La domenica della nonviolenza. 161



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 161 del 27 aprile 2008

In questo numero:
1. Nadine Gordimer: Rileggere Tolstoj (2003)
2. Nadine Gordimer: La paura (2003)
3. Nadine Gordimer: L'informazione vittima della guerra (2003)
4. Nadine Gordimer: Musei (2003)
5. Nadine Gordimer: Ventuno scrittori contro l'Aids (2004)

1. MAESTRE. NADINE GORDIMER: RILEGGERE TOLSTOJ (2003)
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 21 febbraio 2003, col titolo "Rileggere
Tolstoj ai tempi del rais".
Nadine Gordimer e' una delle piu' grandi scrittrici contemporanee,
sudafricana, impegnata contro l'apartheid, Premio Nobel per la letteratura.
Opere di Nadine Gordimer: oltre i suoi numerosi volumi di racconti e romanzi
(tra cui: Un mondo di stranieri, Occasione d'amore, Il mondo tardoborghese,
Un ospite d'onore, La figlia di Burger, Luglio, Qualcosa la' fuori, Storia
di mio figlio, Un'arma in casa, Occasione d'amore, L'aggancio, Sveglia!, Il
salto, Beethoven era per un sedicesimo nero, tutti presso Feltrinelli; Il
bacio del soldato, presso La Tartaruga) segnaliamo Vivere nell'interregno,
Feltrinelli, Milano 1990; Scrivere ed essere, Feltrinelli, Milano 1996;
Vivere nella speranza e nella storia. Note dal nostro secolo, Feltrinelli,
MIlano 1999; Scrivere e' vivere. Scritti e interviste, Datanews, Milano
2007. Opere su Nadine Gordimer: AA. VV., Nadine Gordimer: a bibliography of
primary and secondary sources, 1937-1992, Hans Zell, London 1994. Dalla
Wikipedia, edizione italiana, riprendiamo per stralci la seguente scheda:
"Nadine Gordimer (Johannesburg, 20 novembre 1923) e' una scrittrice
sudafricana, autrice di romanzi e saggi, vincitrice del Booker Prize nel
1974 e del Premio Nobel per la letteratura nel 1991. Nel gennaio 2007 le
viene assegnato il Premio Grinzane Cavour per la Lettura. Nasce a Springs,
centro minerario nell'area urbana a est di Johannesburg (East Rand) nella
provincia del Gauteng, da Isidore e Nan Gordimer. I suoi genitori sono
entrambi immigranti ebrei: il padre si era trasferito in Sudafrica dalla
Lettonia, la madre da Londra. Vive a Johannesburg... La madre la spinge sin
da piccola a leggere e a interessarsi al mondo che la circonda: comincia
cosi' a scoprire il razzismo di cui e' permeata la societa' in cui vive. Si
iscrive alla University of Witwatersrand... qui tocca con mano le barriere
esistenti fra i giovani studenti bianchi e i neri anche nell'istruzione
universitaria. In questi anni entra in contatto con l'African National
Congress e inizia la sua lotta contro la discriminazione razziale. Negli
anni '60 e '70 insegna in alcune universita' degli Stati Uniti. Si batte
contro l'apartheid. Molte delle sue opere affrontano la questione delle
tensioni morali e psicologiche dovute alla segregazione razziale in atto
nella sua patria. La sua prima pubblicazione e' un breve racconto per
bambini, The Quest for Seen Gold, apparso sul "Children's Sunday Express"
nel 1937. La sua prima raccolta, Face to Face (Faccia a faccia), e'
pubblicata nel 1949. Il primo romanzo The Lying Days, e' pubblicato nel
1953. Fra i membri fondatori del Congress of South African Writers, Nadine
Gordimer e' stata premiata con numerosi titoli onorifici... Bibliografia: a)
Romanzi: The Lying Days (I giorni della menzogna) (1953); A World of
Strangers (Un mondo di stranieri) (1958); Occasion for Loving (Occasione
d'amore) (1963); The Late Bourgeois World (Il mondo tardoborghese) (1966); A
Guest of Honour (Un ospite d'onore) (1970); The Conservationist (Il
conservatore) (1974), vincitore del Booker prize nel 1974; Burger's Daughter
(La figlia di Burger) (1979); July's People (Luglio) (1981); A Sport of
Nature (Una forza della natura) (1987); My Son's Story (Storia di mio
figlio) (1990); None to Accompany Me (Nessuno al mio fianco) (1994); The
House Gun (Un'arma in casa) (1998); The Pickup (L'aggancio) (2001); Get a
Life (2005); b) Raccolte di racconti: Face to Face (Faccia a faccia) (1949);
Town and Country Lovers; The Soft Voice of the Serpent (La voce soave del
serpente) (1952); Six feet of the Country (1956); Not for Publication
(1965); Livingstone's Companions (I compagni di Livingstone) (1970);
Selected Stories (1975); No Place Like: Selected Stories (1978); A Soldier's
Embrace (1980); Something Out There (Qualcosa la' fuori) (1984);
Correspondence Course and other Stories (1984); The Moment Before the Gun
Went Off (1988); Jump: And Other Stories (Il salto) (1991); Why Haven't You
Written: Selected Stories 1950-1972 (1992); Loot: And Other Stories (2003);
c) Teatro: The First Circle (1949) pub. in Six One-Act Plays; d) Saggi: The
Essential Gesture (1988); The Black Interpreters (1973); Writing and Being
(Scrivere ed essere. Lezioni di poetica) (1995); e) Altre opere: On the
Mines (1973); Lifetimes under Apartheid (1986)".
Lev Tolstoj, nato nel 1828 e scomparso nel 1910, non solo grandissimo
scrittore, ma anche educatore e riformatore religioso e sociale,
propugnatore della nonviolenza. Opere di Lev Tolstoj: tralasciando qui le
opere letterarie (ma cfr. almeno Tutti i romanzi, Sansoni, Firenze 1967; e
Tutti i racconti, Mondadori, Milano 1991, 2005), della gigantesca
pubblicistica tolstojana segnaliamo particolarmente almeno Quale scuola,
Emme, