Voci e volti della nonviolenza. 207



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 207 del primo agosto 2008

In questo numero:
1. Un confronto con Severino (parte seconda)
2. Emanuele Severino: Il capitalismo e il bene comune
3. Emanuele Severino: Volonta', violenza, divenir altro
4. Emanuele Severino: Da Heidegger all'eternita'
5. Emanuele Severino: Fede e ragione
6. Emanuele Severino: Laicita'
7. Emanuele Severino: La misconosciuta potenza del pensiero parmenideo
8. Et coetera

1. UN CONFRONTO CON SEVERINO (PARTE SECONDA)

Per le persone amiche della nonviolenza un confronto con la meditazione di
Emanuele Severino e' nutriente, anche nel conflitto, anche nell'aporia,
anche nell'eventuale reciproco fraintendersi, inaudirsi, traudirsi e
tradirsi.
Dei pensatori dei tempi nostri ancora capaci di ascoltare la voce della
sapienza greca, Severino e' uno di quelli cosi' rigorosi, cosi' coerenti, da
apparirne talvolta pietrificato.
Chiunque abbia letto l'Essenza del nichilismo ne avra' certo tratto un
malessere prezioso, e sebbene a piu' riprese si abbia la sensazione di un
ripetere all'infinito un solo cruciale pensiero, che basterebbe una mezza
pagina per rendere intero, al contempo si avverte di esser di fronte a una
sfida insieme ineludibile e irresolubile. Ma sono questi pensieri la scuola
migliore, che non acquietano, che non assorbono, che non spengono. Ma
paradossalmente convitano alla pugna, al conflitto, alla lacerazione, a uno
sguardo secondo e ulteriore. Tutte cose che, ognuno lo sa, fanno un mare di
bene alla nonviolenza in cammino.

2. EMANUELE SEVERINO: IL CAPITALISMO E IL BENE COMUNE
[Dal "Corriere della sera" del 30 settembre 2007 col titolo "Il papa e il
profitto" e il sottotitolo "I paradossi dell'economia cristiana"]

"Il profitto e' naturalmente legittimo nella giusta misura, e' necessario
allo sviluppo economico; ma il capitalismo non va considerato come l'unico
modello valido di organizzazione economica". Lo ha detto qualche giorno fa
Benedetto XVI. Qualcuno potrebbe obiettare che se il profitto, cioe' lo
scopo dell'agire capitalistico, "e' necessario allo sviluppo economico", non
si vede perche' si debbano indicare altri modelli validi, auspicandone
l'attuazione. Ma sarebbe un'obiezione fuori luogo. Il pontefice trae infatti
una conseguenza del tutto corretta, servendosi di una logica su cui vado
richiamando l'attenzione da decenni.
Lo scopo di un'azione e' l'essenza stessa di tale azione. Gia' Aristotele lo
affermava.
Quindi se un'azione cambia il proprio scopo, l'azione stessa cambia e solo
in apparenza puo' sembrare la stessa. Il mangiare quando si mangia per
vivere e' diverso dal mangiare quando si vive per mangiare. Lo stesso si
dica del vivere.
Il capitalismo e' un agire complesso che pero', in ogni sua intrapresa, ha
come scopo il profitto, non l'amore del prossimo. Da tempo la Chiesa, pur
riconoscendo che "il profitto e' naturalmente legittimo", lo condanna quando
e in quanto esso voglia essere lo scopo della organizzazione economica. Il
profitto e' "legittimo" se si mantiene "nella giusta misura": non come scopo
di tale organizzazione ma come mezzo con cui questa realizza lo scopo
legittimo, ossia il "bene comune". Un mezzo per realizzare la carita'
cristiana, l'amore del prossimo.
Ma prescrivendo al capitalismo di avere come scopo il "bene comune"
cristianamente inteso, la Chiesa gli prescrive di assumere uno scopo diverso
da quello che costituisce l'essenza stessa del capitalismo, ossia di
diventare qualcosa di diverso da cio' che esso e'. Come ho sempre detto, lo
invita ad andare all'altro mondo. Lo stesso invito del comunismo
(diversamente motivato). In proposito, i critici, soprattutto di parte
cattolica, non mi sono mai mancati. Ma, ora, le surriferite espressioni di
Benedetto XVI mi danno ragione.
Infatti, se il capitalismo nella "giusta misura" assume come scopo non piu'
il profitto ma il "bene comune", allora il capitalismo, dice il pontefice,
"e' necessario allo sviluppo economico" ma e' anche diventato un diverso
"modello di organizzazione", che, chiosiamo, del capitalismo e del profitto
conserva soltanto il nome - come del "vivere" (e del "mangiare") si conserva
soltanto il nome quando, invece di vivere per mangiare, si mangia per
vivere. E questo diverso modello e' qualcosa di "valido", pretende di essere
valido oltre la validita' che il capitalismo attribuisce a se stesso. Giusto
dire, quindi, che il capitalismo non e' l'unico modello valido. Qualcosa,
pero', e' da chiarire. Il capitalismo non va considerato "come l'unico
modello valido". Ma - osservo - il capitalismo che la Chiesa riconosce
"valido" e "necessario allo sviluppo economico" non puo' essere quello che
assume come scopo il profitto (e che poi e' il capitalismo vero e proprio),
bensi' quello che assume come scopo il "bene comune" e che appunto per
questo e' un diverso "modello". A quale altro capitalismo "valido" si
riferisce allora il pontefice, quando afferma che "il capitalismo non va
considerato come l'unico modello valido"? L'impostazione del suo discorso,
cioe', non avrebbe dovuto fargli dir questo, ma fargli concludere che
l'unico "modello valido" e' quello "necessario allo sviluppo economico" che
e' necessario solo in quanto ha come scopo il "bene comune". E' l'economia
cristiana. (Anche l'unica scienza valida e' quella cristiana - come il
pontefice ha affermato).
Quella conclusione sarebbe stata, certo, molto cruda. Ma non era molto piu'
cruda la sua esortazione, fatta ai politici cattolici il giorno prima, a
"far si' che non si diffondano ne' si rafforzino le ideologie che possono
oscurare e confondere le coscienze, e veicolare una illusoria visione della
verita' e del bene"? Se il pontefice ritiene (e mi risulta che lo ritenga)
che il mio discorso filosofico sia una di quelle "ideologie" e se i
cattolici obbedienti alla Chiesa avessero la maggioranza nel Paese, io
dovrei smettere di farmi sentire. Poco male. Molto importante invece che, se
quella maggioranza si costituisse, anche la liberta' di opinione e di parola
andrebbe all'altro mondo. Fine anche della democrazia.
Fine di qualcosa, tuttavia, che la Chiesa non intende far finire. Ma si
tratta di un'intenzione analoga a quella di non voler far finire il
capitalismo ma solo il capitalismo che non si mantiene "nella giusta
misura". Anche riguardo alla democrazia il pontefice potrebbe infatti dire
che la liberta' "e' naturalmente legittima nella giusta misura" ed "e'
necessaria allo sviluppo" politico (dove pero' la giusta misura e' data da
una liberta' non separata dalla verita' cristianamente intesa). Si' che
l'unico modello valido di organizzazione politica e' la democrazia che non
assume come scopo la liberta' senza la verita' cristiana ma quella il cui
scopo e' l'unione di liberta' e di tale verita' (dove il profitto non avente
come scopo il "bene comune" sta alla liberta' senza verita', cosi' come il
profitto avente quello scopo sta alla liberta' unita alla verita').
Quanto ho detto non ha in alcun modo l'intento di sostenere che, poiche'
capitalismo e democrazia sono intoccabili, dunque la Chiesa ha torto. Ha
l'intento di mostrare la conflittualita' tra le forze che oggi guidano il
mondo occidentale e che non sussiste soltanto tra Chiesa e capitalismo o
democrazia, ma anche tra capitalismo e democrazia, tra societa' ricche e
l'Islam (che ormai si e' posto alla testa di quelle povere), e soprattutto
tra tutte queste forze da un lato, e dall'altro quella che e' destinata a
dominarle tutte: la tecnica. Solo partendo da questo tema si puo' evitare
che le discussioni di questi giorni sull'"antipolitica" abbiano a nascondere
il senso autentico della "crisi della politica" - che e' crisi di tutte
quelle forze e dei loro conflitti.

