Voci e volti della nonviolenza. 202



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 202 del 15 luglio 2008

In questo numero:
1. Un estratto da "Nel segno dell'esilio" di Edward W. Said
2. Giuliana Benvenuti presenta "Nel segno dell'esilio" di Edward Said
3. Sandro Mezzadra presenta "Nel segno dell'esilio" di Edward Said
4. Wlodek Goldkorn presenta "Orientalismo" di Edward Said

1. LIBRI. UN ESTRATTO DA "NEL SEGNO DELL'ESILIO" DI EDWARD W. SAID
[Dal sito www.feltrinellieditore.it riprendiamo il seguente estratto
dall'introduzione ("La critica e l'esilio") del libro di Edward W. Said, Nel
segno dell'esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano
2008. Libro presentato nel sito con la seguente scheda "A quattro anni dalla
morte, il carisma di Edward Said non accenna a diminuire. Critico
letterario, musicista, militante palestinese, Said sfugge a ogni tentativo
di classificazione: un intellettuale la cui influenza e' ben lontana
dall'essere confinata al mondo accademico. Nel segno dell'esilio rispecchia
questa sua versatilita'. E' una raccolta di quarantasei saggi, scelti da
Said stesso e scritti tra il 1970 e il 2000, su una sorprendente varieta' di
argomenti: la diaspora palestinese, i ricordi di gioventu' al Cairo e
Alessandria (con un saggio straordinario dedicato a una famosa danzatrice
del ventre), il confronto tra culture, ma anche il machismo di Hemingway e
l'epica di Tarzan. E ancora: George Orwell, Giambattista Vico, Naguib
Mahfouz, Joseph Conrad, Antonio Gramsci, E. M. Cioran, T. E. Lawrence, W. S.
Naipaul, Eric Hobsbawm, in ritratti che confermano Said come uno dei piu'
importanti ed eleganti critici letterari del nostro tempo. Su tutti, il
saggio che da' anche il titolo al libro: una riflessione profonda e intensa
sull'esilio, il luogo impossibile attorno a cui ruotano la biografia e
l'intero percorso intellettuale di Said, esilio che e' anche il filo rosso
che attraversa tutta questa raccolta di scritti, nella cui ricchezza e
magnificenza l'elemento biografico e quello generale, il personale e il
politico sembrano ricomporsi".
Edward Said, prestigioso intellettuale democratico palestinese, uno dei piu'
grandi umanisti del secondo Novecento, era nato a Gerusalemme nel 1935,
autore di molti libri, tradotti in 26 lingue, docente di letteratura
comparate alla Columbia University di New York, a New York e' deceduto il 25
settembre 2003. Dal sito della casa editrice Fetrinelli rirpendiamo la
seguente scheda: "Edward W. Said e' nato nel 1936 a Gerusalemme. Esiliato da
adolescente in Egitto e poi negli Stati Uniti, e' stato professore di
Inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University di New York.
Formatosi a Princeton ed Harvard, Said ha insegnato in piu' di
centocinquanta Universita' e scuole negli Stati Uniti, in Canada ed in
Europa. I suoi scritti sono apparsi regolarmente sul 'Guardian' di Londra,
'Le Monde Diplomatique' ed il quotidiano in lingua araba 'al-Hayat'. Nel suo
libro Orientalismo - pubblicato per la prima volta nel 1978 - ha analizzato
l'insieme di stereotipi in cui l'Occidente ha chiuso l'Oriente, anzi, l'ha
creato. Questo saggio ha conosciuto un successo mondiale ed e' piu' che mai
di attualita' perche' rievoca la storia dei pregiudizi popolari anti-arabi e
anti-islamici e rivela piu' generalmente il modo in cui l'Occidente ha
percepito 'l'altro'. Edward W. Said ha sempre lottato per la dignita' del
suo popolo e contro coloro che hanno demonizzato l'Islam. Ex socio del
Consiglio Nazionale Palestinese, fu un negoziatore 'nell'ombra' del
conflitto arabo-israeliano. A causa della sua pubblica difesa
dell'autodeterminazione palestinese, a Said e' stato impedito l'ingresso in
Palestina per molti anni. Si e' opposto agli accordi di Oslo ed al potere di
Yasser Arafat, che ha fatto vietare i suoi libri nei territori autonomi.
Conosciuto tanto per la sua ricerca nel campo della letteratura comparata
quanto per i suoi interventi politici incisivi, Said e' stato uno degli
intellettuali piu' in vista negli Stati Uniti. La sua opera e' stata
tradotta in quattordici lingue. E' morto a New York il 25 settembre 2003".
