Voci e volti della nonviolenza. 206



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 206 del 29 luglio 2008

In questo numero:
1. Un confronto con Severino
2. Emanuele Severino: Concordato e Costituzione
3. Emanuele Severino: Gentile e lo stato
4. Emanuele Severino: Natura e tecnica
5. Emanuele Severino: Religioni e pace
6. Emanuele Severino: Occidente
7. Emanuele Severino: Posizioni ultime
8. Et coetera

1. UN CONFRONTO CON SEVERINO

Per le persone amiche della nonviolenza un confronto con la meditazione di
Emanuele Severino e' nutriente, anche nel conflitto, anche nell'aporia,
anche nell'eventuale reciproco fraintendersi, inaudirsi, traudirsi e
tradirsi.
Dei pensatori dei tempi nostri ancora capaci di ascoltare la voce della
sapienza greca, Severino e' uno di quelli cosi' rigorosi, cosi' coerenti, da
apparirne talvolta pietrificato.
Chiunque abbia letto l'Essenza del nichilismo ne avra' certo tratto un
malessere prezioso, e sebbene a piu' riprese si abbia la sensazione di un
ripetere all'infinito un solo cruciale pensiero, che basterebbe una mezza
pagina per rendere intero, al contempo si avverte di esser di fronte a una
sfida insieme ineludibile e irresolubile. Ma sono questi pensieri la scuola
migliore, che non acquietano, che non assorbono, che non spengono. Ma
paradossalmente convitano alla pugna, al conflitto, alla lacerazione, a uno
sguardo secondo e ulteriore. Tutte cose che, ognuno lo sa, fanno un mare di
bene alla nonviolenza in cammino.

2. EMANUELE SEVERINO: CONCORDATO E COSTITUZIONE
[Dal "Corriere della sera" del 29 novembre 2005 col titolo "Il Concordato?
Anticostituzionale"]

Buon lavoro il Concilio Vaticano II, seguito da altri documenti. Il buon
lavoro starebbe andando pero' in malora per la tendenza della Chiesa a
influire, invece che sulle coscienze, sugli apparati politici; e per la loro
tendenza a ottenere l'appoggio delle gerarchie ecclesiastiche. Un processo,
questo, che travolgerebbe il Concordato, "corrodendone le basi di
legittimita'". Cinque anni fa avevo sostenuto sul "Corriere" che, per quanto
riguarda il Concordato, quel buon lavoro non c'era, perche' ancora oggi e'
il Concordato a essere ambiguo, ed e' questa ambiguita' a corroderne le basi
di legittimita' - in modo ben piu' grave degli inconvenienti giustamente
indicati da Zagrebelsky. Richiamo l'argomentazione che allora avevo
sviluppato (e ora riportata nel mio libro Nascere, Rizzoli, 2005).
L'art. 7 della Costituzione dice che i rapporti tra Stato e Chiesa "sono
regolati dai Patti Lateranensi" del '29 e che "le modificazioni dei Patti,
accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione
costituzionale". Nell'84 Stato italiano e Chiesa hanno modificato i Patti
del '29, ma - ecco il punto - in modo cosi' profondo da distruggerne il
contenuto essenziale. Diro' subito perche'. Ma intanto e' chiaro che se
nell'84 il contenuto dei Patti e' stato distrutto, allora e' stato distrutto
anche l'articolo 7 della Costituzione, per il quale i rapporti tra Stato e
Chiesa sono, appunto, "regolati dai Patti Lateranensi".
Perche', dunque, affermo che nell'84 il loro contenuto e' stato distrutto?
La sostanza dei Patti era costituita dal duplice principio che la religione
cattolica "e' la sola religione dello Stato" e che "l'Italia riconosce la
sovranita' della Santa Sede", cioe' l'esistenza di uno Stato pontificio. Ma
la cosiddetta "revisione" dei Patti, dell'84, dichiara che non e' piu' in
vigore il principio della religione cattolica come "sola religione dello
Stato italiano". Non e' cosa da poco. Non si tratta di una semplice
"modificazione" dei Patti: viene abbattuto uno dei due pilastri che li
sorreggono: l'Italia non e' piu' uno Stato cattolico. Pertanto i Patti non
solo vacillano, ma crollano, non ci sono piu'. E invece il testo della
nostra Costituzione continua, imperterrito, ad affermare che i rapporti tra
Stato e Chiesa "sono regolati dai Patti Lateranensi", ossia da cio' che con
la "revisione" dell'84 e' stato buttato fuori dalla porta. Se si volesse
tenere in casa tale revisione, bisognerebbe dire che il testo della
Costituzione afferma il falso.
Si aggiunga che, poiche' nell'84 non c'e' stata "modificazione" ma
annullamento dei Patti, nell'84 e' stata fatta valere impropriamente, e
dunque contraddittoriamente, anche la norma costituzionale sopra riportata
per la quale "le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non
richiedono procedimento di revisione costituzionale" (cioe' non richiedono
la modifica del testo costituzionale). Non essendosi infatti trattato,
nell'84, di semplici "modificazioni", ma di distruzione dell'essenza dei
Patti, ne risulta infatti che tale distruzione richiede un procedimento di
revisione costituzionale. Ma questo procedimento non e' mai stato
effettuato: la distruzione dei Patti e' stata camuffata e fatta passare come
loro semplice ´"revisione" o "modificazione".
L'ambiguita' dell'attuale rapporto tra Stato e Chiesa e' una vera e propria
contraddizione. E' cioe' contraddittoria l'attuale convivenza tra art. 7
della Costituzione e la "revisione" dell'84. Se la Costituzione e' la legge
suprema che giudica della legittimita' o meno delle altre leggi, la
"revisione" dell'84 e' anticostituzionale. La riforma del Concordato si
impone non perche' sia richiesta da qualche schieramento politico, ma
perche' la forma attuale del Concordato e' contraddittoria e quindi e' priva
di legittimita'.
Per la Chiesa non e' conveniente, oggi, approfittare esplicitamente di
questa conclusione (per la quale essa potrebbe sostenere che, dopotutto, non
e' cosi' chiaro, giuridicamente, che l'Italia non sia piu' uno Stato
cattolico). La Chiesa preferisce giustificare la propria presenza nella
societa' italiana col principio che una societa' non puo' vivere
prescindendo dai valori cristiani - il principio, espresso da Tommaso
d'Aquino, dell'armonia tra ragione e fede e pertanto tra Stato e Chiesa.
Secondo tale principio tutte queste dimensioni sono autonome, purche'
ragione e Stato non siano in contrasto con la fede e la Chiesa. Una
precisazione quest'ultima che, certo, distrugge la conclamata autonomia
della ragione e dello Stato, ma che si presenta in un contesto che consente
di mascherare dignitosamente questa distruzione.
Tempo fa, l'allora cardinale Ratzinger sostenne la tesi non tomistica che la
ragione non puo' con i soli propri mezzi dimostrare l'esistenza di Dio. Una
tesi che non mascherava adeguatamente la convinzione che uno Stato e una
ragione che vogliano essere autonomi rispetto al cristianesimo sono un
fallimento. E' sintomatico che proprio in questi giorni il pontefice abbia
invece di nuovo additato la concezione tomistica come la vera soluzione del
problema del rapporto tra fede e ragione, tra Chiesa e Stato. E' piu' adatta
a mascherare la tesi che ogni voce del mondo debba adeguarsi a quella della
Chiesa.