3. EMANUELE SEVERINO: VOLONTA', VIOLENZA, DIVENIR ALTRO
[Dal "Corriere della sera" del 18 ottobre 2007 col titolo "La vita?
Un'odissea tra violenza e amore". E' un breve estratto da Emanuele Severino,
Oltre passare, Adelphi, Milano 2007]

Solo lo smembramento del Dio consente che se ne mangino le carni e se ne
beva il sangue. In questo modo, il mito afferma, con il proprio linguaggio,
il tratto essenziale della volonta' di avere potenza, cioe' la fede
nell'isolamento, nella separazione di cio' su cui si vuole esercitare la
potenza. Agli occhi del mortale del mito, la potenza (divina) che genera e
rigenera il mondo, e che per farlo ha bisogno di una materia essa stessa
capace di servire alla potenza produttrice, cioe' essa stessa potente, o
"divina", puo' agire su tale materia solo se, tale materia, non si mantiene
compatta, inflessibile e inalterabile, ma, all'opposto, si lascia alterare,
flettere e separare da se'. E il mito intende appunto come smembramento del
divino questa disponibilita' della materia all'opera che la domina.
Mangiando la potenza divina e sapendo di farlo, il mortale del mito - che
nel proprio operare e soprattutto nel "sacrificio" ripete la generazione e
la rigenerazione del mondo - crede che la potenza su cui opera la propria
potenza, entrambe divine, debba daccapo rendersi disponibile e prestarsi
alla volonta' di potenza, crede cioe' che per impadronirsene debba mangiarla
e quindi smembrarla e squartarla.
Smembramento e squartamento sono le immagini in cui si presenta il reciproco
isolamento delle cose del mondo, in quanto condizione essenziale dell'agire.
Ma sono immagini che mostrano direttamente la violenza e il dolore che ogni
agire porta con se', in quanto ogni agire e' un divenir altro.
La specializzazione scientifica - cioe' la separazione metodica di un campo
particolare di indagine dalle altre dimensioni del mondo - e' solo l'ultima
forma, nella storia dell'Occidente, della violenza e dell'isolamento delle
cose, essenzialmente richiesto dal loro divenir altro. Ma anche al piu' puro
atto d'amore compete questa violenza isolante (che nella specializzazione
scientifica e nel "frammento" in cui consiste l'opera d'arte nel tempo
presente tende a rendersi esplicita, mentre nell'amore tende a nascondersi).
Piu' volte, nei miei scritti, si richiama la coappartenenza che il
linguaggio esprime con la similarita' etimologica tra il decidere
(de-caedere, "decidere") e l'uccidere (ob-caedere), dove il caedere e'
appunto il colpire staccando cio' che era unito, ma che era anche disposto
(ossia lo si creda disposto) a lasciarsi separare, e smembrare. Volonta' di
vivere, volonta' di potenza, volonta' di divenir altro, fede nell'isolamento
delle cose sono essenzialmente connessi.

