La domenica della nonviolenza. 174



==============================
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
==============================
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 174 del 27 luglio 2008

In questo numero:
1. Eric Hobsbawm: Il mercato uccide le democrazie
2. Eric Hobsbawm presenta "Il caos prossimo venturo" di Prem Shankar Jha
3. Derek Boothman: Eric Hobsbawm
4. Bruno Gravagnuolo: Eric Hobsbawm

1. RIFLESSIONE. ERIC HOBSBAWM: IL MERCATO UCCIDE LE DEMOCRAZIE
[Dal "Corriere della sera" del 28 ottobre 2007 col titolo "Il mercato uccide
le democrazie" e il sommario "Anticipazione. L'allarme dello storico
inglese: le privatizzazioni indeboliscono le istituzioni e la politica.
Decadono gli Stati nazionali. E cosi' l'unita' di Italia, Spagna e Gran
Bretagna e' a rischio" e la nota biobibliogafica "L'autore e le opere.
Timori e interrogativi oltre il Secolo breve. Il testo pubblicato in questa
pagina e' un estratto dal nuovo libro di Eric Hobsbawm, La fine dello Stato
(traduzione di Daniele Didero, pagine 123, euro 9) in uscita il 7 novembre
per Rizzoli. Il volume raccoglie e rielabora alcuni testi in cui lo storico
britannico discute problemi cruciali del nostro tempo, dal destino delle
nazioni al futuro della democrazia, fino alle nuove forme assunte dalla
violenza politica. Eric Hobsbawm, nato ad Alessandria d'Egitto da genitori
ebrei austriaci, ha compiuto novant'anni lo scorso 9 giugno. Vive dal 1933
in Gran Bretagna, dove presiede il Birkbeck College dell'Universita' di
Londra. Storico di formazione marxista, ha acquisito una grande notorieta'
internazionale con i suoi studi sull'eta' contemporanea: Le rivoluzioni
borghesi. 1789-1848 (Laterza), Il trionfo della borghesia. 1848-1875
(Laterza), L'eta' degli imperi. 1875-1914 (Mondadori), Il secolo breve.
1914-1991 (Rizzoli). La sua opera piu' recente tradotta in Italia e'
Imperialismi (Rizzoli). Francis Fukuyama, Norbert Elias e Moises Naim sono
alcuni degli autori di cui Hobsbawm discute le tesi nei saggi contenuti
all'interno del volume La fine dello Stato. Il brano pubblicato qui accanto
e' tratto da una conferenza tenuta dallo storico britannico al club
Athenaeum di Londra".
Eric J. Hobsbawm, storico inglese, nato ad Alessandria d'Egitto nel 1917,
docente, intellettuale impegnato per la democrazia. Ha dedicato libri
fondamentali alla rivoluzione industriale, alle rivoluzioni borghesi,
all'eta' dell' imperialismo e del colonialismo, al movimento operaio, alla
storia del Novecento. Opere di Eric J. Hobsbawm: segnaliamo particolarmente
le grandi ricostruzioni Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, Il trionfo della
borghesia. 1848-1875, L'eta' degli imperi. 1875-1914, edite in italiano da
Laterza, Roma-Bari; le tre vivaci raccolte di saggi su I banditi, I ribelli,
I rivoluzionari, edite in italiano da Einaudi, Torino; Studi di storia del
movimento operaio, Einaudi, Torino 1973; Storia sociale del jazz, Editori
Riuniti, Roma 1982; ed i piu' recenti Lavoro, cultura e mentalita' nella
societa' industriale, Laterza, Roma-Bari 1986; Echi della Marsigliese,
Rizzoli, Milano 1991; Nazioni e nazionalismo, Einaudi, Torino 1992; (con
Terence Ranger),L'invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1994; (a cura
di), Gramsci in Europa e in America, Laterza, Roma-Bari 1995; Il secolo
breve. 1914-1991, Rizzoli, Milano 1997, 2000; De historia, Rizzoli, Milano
1997; Storia economica dell'Inghilterra. La rivoluzione industriale e
l'impero, Einaudi, Torino 1997; Intervista sul nuovo secolo, Laterza,
Roma-Bari 1999; Gente che lavora. Storie di operai e contadini, Rizzoli,
Milano 2001; l'autobiografia Anni interessanti, Rizzoli, Milano 2002, 2004;
L'uguaglianza sconfitta. Scritti e interviste, Datanews, Roma 2006;  Gente
non comune, Rizzoli, Milano 2007; Imperialismi, Rizzoli, Milano 2007; La
fine dello Stato, Rizzoli, Milano 2007]

