herzog ha
raccontato il disastro di suo padre nel 1923, quando non ha avuto piu' i tre
dollari che doveva al rabbino per le lezioni di ebraico.
Nel 1924, il 4 luglio, a nove anni, aveva attraversato clandestinamente il
confine con l'aiuto di un contrabbandiere e aveva preso un treno per
Chicago; anche questa storia la racconta in Herzog. A quindici anni la
famiglia aveva traslocato in un quartiere dove abitavano gli ebrei che "ce
l'avevano fatta"; in Herzog, racconta anche la morte drammatica della madre
quando aveva 17 anni in un ricordo che lo ha ossessionato tutta la vita.
Intanto si e' diplomato, si e' iscritto all'universita', e' diventato amico
di Isaac Rosenfeld; con lui discuteva nei circoli universitari fra
trotzkisti e stalinisti e nel 1934, mentre la famiglia traslocava in un
quartiere di "ebrei agiati", a 19 anni aveva affrontato il rito di
iniziazione d'obbligo durante la Depressione; poi aveva lasciato la casa
paterna e aveva affittato una camera; lavorava con un fratello in un negozio
di carbone che gli ha fatto da materiale per The Adventures of Augie March,
si e' laureato insieme a Isaac Rosenfeld, si e' scelto per maestri scrittori
fuori dalla scuola, Fedor Dostoevsky, Gustave Flaubert, James Joyce e
soprattutto Theodore Dreiser, si e' sposato con Anita.
Nel 1929 il Federal Writer's Project gli ha dato da fare un libro
sull'Illinois, come gia' lo aveva dato da fare a Nelson Algren e Richard
Wright: il libro assegnato a Saul Bellow riguardava un elenco dei giornali
dell'Illinois e poi anche profili biografici contemporanei, fra cui quelli
di John Dos Passos, James T. Farrell e Sherwood Anderson. Nel 1940, dopo
sette anni di attesa ha ereditato 500 dollari da una vecchia assicurazione
della madre ed e' andato in Messico con l'intenzione di salutare Trotzky, ma
quando e' arrivato lo ha trovato assassinato, proprio come Trotzky aveva
sempre annunciato che avrebbe fatto Stalin.
In quel periodo ha scritto The Adventures of Augie March e ha cominciato
colloqui per la ricerca di posti di lavoro; uno di questi colloqui, con
Whittaker Chambers, lo ha umiliato perche' non gli ha dato un posto al
"Time" e Saul Bellow racconta l'umiliazione in The Victim, che e' uscito nel
1947. Nell'attesa della chiamata alle armi aveva finito il suo primo
romanzo, Dangling Man, che e' poi uscito il 23 marzo 1944, mentre Hitler
aveva invaso l'Ungheria, l'aviazione americana bombardava Berlino e le
camere a gas di Auschwitz erano diventate cosa nota. Il libro e' scritto
sotto forma di diario ed e' la cronaca di quattro mesi della vita di un
giovane. La recensione piu' importante che ne e' uscita e' stata quella di
Edmund Wilson sul "New Yorker", dove Wilson lo ha presentato come una
testimonianza importante sulla psicologia della generazione cresciuta
durante la Depressione e la guerra; invece Diana Trilling ne ha fatto una
stroncatura su "The Nation".
Nell'estate 1944 era andato a stare in un bell'appartamento, finalmente, e
poi in attesa del richiamo militare che non arrivava mai si era arruolato
volontario ed era partito per l'Est nella Marina Mercantile, col vantaggio
che la caserma si trovava a poca distanza da Manhattan, dove vivevano molti
suoi amici (forse il piu' importante e' stato Isaac Rosenfeld). Continuava
ad avere problemi economici: gli avevano rifiutato una borsa Guggenheim,
nella primavera del 1946 si era stabilito a New York mentre portava a
termine il suo secondo romanzo The Victim, non riusciva a fondersi con la
societa' del Village che lo considerava un conformista, ed e' stato allora
che e' andato in treno a Madrid, con un viaggio durato due notti; al ritorno
dalla Spagna, dunque piu' o meno due anni dopo la fine della guerra, era
uscito The Victim: Saul Bellow era riconoscente all'editore per la
promozione che aveva fatto al libro e i critici cominciavano ormai ad
accorgersi di lui, specialmente Robert Penn Warren e Alfred Kazin. Con
questo successo ha avuto un anticipo per un nuovo romanzo ed e' andato a
Parigi: era il 15 settembre 1948, e li' ha scritto praticamente The
Adventures of Augie March.