4. EMANUELE SEVERINO: DA HEIDEGGER ALL'ETERNITA'
[Dal "Corriere della sera" del 6 dicembre 2007 col titolo "La sfida
all'eternita'" e il sommario "Testimonianze. Per la prima volta in italiano
i Contributi alla filosofia, l'opera che rinnovo' la metafisica del
pensatore tedesco. Heidegger rifiuta una Verita' al di sopra della Storia ma
cosi' nega che l'uomo e il mondo siano necessari"]

"Non vi sono tesi somme", ossia "principi", "verita' eterne" che sovrastino
la storia, il tempo, il divenire. A esprimere questo rifiuto, ormai, non
sono soltanto le forme filosofiche del nostro tempo, ma anche la scienza:
non soltanto la filosofia - che riferisce tale rifiuto a ogni pensiero e
azione dell'uomo, dunque anche a se stessa -, ma anche, e da tempo, la
scienza, nella misura in cui essa si libera dall'illusione di essere, oltre
che potente, assolutamente vera.
La frase riportata all'inizio e' contenuta nei Contributi alla filosofia
(Beitraege zur Philosophie), la grande opera composta da Heidegger tra il
1936 e il 1938, ma mai da lui data alle stampe, e pubblicata postuma nel
1989 per il centenario della nascita del filosofo. L'opera appare ora presso
Adelphi, a cura di Franco Volpi, che insieme ad Alessandra Iadicicco ha
portato a termine il difficile compito della traduzione.
Nonostante le profonde e suggestive innovazioni rispetto al capolavoro del
1927, Essere e tempo, anche nei Contributi la struttura di fondo del
pensiero di Heidegger rimane immutata. A cominciare, appunto, da quel
rifiuto di ogni "tesi somma" e di ogni verita' eterna e soprastorica. In
Essere e tempo si dice: "Che ci siano delle 'verita' eterne' potra' essere
concesso come dimostrato solo se sara' stata fornita la prova che l'Esserci
era e' e sara' per tutta l'eternita'. Fin che questa prova non sara' stata
fornita, continueremo a muoverci nel campo delle fantasticherie". Heidegger
sta dicendo che, fino a quando non si provera' che l'uomo (cioe'
l'"Esserci") e' eterno - eterno, non semplicemente immortale -, sara' solo
una fantasticheria parlare di "verita' eterne".
Ma per Heidegger e' del tutto ovvio che l'uomo (come ogni cosa del mondo)
non e' eterno e che quindi quella prova non potra' mai esser data - per
Heidegger, dico, come per tutti coloro che in qualsiasi campo hanno pensato
ed agito da quando, all'inizio della storia dell'Occidente, e' apparso il
senso del tempo e dell'eterno.
Che nessuna cosa con cui l'uomo abbia a che fare sia eterna e' diventata
ormai la convinzione piu' profonda e scontata anche presso la gente comune,
tanto che starvi a riflettere sembra una pura perdita di tempo.
Il tempo perduto - che fortunatamente ha forme diverse - i miei scritti
l'hanno aumentato di molto, mostrando invece che lo splendore delle cose
(anche di quelle terribili) e' infinitamente piu' luminoso di quanto si sia
disposti ad ammettere. Hanno cioe' indicato, quegli scritti, la necessita'
che non solo l'uomo, ma tutte le cose siano eterne. Tutte le cose:
situazioni, configurazioni, modi di essere, relazioni, attimi, ombre,
universi, pensieri, affetti, decisioni, stati visibili e invisibili, nessuna
esclusa. Il tempo, la storia, e il comparire e lo scomparire degli eterni. E
la necessita' che ogni cosa sia eterna e' qualcosa di essenzialmente piu'
radicale di quella "prova" dell'eternita' dell'uomo che per Heidegger non
potra' mai esser data.
Dall'inizio alla fine il tema di questo pensatore e' stato "la domanda
dell'Essere" (Seinsfrage).
La domanda - che continua ad attendere la risposta, ma che in questa attesa
mostra, per Heidegger, tutta la propria grandezza. L'"Essere" non e'
l'"ente", non e' alcuno degli "enti" (case, fiumi, stelle, pensieri, azioni,
uomini, dei), di ognuno dei quali si dice tuttavia che "e'" e che "e'"
questo e quest'altro. Qual e' il senso di questo "e'" - ecco la "domanda
dell'Essere" -, da cui tutto in qualche modo dipende? Dai Greci a Nietzsche
la filosofia e' stata riflessione sul senso dell'"ente", ossia e' stata
"pensiero metafisico", e ha quindi velato la "domanda dell'Essere", pur
dando vita alla storia dell'Occidente.
Quella domanda sta, per Heidegger, al di sopra di ogni asserire. Si trova
alla sommita' del pensare, ma non per questo e' una "tesi somma", una
"verita' assoluta". Essa e' "storica". Anzi, come Nietzsche non ritiene di
esser gia' lui il "super uomo", ma di esserne il profeta, cosi' Heidegger,
nei Contributi, non attribuisce al proprio discorso nemmeno la capacita' di
costituirsi come l'autentica "domanda dell'Essere", ma solo il carattere di
un "pensiero transitorio", che "ai fini della comunicazione deve spesso
procedere ancora lungo il tracciato del pensiero metafisico", e i cui
"sforzi" "saranno un giorno superflui e ricadranno nell'accidentale" (p.
419).
In una conferenza pubblicata nel 1964 e intitolata La fine della filosofia e
il compito del pensiero, Heidegger aggiungera' che al proprio pensiero "non
puo' esser riconosciuta alcuna azione immediata o mediata sulla dimensione
pubblica dell'epoca industriale, improntata dalla scienza-tecnica", e che
"il suo compito ha solo un carattere preparatorio e nient'affatto fondante",
giacche' "gli basta risvegliare una disponibilita' dell'uomo per una
possibilita', i cui tratti restano oscuri e il cui avvenire incerto".
Va tuttavia anche detto che queste affermazioni non sono affatto, come
Heidegger esplicitamente dichiara, espressione di una "falsa modestia",
giacche' quell'oscurita' e incertezza, quella incapacita' di influire sul
mondo della tecnica, quel carattere preparatorio e non fondante non sono,
per lui, semplici caratteri della scrittura dell'individuo Heidegger, ma
sono insieme, e addirittura primariamente, il modo in cui l'"Essere" stesso
si vela e si ritrae dall'epoca presente. E lo stesso si puo' dire di quella
"superfluita'" e "accidentalita'" che nei Contributi Heidegger attribuisce
al proprio pensiero. I Contributi sono pertanto grandi prove di una
filosofia che vorrebbe allontanarsi dalla tradizione metafisica, pur
riconoscendo tutte le difficolta' a cui questo tentativo va incontro, ma
insieme essendo convinta che tali difficolta' non sono dovute alle carenze
di un certo individuo umano, ma sono le difficolta' in cui le cose stesse si
trovano e secondo le quali si costituiscono.
D'altra parte destano sorpresa molte delle tesi, peraltro suggestive, che si
incontrano nei Contributi. Sembrano andare troppo piu' in la' di quanto
secondo lo stesso Heidegger sia lecito. Ad esempio le tesi dei "venturi",
dell'"ultimo Dio" ("quello del tutto diverso rispetto agli dei gia' stati,
specie rispetto al Dio cristiano"), del modo in cui l'"Essere", "vibrando",
"oscillando", "fendendosi", si appropria del mondo. Heidegger intende
"rovesciare" la metafisica senza abolirla (e il timbro della sua filosofia
risulta fortemente neoplatonico), senza cioe' abolire la fede di cui parlavo
e che guida l'Occidente e ormai il pianeta: la fede che l'uomo e le cose non
sono eterne. Tra i temi piu' in vista e operanti, nei Contributi, quello del
"creare", che e' concetto essenzialmente "metafisico". ("Quanto e' lontano
da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori e creatori, perche' di costoro
ha bisogno la sua essenza?"). Ma - dico - nessuna cosa creata e' eterna. E'
creata proprio perche' non e' eterna. Nessun creatore crea l'eterno. E
dell'"Essere" stesso Heidegger esclude che sia eterno. L'"Essere" stesso e'
"storico".
Ma questa fede nella non eternita' di cio' che e' non esprime forse la
follia estrema? non pensa forse che cio' che e' non e' (giacche' non e'
eterno)? che il non niente e' niente? che cioe' gli essenti sono il nulla?
certo questa non e' come la domanda di Heidegger. Qui e' la Risposta -
positiva e gia' da sempre data e non da uno di noi, ma dalla necessita' - a
sorreggere la domanda.