Oggi "il popolo" e' il fondamento e il punto di riferimento comune di tutte
le forme di governo statali eccetto quella teocratica.
E cio' non e' soltanto qualcosa di inevitabile, ma e' qualcosa di giusto,
perche' per avere un qualunque scopo il governo deve parlare in nome e
nell'interesse di tutti i cittadini.
Nell'epoca dell'uomo comune, ogni governo e' un governo del popolo e per il
popolo, anche se chiaramente non puo' essere, in nessun senso funzionale, un
governo esercitato direttamente dal popolo. Tale principio non si basa solo
sull'egualitarismo dei popoli, che non sono piu' disposti ad accettare una
posizione di inferiorita' in una societa' gerarchica governata da uomini
superiori "per diritto naturale", ma anche sul fatto che finora i sistemi
sociali, le economie e gli Stati nazionali moderni non hanno potuto
funzionare senza l'appoggio passivo, ma anche la partecipazione attiva e la
mobilitazione, di moltissimi dei loro cittadini.
Questo principio rappresenta l'eredita' del XX secolo. Ma sara' ancora la
base dei governi popolari, incluso quello liberaldemocratico, nel XXI? La
mia tesi e' che la fase attuale dello sviluppo capitalistico globalizzato lo
sta minando alle radici, e che cio' avra' - anzi, sta gia' avendo - serie
implicazioni per quanto riguarda la democrazia liberale come viene intesa
oggi. L'odierna politica democratica, infatti, si fonda su due assunzioni,
una morale - o, se preferite, teorica - e l'altra pratica. Moralmente
parlando, essa richiede il supporto esplicito del regime da parte della
maggioranza dei cittadini, che si presume costituiscano il grosso degli
abitanti dello Stato. Ma per quanto fossero democratici gli ordinamenti in
vigore per la popolazione bianca nel Sudafrica dell'apartheid, un regime che
privava permanentemente del diritto di voto la maggior parte della sua
popolazione non puo' essere considerato come democratico. Gli atti con cui
si esprime il proprio assenso alla legittimita' di un sistema politico, come
votare periodicamente alle elezioni, possono essere poco piu' che simbolici.
Di fatto, e' da molto tempo un luogo comune tra i politologi dire che solo
una modesta minoranza di cittadini partecipa costantemente e attivamente
alla vita del proprio Stato o di un'organizzazione di massa. Cio' torna a
vantaggio di coloro che comandano; e, in effetti, e' da tempo che i
pensatori e i politici moderati si augurano la diffusione di un certo grado
di apatia politica. Ma questi atti sono importanti.
Oggi ci troviamo di fronte a un'evidentissima secessione dei cittadini dalla
sfera della politica. La partecipazione alle elezioni appare in caduta
libera nella maggior parte dei Paesi liberaldemocratici. Se le elezioni
popolari sono il primo criterio di rappresentativita' democratica, in che
misura e' possibile parlare di legittimita' democratica per un'autorita'
eletta da un terzo dell'elettorato potenziale (la Camera dei rappresentanti
degli Stati Uniti) o, come e' avvenuto di recente per le amministrazioni
locali britanniche e il Parlamento europeo, da qualcosa come il 10 o il 20%
dell'elettorato? O per un presidente americano eletto da poco piu' di meta'
del 50% degli americani che hanno diritto di voto?
Sul lato pratico, i governi dei moderni Stati nazionali o territoriali -
qualunque governo - si basano su tre presupposti: primo, che abbiano piu'
potere di altre unita' operanti sul loro territorio; secondo, che gli
abitanti dei loro territori accettino, piu' o meno volentieri, la loro
autorita'; e terzo, che tali governi siano in grado di fornire ai cittadini
quei servizi ai quali non sarebbe altrimenti possibile provvedere, perlomeno
non con la stessa efficacia (come "legge e ordine", per riprendere
un'espressione proverbiale).
Negli ultimi trenta o quarant'anni, questi presupposti hanno
progressivamente perso la loro validita'.
In primo luogo, pur essendo ancora di gran lunga piu' potenti di qualunque
rivale interno, anche gli Stati piu' forti, piu' stabili e piu' efficienti
hanno perso il monopolio assoluto della forza coercitiva, non ultimo grazie
alla marea di nuovi strumenti di distruzione portatili, oggi facilmente
accessibili ai piccoli gruppi dissidenti, e all'estrema vulnerabilita' della
vita moderna di fronte agli sconvolgimenti improvvisi, per quanto leggeri
possano essere.
In secondo luogo, hanno iniziato a vacillare anche i due pilastri piu'
solidi di un governo stabile, ossia (nei Paesi che godono di una
legittimita' popolare) la lealta' dei cittadini e la loro disponibilita' a
servire gli Stati, e (nei Paesi dove questa legittimita' popolare manca) la
pronta obbedienza a un potere statale schiacciante e indiscusso. Senza il