Tra le opere di Edward W. Said segnaliamo: Orientalismo, Bollati
Boringhieri, Torino 1991, poi Feltrinelli, Milano 1999; La questione
palestinese. La tragedia di essere vittime delle vittime, Gamberetti, Roma
1995; Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995; Cultura e
imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente,
Gamberetti, Roma 1998; Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele,
Feltrinelli, Milano 1998; Dire la verita'. La convivenza necessaria, Indice
internazionale, Roma 1999; Sempre nel posto sbagliato, Feltrinelli, Milano
2000; Fine del processo di pace. Palestina/Israele dopo Oslo, Feltrinelli,
Milano 2002; Il vicolo cieco di Israele, Datanews, Roma 2003; (con Daniel
Barenboim), Paralleli e paradossi. Pensieri sulla musica, la politica e la
societa', Il Saggiatore, Milano 2004; La pace possibile, Il Saggiatore,
Milano 2005; Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, Il Saggiatore,
Milano 2007; Il mio diritto al ritorno. Intervista con Ari Shavit, "Ha'aretz
Magazine", Tel Aviv 2000, Nottetempo, 2007; Nel segno dell'esilio.
Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano 2008]

Scritti nell'arco di piu' o meno trentacinque anni, questi saggi e questi
articoli restituiscono il senso complessivo del mio lavoro di insegnamento e
di studio in un'istituzione accademica particolare, la Columbia University
di New York: qui sono arrivato fresco di laurea nell'autunno del 1963, e qui
sono rimasto come docente nel Dipartimento di inglese e letterature
comparate. Al di la' della soddisfazione per la durata della mia permanenza
in un luogo, l'universita' americana, che per chi ci insegna e per molti che
ci studiano resta ancora l'ultima vera utopia, e' soprattutto New York ad
aver giocato un ruolo decisivo sul tipo di lavoro critico e interpretativo
che ho svolto, e di cui questo libro costituisce una sorta di archivio.
Dinamica, elettrizzante, eclettica, carica di energia, instabile e
totalizzante, New York e' oggi cio' che Parigi e' stata un secolo fa: la
capitale del nostro tempo. Puo' apparire paradossale, per certi versi
ridondante aggiungere che la centralita' di questa citta' sia dovuta proprio
all'eccentricita' e al particolare mix dei suoi attributi, ma credo che in
fondo corrisponda al vero. E non si tratta di un carattere sempre positivo e
confortevole: soprattutto per chi vi risiede senza essere in qualche modo
legato a interessi finanziari, immobiliari o nel mondo dei media, lo strano
statuto di New York, cio' che ne fa una citta' diversa da tutte le altre,
rappresenta piu' che altro un aspetto problematico nella vita quotidiana,
dal momento che la marginalita' e la solitudine dell'outsider possono
facilmente avere il sopravvento sulla familiarita' dell'abitarci.
Per buona parte del XX secolo la vita culturale di New York e' parsa
svilupparsi lungo mille rivoli, del resto evidenti, la maggior parte dei
quali determinati dalla particolare collocazione geografica della citta',
principale porto d'accesso americano. Ellis Island, luogo par excellence
dell'immigrazione, ha visto infrangersi sui suoi scogli ondate di
popolazioni tra le piu' povere della societa' americana, per le quali New
York rappresentava il primo e il piu' delle volte definitivo luogo di
approdo: irlandesi, italiani, europei dell'Est di origine ebraica e non,
africani, caraibici, mediorientali e asiatici. Da queste comunita' migranti
ha tratto origine buona parte dell'identita' della citta' come cuore
pulsante e centro radicale della vita politica e artistica, incarnato nei
movimenti socialisti e anarchici, nella Harlem Renaissance e nelle
sperimentazioni nel campo delle arti figurative, della fotografia, della
musica, del teatro. Tali sradicate narrative urbane hanno via via acquisito
uno status per certi versi canonizzato (come testimoniano i tanti musei, le
scuole, le universita', le sale da concerto, i teatri lirici e di prosa, le
gallerie d'arte e le compagnie di danza) conferendo a New York quel suo
particolare carattere di palcoscenico permanente, ma facendole
progressivamente smarrire ogni reale contatto con le sue radici migranti.
Come capitale dell'editoria, per esempio, New York non e' piu' il luogo in
cui scrittori ed editori d'avanguardia potevano avventurarsi in territori
inesplorati, ed e' invece diventata punto di massima concentrazione dei
principali colossi mediatici globali. Anche Greenwich Village, cuore
pulsante della boheme americana, ha da tempo smesso di battere, come del
resto la maggior parte delle piccole riviste e delle comunita' di artisti
che la alimentavano. Quella che resta e' una citta' di migranti e di esuli,
in permanente tensione con il centro simbolico (e per lo piu' reale)
dell'economia globalizzata del tardo capitalismo, il cui potere selvaggio,
proiettato economicamente, militarmente e politicamente su ogni angolo del
pianeta, dimostra una volta di piu' quanto l'America rappresenti oggi
l'unica superpotenza globale.