5. EMANUELE SEVERINO: FEDE E RAGIONE
[Dal "Corriere della sera" del 19 gennaio 2008 col titolo "Se il Papa e'
relativista" e il sommario "Benedetto XVI afferma che ne' il cristianesimo
ne' la cultura laica possono proporre qualcosa 'su cui tutti siano
d'accordo'. Quando dice che la ragione non regge senza l'ausilio della fede
sottrae alla filosofia il compito di ricercare verita' indiscutibili.
Antiche radici. La sapienza greca nasce come critica della religione. La
divergenza. Ratzinger non segue Tommaso d'Aquino sul 'diritto naturale'"]

Episodi di intolleranza come quello verificatosi in questi giorni nei
confronti del pontefice danneggiano il dialogo sui grandi temi della ragione
e della fede. Ma ancora maggiore sarebbe il danno se tale dialogo si
interrompesse. Lo sostengo in riferimento al felice libro di Benedetto XVI,
Perche' siamo ancora nella Chiesa (Rizzoli). Insieme a quella latina,
cristiana e moderna, egli indica l'"eredita'" greca dell'Europa: la
fondazione della democrazia su cio' che Platone chiama eunomia, "buona
legge" ("buon diritto"), che e' buona perche', dice il pontefice, e' la
"supremazia, valida per tutti, del nomos" ("legge"), "di cio' che e' giusto
per intima essenza". Ma questa - osservo - e' la supremazia della filosofia,
che ha sempre inteso indicare, in modo "valido per tutti", la verita'. Una
giustizia, una virtu', un Dio che non siano veri - dice Platone - li si puo'
e li si deve abbandonare. Solo la verita' puo' mostrare in modo
incontrovertibile l'"intima essenza" delle cose. La filosofia respinge tutto
cio' che assicura di essere verita' senza esserlo, innanzitutto il mito, la
religione, il potere e la negazione di esso che siano privi di verita'.
Nel libro del pontefice questo tratto essenziale della filosofia non puo'
essere presente. La relativa distanza di queste pagine dall'essenza della
filosofia e' il presentimento che non solo quella moderna, ma la filosofia
in quanto tale, dunque anche e innanzitutto quella greca, e' critica della
religione e del mito. Se la filosofia vede che il Dio (e giustizia, virtu',
ecc.) delle religioni non puo' avere verita', e se il cristianesimo (ogni
religione) non puo' accettare che il Dio della filosofia sia "vero",
tuttavia il senso dell'incontrovertibile e della "verita'" e' stato
esplorato dalla filosofia, non dalle religioni (e nemmeno dalla scienza). Il
pontefice afferma che "la speranza del cristianesimo... dipende in ultima
istanza dal fatto che esso dice la verita'", ma questa non puo' essere la
verita' a cui la filosofia si rivolge - e si rivolge tuttora quando riesce a
mostrare l'impossibilita' di un Dio eterno che crea, ama e domina il mondo
del divenire.
L'eunomia e' il "diritto naturale", qualcosa che pero', nel dialogo col
filosofo Juergen Habermas - incluso in questo libro e considerato dal
curatore come il testo fornito di "maggiore incisivita'" -, il pontefice non
intende sfruttare. Per semplificare il dialogo adotta una strategia, che
pero' non raggiunge l'intento. Egli enuncia la "regola fondamentale" per
evitare i contrasti tra le diverse culture: la "necessaria
correlazionalita'" o "complementarieta'" "tra ragione e fede, ragione e
religione, che sono chiamate a una reciproca chiarificazione e cura, che
hanno bisogno l'una dell'altra e che lo devono riconoscere". "I due partner
principali in questa correlazionalita' sono la fede cristiana e la
razionalita' laica occidentale". Per il pontefice il fondamento di questa
"regola" e' che, "di fatto", nessuno dei due partner e' in grado di proporre
qualcosa "su cui tutti siano d'accordo" - anche perche' sia la religione sia
la ragione sono affette da pericolose "patologie". Un discorso audace, ma
controproducente. Le premesse non giustificano le conseguenze.
Infatti la ragione - pur riconoscendo le patologie della cattiva ragione e
la possibilita' di non riscuotere il consenso di tutti - puo' non sentire il
bisogno della religione. Anzi non deve sentirlo. Nella sua forma
fondamentale, infatti, la ragione e' il sapere incontrovertibile. Il
pontefice (insieme con molti altri) non lo ricorda. Ma se la filosofia ha