3. EMANUELE SEVERINO: GENTILE E LO STATO
[Dal "Corriere della sera" dell'11 settembre 2006 col titolo "Gentile. Un
filosofo antifascista per il regime di Mussolini" e il sommario "Solo la sua
opera puo' fondare il dominio della tecnica e percio' non e' acqua passata"]

Va sfatato un pregiudizio carico di conseguenze: che di Gentile possano
interessare oggi i rapporti col fascismo, conclusisi con la tragica
uccisione del filosofo, ma non la sua filosofia, acqua passata che avrebbe
poco da dirci.
La filosofia di Gentile non e' ne' acqua ne' passata. Cio' non vuol dire che
in essa abiti la verita'. E' anzi una delle forme piu' radicali e coerenti
dell'errare. Ma quanto profondo e decisivo puo' essere l'errare! Per molti
motivi il pensiero di Gentile e' sconcertante. Egli scrive spesso in modo
apparentemente piano, a volte retorico. Si crede allora di capire. Dietro
quelle pagine c'e' pero' sempre una delle concezioni filosofiche piu' ardue
e rigorose, che egli tenta di rendere comprensibile a un pubblico piu'
ampio. Ma c'e' ben altro. Gentile aderisce al fascismo. Eppure nessun
antifascismo e' piu' antifascista della filosofia gentiliana. Ancora:
Gentile intende il proprio pensiero come l'espressione piu' pura del vero
cristianesimo; eppure, figura di spicco del fascismo, si oppone come nessun
altro al Concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, fortemente anche
se ambiguamente voluto da Mussolini. Non si tratta di contraddizioni.
Nessun dubbio che Gentile si presenti come un liberale. Prende pero' le
distanze dai liberali come Missiroli, De Ruggiero, Gobetti, Mosca. Prima che
liberale e' filosofo. Una filosofia, la sua, che, con una potenza quasi
unica nel pensiero degli ultimi due secoli, mostra la necessita' di
rifiutare l'intera tradizione culturale, politica, religiosa dell'Occidente.
Il suo e' come l'arco di Ulisse. Se si e' Proci non lo si sa nemmeno
tendere - e lo si appende al muro.
In una conferenza del 1923 Gentile dice che il suo liberalismo "non e' la
dottrina che nega, ma quella che afferma rigorosamente lo Stato come realta'
etica. La quale e', essa stessa, da realizzare, e si realizza realizzando la
liberta', che e' come dire l'umanita' di ogni uomo (...). Questo Stato
liberale non assorbe in se' e non annulla l'individuo, come teme il pavido
liberale dell'individualismo", o il "vecchio liberalismo, che conosceva
soltanto lo Stato opposto all'individuo", e ognuno dei due pensava,
dell'altro, mors tua vita mea. Lo "Stato etico non e' esterno all'individuo;
anzi e' l'essenza stessa della sua individualita'": volonta' "senza limiti
ne' ostacoli di cui non abbia a trionfare".
Qui e ovunque, Gentile dice che, si', lo Stato e' realta', ma realta' che e'
"essa stessa, da realizzare". Queste espressioni significano: la realta'
vera non e' quella ferma, morta, ma quella storica che diviene, e che
appunto percio' e' "da realizzare"; e non e' nemmeno quella presupposta al
di la' della nostra esperienza e del nostro pensiero, in un altro mondo, ma
e' questa di cui facciamo esperienza e che e' anzi la nostra stessa essenza
e la nostra "liberta'", perche' libera da cio' che e' gia' realizzato.
Queste non sono semplici asseverazioni, "idee" piu' o meno arbitrarie di un
"filosofo"; ma sono la conseguenza inevitabile del modo in cui l'Occidente
ha incominciato a manifestarsi sulla terra. Non e' possibile mostrare qui,
in concreto, tale inevitabilita' - a cui per altro si riferiscono spesso i
miei interventi sul "Corriere" -, come non sarebbe possibile mostrare qui le
ragioni della teoria della relativita'. Accontentandoci di uno schema,
potremmo dire cosi': il divenire - nascita e morte - della realta' visibile
e' stato sempre, per l'intera civilta' occidentale, l'evidenza originaria e