Nel 1950 e' ritornato a New York, e ha fatto un'esperienza con le scoperte
Wilhelm Reich, che non solo non ostacolava i suoi interessi sessuali, ma li
incoraggiava: ormai era considerato un donnaiolo. Per i libri ormai era
proprio famoso e accettato da tutti gli intellettuali d'America, presto era
diventato amico di Ralph Ellison col suo controverso ma famosissimo
Invisibile Man (rimasto amico di Bellow tutta la vita e chiamato poi da lui
a lavorare accanto a se' a Chicago nel suo "Committee On Social Thought").
Bellow non era soddisfatto di The Adventures of Augie March e pensava di
dover rifare gli ultimi capitoli; ma ormai il suo nome era entrato nello
scaffale dei romanzi scritti nel dopoguerra dagli scrittori ebrei americani,
The Naked and the Dead di Norman Mailer, Focus di Arthur Miller, The Natural
di Bernard Malamud, Passage from Home di Isaac Rosenfeld, la raccolta di
racconti di Delmore Schwartz The World is a Wedding.
Nel 1953, insieme alla nomina nel Bard College era arrivata la grande fama,
a parte un attacco di Norman Podhoretz sulla "Partisan Review" e uno del
figlio di Rebecca West sul "New Yorker": quell'anno gli hanno dato un
National Book Award. Ha divorziato dalla moglie e il primo febbraio 1956 ha
sposato Sondra, ha trovato un incarico nella New School ed e' andato a
preparare il suo corso a Yaddo, la colonia per artisti di Saratoga Springs,
dove e' diventato amico di John Cheever. Intanto preparava il romanzo Seize
the Day, che e' poi uscito nel novembre di quel 1956, ed e' stato accolto da
recensioni entusiastiche. Nel 1957 gli e' nato un altro bambino e ha
incontrato Susan Glassman, laureanda alla Radcliffe, dove Bellow aveva avuto
un incarico; e ha creato una serie di problemi, conclusi con nuovo divorzio
di Bellow.
Negli anni Cinquanta l'Olocausto aveva reso indifendibile l'antisemitismo,
il che non significava che non esistesse e Saul Bellow ne portava ad esempio
Allen Tate, che si proclamava un Agrarian del Tennessee, e non nascondeva il
suo disprezzo per il gruppo prevalentemente ebraico della "Partisan Review":
non si poteva negare che nella letteratura americana una vena di
antisemitismo fosse esistita negli anni Venti: per esempio gli studiosi di
Hemingway sanno che l'editore gli ha chiesto di fare una modifica in The Sun
Also Rises a un personaggio ebreo per renderlo sgradevole. Nei week end lo
andava a trovare Sondra finche' Bellow aveva divorziato da Anita con grossi
problemi economici. Dal Bard College Bellow ha dato le dimissioni nel 1954,
e' andato a vivere a Cape Cod, dove ha ritrovato Mary McCarthy, divorziata
da Edmund Wilson (che ora vi abitava col suo terzo marito Bowen Broadwater).
Nel 1955 e' morto il padre, lasciandolo sconvolto, non diversamente da come
lo aveva lasciato sconvolto la morte della madre. Seize the Day
rappresentava un ritorno alla narrativa praticata in passato con la
letteratura ottimistica di Dangling Man e The Victim; modello del libro e'
Delmore Schwartz, che si avviava nel personaggio a diventare il relitto
umano poi descritto senza pieta' in Humboldt Gift, che e' uscito nel 1959.
Mentre Bellow era a Reno per divorziare da Anita e poter sposare Sondra ha
incontrato Arthur Miller che stava divorziando per sposare Marilyn Monroe
che stava girando Bus Stop; e finite le operazioni del divorzio era andato
con Sondra in un viaggio di nozze prima di sistemarsi nella Villa Tivoli del
Bard College.