evocato il senso - l'idea - di un sapere che non possa esser travolto e
smentito nemmeno da un Dio onnipotente, allora la filosofia nasce negando di
"aver bisogno" della religione e del mito, ossia di un sapere smentibile.
Nessun disprezzo, in questo fatto, se Aristotele ha potuto dire che anche
"l'amante del mito", il philomythos, e' in qualche modo philosophos; ma
bisogna che ogni cosa sia chiamata col suo nome, e che quindi ogni altra
forma di sapere diversa dalla filosofia sia chiamata sapere controvertibile.
Giacche' la fede cristiana intende, si', essere rationabile obsequium, cioe'
fede "ragionevole", ma questa "ragionevolezza" (la stessa fede lo riconosce)
non puo' essere la verita' incontrovertibile che puo' apparire nell'uomo in
quanto tale. La fede non puo' essere l'incontrovertibile perche' altrimenti
essa non sarebbe dono soprannaturale, "grazia", rivelazione di Cristo a cui
l'uomo non puo' giungere (daccapo secondo la fede) con le sole sue forze. Ne
viene che la "ragione" autentica, l'"incontrovertibile", non puo' aver
bisogno di alcuna religione, appunto perche' l'incontrovertibile, per esser
tale, non puo' aver bisogno del controvertibile. Il relativismo e lo
scetticismo, contro cui la Chiesa e il pontefice continuano a combattere,
consistono proprio nella tesi sostenuta dal pontefice, cioe' che la ragione,
in quanto incontrovertibilita', non esiste appunto perche' essa ha bisogno
della religione, cioe' del controvertibile - e se fossero certi scienziati a
prender la parola arriverebbero alla stessa conclusione, perche' direbbero,
in modo analogo, che la filosofia ha bisogno della scienza - un sapere, la
scienza, che per la sua struttura concettuale ha si' la massima potenza, ma
ormai esclude esso stesso di essere incontrovertibile.
La tesi del pontefice che la ragione abbia bisogno della religione
cattolica, non e' la tesi di Tommaso d'Aquino, "dottore della Chiesa" e
santo che, almeno nelle intenzioni, sostiene una filosofia basata sulla
"ragione naturale", "alla quale tutti sono costretti a dare il proprio
assenso" e che ha appunto i tratti dell'incontrovertibilita' - mentre per
lui la fede cattolica non e' un sapere a cui tutti siano costretti a dare il
loro assenso ("i maomettani e i pagani non la accettano") e appunto per
questo non e' da lui assunta (o almeno egli si propone di non assumerla)
come fondamento del suo filosofare. Dove, si noti, quell'esser qualcosa "su
cui tutti siano d'accordo" a cui si riferisce il pontefice - e che per lui
ne' fede cattolica ne' ragione laica riescono ad essere -, non va confuso
con quell'"esser costretti a dare il proprio assenso" che Tommaso riferisce
alla "ragione naturale". Per Tommaso, infatti, anche se "di fatto" nessuno
fosse d'accordo con la "ragione naturale", essa sarebbe egualmente cio' a
cui tutti - qualora non fossero obnubilati - sarebbero costretti a dare il
proprio assenso; mentre nella strategia di queste pagine del pontefice la
"patologia" dell'obnubilazione compete alla ragione in quanto tale, e anche
alla fede; le quali, per il fatto di non esser condivise da tutti, sono come
due zoppi che per camminare hanno bisogno di appoggiarsi l'uno all'altro,
dando luogo comunque a una complessiva claudicazione.
Se si accettasse questo modo di pensare, si dovrebbe dire che quando Gesu'
fu alla fine, e nessuno fu piu' d'accordo con lui, allora, per questo
disaccordo, la sua fede si sarebbe dovuta appoggiare ("correlazionarsi")
alla ragione, avrebbe dovuto "aver bisogno" di essa, farsi da essa
"chiarificare" (per usare le espressioni del pontefice richiamate
all'inizio). Sembra allora piu' rispondente allo spirito del cristianesimo
(ma anch'essa gravata, si e' visto sopra, da gigantesche aporie) l'altra
strategia, quella del "diritto naturale" che - il pontefice riconosce - e'
la "figura argomentativa" preferita dalla Chiesa nei dibattiti con i non
cattolici.

6. EMANUELE SEVERINO: LAICITA'
[Dal "Corriere della sera" del 6 febbraio 2008 col titolo "Il rapporto tra
ragione e fede. Solo la filosofia puo' essere laica"]