innegabile. Ma se esistesse, esterna a essa, una realta' immutabile e divina
che contenesse gia' tutto quel che diviene, allora divenire e storia,
nascita e morte, sarebbero mere apparenze. Ma apparenze non possono essere,
essendo esse, appunto, l'evidenza originaria. Dunque quella realta' esterna
e immutabile e i valori e costumi a essa connessi sono impossibili.
Questo, lo schema della frana gigantesca da cui la tradizione occidentale e'
travolta. Oggi si ignora l'inevitabilita' di questo discorso, ma che l'unica
realta' sia quella che nasce e muore e' la convinzione dominante del mondo
occidentale.
Da quel passo di Gentile risulta chiaro che l'etica dello "Stato etico" non
e' un decalogo fermo e morto, ma e' appunto realta' da realizzare, divenire,
"rivoluzione" continua. Se qualcosa e' divenire, tutto e' divenire; e solo
il divenire e' eterno e dunque e' il vero Dio, il Dio cristiano che non
resta nell'alto dei cieli, ma si fa uomo, nasce e muore e dice di esser
venuto a portare la spada. Dio, Stato, essenza vera dell'individuo sono lo
stesso. Gentile lo chiama "spirito".
Genesi e struttura della societa', scritta da un Gentile che ha aderito alla
repubblica di Salo', dice che lo Stato e' "eterna autocritica e eterna
rivoluzione". Come coscienza del realizzarsi dello Stato, la filosofia e' la
coscienza che lo Stato ha di se' ed e' quindi critica dello Stato, ossia di
tutto cio' che in esso "sta" (come suggerisce la parola), fermo, morto. Se
non c'e' critica dello Stato c'e', dice Gentile, "statolatria". E -
sappiamo - il fascismo e' stato una delle negazioni piu' perentorie
dell'autocritica dello Stato. Dunque la filosofia e' critica anche della
Chiesa cattolica come organismo dogmatico che non intende mutare e
rinnovarsi e pertanto e' anch'essa "stato", qualcosa di statico che lo
"Stato" finisce col negare e col superare. Gentile si sente cristiano, ma
proprio per questo si oppone, in nome dello Stato spirituale, al concordato
tra Stato e Chiesa, ossia tra cose morte.
Anche lo "statista" e' cosa morta. Nel 1944 lo statista per eccellenza, agli
occhi di Gentile, non puo' essere che Mussolini: "Lo statista, che e' una
persona fisica, oltre che un indirizzo politico, un regime (...) rappresenta
sempre (...) qualche cosa di statico e astratto, che la vita dello spirito
(...) deve negare e superare". Nella sua forma piu' alta, tale vita e' la
filosofia. Se il fascismo ("il recente movimento politico italiano") non e'
critica e autocritica dello Stato ed "esigenza di una rappresentanza
organica" in senso democratico e liberalconservatore, quelli del fascismo,
scrive Gentile, sono solo "esperimenti costituzionali (...) viziati nelle
forme provvisorie di applicazione dalle necessita' transitorie del momento
politico".
L'individuo che vede la propria appartenenza al divenire della realta',
cioe' allo Stato, "vuol essere", dice il passo riportato per primo, "senza
limiti ne' ostacoli di cui non abbia a trionfare". Solo l'inevitabilita' di
un pensiero come quello di Gentile puo' fondare il dominio della tecnica,
cioe' mostrare, appunto, che essa non ha davanti a se' ne' limiti ne'
ostacoli. All'opposto di quanto si crede, la solidarieta' tra idealismo
gentiliano e civilta' della tecnica e' profonda. Per questo Gentile non e'
acqua passata.

4. EMANUELE SEVERINO: NATURA E TECNICA
[Dal "Corriere della sera" del 19 settembre 2006 col titolo "Il deicidio. E
con la tecnica l'uomo creo' la natura" e il sommario "Fu la lingua greca a
mostrare la realta' come un tutto che puo' essere dominato. Un passo
gigantesco, che finira' con il consegnarci un universo senza Dio. Con la
scienza la volonta' di potenza tocca il suo culmine: Cosa mai resterebbe da
creare, se gli dei esistessero?, si domanda Nietzsche"]