Bellow aveva continuato a protestare coi recensori che non lo apprezzavano
ma piu' o meno allora si era trovato ad affrontare un problema importante
per tutta l'America, quello del rilascio di Ezra Pound: il dibattito per
Pound si era aggravato nel 1949, quando gli era stato assegnato il
prestigioso premio Bollingen e Delmore Schwartz e Irving Howe avevano
protestato; adesso era stato organizzato dall'amministrazione Eisenhower un
comitato di scrittori per combattere la propaganda sovietica presieduto da
William Faulkner di cui Bellow faceva parte. Bellow si era trovato a
controbattere un Faulkner come spesso gli accadeva influenzato dal suo amato
bourbon e deciso a proporre di portare oltrecortina un po' di ungheresi e
offrirgli una macchina usata e un lavoro, ma Bellow gli obietto' che al
ritorno in patria sarebbero finiti tutti in prigione.
Questa discussione aveva distratto gli scrittori dalle proposte per la
liberazione di Ezra Pound: Bellow era violentemente contrario alla
liberazione di Pound e ha scritto a Faulkner una lettera di fuoco per
impedirlo. A parte questo dramma etico Bellow conduceva a Villa Tivoli una
vita che sembrava uscita da un romanzo russo, clima che sottolineava con
un'abitudine recente di rivolgersi agli amici con il patronimico in costume
fra i russi. Il suo problema era la mancanza di soldi e la sua felicita' era
stata la nascita il 19 gennaio 1957 di un bambino che era stato chiamato
Adam Abraham.
Aveva accettato un incarico temporaneo all'Universita' del Minnesota e vi si
era trasferito in febbraio, poco dopo la nascita del figlio. Li' divideva
l'ufficio col poeta John Berryman e a maggio era andato alla University of
Chicago per esaminare un manoscritto intitolato La conversione degli ebrei
sottoposto in esame dall'autore ventitreenne che aveva voluto conservare
l'anonimato: Philip Roth ha riportato l'episodio nel suo The Gost Writer del
1979, dove ha ripreso il dramma della assimilazione ebraica. A differenza di
Bellow che fa conservare ai suoi personaggi tracce della loro ascendenza di
immigrati, i personaggi di Philip Roth vivono nelle nuove periferie. Di Saul
Bellow Philip Roth ha raccolto un ricordo molto dolce: "Dava l'idea di una
persona acuta, pazzamente sicura di se', affascinante, spiritosa e molto
generosa".
Ormai la celebrita' di Bellow e' tale che tutti conoscono i suoi libri;
tutti conoscono anche i suoi premi che sono stati i tre National Book
Awards, un Pulitzer Prize e clamorosamente il Premio Nobel che Bellow e'
andato a prendere a Stoccolma con moglie, parenti e amici in un gruppo di
una decina di persone in una settimana che e' stata per lui un uragano di
applausi. Poi ha sposato la scienziata romena che lo ha portato a visitare
il suo Paese infelice e ha divorziato dopo che Bellow aveva divorziato anche
dalla terza moglie Susan Glassman. Ma anche con la moglie romena Bellow ha
vissuto in Europa un episodio romanzesco. Era molto innamorato di lei, in
Italia si era fatto consigliare un negozio di coralli per comperare una
collana che doveva regalarle come una catena da schiavo da mettere al collo,
mi diceva che ogni mattina era lui a prepararle il caffe' prima che lei
uscisse, che era una moglie meravigliosa eccetera, ma quando in Francia il
ministro della Cultura gli ha dato il premio della cultura francese
porgendogli una medaglia, Bellow aveva fatto uno scherzo sull'asservimento
che la medaglia comportava e la moglie romena gli aveva detto ad alta voce:
"Don't make an ass of youself". Molto tempo dopo Bellow mi ha raccontato che
e' tornato in America senza dirle una parola e ha parlato solo per chiedere
a un avvocato il divorzio. I giornali sono stati pieni del suo ultimo
matrimonio con Janis Freedman che a 40 anni e dopo cinque aborti gli ha dato
a 84 anni una bambina che e' stata chiamata Naomi Rose.

3. MEMORIA. CLAUDIO STRINATI RICORDA ERNST GOMBRICH
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 6 novembre 2001 col titolo "Gombrich.
Come raccontare a tutti che cos'e' un capolavoro"]

E' morto sabato scorso, nella sua casa di Londra, vicino al grande parco di
Hampstead Heath, lo storico dell'arte sir Ernst Gombrich. Aveva 92 anni.