primo pilastro, le guerre totali basate sulla coscrizione obbligatoria e
sulla mobilitazione nazionale sarebbero state impossibili, cosi' come
sarebbe stata impossibile la crescita degli introiti erariali degli Stati
fino all'odierna percentuale dei Pil (introiti che possono oggi superare il
40% del Pil in alcuni Paesi e il 20% anche negli Stati Uniti e in Svizzera).
Senza il secondo pilastro, come ci mostra la storia dell'Africa e di ampie
regioni dell'Asia, piccoli gruppi di europei non avrebbero potuto mantenere
per generazioni il controllo sulle colonie a un costo relativamente modesto.
Il terzo presupposto e' stato minato non solo dall'indebolimento del potere
statale ma anche, a partire dagli anni Settanta, da un ritorno, tra i
politici e gli ideologi, a una critica dello Stato basata su un
laissez-faire ultraradicale, secondo la quale il ruolo dello Stato stesso
dev'essere ridimensionato a tutti i costi.
Questa critica afferma, piu' per una sorta di fede teologica che non sulla
base di evidenze storiche, che ogni servizio che le autorita' pubbliche
possono fornire o e' qualcosa di indesiderabile, oppure potrebbe essere
fornito in modo migliore, piu' efficiente e piu' economico dal "mercato". A
partire da quel periodo, la sostituzione dei servizi pubblici con servizi
privati o privatizzati e' stata massiccia. Attivita' caratteristiche di un
governo nazionale o locale come gli uffici postali, le prigioni, le scuole,
l'approvvigionamento idrico e anche i servizi assistenziali e previdenziali
sono stati ceduti a (o trasformati in) imprese commerciali; i dipendenti
pubblici sono stati trasferiti ad agenzie indipendenti o rimpiazzati con
subappaltatori privati. Anche alcune parti dell'apparato bellico sono state
subappaltate. E, naturalmente, il modus operandi delle aziende private - che
mirano alla massimizzazione dei profitti - e' diventato il modello al quale
ogni governo aspira a uniformarsi. E nella misura in cui cio' avviene, lo
Stato tende a fare affidamento su meccanismi economici privati per
sostituire la mobilitazione attiva e passiva dei propri cittadini. Allo
stesso tempo, e' impossibile negare che nei Paesi ricchi del mondo gli
straordinari trionfi dell'economia mettono a disposizione della maggior
parte dei consumatori piu' di quanto i governi o l'azione collettiva abbiano
mai promesso o fornito in tempi piu' poveri.
Ma il problema sta proprio qui. L'ideale della sovranita' del mercato non e'
un complemento, bensi' un'alternativa alla democrazia liberale. Di fatto,
esso e' un'alternativa a ogni sorta di politica, poiche' nega la necessita'
di decisioni politiche, che sono esattamente le decisioni sugli interessi
comuni o di gruppo in quanto distinti dalla somma di scelte, razionali o
meno che siano, dei singoli individui che perseguono i propri interessi
personali. Si aggiunga che il continuo processo di discernimento per
scoprire che cosa vuole la gente, processo messo in atto dal mercato (e
dalle ricerche di mercato), deve per forza essere piu' efficiente
dell'occasionale ricorso alla grezza conta elettorale. La partecipazione al
mercato viene a sostituire la partecipazione alla politica; il consumatore
prende il posto del cittadino. Francis Fukuyama ha di fatto sostenuto che la
scelta di non votare, cosi' come la scelta di fare la spesa in un
supermercato anziche' in un piccolo negozio locale, "riflette una scelta
democratica fatta dalle popolazioni. Esse vogliono la sovranita' del
consumatore". Senza dubbio la vogliono, ma questa scelta e' compatibile con
cio' che abbiamo imparato a considerare come un sistema politico
liberaldemocratico?
Cosi', lo Stato territoriale sovrano (o la federazione statale), che forma
la cornice essenziale della politica democratica e di ogni altra politica,
e' oggi piu' debole di ieri. La portata e l'efficacia delle sue attivita'
sono ridotte rispetto al passato. Il suo comando sull'obbedienza passiva o
il servizio attivo dei suoi sudditi o cittadini e' in declino. Due secoli e
mezzo di crescita ininterrotta del potere, del raggio d'azione, delle
ambizioni e della capacita' di mobilitare gli abitanti degli Stati
territoriali moderni, quali che fossero la natura o l'ideologia dei loro
regimi, sembrano essere giunti al termine. L'integrita' territoriale degli
Stati moderni - cio' che i francesi chiamano "la Repubblica una e
indivisibile" - non e' piu' data per scontata. Fra trent'anni ci sara'
ancora una singola Spagna - o un'Italia, o una Gran Bretagna - come centro
primario della lealta' dei suoi cittadini? Per la prima volta in un secolo e
mezzo possiamo porci realisticamente questa domanda. E tutto cio' non puo'
non influire sulle prospettive della democrazia.

2. LIBRI. ERIC HOBSBAWM PRESENTA "IL CAOS PROSSIMO VENTURO" DI PREM SHANKAR
JHA
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 7 luglio 2007 col titolo "Capitalismo:
l'ultima crisi" e il sommario "Sul saggio di Prem Shankar Jha. L'India sara'
il fulcro del XXI secolo. Anticipiamo parte dell'introduzione che ha scritto
per Il caos prossimo venturo dell'economista indiano Prem Shankar Jha (Neri
Pozza, pp. 688, euro 25, traduzione di Andrea Grechi e Andrea Spila)".
Prem Shankar Jha e' uno dei maggiori economisti indiani; ha studiato
filosofia, politica ed economia a Oxford, ha lavorato dal 1961 al 1966 per
le Nazioni Unite a New York ed e' poi tornato in India, dove ha collaborato
come editor e giornalista alle pagine dell'"Hindustan Times", del "Times of
India", dell'"Economic Times" e del "Financial Express". Tra il 1986 e il
1990 e' stato il corrispondente indiano dell'"Economist", e nel 1990 e'
diventato collaboratore del primo ministro V. P. Singh. Dal 1997 al 2000 ha
insegnato all'Universita' della Virginia. Tra le opere di Prem Shankar Jha,
In the Eye of the Cyclone: The Crisis in Indian Democracy, Viking, New
Delhi, 1993; The Perilous Road to the Market: The Political Economy of
Reform in Russia, China and India, Pluto Press, U.K., 2002; Kashmir 1947:
the Origins of a Dispute, Oxford University Press, 2003; in italiano: Il
caos prossimo venturo, Neri Pozza, Vicenza 2007]