Se qualcosa di simile a quel che intendiamo con la parola "uomo" e' presente
sulla terra da 30-40 millenni, solo da due o tre millenni l'uomo incomincia
a porsi in rapporto con cio' che oggi chiamiamo "natura". Anche il suo
riferirsi a se stesso ha inizio in questo tempo piu' recente. Lo si puo'
dire anche per "Dio" - giacche' e' vero che il monoteismo religioso sembra
piu' antico, ma la gran questione e' sapere che cosa significhi "un solo
Dio" per chi pronuncia queste parole. Qualcosa come "natura", "uomo",
"Dio" - in un senso simile al nostro - si fa innanzi pressoche'
contemporaneamente, all'interno di quell'evento decisivo che e' la nascita
della filosofia.
L'uomo piu' antico non vede "la natura". Per lo piu', gli antichi linguaggi
dell'Oriente nemmeno dispongono di un termine con cui tradurre la parola
"natura". L'uomo arcaico parla a chi gli e' vicino e ha fattezze simili alle
sue, nello stesso modo in cui parla con pietre, alberi, animali, acque, con
il tuono e il vento, sole e luna e cielo, demoni e dei. Ognuna di questa
presenze e' sua interlocutrice; da ognuna egli si sente rispondere, ne
riconosce la maggiore o minore potenza, tenta di imporre la propria, come
gruppo umano e come singolo. Uomini, dei, piante, animali vivono insieme, si
accoppiano, diventano cibo gli uni degli altri.
Una vita comune, questa, che non ha carattere idillico, ma tragico. E'
inevitabile che le diverse volonta' si scontrino. Si onora la potenza
demonica dell'animale e del nemico uccisi, tuttavia li si uccide. Non vuol
forse uccidere (e insieme onorare) Dio, Adamo, volendo diventare "come lui",
e non come le altre cose, che gli appaiono meno potenti?
Adamo sperimenta inoltre il proprio fallimento. Gli uomini avvertono cioe'
la differenza tra le forze che si lasciano vincere e quelle che invece,
inflessibili, sono esse a flettere la volonta' umana. E incominciano a
sperimentare che il dominio non lascia le cose come stanno, ma ne fa nascere
di nuove e, insieme, ne distrugge di vecchie. Dominare, far nascere e far
morire si tengono per mano.
La lingua greca preesiste al proprio dire cio' che la filosofia vuole che si
dica. E, prima della filosofia, essa pronuncia da gran tempo la parola
physis, che noi traduciamo con "natura".
Physis proviene dal verbo phyo, che nella sua forma transitiva significa
"produco", "faccio nascere", e in quella intransitiva "nasco", "sorgo".
Anche il latino "natura" proviene da nascor ("nasco"), il cui significato
coincide con quello di phyo. Ma nasce, cio' che nasce, perche' qualcos'altro
muore. Nasce la pianta perche' muore il seme. I nuovi viventi si fanno
avanti perche' i vecchi prima o poi se ne vanno. La natura e' appunto la
dimensione dove il dominare, il far nascere e il far morire si tengono per
mano. E piu' cresce la volonta' di dominare, piu' decrescono gli
interlocutori dell'uomo. Piu' e' muta, piu' la natura e' da lui e dagli dei
dominabile.
Viene in piena luce, la dimensione del dominabile, all'interno di un passo
gigantesco, compiuto quando l'uomo si volge verso la filosofia. Egli non si
pone piu' in rapporto soltanto alle singole potenze (animali, piante, acque,
cielo, divini e mortali), ma alla totalita' dell'essere, e all'interno di
essa separa la totalita' delle cose volute, dominate, nascenti, morenti,
rese silenziose - la "natura", appunto -, da cio' che non si lascia
dominare, e non nasce e non muore: il Dio immutabile e "sempre salvo" dal
nulla, come dice Aristotele. Il Dio produce l'ordinamento della natura e
nella natura produce l'uomo, che a sua volta produce, mediante le proprie
"arti", una seconda natura, fatta crescere da lui in modo diverso dalla
prima. A proposito di questa diversita', il sofista Antifonte, vissuto nel V
secolo a. C., dice, approvato da Aristotele: "Se si seppellisse un letto e
la putredine del legno diventasse viva, non nascerebbe un letto, ma legno".
Perche', dopo il disfacimento di un letto, ne sia prodotto un altro, occorre
la "tecnica" dell'uomo.
Le molte voci della terra e del cielo si spengono; ogni cosa viene radunata
nel "Tutto"; anche la molteplicita' degli dei svanisce nell'unico Dio. Ma,
insieme, la prima e la seconda natura sono regni che si costituiscono
all'interno della regalita' della tecnica. Platone distingue la "tecnica
divina" che produce la prima e la "tecnica umana" che produce la seconda
natura. Per l'Occidente cio' che e' naturale e', da ultimo, tecnico.
Poi l'uomo si rendera' conto che se esistesse la tecnica divina non potrebbe
esistere quella umana. Zarathustra, per Nietzsche, vede la necessita' di
portarsi "via da Dio e dagli dei": agli uomini - egli dice - "che cosa mai
resterebbe da creare, se gli dei esistessero?!". Nel suo sviluppo, la
filosofia moderna scorge che non solo l'azione, ma la stessa conoscenza
umana e' tecnica, cioe' non si limita a rispecchiare la natura, ma la
produce. Guidata dalla scienza moderna, la tecnica si allea a questo
processo e lo porta al culmine. La natura non era gia' svanita prima di
nascere? La tecnica, oggi, non fa svanire un fantasma?