Gombrich per molti E', prima di tutto, il piU' grande divulgatore del XX
secolo per quel che riguarda la storia dell'arte. Furono soprattutto due
grandissimi libri, scritti nella maturita', a fare la sua gloria in questo
senso: Arte e illusione, e la Storia dell'arte (tradotta in italiano come
"raccontata da E. Gombrich"). I due libri si integrano magistralmente e
danno bene la misura di un lavoro intellettuale che si pone ai due estremi
opposti di un decennio fatale nella storia della cultura, quello in cui e'
successo quasi tutto, dal 1950 al 1960, o, almeno, tutto quello su cui
stiamo ragionando ancora adesso.
Arte e illusione e' l'aspetto piu' specialistico; e' il tentativo di dare un
assetto scientifico alla semplice questione da sempre irrisolta: che cosa
succede quando si osserva un'opera d'arte? Che cosa si guarda effettivamente
nell'atto del vedere rivolto a un prodotto artistico? E c'e' una differenza
vera tra l'osservazione generale e l'osservazione esteticamente orientata?
C'e', e' ovvio, ma qual e'?
La Storia dell'arte e' proprio un racconto, si chiama infatti "story" non
"History" e nella differenza tra i due vocaboli inglesi e' contenuto tutto
il senso della questione. Esiste una storia dell'arte con caratteristiche
proprie e come si deve raccontare al di fuori della specializzazione? Ne
vale la pena?
Gombrich, con questi due lavori ma in realta' con tutta la sua monumentale
carriera scientifica, si ingegno' di dare risposte efficaci. Non sembri
strano questo, perche' chi fa il mestiere dello storico dell'arte sa bene
quanto curiosa sia una disciplina che e' fatta di tante discipline insieme
(e fin qui niente di nuovo, succede in ogni campo) di cui viene per lo piu'
proclamata l'indispensabilita' senza che questa possa essere spiegata mai
fino in fondo con totale e perentoria convinzione.
L'arte e' una cosa importante, su questo siamo tutti d'accordo, sovente e'
proprio l'elemento che da' meglio di ogni altro l'identita' di una nazione,
sintetizzando il senso della sua storia, e' fonte di infiniti piaceri, ha
pure un cospicuo valore finanziario, ma quando si tratta di esplicitarne i
contenuti e il significato a volte ci si arena.
"Che rapporto ha l'arte con il sapere, che senso ha parlare delle
possibilita' di comprendere un capolavoro? Non sapremo mai che significato
potesse avere per il suo creatore, perche' anche ammettendo che ce ne abbia
parlato puo' essere che in realta' fosse ignoto persino a lui. L'opera
d'arte significa dunque cio' che significa per noi, non c'e' altro
criterio". Sono parole di Gombrich, ricordate efficacemente da una nostra
insigne storica degli studi iconologici, Claudia Cieri Via nel suo
utilissimo del libro del 1994 Nei dettagli nascosto. Perche' proprio di
questo si tratta, capire il pensiero e l'opera di Gombrich in relazione a
quel vastissimo e variegato universo di ricerca storico-artistica che, a
partire dal 1912 e da alcune tesi di Aby Warburg, e' stata chiamato "ricerca
iconologica".
Iconologia e' parola antica, cinquecentesca, e fu riesumata per indicare
quel campo di studio che, in storia dell'arte, viene distinto
dall'iconografia. Su questa sottilissima differenza si e' ingaggiata una
discussione che e' stata fruttuosissima e che ancora adesso e' determinante
per rispondere adeguatamente alle domande che abbiamo appena posto.
L'iconografia spiega che cosa significa cio' che vediamo in un quadro, un
disegno, una scultura. E' un lessico, fatto di una grammatica e una
sintassi. Se una figura alata si inginocchia davanti a una donna per lo piu'
seduta e con un libro davanti, il cristiano sa che si tratta di una
Annunciazione. Si vede, quindi, cio' che si sa. A partire da questo
presupposto elementare si e' arrivati all'iconologia quando Warburg,
appunto, di cui Gombrich scrisse una memorabile e tendenziosa biografia
intellettuale, inizio' la compilazione dei suo incredibili album
fotografici, in cui tentava di rintracciare costanti e varianti
dell'immaginario umano. Warburg pensava a una specie di uomo universale che
non ha bisogno di essere ebreo o cristiano, induista o musulmano per
delineare e conoscere immagini. Il suo intento era quello di far capire che
il linguaggio visivo e' un linguaggio a tutti gli effetti che segue regole
proprie e che crea sbalorditive interconnessioni tra tradizioni diverse.