*
Quando arrivai a New York c'erano ancora tracce del fermento che aveva
scosso i piu' rinomati gruppi intellettuali che facevano capo alla "Partisan
Review", al City College e alla Columbia University; qui, in particolare,
potevo contare sulla presenza di Lionel Trilling e Fred W. Dupee, entrambi
grandi amici oltre che colleghi molto premurosi del Dipartimento di inglese
(come ancora lo si chiamava allora, per distinguerlo dal piu' austero Corso
di laurea in lingua e letteratura inglese). Ben presto, pero', mi resi conto
che le battaglie che vedevano coinvolti gli intellettuali newyorkesi, per
esempio l'annoso dibattito sul superamento dello stalinismo e del modello
comunista sovietico, non toccavano le corde emotive mie e della mia
generazione, per la cui formazione politica i movimenti per i diritti civili
e la resistenza contro la guerra in Vietnam rappresentavano questioni ben
piu' urgenti. E per quanto abbia sempre nutrito un profondo affetto per
Trilling, che sentivo come un collega piu' anziano, quasi un mentore, e
soprattutto un amico, a influenzarmi quando iniziai a scrivere e insegnare
fu soprattutto lo spirito aperto e radicale di Fred Dupee: la sua prematura
scomparsa, nel 1979, ha prodotto un incolmabile senso di vuoto e di
tristezza, che sento forte ancora oggi. Dupee era in primo luogo uno
straordinario saggista (come per lo piu' lo stesso Trilling), e in un senso
piu' specificamente intellettuale e politico pure un vero sovversivo: un
uomo di inimitabile charme, capace di distillare doni intellettuali che
sentivo infinitamente piu' liberi di quelli di molti suoi colleghi del
milieu anglofilo cosi' connaturato allo stile intellettuale newyorkese, tra
i cui vizi peggiori persisteva uno stucchevole narcisismo e una fatale
propensione a spostarsi su posizioni sempre piu' arrogantemente
conservatrici. Niente di tutto questo valeva per Fred. Fu lui a incoraggiare
il mio interesse per le novita' che provenivano dal pensiero francese, dalla
letteratura e dalla poesia sperimentali e soprattutto dall'arte della
saggistica, intesa come strumento per esplorare il nuovo del nostro tempo,
senza lasciare che mi smarrissi in quanto nella nostra professione
continuava a riprodursi stancamente. Ed e' stato sempre Fred Dupee che, dopo
il 1967, all'indomani dell'enorme debacle araba, ha appoggiato la mia
battaglia solitaria in nome della causa palestinese con la stessa energia
con cui rimase fedele fino alla fine agli ideali politici radicalmente
antiautoritari del suo trotskismo giovanile. Per inciso, vale la pena
ricordare che Dupee e sua moglie Andy sono stati i soli amici nell'ambito
accademico newyorkese a provvedere materialmente alla mia visita a Beirut, a
quel tempo (nell'autunno del 1972) epicentro delle politiche rivoluzionarie
del Medio Oriente. Li' ho potuto trascorrere il mio primo intero anno
sabbatico (da quando, nel 1951, ero partito come studente per gli Stati
Uniti) rifamiliarizzando con la cultura arabo-islamica attraverso lo studio
quotidiano della filologia e della letteratura araba.
L'esperienza del 1967, il riemergere del popolo palestinese come forza
politica e il mio coinvolgimento diretto in quel movimento, sono stati il
modo in cui New York mi ha permesso di sopravvivere, nonostante e contro le
frequenti minacce di morte, gli atti di aggressione e gli abusi che io e la
mia famiglia abbiamo dovuto subire. In questo ambiente decisamente piu'
movimentato e dinamico di quello isterico in cui erano immersi molti
intellettuali newyorkesi (definitivamente discreditati, a mio avviso, dal
meschino coinvolgimento nelle strategie "culturali" adottate dalla Cia nella
guerra fredda), una serie di idee e di interessi piuttosto diversi e lontani
da quanto veniva prodotto all'interno della "Partisan Review" - sulle cui
pagine ho comunque pubblicato uno dei primi saggi contenuti in questa
raccolta - sono gradualmente affiorati nel mio lavoro, arrivando a una prima
formulazione esplicita in Beginnings: Intention and Method, per poi
definirsi ulteriormente in Orientalismo e acquisire sempre piu' importanza
in tutto quanto ho scritto successivamente sulla Palestina. Questi interessi
e questa urgenza, almeno credo, sono diventati piu' pressanti e piu' chiari
grazie all'altra New York, quella delle comunita' diasporiche provenienti
dal Terzo mondo, della politica degli espatriati, e quella effervescente dei
dibattiti culturali, della cosiddetta guerra dei canoni, destinata a
dominare la vita accademica per tutti gli anni Ottanta e i successivi.
Introducendomi a questa New York altra, sconosciuta o disprezzata
dall'establishment, Fred Dupee mi indicava indirettamente la strada da
seguire, non tanto per quello che poteva davvero dirmi sulla citta' degli
apolidi, quanto piuttosto per il suo modo di fare curioso e per il costante
incoraggiamento che lui, sradicato, audace e ospitale nativo nordamericano,
poteva offrire a me, outsider appena arrivato.