5. EMANUELE SEVERINO: RELIGIONI E PACE
[Dal "Corriere della sera" del 24 maggio 2007 col titolo "Religioni e pace.
Le fedi e la lotta per il potere"]

Giganteschi i problemi da affrontare perche' la pace regni nel mondo. Ben
piu' complessi quelli per capire che cosa sia la pace. A questo punto l'uomo
"pratico" smette di leggere: vuole proposte "concrete", qui, ora. Tuttavia
il mondo se ne va per la sua strada: in nessun luogo il "concreto" puo'
prescindere ormai da quanto accade sull'intero pianeta e da quanto accadra'
in un futuro anche non prossimo. Eventi come la globalizzazione
economico-tecnologica, la disponibilita' delle energie, lo "sviluppo
sostenibile" sono irriducibili alla logica del qui, ora. Inoltre la pace e'
intesa in modi contrastanti. La pace della democrazia o del capitalismo non
e' quella del cristianesimo o dell'islam. Quale scegliere? E come scegliere
se non si sa che cos'e' la pace? D'altra parte, quale forma di sapere potra'
dircelo? Nel convegno "Dialogo interculturale: una sfida per la pace", che
si e' tenuto presso la Pontificia Universita' Gregoriana a Roma il 3 e 4
maggio scorsi, prendendo la parola dopo l'intervento di Seyyed Mohammad
Khatami, ex presidente dell'Iran, ho rilevato che ormai sulla terra ogni
sapere e ogni conoscenza sono divenuti una fede.
Mi soffermero' ora su questo tema, tralasciando gli altri della mia
relazione; ma si puo' dire subito che, allora, ci troviamo nella condizione
in cui soltanto una fede potra' dirci che cosa e' la pace.
Ma, si dira', e la scienza? La scienza e' fede?! Si'. Per avere potenza sul
mondo, la scienza ha rinunciato da tempo ad essere "verita'", nel senso
attribuito a questa parola dalla tradizione filosofica. La scienza e'
divenuta sapere ipotetico. Sa di non essere sapere assoluto ("verita'",
appunto) - e in questo senso non e' fede ma dubbio -; tuttavia per aver
potenza sul mondo deve aver fede nella propria capacita' di trasformarlo; ed
e' all'interno di questa fede che essa elabora, risolve o conferma i propri
dubbi. La distinzione tra scienza e tecnica appartiene al passato, quando la
scienza credeva di conoscere la "verita'", e considerava la tecnica come
"applicazione di essa".
Certo, la fede scientifica e' diversa dalla fede religiosa, dalla fede in
cui anche l'arte consiste, ed e' diversa anche dalla fede nella quale in
effetti consiste la "verita'" a cui si rivolge la tradizione filosofica.
Diversissime la complessita', coerenza, potenza, consapevolezza di se' delle
varie fedi; ma ogni fede e' la volonta' che il mondo abbia un certo senso
piuttosto che altri, o che gli si debba dare un certo ordinamento piuttosto
che altri. Proprio perche' ha questo carattere, ogni fede e'
irrimediabilmente in conflitto con ogni altra. Vuole imporsi su ogni altra,
a costo di distruggerla. Afferma che il mondo e' in un certo modo, non
perche' appaia l'impossibilita' che esso sia altrimenti, ma perche', da
ultimo, vuole che esso sia in quel modo. Nell'apparire di quella
impossibilita' consiste invece la "verita'" a cui si era rivolta la
tradizione filosofica.
Ma se la fede e' questa volonta' (anzi, la fede e' la volonta' stessa) e se
tale volonta' e' una molteplicita' di volonta' contrapposte, allora la
radice di ogni conflitto e' l'esistenza stessa della fede. Senza fede non si
puo' vivere, si ripete. Si', ma questo vuol dire che la vita e' nelle mani
del conflitto, della guerra, della violenza. La volonta' e' guidata dalla
conoscenza, si ripete, anche la volonta' di pace. Si', ma se oggi ogni
conoscenza mostra di essere una fede (e, certo, si deve capire perche'
questo evento decisivo si sia prodotto), allora volere la pace facendosi
guidare dalla fede significa volere la pace collocandosi sin dal principio
nella dimensione della guerra. E ottenere la pace sulla base dalla fede
significa aver fede - soltanto fede - di averla ottenuta. Sara' il
"dialogo" - si ripete - a risolvere il problema della pace. Ma il dialogo
puo' solo condurre a scoprire una base comune a certe fedi. Ad esempio,
cristianesimo e islam hanno in comune la Bibbia e la filosofia greca. Ma
cio' che e' specifico di una fede e' anche cio' in cui essa piu' si
riconosce ed e' quindi per essa irrinunciabile. Dialogando tra loro, e pur
scoprendo quanto hanno in comune, le fedi non possono rinunciare alla
propria specificita'. Rinuncerebbero a se stesse. Ma allora e' inevitabile
che alla fine, soprattutto quando vogliono che non una parte del mondo, ma
il mondo intero abbia un certo senso piuttosto che un altro, esse si
scontrino non solo sul piano del dialogo, ma anche su quello dell'agire
effettivo dei popoli, e che prevalga la fede piu' potente.
Ho piu' volte indicato i motivi per i quali la tecnica, adeguatamente
intesa, e' la fede piu' potente. Le fedi si combattono, ma per vincere
debbono affidarsi alla potenza maggiore oggi esistente sulla Terra: la
tecnica, appunto. E affidandosi alla tecnica ne riconoscono piu' o meno
esplicitamente la primazia. In quanto voluta dalla fede piu' potente, la pax
technica e' la forma piu' potente della conflittualita'.
Si sono mostrati alcuni degli ostacoli a cui va incontro ogni volonta' di
pace. Ma intanto, si dira', qualcosa si deve pur fare per la pace! E',
questo, il discorso che sempre e' stato fatto. Non ha mai impedito i
massacri e la violenza che accompagnano ogni momento della storia.