Ha ragione Claudio Magris a rilevare (sul "Corriere" del 17 gennaio scorso)
che l'uso del termine "laico" e' pieno di equivoci. Gli equivoci dei
concetti rendono equivoche anche le azioni.
Mi sembra utile discutere il suo intervento. E dico subito all'amico Magris
che e' mia abitudine discutere le cose di rilievo. "Laicita'", egli scrive,
"e' essenzialmente la capacita' di distinguere cio' che e' dimostrabile
razionalmente da cio' che e' invece oggetto di fede". Questa capacita' non
e' cosa da poco. Presuppone che si sappia che cosa sia "dimostrazione
razionale" e che cosa sia "fede". Questa capacita' segna niente di meno che
la nascita della filosofia, la presa di distanza della filosofia dal mito,
cioe' dalla fede. Nella sua essenza piu' profonda "laicita'" significa
"filosofia". Non si puo' dire, allora, quello che Magris dice: che quella
capacita' "non e' un contenuto filosofico, bensi' una forma mentis". Si puo'
si' avere una forma mentis piu' o meno vicina al pensare filosofico (nel
qual caso sara' appropriato chiamarla "laicita'"), ma se questa forma non
vuol essere a sua volta una fede deve diventare filosofia.
Ma e' ancora piu' interessante l'affermazione con cui Magris esprime uno dei
luoghi centrali del pensiero liberale: "Laicita' significa tolleranza,
dubbio rivolto anche alle proprie certezze". Questa definizione di
"laicita'" intende completare la precedente, ma in effetti la mette in
questione. Che la ragione vada distinta dalla fede e' una certezza di
Magris. Ma, allora, il "dubbio rivolto anche alle proprie certezze" mette in
dubbio anche quella distinzione tra ragione e fede? Se non la mette in
dubbio, allora c'e' un sapere che non puo' esser messo in dubbio - e la
definizione di "laicita'" deve esser rivista. Se invece tutto e' dubitabile,
allora la "laicita'" diventa, nonostante le intenzioni, quello scetticismo o
quel relativismo nel quale la Chiesa ritiene consistere tutta la forza del
pensiero del nostro tempo (che invece ha ben altra potenza) e che quindi la
Chiesa fa presto a togliersi d'attorno.
Nell'intervento di Magris c'e', tra le altre, una terza definizione di
"laicita'". Per lui (come per molti altri) la sentenza evangelica del dare a
Cesare quel che e' di Cesare e a Dio quel che e' di Dio e' un "principio
laico". Qui debbo fare quello stesso che egli dice di esser costretto a
fare; devo ripetere cioe' cose che vado richiamando da decenni anche su
queste colonne - convinto peraltro che sia opportuna la ripetizione (della
quale chiedo scusa pur avvedendomi che non e' superflua, come il discorso di
Magris conferma). Sia opportuna affinche' non accada che ognuno parli per
conto proprio. Si tratta di capire che, per Gesu', dando a Cesare quel che
gli spetta non gli si puo' dare tuttavia qualcosa che sia contro Dio (Gesu'
non puo' pensare una cosa del genere); e che, per i Romani (e per molte
altre concezioni dello Stato), dando a Dio quel che a sua volta gli spetta
non gli si puo' dare qualcosa che sia contro Cesare (nemmeno lo Stato,
Cesare, potrebbe pensare una cosa del genere).
Le conseguenze sono notevoli e tutt'altro che "laiche".
Nella logica evangelica, le leggi dello Stato non possono contrastare le
leggi di Dio. Devono essere cioe' leggi cristiane. Lo Stato deve essere
cristiano. Il peccato e' anche delitto. Non puo' esserci una zona "neutra"
dove le leggi siano indifferenti rispetto alle leggi di Dio. Teocrazia; non
"laicita'".
Nella logica di Cesare, le leggi di Dio non possono contrastare le leggi di
Cesare. Devono essere leggi statali. La religione dev'esser controllata
dallo Stato. Il vero peccato non e' quello punito da un Dio che sta nei
cieli: e' il delitto punito dallo Stato. Assolutismo, totalitarismo
politico; non "laicita'".

7. EMANUELE SEVERINO: LA MISCONOSCIUTA POTENZA DEL PENSIERO PARMENIDEO
[Dal "Corriere della sera" del 12 marzo 2008 col titolo "Severino: la mia
autodifesa", il sommario "Filosofia. Un libro dedicato al pensatore
cattolico Gustavo Bontadini riapre la discussione sulla riflessione del suo
maggior allievo. Nietzsche e i credenti uniscono Essere e Nulla. Io riparto
da Parmenide", la notizia biografica "Emanuele Severino (Brescia 1929), fu
allievo di Bontadini. Nel 1962 diventa docente all'Universita' Cattolica e
due anni dopo esce il suo Ritornare a Parmenide, che provoca il suo
allontanamento. Ha poi insegnato a Venezia e al San Raffaele di Milano" e la
notizia bibliografica - siglata r.c. - "Bibliografia. Allievi e seguaci del
teorico italiano. Tra i numerosi libri e saggi, senza contare centinaia di
siti in rete, che recentemente si sono riferiti al pensiero di Emanuele
Severino ricordiamo, in relazione a questo suo articolo, la raccolta-omaggio
di saggi Le parole dell'essere. Per Emanuele Severino, a cura di Petterlini,
Brianese e Goggi (Bruno Mondadori, 2006, pp. 718, euro 40.00). Ne' va
dimenticato che lo storico tedesco Thomas Soeren Hoffmann nel suo saggio
Filosofia in Italia (Mariverlag, 2007, pp. 400, euro 18) ha considerato
Severino il solo pensatore degno di rilievo nel nostro Paese dopo Vico.
Severino e la sua filosofia sono inoltre presenti in: Bontadini e la
metafisica, a cura di Carmelo Vigna (Vita e Pensiero, 2008, pp. 584, euro
35); Scenari dell'impossibile, La contraddizione nel pensiero contemporaneo,
a cura di Francesco Altea e Francesco Berto (Il Poligrafo, 2007, pp. 308,
euro 25); Verita' e prospettiva in Nietzsche, a cura di Francesco Totaro
(Carocci, 2007, pp. 230, euro 20,50). Inoltre ha trattato l'argomento
Salvatore Natoli, La mia filosofia (Ets, 2007, pp. 136, euro 12). Tra i
volumi usciti recentemente o in via di pubblicazione, e connessi ai temi di
Emanuele Severino, vanno infine ricordati: Ines Testoni, La frattura
originaria. Psicologia della mafia tra nichilismo e omnicrazia (Liguori,
2008, pp. 356, euro 25,50); Umberto Soncini, Il senso del fondamento in
Hegel e Severino (e' un saggio che vedra' la luce nel 2008)"]