*
L'ingente spostamento migratorio generato dalle guerre, dal colonialismo e
della decolonizzazione, da rivoluzioni politiche ed economiche o da fattori
tanto devastanti come la fame, le pulizie etniche e altre piu' generali
forme di esercizio brutale del potere, rappresenta a mio avviso l'evento
piu' significativo degli ultimi tre decenni. In un luogo come New York, e
certamente anche in altre metropoli occidentali come Londra, Parigi,
Stoccolma o Berlino, tutto cio' si e' immediatamente riflesso in cambiamenti
radicali che hanno ridisegnato quasi di ora in ora interi quartieri, forme
di lavoro e professioni, la stessa produzione culturale e la topografia
urbana. Esuli, migranti, rifugiati e apolidi, sradicati dalle proprie terre,
sono costretti a fare i conti con un nuovo paesaggio, e la creativita', come
del resto la profonda infelicita' che si attribuisce al modo di fare di tali
soggetti "fuori posto", costituisce di per se' una delle esperienze che
devono ancora trovare una loro narrazione e un loro narratore - sebbene una
straordinaria schiera di scrittori che comprende figure tra loro anche molto
differenti come Salman Rushdie e V. S. Naipaul si sia gia' inoltrata sul
sentiero aperto per la prima volta da Conrad.
E nondimeno, malgrado la pervasivita' per estensione e determinazione di
questi ampi movimenti storici, e' sempre stata forte la resistenza che vi si
e' opposta, ora in termini di cori stridenti che incitavano a un ritorno "al
grande libro della 'nostra' cultura", ora nello sconcertante razzismo che ha
dato tragica prova di se' in ripetuti attacchi contro ogni cultura,
tradizione o popolo che non fosse occidentale, attraverso manifestazioni a
cui spesso non si e' prestato il necessario livello di attenzione e allarme.
Malgrado e contro tutto cio', un piu' generale processo di revisione ha
preso corpo all'interno di un dibattito culturale a cui credo di aver
offerto a mio modo un contributo, in particolare attraverso la critica
dell'eurocentrismo, facendo si' che lettori e critici potessero vedere la
relativa poverta' delle politiche identitarie, la stupidita' di ogni
affermazione di purezza riferita a una dimensione essenzialistica ed
essenzializzata di appartenenza, e l'assoluta falsita' insita nell'assegnare
a una determinata tradizione una pretesa priorita', nei fatti assolutamente
inverificabile, su tutte le altre. Per farla breve, non si finisce mai di
rendersi conto di quanto le culture siano sempre un'accozzaglia di discorsi
misti, eterogenei, perlopiu' contraddittori; in un certo senso non sono mai
cosi' tanto se stesse quanto nel momento in cui non sono solo se stesse,
ovvero quando non si trovino in quella condizione totalmente assertiva,
aggressiva e repellente cui sono piegate da figure autoritarie, dai mullah e
dai farisei del presente, che pretendono di parlare in nome di totalita', di
culture nella loro impossibile integrale unita'. Nei fatti nessuna di queste
affermazioni e di queste tesi e' plausibile e possibile, nonostante gli
sforzi e l'enorme massa di carta spesi a tal fine...

2. LIBRI. GIULIANA BENVENUTI PRESENTA "NEL SEGNO DELL'ESILIO" DI EDWARD SAID
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 luglio 2008 col titolo "Cronahce
dall'esilio. Gli stranieri domestici di Edward Said" e il sommario
"Pubblicato da Feltrinelli il volume dello studioso sulla figura
dell'intellettuale a partire dall'esperienza storica dello sradicamento.
Assieme alla puntuale critica dell'essenzialismo identitario che spesso
segna le pratiche teoriche e i movimenti nel Sud e nel Nord del mondo".
Giuliana Benvenuti, italianista, insegna e svolge attivita' di ricerca
al'Universita' di Bologna. Tra le opere di Giuliana Benvenuti: La cenere
lieve del vissuto. Il concetto di critica in Walter Benjamin, Bulzoni, Roma
1994; Il disinganno del cuore. Giacomo Leopardi tra malinconia e stoicismo,
Bulzoni, Roma 1998]

Come mostra la traduzione italiana di un volume che contiene saggi scritti
in trentacinque anni di attivita' (Nel segno dell'esilio. Riflessioni,
letture e altri saggi, Feltrinelli, pp. 655, euro 45), Edward Said ha fatto
dell'esilio il centro propulsore della propria attivita' intellettuale. E lo
ha fatto rifiutandone ogni possibile estetizzazione, ricordando che "i poeti
e gli scrittori esiliati attribuiscono dignita' ad una condizione che in
termini legislativi intende negare dignita' e identita' alla persona".
Mantenendo ferma l'attenzione alle specificita' geo-politiche dell'esilio,
Said si sofferma sulle potenzialita' insite in un'esperienza controversa e
drammatica, destinata, secondo l'indicazione deel filosofo tedesco Theodor
W. Adorno nei Minima Moralia, a universalizzarsi nell'epoca dei genocidi,
nella quale dev'essere posto il vincolo morale di non sentirsi a casa in
nessuna casa. L'esilio, per l'intellettuale, diventa allora una condizione
obbligata e nel contempo feconda, poiche' "l'esule sa che in un mondo
secolare e contingente le dimore sono sempre provvisorie". Sa che i confini
e le barriere che ci rinchiudono nella sicurezza del territorio familiare
possono anche diventare prigioni, e che sono spesso difese al di la' della
ragione o della necessita'. La condizione dell'esilio porta cosi' a una
"coscienza critica" consapevole delle differenze tra le diverse situazioni
che nessun sistema o nessuna teoria esauriscono la situazione dalla quale
emergono o nella quale sono trasposte.