Dipende dal patrimonio culturale in cui si forma ma non se ne identifica.
Nelle immagini e' calato un sapere che va ben oltre la spiegazione di cio'
che e' rappresentato in base alla convenzione culturale vigente in quel
determinato ambiente.
Gombrich nasce da qui anche se passa attraverso le ricerche della prima
grande generazione degli iconologi, quella che si compendia nel nome mitico
di Erwin Panofsky. Ma Panofsky aveva rettificato il pensiero di Warburg,
razionalizzandolo e cercando le fonti soprattutto letterarie e filosofiche
dell'immagine figurativa, una strada che sarebbe stata percorsa poi da tutti
i grandi iconologi, Gombrich compreso. E sono nate da li' le grandi dispute
della storia dell'arte. Che significa sul serio la Primavera del Botticelli,
qual e' la fonte letteraria cui l'artista si ispiro'? Ed e' lecito ed
esauriente cercare una fonte letteraria?
A questo punto subentra Gombrich. Formatosi a Vienna in un mondo che non
ammetteva alcuna possibilita' di studio umanistico che non fosse insieme
filosofico, Gombrich compi' uno spostamento determinante e in un certo senso
simbolico. Quando l'Istituto fondato da Warburg si dovette trasferire a
Londra nel 1936, vi si reco' diventandone l'esponente di spicco e, nel 1959,
il direttore, proprio mentre si accingeva a pubblicare la Storia dell'arte.
L'iconologia, nata su base filosofica e speculativa, si avviava a diventare
il terreno di una sorta di pragmatismo storiografico che fu il piu' grande
merito e il piu' grande limite del sommo studioso.
Gombrich, in sostanza, visse la crisi colossale dell'idea sistematica della
filosofia che contraddistingue il grande passaggio tra la prima e la seconda
meta' del Novecento in molti ambiti della ricerca umanistica.
L'iconologia era nata, infatti, integrando gli studi di storia dell'arte,
fiorentissimi a Vienna, con le ricerche filosofiche di Ernst Cassirer, il
sistematico per antonomasia, lo scienziato filosofo che aveva rinverdito in
pieno Novecento la grande idea idealistica in base a cui un sistema
filosofico puo' capire l'unita' della cultura, perche' questa esiste e
l'organicita' della storia ne e' la dimostrazione.
In base a questo principio la Primavera del Botticelli deve significare
qualcosa di preciso e rintracciabile e questo qualcosa deve essere univoco,
oppure la ricerca e' sbagliata. Gombrich, nutrito di studi psicanalitici,
dubito' di questo e dedico' tutta la sua vita a fare il Popper della storia
dell'arte, a chiedersi, cioe', se la lettura filosofica della storia non sia
globalmente sbagliata o meglio impossibile e debba essere dunque
abbandonata.
Ma a favore di che cosa? Della fiducia nella specificita' del linguaggio
artistico che e' una struttura percettiva basata, a prescindere quasi dal
concreto delle vicende storiche, sull'eterno andirivieni tra "convenzione",
in cui il linguaggio funziona, e "correzione" dello schema, per cui l'opera
d'arte trova la sua necessita'. L'arte e' una costruzione di linguaggi e lo
storico deve ricostruire le strutture in cui i linguaggi si organizzano,
strutture che sono prodotte dal singolo individuo ma anche dal funzionamento
complessivo dell'ambiente che impone, condiziona e porta inevitabilmente
anche alla trasformazione del sapere.
In questo senso l'approccio psicanalitico fu importantissimo per Gombrich,
che sull'argomento ha scritto pagine memorabili. Il presupposto e'
l'impossibilita' di essere univoci, di dare spiegazioni una volta per tutte.