6. EMANUELE SEVERINO: OCCIDENTE
[Dal "Corriere della sera" del 20 giugno 2007 col titolo "La fine
dell'Occidente. Credere al divenire e' la sua follia" e la notizia "Dal
volume L'identita' della follia, diamo in anteprima un estratto di un brano
del secondo capitolo intitolato Precipitare nell'esser-altro. In esso e'
riportata la lezione tenuta da Severino a Ca' Foscari il 10 ottobre 2000"]

Dopo il mito compare l'esigenza di porre la verita' come condizione della
felicita'. Dopo i millenni del mito compare cio' che chiamiamo Occidente.
Con la parola "Occidente" intendiamo qualcosa di pregnante, di determinato,
non il significato corrente nella pubblicistica o nella stessa cultura
contemporanea. Intendiamo cio' che cresce all'interno di un fondamentale
atteggiamento di pensiero e quindi di azione; cio' che cresce all'interno di
un fondamentale modo di pensare. Tale "fondamentalita'" puo' essere indicata
da due espressioni: l'identita' (l'Occidente e' volonta' di identita') e il
divenir-altro delle cose - quel divenire altro che abbiamo incontrato in
Eraclito, dove si dice che "son lo stesso le cose che hanno nomi opposti
(giovane-vecchio, morto-vivo...) perche' le une precipitando (cosi' avevamo
tradotto), sono le altre". Questo precipitare nelle altre e' cio' che per la
nostra cultura e' diventato l'evidenza somma, ma con una accentuazione del
senso iniziale del divenir-altro della quale dovremo parlare. Il mito e' un
percorso millenario che a un certo punto si "increspa". Questa increspatura,
in cui si dispiegano i millenni, e' cio' che chiamiamo "Occidente".
L'avvento dell'Occidente e' costituito dalla crescita all'interno di due
tratti essenziali: tautotes (volonta' di identita', abbiamo detto: ci
ritorneremo) e il divenir-altro.
Ma perche' chiamare "volonta' di identita'" - ci si potrebbe chiedere - cio'
che tutti noi riteniamo inevitabile, ossia che le cose siano se stesse?
Certo, non ci siamo ancora intesi sul significato della parola "identita'",
e tuttavia una qualche cognizione su cio' che significhi "esser se stesso"
l'abbiamo tutti. Perche' dunque parlare di "volonta' di identita'"? Invito a
tenere in sospeso questa domanda, che pone come oggetto di volonta' cio' che
dal punto di vista comune dell'Occidente invece e' un'ovvieta', perche' la
risposta ci fara' entrare al centro del discorso che proponiamo di
sviluppare. Occidente - stiamo dicendo - e' cio' che cresce all'interno di
questa sintesi: le cose variano. Puo' variare una cosa se non diventa altro
da cio' che essa e'?...
L'Occidente nasce all'interno della sintesi di cio' che abbiamo chiamato
"volonta' di identita'" e di cio' che ora, in questa sintesi, chiamiamo
"volonta' di diventar altro", volonta' che il divenire sia un divenir-altro.
Ma di nuovo: perche' "volonta'"? L'identita' e' li', le cose sono identiche;
il divenir altro delle cose e' li' - stiamo parlando di categorie la cui
esemplificazione e' totale. Loro alzano lo sguardo per guardarmi: e' un
divenir altro. Un piede che si muove, le galassie, il Big Bang
originario...: divenir-altro. Non c'e' variazione, produzione,
trasformazione, metamorfosi che non sia un divenir altro. Gia' nel mito e'
presente il divenir altro. La parola "metamorfosi", che e' piuttosto recente
nella lingua greca, significa cambiar la forma (meta'-morphe'): l'umano che
diventa animale o l'animale che diventa umano, come in molti racconti; o,
per chi e' cristiano, il vino che diventa sangue, il pane che diventa corpo
di Cristo; ma, piu' semplicemente, e' una metamorfosi anche il fatto che io
prima tenessi in mano il pennarello e adesso l'abbia posato sulla cattedra.
Stiamo procedendo in una direzione in cui dovra' apparire che quella che per
i non credenti e' un'evidente follia - il pane che diventa corpo di Cristo -
e' invece l'atteggiamento normale, l'attitudine fondamentale tanto per il
senso comune che per la cultura e per la scienza. Ci avvicineremo al luogo
in cui dovra' apparire che la follia di cio' che il linguaggio religioso
chiama transustanziazione (ossia cambiamento della sostanza) e' la stessa
follia di ogni divenir altro: ogni divenire altro e' l'impossibile. Ma per
ora chiudiamo queste parentesi che servono a mostrare molto da lontano la
strada che dobbiamo percorrere.