In questi primi anni del XXI secolo si stenta a ricordare l'ottimismo, per
non dire il trionfalismo, con cui il crollo del comunismo fu accolto nelle
nazioni ricche del Nord del mondo. Dov'e' la "fine della storia" teorizzata
da Fukuyama? Oggi, anche i politici e gli ideologi di quei paesi sono molto
cauti nelle loro previsioni di un futuro di pace e prosperita' per un mondo
che appare in evidente crisi. Il valore di un libro sull'attuale situazione
del pianeta, tuttavia, non si misura nel suo essere speranzoso o
disincantato, ma nell'aiutarci a capirla, ovvero nel fornire una
comprensione storica della crisi presente. Il libro straordinariamente
intelligente, lucido e problematico di Prem Shankar Jha supera questa prova
a pieni voti. E' una lettura fondamentale per la prima decade di questo
terzo millennio.
L'autore considera la crisi attuale come l'ultima in ordine di tempo nello
sviluppo secolare di un capitalismo per sua propria natura sempre piu'
globalizzato. A suo giudizio, questa e' la quarta volta che il capitalismo
infrange il suo "contenitore" economico, politico e istituzionale, nel corso
di una storia le cui origini egli fa risalire al Medioevo. Come nel passato,
la fine di ciascuno di questi cicli di espansione ha segnato il crollo delle
istituzioni e un prolungato conflitto tra gli stati e al loro interno,
nonche' quello che e' stato definito "caos sistemico"...
Ciascuna delle precedenti fasi di espansione capitalistica, sostiene Jha, fu
contrassegnata dall'egemonia di un centro economico predominante, e
collegata sin dal XVII secolo a un'innovazione di portata storica: lo
"stato-nazione" su base territoriale all'interno di un sistema di potere
internazionale. Dopo quella che considera l'era delle citta'-stato
medievali, dopo l'egemonia economica dei Paesi Bassi seguita da quella della
Gran Bretagna, oggi siamo al termine del "secolo americano". Ma nel suo
ritmo accelerato, la globalizzazione ha travalicato i limiti della cornice
relativamente stabile e flessibile che il capitalismo aveva generato - nello
specifico lo stato-nazione con le sue istituzioni e il suo sistema
internazionale - e che aveva consentito ad esso di svilupparsi senza
esplodere o implodere e di riprendersi dalle crisi della prima meta' del XX
secolo. Tale sistema non funziona piu', e nessuna chiara alternativa e' in
vista. Bisogna prepararsi a una nuova fase di distruzione e a un caos piu'
profondo, prima che le contraddizioni interne ed esterne della crisi attuale
della globalizzazione siano superate.
Diversamente dalla gran parte delle opere sulla globalizzazione, in genere
scritte in Europa o nel Nord America, la voce di Prem Shankar Jha ci arriva
dall'India, la regione che probabilmente sara' il fulcro del mondo del XXI
secolo, ma il cui spettacolare sviluppo coincide con il "caos sistemico" in
cui l'economia globale si trova immersa sin dall'avvio dell'attuale epoca di
crisi negli anni Settanta...
Gli effetti negativi della globalizzazione sui paesi sviluppati, come anche
le conseguenze della loro deindustrializzazione e l'erosione dei loro
sistemi di welfare, sono concreti ma lenti, e mitigati dalla ricchezza
accumulata in quelle societa'. I terremoti generati in quei paesi sono
piccole scosse al fondo della scala Richter economica, ma nel mondo "in via
di sviluppo" sono cataclismi. Quando politici e giornalisti dell'Unione
Europea parlano di crisi economica, non si riferiscono a quello che Jha
giustamente definisce il "tracollo" del 1997-'98, delle cui manifestazioni
nel sud-est asiatico fornisce un'acuta analisi; non si riferiscono alle
esplosioni sismiche che hanno scosso Brasile, Messico e Argentina a partire
dagli anni Ottanta, e che i commentatori occidentali in massima parte
giudicarono come la riprova dell'immaturita' degli imprenditori e dei
governanti del Terzo mondo rispetto a quelli dei paesi Ocse.
Un osservatore appartenente a un paese come l'India, rispetto a quelli dei
paesi ricchi, corre meno rischi di confondere gli effetti generalmente
benefici dell'industrializzazione e del progresso tecnico-scientifico con le
conseguenze assai piu' problematiche della globalizzazione capitalistica
incontrollata, vale a dire il drammatico allargamento della forbice tra i
redditi pro-capite dei paesi sviluppati e quelli della maggior parte degli
altri paesi - e, all'interno di quasi tutti i paesi, il divario tra ricchi e
poveri. Soprattutto, e' difficile che non tenga costantemente presente che
frasi come "ho fame" o "non ho lavoro" hanno un significato profondamente
diverso in paesi con un Pil medio pro capite di 25.000 dollari rispetto a
paesi in cui e' di soli 500 dollari.