Camminando nell'iconologia ne mino' le basi e questo ha dato fastidio a
molti. Su questo presupposto Gombrich ha insegnato una cosa in cui tutti i
grandi storici dell'arte credono: che, cioe', stile e significato di
un'opera d'arte sono inscindibili e quindi "ogni forma e' in linea di
massima un mezzo espressivo adatto a riecheggiare o rispecchiare un
significato", per citare ancora una volta le sue parole. Puo' sembrare un
approccio astratto e astorico e, in effetti, furono mosse a Gombrich
critiche del genere anche da suoi allievi che pure ne svilupparono il
metodo. Ma, in realta', lo sforzo di Gombrich e' stato quello di ridare
senso all'approccio umanistico in un'epoca sempre piu' lontana da un tale
genere di approccio. E' difficile negare che l'opera d'arte sia un prodotto
della mentalita' umanistica, ma e' altrettanto difficile dimostrare che in
una dimensione umanistica tutto si debba di necessita' tenere in una
armoniosa circolazione e nesso dei significati e dei contenuti culturali,
come avrebbe ancora potuto affermare un filosofo come Benedetto Croce nel
nostro paese.
Gombrich senti' la necessita' di innervare il tema umanistico sui veri
presupposti da cui era nato nell'eta' rinascimentale. Volle studiare questo
problema in particolare, carico di fascino e di implicazioni, e sovente lo
fece magistralmente come testimoniano certi suoi libri, tradotti anche in
italiano, come il magnifico Norma e forma, che e' un po' la quintessenza del
suo pensiero, o il bellissimo A cavallo di un manico di scopa. Resta per noi
il problema di fondo da lui sollevato: in che misura un artista figurativo
parla un linguaggio e in che misura ne e' parlato? Fino a dove ha la
necessita' assoluta di aderire alla norma, senza la quale non potrebbe
esprimersi, e come e' rintracciabile da parte dello studioso tutto cio' che
appartiene allo scarto dalla norma e significa per noi "creativita'"? Una
ricerca incessante che soltanto il solito incidente della interruzione della
vita ha portato a un incerto compimento.

4. MEMORIA. MAURIZIO GIUFRE' RICORDA ETTORE SOTTSASS
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 gennaio 2008, col titolo "I progetti di
Ettore Sottsass allo specchio della modernita'", e il sommario "A
novant'anni e' scomparso l'altro ieri a Milano il celebre architetto e
designer. Fermamente convinto che disegnare e' innanzitutto un atto etico e
politico, ha saputo registrare, con i suoi paesaggi domestici flessibili, le
trasformazioni della societa' dei consumi"]

Della pattuglia di artisti-designer che nel dopoguerra formarono il nostro
"paesaggio domestico", Ettore Sottsass jr., morto novantenne a Milano il 31
dicembre, rappresento' meglio di ogni altro quella categoria di "creatori di
possibilita'" che Robert Musil considerava gli unici in grado di
ricongiungersi con lo "spirito del tempo". Proprio il possesso del "senso
della possibilita'" gli ha infatti permesso, come a pochi, di resistere alla
proliferazione e al consumo delle mode smascherandone nel corso degli anni
la retorica e il segno involutivo.
Il possesso di questa disposizione - spesso intesa come "randagismo
culturale" - trova le sue origini nel periodo trentino, quando Sottsass,
ancora giovanissimo, gia' si considerava un homo faber, intento nella
falegnameria di suo zio Max a costruire cannocchiali e barometri. In quegli
anni, avrebbe raccontato in seguito il designer, tutto quello che faceva si
esauriva "nell'atto di farlo" perche' solo nel "fare" (artistico), misurato
attraverso i limiti della tecnica, gli era possibile esprimere i propri
interessi.
La formazione etica ed estetica di Sottsass - per meta' austriaco, da parte
di madre - si inscrive da un lato all'interno della tradizione mitteleuropea
che gli trasmise il padre Ettore, architetto modernista formatosi a Vienna,
e dall'altro nella cultura espressa dal Politecnico di Torino, la citta'
nella quale la famiglia si trasferi' nel 1929. E' stata Barbara Radice per
prima ad accorgersi che il disegno "colorato, metafisico, molle" di Sottsass
si iscriveva nell'eleganza jugendstil, cosi' come viennesi erano la loro
"trasparenza e acidita'". Fu pero' nel "laboratorio" torinese degli anni
'30, nel clima di entusiastiche sperimentazioni del Movimento razionalista
(Pagano, Aloisio, Cuzzi, Levi Montalcini, Sartoris) e di aspre delusioni e
sconfitte, che Sottsass apprese come ogni "evento della vita" sia
determinato dalla sua condizione politica e sociale.