*
Dissonanza dell'outsider
Edward Said traccia la figura di un intellettuale che non vuole scendere a
patti con il potere, che rimane ai margini del mainstream scegliendo di non
integrarsi, di non lasciarsi cooptare, di opporre resistenza. E la prima
resistenza che Said, figura intellettuale eccentrica nell'Accademia
statunitense, e' quella contro l'eccesso di teoria. Un eccesso che ha
caratterizzato il New Criticism, bersaglio polemico privilegiato di Said,
che continuamente ricorda nei suoi scritti l'assoluta necessita' di non
eclissare, nascondere, obliare l'esperienza.
L'esperienza, in primo luogo l'esperienza storica, e' il centro al quale
Said richiama la critica letteraria, che deve mettere in evidenza i nessi
tra sapere e potere a partire dal testo, ma anche dalle circostanze
materiali nelle quali il testo e' stato prodotto. Critico letterario contro
corrente, Said ha dimostrato con le proprie letture lo stato di continua
tensione che caratterizza una scrittura che presuppone, sollecita e pretende
una sorta di perpetua mobilita', di incessante interrogazione sulle
condizioni entro le quali la riflessione propria e altrui prende forma, che
pratica una "inarrestabile predilezione per le alternative".
Said insite sull'utilizzo in chiave metaforica, o anche "metafisica", del
termine esilio. Anche gli intellettuali che restano per l'intero corso della
loro vita membri di una societa' possono essere outsiders, praticare forme
di "dissonanza", di resistenza e dissenso. In questo senso ampio, l'esilio
significa per l'intellettuale irrequietezza, movimento, la sensazione di
essere dislocati altrove, disagio, mettendo a sua volta a disagio gli altri.
La marginalita' dell'esilio, che e' dunque non soltanto condizione reale, ma
anche scelta consapevole, porta con se' una carica di innovazione possibile,
diviene la base di una pratica intellettuale che nell'opera di Said trova i
propri modelli, accanto a Giambattista Vico e per fare soltanto qualche
altro esempio, in Thedor Adorno, C.L.R. James, Frantz Fanon, Noam Chomsky,
Michel Foucault, Jonathan Swift, Antonio Gramsci, Joseph Conrad, Aime'
Cesaire. E' una posizione che colloca l'intellettuale in sintonia con il
subalterno.
Essere, in senso metaforico e non, intellettuali in esilio, vuole dire
inoltre avversare e decostruire l'idea stessa di letteratura fondata sul
riconoscimento di un canone stabile di testi tramandati e posti a fondamento
dell'identita' nazionale. Significa praticare la critica quale luogo di
discussione e ridefinizione dell'identita' anche alla luce di una produzione
letteraria, quella della letteratura di migrazione, che vive nelle pieghe
della "doppia coscienza" ed e' portatrice di una "doppia prospettiva"
destinata ad incrinare la nostra percezione dei "classici" e a ricordarci
che occorre uscire dal "labirinto della testualita'".
*
Umanesimo esclusivo
Nella realta' contemporanea la tradizione dell'umanesimo europeo dimostra
cosi' di essere piu' esclusiva che inclusiva, svelandosi per cio' che e'
sempre stata, ovvero una frazione delle relazioni umane che si danno nel
mondo. Per questo, secondo Said, occorre procedere ad una demistificazione
di questo falso universalismo e preparare le condizioni di possibilita' di
un nuovo umanesimo. L'assunzione di questa prospettiva implica per un verso
una decostruzione del canone occidentale, per altro verso l'apertura negli
studi accademici verso cio' che e' prodotto al di fuori del canone. Ma
implica anche una critica serrata alla nozione di multiculturalismo dove la
costruzione di una immagine dell'altro si addensa attorno alle idee di
identita', cultura ed etnia e alla loro pretesa fissita': un'immagine che
sorge dalla convinzione diffusa che la capacita' di riconoscere la
differenza discenda dalla universalita' della cultura occidentale.
In Said, la figura dell'esule si contrappone quindi alla mistificante
semplificazione dell'essenzialismo identitario, indicando la potenzialita'
critico-distruttiva, ma anche felicemente creativa, del collocarsi tra
culture e identita' diverse, senza dimenticare la drammaticita' e la
tensione, finanche l'angoscia inscritte in questa stessa condizione. Ma,
soprattutto, la categoria che piu' ci soccorre nel mantenere aperta la
definizione del migrante, dell'esule, come di ogni altra "identita'", e'
proprio quella di coscienza critica, che altro non e' se non un'attitudine.
Un'attitudine, potremmo aggiungere, particolarmente in sintonia con una
disposizione accogliente nei confronti della differenza, almeno quanto
aspramente oppositiva verso il conformismo e aperta al riconoscimento dei
propri errori e fallimenti.