3. PROFILI. DEREK BOOTHMAN: ERIC HOBSBAWM
[Dal quotidiano "Liberazione" dell'8 giugno 2007 col titolo "Hobsbawm, la
sua storia dal basso senza le tentazioni del blairismo" e il sommario "Lo
storico e intellettuale di spicco della sinistra britannica compie domani
novant'anni. Una vita intensa che copre l'arco del '900, 'Il secolo breve',
per parafrasare il titolo della sua opera piu' famosa. Ha studiato le
vicende degli imperi e del capitalismo".
Derek Boothman (Rawtenstall, Gran Bretagna, 1944) e' docente universitario e
saggista; acuto studioso di Gramsci, insegna all'Universita' di Bologna,
collabora a vari quotidiani e riviste inglesi e italiani. Tra le opere di
Derek Boothman: Traducibilita' e processi traduttivi. Un caso: Antonio
Gramsci linguista, Edizioni Guerra, Perugia 2004]

La storia e' tra i discorsi che caratterizzano la lotta egemonica in Gran
Bretagna. E il decano degli storici britannici, nonche' il piu' grande
storico marxista vivente, come alcuni lo hanno definito, e' Eric Hobsbawm -
tra l'altro, anche presidente onorario di "Terra Gramsci", il network della
International Gramsci Society-Sardegna. Domani compiera' 90 anni.
Hobsbawm fa parte di un gruppo, per motivi anagrafici ormai molto esiguo, di
storici e di altri intellettuali marxisti di altissima levatura, tra cui il
critico culturale Raymond Williams tanto per citarne uno, che si iscrissero
al Partito comunista britannico verso la fine degli anni '30 e che tanto
hanno fatto per rinnovare la cultura nazionale. Nel caso degli storici
marxisti, esempio emblematico fu la fondazione, in piena guerra fredda,
della rivista "Past and Present". Sebbene si trattasse di una pubblicazione
non esclusivamente marxista, inizialmente fu snobbata dai fautori della
storia "ortodossa", ma ben presto conquisto' una posizione autorevole anche
tra gli storici di stampo conservatore, tanto che i redattori talvolta
dovettero far osservare, molto garbatamente, che alcuni articoli che tali
storici sottoponevano al loro vaglio non erano congrui alla linea editoriale
di una rivista progressista.
"Past and Present" aveva solo pochi anni di vita quando entro' in crisi
l'ormai leggendario Historians' Group del Pc, che aveva contribuito a farla
nascere. In un suo saggio, Hobsbawm nota che il lavoro unitario dei suoi
membri, come storici e come comunisti, entro' in crisi intellettuale e
morale di fronte al discorso di Khrushchev e ai fatti di Ungheria, anche se
essi furono i primi a criticare la chiusura del partito a seguito di tali
eventi. Il gruppo si divise: Christopher Hill, grande storico della
rivoluzione seicentesca inglese, ed E. P. Thompson, conosciuto a livello
internazionale come storico della formazione della prima classe operaia
dell'era industriale, lasciarono il partito; Hobsbawm, insieme a Victor
Kiernan, massimo storico dell'imperialismo, come lui fieramente
antistalinista, decise di rimanere. Tuttavia questa separazione riguardo'
solo la tattica da adottare, non la politica, e quindi non influi' che
marginalmente sui rapporti professionali e personali tra i componenti del
gruppo.
La caratteristica del lavoro degli storici marxisti in Gran Bretagna e' la
storia from below ("dal basso"), che vede protagonista la gente: in termini
gramsciani, e' la storia delle classi subalterne. Hobsbawm, ad esempio, in
un saggio pubblicato nel 1959 fu tra i primi storici non italiani ad
occuparsi di Davide Lazzaretti, e fu anche tra i primi marxisti britannici
ad occuparsi degli scritti di Gramsci, anche se inizialmente non era a
conoscenza dei paragrafi dedicati nei Quaderni del carcere al "profeta
dell'Amiata". E' stato Hobsbawm ad aver fatto nel 1958 l'unico intervento
"inglese" al primo dei convegni decennali dedicati a Gramsci dall'Istituto
Gramsci. E grande merito di Hobsbawm e' di aver saputo, piu' di altri,
coniugare la storia "dal basso" con i grandi temi nazionali ed
internazionali - l'influsso di Gramsci e' evidente, come ha testimoniato
egli stesso di recente in video nelle celebrazioni del settantesimo