Invitato nel 1987 dal Metropolitan Museum per una conferenza, affermo' che
il design italiano, nato intorno agli anni '30, cosi' come l'architettura
espressa dai gruppi dei giovani razionalisti, si fondavano sull'idea che
disegnare qualcosa e' soprattutto "un evento politico, cioe' un evento
etico". E dagli anni '30 rimase sempre convinto che solo dal confronto con
la storia e la societa' l'attivita' di un designer o di un architetto puo'
"dare un'immagine all'ambiente" nel quale vive. Lo dimostro' del resto nel
dopoguerra partecipando al dibattito sulla ricostruzione e cercando di
superare l'angusta contrapposizione tra industria e artigianato con
argomenti non allineati alle teorie funzionaliste del Bauhaus o del
Werkbund, le scuole di arte e mestieri d'oltralpe. Dalle pagine del
"Politecnico" dichiaro' anacronistico non accorgersi che "tante cose fatte
da artigiani si fanno a macchina, piu' belle e meno costose", pur nella
consapevolezza che la bonta' e l'utilita' del prodotto seriale non potevano
sostituirsi al mito della creazione artistica. Da qui scaturi' il suo
interesse per le espressioni meno ortodosse dell'architettura (Maillart,
Candela) e per la cultura figurativa dei paesi orientali, alla ricerca di
quelle espressioni "radicali" che nella varieta' e disomogeneita' delle loro
componenti, assumevano un'intima connessione alla vita e si rivelavano
complementari all'astratta razionalita' di qualsiasi processo produttivo.
Anche quando nel '59 l'Olivetti lo chiamo' per disegnare la prima macchina
per scrivere elettrica, la Tekne, le sue preoccupazioni si rivolsero al modo
in cui questi nuovi oggetti potevano influenzare "i nervi, il sangue, i
muscoli, gli occhi e gli umori delle persone". La curiosita' di Sottsass non
puntava sul disegno industriale delle singole macchine da scrivere
(Valentine) o da calcolo (Praxis), ma mirava a costruire "paesaggi"
complessi in grado di produrre una coerente figurazione ambientale.
Il passaggio dalla tecnologia meccanica a quella elettronica permise a
Sottsass di essere il protagonista privilegiato di un mutamento industriale
significativo. Occorreva misurarsi non piu' con la forma del singolo
oggetto, ma con le relazioni che una famiglia di macchine e arredi
producevano nell'ambiente. Per la prima volta, sono gli anni '50, si assiste
alla produzione di oggetti che insieme all'alto contenuto tecnico ed
estetico fissano modelli di comportamento integrando nuove forme di
comunicazione e di valori per la societa' dei consumi. Sottsass come un
sismografo ne registro' le trasformazioni. Nella seconda meta' degli anni
'60, alla mostra del MoMa di New York Italy, the New Domestic Landscape, il
suo ambiente domestico flessibile, fatto di elementi in plastica
aggregabili, risulto' in fastidiosa dissonanza rispetto al "design reale"
proposto dagli altri partecipanti. La sua riflessione in merito fu
nettissima: "Il design italiano pareva alla ricerca di un luogo asettico
ideale, dove la scaltrezza, il cinismo, la durezza, gli imbrogli, gli
intrighi dell'industria potessero essere nascosti o dimenticati o forse
neppure presi in considerazione".
A questa involuzione della cultura progettuale e industriale Sottsass reagi'
cercando di restituire ritualita' agli oggetti in quelle fucine di idee e di
linguaggi che furono prima la Sottsass Associati, nel 1980, e un anno dopo
Memphis. Con l'incarico di progettare la catena di negozi per il marchio
Esprit, il designer dispiego' una nuova concezione dell'oggetto di arredo in
"micro-paesaggi". La consapevolezza che nell'epoca della tardomodernita' non
si e' piu' "creatori di forme" ma solo "ricettori di forme" lo spinse negli
ultimi anni verso l'architettura, con autentiche opere d'arte totale come la
Casa Wolfe in Colorado. Le sue intenzioni non furono quelle di "costruire
una casa in piu' nel mondo bensi' un pensiero in piu' sulle case": una
posizione esemplare davanti al disinvolto e incolto scempio edificatorio che
ovunque si manifesta.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 175 del 3 agosto 2008

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