7. EMANUELE SEVERINO: POSIZIONI ULTIME
[Dal "Corriere della sera" del 24 giugno 2007 col titolo "Gli dei sono
morti. Ma a volte tornano" e il sommario "Dalla religione alla democrazia,
siamo condannati al conflitto delle verita'. L'unica assolutezza non e' il
dio ma la scelta di un dio"]

La nostra epoca si trova nell'"impossibilita' di conciliare e risolvere
l'antagonismo tra le posizioni ultime in generale rispetto alla vita" e
nella "necessita' di decidere per l'una o per l'altra". Questa affermazione
e' di Max Weber, ma esprime il punto di vista oggi dominante (esprime cioe'
la coscienza che la nostra epoca ha per lo piu' di se stessa). Parla delle
"posizioni ultime in generale rispetto alla vita". Ad esempio:
cristianesimo, ateismo, tradizione filosofico-metafisica, capitalismo,
comunismo, democrazia, stato totalitario, individualismo, islam. Ognuna di
queste "posizioni ultime" vuole realizzare uno scopo, che anche quando si
propone di "dialogare" con gli altri scopi, non intende esser loro
sottomesso, cioe' si presenta come incondizionato, sciolto (solutus) da
tutti i vincoli della sottomissione, "as-soluto", appunto. Come un "dio".
Tra queste "posizioni ultime" - tra questi "dei" - esiste dunque un
antagonismo insuperabile: per cui ci si trova nella "necessita' di decidere
per l'una o per l'altra". E Weber aggiunge: "Su questi dei e sulle loro
lotte domina il destino, non certo la scienza".
In quest'ultima affermazione, "scienza" ha ancora il senso di "sapere
incontrovertibile". Si deve "decidere per l'una o per l'altra" di tali
"posizioni ultime" proprio perche' non esiste un sapere che mostri
incontrovertibilmente quale di esse si debba scegliere. La parola "destino",
contrapposta a "scienza", non deve infatti trarre in inganno. "De-stino", di
derivazione latina, indica soprattutto lo "stare" delle cose, cioe' la
condizione del loro non esser "contro verse" e del loro esser garantite. Il
latino vertere indica l'opposto dello stare. Il "de-stino" e' cioe' in
sintonia con l'"in-contro-vertibile". Le parole tedesche Geschick e
Schicksal, che noi traduciamo con "destino", indicano invece proprio
l'opposto del "destino", inteso come lo "stare" delle cose nel loro esser
garantite: indicano piuttosto la "sorte", il "caso", la "ventura",
l'accadimento del mondo, privo di garanzia, protezione, stabilita'. Per
questo Weber puo' sensatamente dire che sugli dei e sulle loro lotte domina
il "destinoª" (Geschick) e non la ´"scienza". E il "destino" (Geschick) si
esprime nella "necessita' di decidere" per l'uno o per l'altro di questi
dei. Anche quando e' motivato, il de-cidere e' infatti tale perche', da
ultimo, esso accade perche' accade, ossia re-cide ogni legame, e sciolto
(solutus) da ogni motivazione che pretenda condurre inevitabilmente ad esso.
Il decidere e' libero perche' as-soluto. L'assolutezza degli dei - cosi'
pensa il nostro tempo - e' stata travolta e sostituita dall'assolutezza
della decisione che sceglie un dio piuttosto di un altro, cioe' crede
(vuole) che l'esistenza competa a un certo dio, e non ad altri.
D'altra parte Weber, come la maggior parte della cultura
umanistico-scientifica, si rivolge solo alla superficie del processo che
conduce all'inconciliabilita' dei molti dei antagonisti e assoluti. Tale
superficie e' ben visibile. Ad esempio, quel dio che e' lo stato totalitario
e' soppiantato da quell'altro dio che e' la democrazia. La quale pero', pur
dichiarandosi soltanto procedurale, cioe' neutrale rispetto alla "verita'
del sapere incontrovertibile", continua a concepire come una verita'
assoluta, come un dio, la dignita'-inviolabilita'-liberta' dell'individuo.
Analogamente, l'economia, il diritto, l'arte, la coscienza religiosa e
morale delle masse si sono allontanati da ogni modello assoluto; la scienza
moderna ha rinunciato ad essere un sapere incontrovertibile; e soprattutto
la filosofia ha mostrato l'impossibilita' di tale sapere e di ogni dio
immutabile ed eterno che imponendosi sugli altri sia capace di risolvere
l'antagonismo tra le "posizioni ultime rispetto alla vita".
Si', tutto questo e' visibile. E' visibile che oggi l'unico assoluto e' la
negazione di ogni assoluto, ossia che l'unica assolutezza compete non a un
dio ma alla scelta di un dio. Si', tutto questo e' - se si vuol usare questa
parola - un "fatto". Il "fatto" della "morte di Dio". Tuttavia se i "fatti"
ci sono, sarebbero potuti non esserci e potrebbero tornare a non esserci
piu'. Dio e gli dei potrebbero cioe' ritornare. Ma, allora, sarebbe tutta
qui la radicalita' con la quale il nostro tempo avrebbe voltato le spalle
alle diverse forme dell'assoluto? Ed esse, allora, non hanno forse il
diritto, soprattutto quelle religiose, di ricandidarsi come guide dell'uomo?
La morte degli dei e' essenzialmente piu' radicale di quanto se ne va
raccontando. Ma quanti riescono a vederla? Weber e' un grande cattivo
maestro di tutti coloro, anche grandi, ai quali non appare altro che la
superficie del processo che conduce alla distruzione degli assoluti. E ai
quali non appare quindi nemmeno che l'assolutezza della de-cisione che
incorona gli dei e' l'assolutezza della re-cisione in cui consiste ogni
di-venire del mondo. Cio' da cui si di-viene non e' forse un re-cidersi da
esso? Ma, allora, il problema supremo che a questo punto si fa innanzi non
e' forse l'assolutezza del divenire, la fede indiscussa nella sua
incontrovertibile esistenza?