anniversario della morte indette da International Gramsci Society e
Fondazione Istituto Gramsci.
Nel periodo a cavallo degli anni '50 e '60, sotto lo pseudonimo di Francis
Newton, Hobsbawm curo' la rubrica sul jazz per il laburista "New Statesman",
settimanale caro alla coscienza critica dei ceti medi laburisti. E sotto
tale nome, preso in prestito dal trombettista comunista nero (il molto
sottovalutato Frankie Newton, che suonava accanto alla grande Billie
Holliday), pubblico' alla fine degli anni '50 The Jazz Scene, una delle piu'
interessanti storie sociologiche del jazz. Originariamente espressione di
gruppi subalterni, il jazz e' diventato uno dei principali contributi degli
Usa, anzi di una parte sociale di quel paese, alla cultura mondiale: una
cultura subalterna diventata egemone.
Nella biografia di Hobsbawm c'e' anche il rapporto con l'Italia. Dalle sue
prime critiche allo stalinismo fino al suo scioglimento, il Pci fu per molti
comunisti antidogmatici dell'Occidente un punto di riferimento privilegiato:
i tentennamenti di Togliatti avevano meno importanza delle sue posizioni
critiche e della sua autonomia di giudizio. La reputazione del Pci non pote'
che crescere dopo le prime traduzioni attendibili di Gramsci che, con la sua
finezza di analisi, ebbe un ruolo di primo piano nel rinnovamento della
cultura della sinistra. E quando i comunisti italiani fecero il loro grande
balzo in avanti alla meta' degli anni '70, troviamo Hobsbawm come
interlocutore di Giorgio Napolitano nel libro Intervista sul Pci (The
italian road to socialism nella versione anglo-americana), volume tradotto
in ben dieci lingue.
Sul piano storiografico, Hobsbawm si distingue per la sua conoscenza
enciclopedica e per l'ampiezza della sua visione. La sua produzione spazia
dai ribelli primitivi, argomento di uno dei suoi primi libri, passando per
il nazionalismo, allo studio in tre volumi del capitale e dell'impero.
Infatti, dalla meta' degli anni Settanta egli scrive, uno dopo l'altro, Le
rivoluzioni borghesi 1789-1848, Il trionfo della borghesia 1848-1875, e
L'eta' degli imperi 1875-1914, a cui va aggiunto Il secolo breve 1914-1991
(in inglese i titoli danno il senso della visione unitaria del progetto che
purtroppo manca in italiano). Nel suo insieme la trilogia, con postilla sul
"secolo breve", e' un lavoro strordinario di sintesi storico-culturale e, al
contempo, una critica dell'esistente nelle migliori tradizioni del marxismo.
A partire dai tardi anni '70 Hobsbawm diventa intellettuale "pubblico" di
punta, senza pero' una posizione formale dentro o fuori del Pc britannico.
Il suo nome, assieme a quello di Stuart Hall e di Martin Jacques, direttore
del mensile comunista "Marxism Today", compare spesso come protagonista nel
dibattito degli anni '80 sullo scacco subito dal movimento operaio. Dalla
prospettiva acquisita da storico, Hobsbawm, diversamente da alcuni dirigenti
sindacali e politici di sinistra, intravvide e capi' che la politica
reaganiana e quella thatcheriana rappresentavano una svolta storica.
Purtroppo i "rinnovatori" raggruppati intorno ai nomi di Jacques, Hall e
Hobsbawm devono fare i conti con il fatto che alcuni giovani intellettuali
dell'ultima leva, tra cui militanti seppure per poco tra le fila del Partito
comunista, hanno fornito le giustificazioni per la politica blairista.
Va da se' che Hobsbawm e gli altri storici ed intellettuali britannici di
altre discipline (Hill, Thompson, Kiernan, Williams e via dicendo) sono
stati sempre, e non poteva che essere cosi', politicamente minoritari nel
proprio paese. Hobsbawm in particolare e' stato oggetto di non pochi
attacchi dalla destra, che non gli ha mai perdonato la sua ininterrotta
adesione al movimento operaio, progressista ed antimperialista. E' stata
sempre ed e' questa, lo si puo' affermare senza temere smentite, l'area
politica di appartenenza di questo grande intellettuale, che ha
rappresentato in molti casi un anello di congiunzione tra vecchia e nuova
sinistra, riuscendo a incidere profondamente sulla cultura nazionale,
risultato pregevole in un paese anglosassone.