Poiche', secondo Said, l'idea di identita' nazionale e' stata portata al suo
massimo dispiegamento dall'imperialismo, occorre evidenziare come la nascita
di partiti indipendentisti e nazionalisti nel Terzo mondo e all'interno dei
paesi del Nord e del Sud America "rappresenti una risposta alla dominazione
politica e culturale dell'Occidente". Se nel nazionalismo antimperialista
della meta' del Novecento albergava una potente aggressivita' "nativista" e
una spinta violentemente separatista, a contraddistinguere i grandi
movimenti culturali e di liberazione era anche, per altro verso, una potente
istanza di liberazione e inclusione. Un nesso quest'ultimo, tra istanza
separatista e carica liberatoria e inclusiva che Said tenta di analizzare
nei saggi dedicati alle politiche del sapere, dove emerge il suo
ripensamento dell'umanesimo, quello che lo ha poi accompagnato nella stesura
del suo ultimo libro (Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, Il
Saggiatore, pp. 175, euro 16).
La convinzione che emerge dagli scritti raccolti in Nel segno dell'esilio e'
che possa darsi, una volta sgombrato il campo da un umanesimo occidentale
che si fonda su aspetti anti-universalistici, un linguaggio universalmente
umano, che si collochi oltre le rivendicazioni, necessarie in un primo
momento, e le politiche identitarie di matrice nazionalista proprie dei
movimenti indipendentisti e autonomisti che hanno dato origine ai nuovi
Stati.
*
Il paradosso del nazionalismo
Un aspetto che gia' Frantz Fanon aveva messo in luce, parlando di "trappola
della coscienza nazionale". Occorre, insomma, superare il paradosso iscritto
nel nazionalismo indipendentista, trasformando il nazionalismo in "coscienza
sociale" che superi ogni sorta di "separatismo autoreferenziale", muovendo
verso un'elaborata e compiuta coscienza di se', che non sostituisca "un set
di autorita' e dogmi con un altro, un centro con un altro". Per far questo
Said rivolge alla critica e all'impegno intellettuale l'appello a divenire
consapevoli che si deve considerare il processo culturale nella sua
globalita', tenendo sempre a mente che un impegno di questo tipo "coincide
con il lavoro intellettuale, che ha un carattere mondiale, che e' situato
nel mondo e concerne il mondo". Bisogna, allora, uscire dai gerghi tecnici e
specialistici, negare che i prodotti dell'agire umano possano essere "tanto
rari, limitati e al di la' della comprensione da escludere la maggior parte
degli altri popoli, delle esperienze, delle storie". Questo il senso di un
nuovo umanesimo piu' universale, fondato sulla critica della discriminazione
razziale, ma anche della rigida chiusura delle "identita' resistenti", nella
convinzione che "nessuna razza ha il monopolio della bellezza,
dell'intelligenza e della forza, e ci sara' un posto per tutti
all'appuntamento con la vittoria".

3. LIBRI. SANDRO MEZZADRA PRESENTA "NEL SEGNO DELL'ESILIO" DI EDWARD SAID
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 luglio 2008 col titolo "Pratiche di
resistenza" e il sommario "Prove d'autore nella germinale esperienza dello
sradicamento. Un'importante opera che pone le premesse per un nuovo e
fertile equilibrio tra estetica e teoria politica".
Sandro Mezzadra insegna storia del pensiero politico contemporaneo e studi
coloniali e postcoloniali al'Universita' di Bologna, e' membro della
redazione di "Filosofia politica" e di "Scienza & Politica"; i suoi
principali argomenti di ricerca sono la storia delle scienze dello Stato e
del diritto in Germania tra Otto e Novecento, la storia del marxismo, la
teoria critica della politica: globalizzazione, cittadinanza, movimenti
migratori, studi postcoloniali. Pubblicazioni principali: von Treitschke, La
liberta', Torino 1997 (cura e introduzione); La costituzione del sociale. Il
pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999;
Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre Corte,
Verona 2001, 2006; Marx, Antologia di scritti politici, Carocci, Roma 2002
(cura e introduzione, con Maurizio Ricciardi); Marshall, Cittadinanza e
classe sociale, Roma-Bari 2002 (cura e introduzione); (a cura di), I confini
della liberta'. Per una analisi politica delle migrazioni contemporanee,
DeriveApprodi, 2004; (con Carlo Galli, Edoardo Greblo), Il pensiero politico
del Novecento, Il Mulino, Bologna 2005; La condizione postcoloniale. Storia
e politica nel presente globale, Ombre corte, Verona 2008]

Dobbiamo dare credito a Edward Said. Sarebbe "un grave errore", scrive
nell'introduzione a Nel segno dell'esilio, "se dalla lettura di questo libro
si volesse estrarre un messaggio politico complessivo. Al contrario, gran
parte del materiale qui raccolto e' in contrasto con la politica, e si
colloca nell'ambito dell'estetica". Dipende tuttavia da che cosa si intende
con "messaggio politico complessivo": il grande critico palestinese,
nell'insieme di questi saggi scritti lungo l'arco di un trentennio, non
offre certo formule "ideologiche" o contributi programmatici alla
ricostruzione di un'agenda politica radicale. Mostra pero', che si occupi di
una danzatrice del ventre come Tahia Carioca o del Johnny Weissmuller di
Tarzan, che indugi sui testi del "suo" Conrad o che segua la maniacale
volonta' di "autoaffermazione ed estinzione" dell'Achab di Melville, il
formarsi di uno stile critico che sovverte il confine tra il campo estetico
e il campo politico.