Nietzsche crede che ad eccezione di Eraclito e di lui stesso tutti i
filosofi si siano posti al seguito di Parmenide. Appunto per questo intende
operare il "superamento dei filosofi". E Karl Popper - filosofo della
scienza e promotore del rinnovamento del neopositivismo logico - ritiene a
sua volta che la maggior parte dei grandi fisici del nostro tempo (Boltzman,
Minkowski, Weil, Schroedinger, Goedel, Einstein) si muovano sostanzialmente
nell'ambito del pensiero parmenideo; sebbene a sua volta propenda per una
interpretazione non parmenidea del mondo fisico, come quella di Heisenberg.
Platone chiamava Parmenide "venerando e terribile", come un dio. E l'unico
strappo di Aristotele al proprio sempre misurato linguaggio riguarda
Parmenide: le sue dottrine, dice, sono "follie".
Ma le cose non stanno cosi'. Tutti i filosofi, dopo Parmenide, hanno mirato
a "superarlo"; la logica dei fisici non ha nulla a che vedere con il suo
pensiero, la cui potenza e' stata sempre, in ogni campo, misconosciuta. Sono
piu' di cinquant'anni che vado mostrandolo. Molto pochi, se si tien conto
della posta in gioco.
E' uscito ora, pubblicato da Vita e Pensiero, Bontadini e la metafisica, il
volume degli atti del Congresso tenutosi a Venezia per il centenario della
nascita del mio indimenticabile maestro, tra i maggiori pensatori del nostro
tempo e cattolico. Anche la maggior parte degli autori del volume (circa
seicento pagine) sono cattolici; ma molti di essi si rammaricano che -
quanto al tratto filosofico essenziale - nell'ultima fase della sua vita il
maestro dell'Universita' Cattolica sia venuto "dalla mia parte" (se vogliamo
usare, per far presto, questa pessima e impropria espressione). Ho
apprezzato il cardinale Scola, allievo di Bontadini e anche mio, che invece
nella tavola rotonda a cui partecipammo, pur dissentendo da quel tratto
essenziale con competenza e modestia, ha evitato di rammaricarsi. Il gran
tema e' comunque, anche qui, la misconosciuta potenza del pensiero
parmenideo.
Mi sembra quindi molto importante la posizione di Erwin Tegtmeier, gia'
collaboratore di Habermas e di Albert. Dalla fine degli anni Novanta egli
percepisce l'irripetibile potenza del pensiero di Parmenide. In Scenari
dell'impossibile - un recente libro a piu' voci e di grande interesse, che
per molti aspetti mi riguarda - Tegtmeier presenta un saggio intitolato Il
problema del divenire in Parmenide e la sua soluzione.
Agli inizi degli anni Ottanta era uscita in Germania, presso Klett-Cotta, la
traduzione del mio libro Essenza del nichilismo, al cui centro sta lo
scritto intitolato Ritornare a Parmenide, del 1964, a partire dal quale e'
incominciata la pluridecennale discussione tra Bontadini e me. Tegtmeier si
muove nell'ambito dell'ontologia analitica contemporanea di matrice
anglosassone, ma anche per lui la negazione parmenidea del divenire e'
rimasta inconfutata ed e' inconfutabile - quando invece e' convinzione
comune che gia' Platone e Aristotele avessero definitivamente chiuso i conti
con Parmenide. Perche' niente di meno di questo si tratta: Parmenide mostra
che "cio' che e'", l'"essente", non puo' provenire dal "non essente" e nel
"non essente" non puo' dissolversi; e poiche' il mondo e' l'apparire
dell'incominciare ad essere e del cessare di essere, da parte delle cose, le
cose del mondo non possono essere degli "essenti" e il loro apparire e' solo
illusione.
Il pensiero essenziale - tanto piu' avvolto da nubi impenetrabili e tanto
piu' lontano dalle nostre abitudini concettuali, quanto piu' esso e'
luminoso, semplice e vicino - e' quello in cui appare l'impossibilita' che
l'"essente" esca dal niente e vi faccia ritorno: quello in cui appare il
perche' di questa impossibilita'. Possiamo indicare cosi' questa oscura
semplicita': se l'"essente" provenisse da un passato in cui esso non e'
(ossia e' niente) e andasse in un futuro in cui esso torna a non essere,
allora, in assoluto, l'"essente" sarebbe "non essente" cioe' non sarebbe
"essente". Stando al comune modo di pensare possiamo affermare che, in
assoluto, la casa non e' casa, la stella non e' stella, l'albero non e'
albero? No - si risponde subito. Ma allora non si puo' nemmeno affermare che
l'"essente" non sia "essente" - anche se in questo modo ci si avvia lungo un
cammino che porta molto lontano dal comune modo di pensare, cioe' al luogo i
cui appare che l'"essente" e' eterno.
Mi sembra pero' che Tegtmeier sostenga si' l'opposizione tra l'"essente" e
il "non essente" (cioe' sostenga che l'"essente" non e' il "non essente"),
ma poi la lasci di fatto valere come un semplice postulato, nel senso dei
postulati da cui procedono ad esempio la logica, la matematica, la fisica e
che ormai esse stesse (almeno nelle loro forme piu' evolute) non considerano
piu' come verita' innegabili. E invece quell'opposizione non e' un semplice
postulato, un dogma, una fede. La fretta con cui si risponde "no" alla
domanda se la casa sia non casa, o la stella sia non stella, e' soltanto la
volonta' che le cose stiano cosi'. All'interno di quella fretta, il
"principio di non contraddizione" (che appunto afferma in generale
l'opposizione tra ogni cosa e cio' che e' altro da essa) e' soltanto la
volonta' che la realta' non sia contraddittoria. Se ci si ferma a questa
volonta' si capisce perche' Nietzsche giunga ad affermare che i "supremi
principi" della conoscenza umana (quale, appunto, il "principio di non
contraddizione") sono soltanto degli "imperativi" che, certo, servono a
vivere, ma che certamente non sono verita' innegabili.
Intendo dire che l'opposizione tra l'"essente" e il "non essente" e' come
una stella che stia al centro del cielo, che pero' non ha il buio attorno a
se', ma brilla insieme alle altre stelle. Per restare in questa metafora
(che dunque dice ben poco intorno a cio' a cui essa accenna), solo guardando
il firmamento - cioe' andando oltre Parmenide in modo essenzialmente diverso
da come il pensiero dell'Occidente ha creduto di andare oltre di lui -, e'
possibile vedere che l'opposizione tra l'"essente" e il "non essente" non e'
semplicemente un postulato, un dogma, una fede, un "imperativo". Il
firmamento corrisponde, al di fuori della metafora, a cio' che nei miei
scritti e' chiamato "struttura originaria del destino della verita'". Questa
struttura mostra (ma anche qui si tratterebbe di vederlo in concreto) che le
cose del mondo non possono essere illusione, ma sono "essenti", e dunque
sono eterne, tutte; si' che il loro variare non puo' essere inteso come il
loro provvisorio sporgere dal nulla, ma come il comparire e lo scomparire
degli eterni. Il "destino della verita'" sta al di la' di tutto cio' che si
e' pensato intorno alla verita' e al destino, ma non e' una "dottrina"
inventata da qualcuno, sia pure egli un Dio, ma e' il firmamento che da
sempre appare nel piu' profondo di ognuno di noi.
In base alla fede nella creazione e annientamento delle cose Nietzsche ha
argomentato l'impossibilita' di ogni Dio. E rispetto agli amici di Dio, che
condividono questa fede, la sua argomentazione e' irrefutabile. (In base a
questa stessa fede Nietzsche ha argomentato, anche qui in modo irrefutabile,
la necessita' dell'"anello del ritorno", l'"eterno ritorno" di tutte le
cose). Amici e nemici di Dio hanno in comune quella fede che, essa si', e'
l'autentica ed estrema follia. Ma anche nel piu' profondo del loro cuore
brilla il firmamento del destino. Vicinissimo e insieme lontanissimo da
esso, Parmenide lo chiama "il cuore, non tremante, della ben recintata
verita'".