4. PROFILI. BRUNO GRAVAGNUOLO: ERIC HOBSBAWM
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 9 giugno 2007 col titolo "Hobsbawm nel segno
di Gramsci e del Jazz" e il sommario "Compleanni. Oggi il grande storico
compie 90 anni. Una parabola di ricerca sviluppatasi nel solco del marxismo
inglese e arricchita dall'incontro con i Quaderni del carcere. Storia,
musica e classi subalterne".
Bruno Gravagnuolo e' giornalista del quotidiano "L'Unita'"]

"Gramsci? Un dono che la campagna ha fatto alla citta'". E' una battuta di
Eric Hobsbawm, lo storico gallese e tra i massimi storici britannici, che
proprio oggi compie novant'anni. Bella perche' azzeccata, riferita com'e' a
una figura ponte tra masse oppresse e alta cultura del '900, un sardo di
ascendenze albanesi, capace di ergersi a visioni globali.
Ma bella quella frase perche' racchiude tutto il senso delle passioni e del
lavoro di Hobsbawm. Ovvero, l'impegno di conoscenza storiografica, volto
alla liberazione delle classi subalterne. Nel contesto dello stato-nazione e
in quello piu' ampio del mondo unificato dalle rivoluzioni industriali, a
partire dalla prima nell'Inghilterra del '700.
Ma chi e' Hobsbawm? Lo abbiamo detto, un grande storico e poi un amico e un
ammiratore dell'Italia, e del Pci in particolare, alle cui fortune culturali
e alla cui (contrastata) "egemonia" e' legata una parte rilevante della sua
biografia. Un'Italia incontrata per la prima volta da "emigrante" a due
anni, nel passare da Trieste a Vienna. Da cui fuggira' a fine anni Trenta
per sottrarsi alla persecuzione nazista. Italia reincontrata negli anni '50,
in visita da Londra, con una lettera di presentazione al Pci di Piero
Sraffa. Ma a quel tempo Hobsbawm era gia' entrato nel circolo aureo degli
storici marxisti di "Past and Present", leggendaria rivista, all'inizio non
esclusivamente marxista, a cui prendevano parte Cristopher Hill, studioso
della rivoluzione inglese, E. P. Thompson, storico sociale e della classe
operaia, Victor Kierman, storico dell'imperialismo. Dunque Hobsbawm
comunista e marxista, che si cimenta con la "storia dal basso": brigranti,
ribelli, emarginati, profeti popolari e contadini. Ad esempio studia il
Davide Lazzaretti ribelle "escatologico" del Monte Amiata, ignorando che di
li' a poco ne avrebbe ritrovato la figura in un'opera destinata a cambiare
la sua vita intellettuale: I Quaderni del carcere. E' Gramsci infatti che
muta il suo approccio dottrinario benche' mai stalinista. Gramsci che lo
persuade che la rivoluzione e' un processo complesso, variegato, "chimico".
Che risente delle "onde d'urto" internazionali e le ritraduce nei contesti
nazionali. Con rivoluzioni attive, rivoluzioni passive, arretramenti,
esplosioni, avanzamenti. Ecco allora che la scoperta di Gramsci e del Pci,
fanno di Eric Hobsbawm quasi un propagandista della "diversita'" di entrambi
nel mondo comunista. Un lavoro di sdoganamento e rilancio del marxismo in
sede politica e storiografica che parte nel gallese dall'amore per quei
Quaderni, su cui relaziona al primo dei grandi convegni gramsciani, quello
del 1958.
E cosi', fecondate da quelle letture, arrivano le grandi opere di Eric
Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, 1789-1848; Il trionfo della borghesia,
1848-1875; L'eta' degli imperi, 1875-1914. Ed ancora, gli studi sui
briganti, cartografia sociale e antropologica della rivolta endemica di
classi sottomesse che stano ai margini e incalzano, ma non si fanno
"dirigenti". E poi, il saggio introduttivo alla Storia del marxismo Einaudi,
mappa minuta e ancor valida per orientarsi nel dedalo dei marxismi
novecenteschi.
Infine il suo capolavoro, quello che ha fatto tanto parlare, uscito in
Italia da Rizzoli: Il Secolo breve, 1914-1991. Qual e' l'idea di fondo,
gramsciana, e compendiata gia' nel titolo? Qualla di un '900 come "eta'
degli estremi", tra massacri di massa e progresso della scienza e dei
diritti. Di un mondo unificato dalla tecnica, tra barbarie ed emancipazioni
collettive. Dove un punto di svolta e' dato dalla prima guerra mondiale, in
cui precipitano in lotta gli imperialismi dei grandi stati-nazione. E il
punto finale sta nell'ammainabandiera al Cremlino, nel natale del 1991.
Periodizzazione criticata quella di Hobsbawm, specie sul "terminus ad quem".
Visto che la dinamica di guerre e imperialismi, dopo quella data, e'
ricominciata sotto forma di nazionalismi, guerre di civilta' e nuovo
disordine mondiale, all'ombra dell'unipolarismo americano.
E tuttavia proprio Hobsbawm, ragionandone con Antonio Polito in una
intervista Laterza del 1999 (Intervista sul nuovo secolo) si e' mostrato ben
consapevole che il suo secolo "breve" si allunga, riproducendo all'infinito,
e con maggiore espansione delle forze produttive, tutti i fenomeni in
precedenza descritti e avviati dal 1914: lo squilibrio tra stati-nazione e
cosmopolitismo globale, non governato. Due volte gramsciano Hobsbawm,
nell'indicare quello squilibrio, e nel segnalare la prima volta in cui si
manifesta e cioe' la prima guerra mondiale.
E oggi? Oggi Hobsbawm e' in bilico tra disicanto, difesa illuminista
dell'universalismo, e rivendicazione di cio' che resta dell'utopia
comunista. Intesa come capacita' di resistenza al dominio planetario sui
diseredati. E del resto, pur nel disincanto, Hobsbawm si oppose, da
comunista italiano "acquisito", alla svolta dal Pci al Pds. E il giudizio
sul comunismo reale? Per lo storico fu decisivo, malgrado le oppressioni e i
fallimenti, a favorire e stabilizzare il Welfare in occidente. E a
"con-causare" l'eta' dell'oro: il cinquantennio che va dal 1945 alla meta'
dei Novanta.
Ultimo appunto: Hobsbawm e' anche un grande amante del Jazz, "musica nera
dei subalterni". E scrisse col nome di Frank Newton, tromba di Billie
Holiday, The Jazz scene, una storia del genere. Lo incoraggio' Gramsci,
quando in carcere predisse: "un giorno berremo il caffe' al mattino col
jazz".

==============================
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
==============================
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 174 del 27 luglio 2008

Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe

Per non riceverlo piu':
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe

In alternativa e' possibile andare sulla pagina web
http://web.peacelink.it/mailing_admin.html
quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su
"subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).

L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196
("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing
list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica
alla pagina web:
http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004
possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web:
http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la
redazione e': nbawac at tin.it