L'estetica ci appare in fondo, nelle pagine di Said, come il dominio di
un'immaginazione e di una "fantasia" che nulla hanno di astratto: esplorare
i prodotti di quell'immaginazione e di quella fantasia ha sempre significato
per Said concentrarsi sulla trama complessa della fabbricazione del mondo in
cui viviamo. "Mondanita'", termine chiave nella riflessione di Said, indica
al tempo stesso l'oggetto a cui il suo lavoro e' dedicato e lo sguardo del
critico: uno specifico materialismo riottoso alla sintesi, debitore a Vico e
Auerbach e collocato all'interno di una genealogia "italiana" ("che da
Lucrezio arriva a Gramsci e a Lampedusa"), ha condotto l'autore di
Orientalismo a concentrarsi quasi ossessivamente sulla dimensione appunto
"mondana" dei testi e delle pratiche culturali costitutivi del "canone"
occidentale. A porne in evidenza - in un dialogo via via piu' fitto, e non
privo di punte polemiche, con Michel Foucault - l'intreccio indissolubile
con le logiche, i dispositivi e le tecnologie del potere (e in particolare
con "le geografie immaginative disegnate e quindi imposte dal potere su
terre e popoli lontani") ma anche a individuarne le fratture, i punti di
irruzione di voci e storie altre, le linee di fuga su cui, come in Moby
Dick, una determinata forma di potere "impazzisce" e si apre lo spazio in
cui l'immaginazione di un diverso modo di abitare il mondo diviene
possibile.
L'estetica torna cosi', nel lavoro di Said, ad aprirsi all'"esperienza
storica". Tra i due ambiti non si determina tuttavia, secondo le movenze di
un ingenuo "realismo", un rapporto di "rispecchiamento", ma piuttosto, per
riprendere un'espressione utilizzata dall'autore per definire il suo lavoro
di critico musicale, una sorta di "trans-fecondazione"; nuclei di
irriducibile materialita' si trovano depositati, ed e' compito del critico
portarli alla luce, in un insieme di testi e di pratiche culturali che ci
restituiscono al tempo stesso gli schemi generali, categoriali verrebbe da
dire, attraverso cui l'"esperienza storica" e' stata ordinata e prodotta.
Questo vale in particolare per la specifica esperienza che costituisce lo
sfondo generale dei saggi raccolti nel libro che qui presentiamo:
"l'esperienza dello sradicamento, dell'esilio, delle migrazioni e della
violenza dell'impero", ovvero quella "realta' bandita o rimossa che negli
ultimi due secoli ha regolato l'esistenza di una quantita' enorme di persone
in modi affatto diversi".
Formatosi e vissuto all'incrocio tra diversi mondi, Said ha lavorato a lungo
alla Columbia University, in quella New York che e' divenuta "la capitale
del nostro tempo" proprio in quanto "citta' di migranti e di esuli, in
permanente tensione con il centro simbolico (e per lo piu' reale)
dell'economia globalizzata del tardo capitalismo". Tra New York e la
Palestina prende forma la geografia dell'opera di Said: l'esperienza
dell'esilio la segna profondamente sotto lo stesso profilo biografico, ma
piu' in generale si imprime come una ferita aperta nella genealogia del
presente che Said costruisce attraverso il suo lavoro di critico. E continua
a costituire la cifra del presente: il nostro tempo, si legge in uno dei
saggi piu' densi e affascinanti raccolti nel volume (Riflessioni
sull'esilio), "e' il tempo dei rifugiati, dei profughi, dell'immigrazione di
massa".
Pensare l'unita' del mondo a partire da questa ferita, ricostruire la fitta
trama di intrecci e di scambi che rende caricaturale ogni discorso che
pretenda di parlare "in nome di totalita', di culture nella loro impossibile
integrale unita'" e assumerla come terreno su cui costruire un nuovo
universalismo e' il compito politico che Said ci lascia in eredita'.
Diffidente nei confronti del narcisismo che contraddistingue ogni "politica
dell'identita'", egli e' anche consapevole del fatto che, nella storia del
Novecento, "molti degli antidoti alla tragedia dello sradicamento si sono
rivelati altrettanto pericolosi di cio' a cui hanno tentato di porre
rimedio". La sua analisi mostra in fondo, soprattutto quando si sofferma sui
movimenti anticoloniali (entro un fitto dialogo con Cesaire e Tagore, con
Fanon e C.L.R. James) e sulla stessa questione palestinese, come in
particolare il nazionalismo sia piu' parte del problema che della soluzione.
E richiama l'attenzione sulla necessita' di immaginare una politica oltre lo
Stato, "nella misura in cui il suo culto tende a soppiantare ogni altra
forma di relazione umana". Non sara' un "messaggio politico complessivo": ma
e' forse qualcosa di politicamente piu' prezioso.