8. ET COETERA

Emanuele Severino (Brescia, 1929) e' uno dei maggiori filosofi italiani
viventi. Tra le opere di Emanuele Severino: La struttura originaria, La
Scuola, Brescia 1958, Adelphi, Milano 1981; Per un rinnovamento nella
interpretazione della filosofia fichtiana, La Scuola, Brescia 1960; Studi di
filosofia della prassi, Vita e pensiero, Milano 1963, Adelphi, Milano 1984;
"Ritornare a Parmenide", in "Rivista di filosofia neoscolastica", LVI, n. 2,
1964 (poi in Essenza del nichilismo); Essenza del nichilismo. Saggi,
Paideia, Brescia 1972, Adelphi, Milano 1982; Gli abitatori del tempo.
Cristianesimo, marxismo, tecnica, Armando, Roma 1978, 1981; Techne. Le
radici della violenza, Rusconi, Milano 1979, 1988, Rizzoli, Milano 2002;
Legge e caso, Adelphi, Milano 1979; Destino della necessita'. Kata' to'
chreon, Adelphi, Milano 1980, 1999; A Cesare e a Dio, Rizzoli, Milano 1983,
2007; La strada, Rizzoli, Milano 1983, 2008; La filosofia antica, Rizzoli,
Milano 1984, 2004; La filosofia moderna, Rizzoli, Milano 1984, 2004; Il
parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985; La filosofia contemporanea,
Rizzoli, Milano 1986, 2004; Traduzione e interpretazione dell'Orestea di
Eschilo, Rizzoli, Milano 1985; La tendenza fondamentale del nostro tempo,
Adelphi, Milano 1988, 2008; Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo,
Adelphi, Milano 1989; La filosofia futura, Rizzoli, Milano 1989, 2005; Il
nulla e la poesia. Alla fine dell'eta' della tecnica: Leopardi, Rizzoli,
Milano 1990, 2005; Filosofia. Lo sviluppo storico e le fonti,  3 voll.,
Sansoni, Firenze; Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992; La guerra,
Rizzoli, Milano 1992; La bilancia. Pensieri sul nostro tempo, Rizzoli,
Milano 1992; Il declino del capitalismo, Rizzoli, Milano 1993, 2007;
Sortite. Piccoli scritti sui rimedi (e la gioia), Rizzoli, Milano 1994;
Pensieri sul Cristianesimo, Rizzoli, Milano 1995; Tautotes, Adelphi, Milano
1995; La filosofia dai Greci al nostro tempo, Rizzoli, Milano 1996; La
follia dell'angelo, Rizzoli, Milano 1997, Mimesis, Milano 2006; Cosa arcana
e stupenda. L'Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1998, 2006; Il destino
della tecnica, Rizzoli, Milano 1998; La buona fede, Rizzoli, Milano 1999;
L'anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999; Crisi della tradizione
occidentale, Marinotti, Milano 1999; La legna e la cenere. Discussioni sul
significato dell'esistenza, Rizzoli, Milano 2000; Il mio scontro con la
Chiesa, Rizzoli, Milano 2001; La gloria, Adelphi, Milano 2001; Oltre l'uomo
e oltre Dio, Il melangolo, Genova 2002; Lezioni sulla politica, Marinotti,
Milano 2002; Tecnica e architettura, Cortina, Milano 2003; Dall'Islam a
Prometeo, Rizzoli, Milano 2003; Fondamento della contraddizione, Adelphi,
Milano 2005; Nascere, e altri problemi della coscienza religiosa, Rizzoli,
Milano 2005; La natura dell'embrione, Rizzoli, Milano 2005; Il muro di
pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Rizzoli, Milano 2006;
L'identita' della follia. Lezioni veneziane, a cura di Giorgio Brianese,
Giulio Goggi, Ines Testoni, Rizzoli, Milano 2007; Oltrepassare, Adelphi,
Milano 2007; Immortalita' e destino, Rizzoli, Milano 2008. Tra le opere su
Emanuele Severino: C. Scilironi, Ontologia e storia nel pensiero di Emanuele
Severino, Francisci, Abano Terme 1980; AA.VV., Cura e salvezza. Saggi
dedicati a Emenuele Severino, a cura di I. Valent, Moretti & Vitali, Bergamo
2000; A. Antonelli, Verita', nichilismo, prassi. Saggio sul pensiero di
Emanuele Severino, Armando, Roma 2003; AA.VV, Le parole dell'Essere. Per
Emanuele Severino, a cura di A. Petterlini, G. Brianese e G. Goggi,
Mondadori, Milano 2005; A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la
Rinascenza, Il Prato, Padova 2007; D. Sperduto, Vedere senza vedere ovvero
Il crepuscolo della morte, Prefazione di E. Severino, Schena, Fasano di
Brindisi 2007; A. Sangiacomo, Scorci. Ontologia e verita' nella filosofia
del Novecento, Prefazione di G. Brianese, Il Prato, Padova 2008.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 206 del 29 luglio 2008

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