8. ET COETERA

Emanuele Severino (Brescia, 1929) e' uno dei maggiori filosofi italiani
viventi. Tra le opere di Emanuele Severino: La struttura originaria, La
Scuola, Brescia 1958, Adelphi, Milano 1981; Per un rinnovamento nella
interpretazione della filosofia fichtiana, La Scuola, Brescia 1960; Studi di
filosofia della prassi, Vita e pensiero, Milano 1963, Adelphi, Milano 1984;
"Ritornare a Parmenide", in "Rivista di filosofia neoscolastica", LVI, n. 2,
1964 (poi in Essenza del nichilismo); Essenza del nichilismo. Saggi,
Paideia, Brescia 1972, Adelphi, Milano 1982; Gli abitatori del tempo.
Cristianesimo, marxismo, tecnica, Armando, Roma 1978, 1981; Techne. Le
radici della violenza, Rusconi, Milano 1979, 1988, Rizzoli, Milano 2002;
Legge e caso, Adelphi, Milano 1979; Destino della necessita'. Kata' to'
chreon, Adelphi, Milano 1980, 1999; A Cesare e a Dio, Rizzoli, Milano 1983,
2007; La strada, Rizzoli, Milano 1983, 2008; La filosofia antica, Rizzoli,
Milano 1984, 2004; La filosofia moderna, Rizzoli, Milano 1984, 2004; Il
parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985; La filosofia contemporanea,
Rizzoli, Milano 1986, 2004; Traduzione e interpretazione dell'Orestea di
Eschilo, Rizzoli, Milano 1985; La tendenza fondamentale del nostro tempo,
Adelphi, Milano 1988, 2008; Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo,
Adelphi, Milano 1989; La filosofia futura, Rizzoli, Milano 1989, 2005; Il
nulla e la poesia. Alla fine dell'eta' della tecnica: Leopardi, Rizzoli,
Milano 1990, 2005; Filosofia. Lo sviluppo storico e le fonti,  3 voll.,
Sansoni, Firenze; Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992; La guerra,
Rizzoli, Milano 1992; La bilancia. Pensieri sul nostro tempo, Rizzoli,
Milano 1992; Il declino del capitalismo, Rizzoli, Milano 1993, 2007;
Sortite. Piccoli scritti sui rimedi (e la gioia), Rizzoli, Milano 1994;
Pensieri sul Cristianesimo, Rizzoli, Milano 1995; Tautotes, Adelphi, Milano
1995; La filosofia dai Greci al nostro tempo, Rizzoli, Milano 1996; La
follia dell'angelo, Rizzoli, Milano 1997, Mimesis, Milano 2006; Cosa arcana
e stupenda. L'Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1998, 2006; Il destino
della tecnica, Rizzoli, Milano 1998; La buona fede, Rizzoli, Milano 1999;
L'anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999; Crisi della tradizione
occidentale, Marinotti, Milano 1999; La legna e la cenere. Discussioni sul
significato dell'esistenza, Rizzoli, Milano 2000; Il mio scontro con la
Chiesa, Rizzoli, Milano 2001; La Gloria, Adelphi, Milano 2001; Oltre l'uomo
e oltre Dio, Il melangolo, Genova 2002; Lezioni sulla politica, Marinotti,
Milano 2002; Tecnica e architettura, Cortina, Milano 2003; Dall'Islam a
Prometeo, Rizzoli, Milano 2003; Fondamento della contraddizione, Adelphi,
Milano 2005; Nascere, e altri problemi della coscienza religiosa, Rizzoli,
Milano 2005; La natura dell'embrione, Rizzoli, Milano 2005; Il muro di
pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Rizzoli, Milano 2006;
L'identita' della follia. Lezioni veneziane, a cura di Giorgio Brianese,
Giulio Goggi, Ines Testoni, Rizzoli, Milano 2007; Oltrepassare, Adelphi,
Milano 2007; Immortalita' e destino, Rizzoli, Milano 2008. Tra le opere su
Emanuele Severino: C. Scilironi, Ontologia e storia nel pensiero di Emanuele
Severino, Francisci, Abano Terme 1980; AA.VV., Cura e salvezza. Saggi
dedicati a Emenuele Severino, a cura di I. Valent, Moretti & Vitali, Bergamo
2000; A. Antonelli, Verita', nichilismo, prassi. Saggio sul pensiero di
Emanuele Severino, Armando, Roma 2003; AA.VV, Le parole dell'Essere. Per
Emanuele Severino, a cura di A. Petterlini, G. Brianese e G. Goggi,
Mondadori, Milano 2005; A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la
Rinascenza, Il Prato, Padova 2007; D. Sperduto, Vedere senza vedere ovvero
Il crepuscolo della morte, Prefazione di E. Severino, Schena, Fasano di
Brindisi 2007; A. Sangiacomo, Scorci. Ontologia e verita' nella filosofia
del Novecento, Prefazione di G. Brianese, Il Prato, Padova 2008.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 207 del primo agosto 2008

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