4. LIBRI. WLODEK GOLDKORN PRESENTA "ORIENTALISMO" DI EDWARD SAID
[Dal settimanale "L'Espresso", n. 48 del 6 dicembre 2007, col titolo
"L'Oriente immaginato".
Wlodek Goldkorn, polacco, intellettuale e giornalista, dopo aver lasciato la
Polonia nel 1968 da oltre trent'anni vive a Firenze; e' il responsabile del
settore cultura del settimanale "L'Espresso", di cui e' stato anche
corrispondente da New York; acuto saggista, si e' occupato di questioni
internazionali e di cultura; negli anni Ottanta e' stato il fondatore e
l'editore di riviste sull'Europa centrale e orientale, "L'ottavo giorno" e
"L'Europa ritrovata"; ha collaborato anche con varie altre riviste, tra cui
"Micromega", "Mondoperaio", "Limes", "Fine secolo". Opere di Wlodek
Goldkorn: Uscire dal ghetto, Reverdito, 1988; (con Rudi Assuntino), Il
guardiano. Marek Edelman racconta, Sellerio, 1998; (con Massimo Livi Bacci,
Mauro Martini), Civilta' dell'Europa orientale e del Mediterraneo, Longo,
2001; La scelta di Abramo. Identita' ebraiche e postmodernita', Bollati
Boringhieri, 2006]

Edward Said, l'autore di Orientalismo, era un uomo di confine, uno dei piu'
importanti e sofisticati intellettuali del XX secolo, una persona dotata di
uno sguardo doppio: capace di osservare la stessa cosa "da dentro e da
fuori" al contempo. Era nato in Palestina, ai tempi dei britannici,
cristiano protestante (apparteneva a una minoranza quindi), e' diventato
americano, professore alla Columbia University. Ufficialmente teorico e
storico di letteratura inglese, Said nei fatti era un influente maestro di
pensiero, ma anche formidabile polemista, sempre capace di rovesciare il
punto di vista comune, mai propenso ad accettare l'opinione che sembra cosi'
ovvia da essere considerata un "fatto".
Questa premessa e' indispensabile per capire che cosa e' Orientalismo. In
apparenza si tratta di un testo su come l'Occidente (colonialista) abbia
inventato un'immagine dell'Oriente, soprattutto degli arabi e dell'Islam,
consona ai propri valori e pregiudizi, ma falsa in sostanza. Cosi', in
questo formidabile libro si citano i classici dei viaggi verso Oriente: da
Chateaubriand a Nerval a Flaubert a Kipling; si parla dei teorici del
colonialismo britannico come Balfour, si raccontano gli scritti di Renan. In
realta' l'ambizione di Said, quando piu' di una trentina di anni fa si e'
messo a lavorare su questo libro era ben altra. Said (ed ecco il tratto
biografico intrecciato nel testo) voleva demolire l'idea stessa di
un'identita' data, naturale, innata, immobile. L'identita' e' sempre una
costruzione artificiale, dice in questo lavoro pionieristico che prima ha
suscitato polemiche poi e' stato tradotto in decine di lingue (in Svezia e'
stato un bestseller assoluto), per diventare infine un classico. E per
riuscire nell'impresa dell'invenzione dell'identita', occorre creare un suo
opposto. L'opposto dell'Occidente, razionale, virile, giovanile, organizzato
secondo i principi gerarchici, e' l'Oriente: regno dei sogni, degli inganni,
delle doppie verita'. Per mantenere l'immagine giovanile e dinamica
dell'Occidente, i britannici facevano rientrare in patria gli alti
funzionari delle colonie quando questi compivano i 55 anni. Ogni epoca,
insomma, dice Said, si crea i "propri altri", funzionali ad affermare la
propria egemonia culturale. Said usava spesso questa categoria di Gramsci e
lo indicava come uno dei suoi maestri. L'egemonia culturale si accompagna
(per Said) con l'idea che il sapere "oggettivo" e classificatorio sia lo
strumento con cui l'Occidente ha dominato l'Oriente. Da radicale qual era,
Said diceva invece: Oriente e Occidente non esistono, sono solo prodotto
mutabile e provvisorio della nostra cultura. Da tutto questo e' facile
capire quanto Said fosse nemico dei fondamentalisti islamici. Il suo testo
e' pure una critica devastante del loro immaginario.
Questo era l'uomo (scomparso per un tumore nel 2003 a New York) e questo e'
il libro. Ma di Said non si puo' parlare senza citare la sua amicizia con
Daniel Barenboim, direttore d'orchestra ebreo e israeliano, e le sue prese
di posizioni politiche, anch'esse sempre controcorrente. Agli arabi diceva
che dovevano capire cosa era la Shoah. Agli israeliani spiegava che dovevano
riconoscere il dramma dei profughi e che lui (profugo), per come era fatto e
per come pensava, era anche un "ebreo palestinese", un senza patria, o forse
un uomo di molteplici identita'.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 202 del 15 luglio 2008

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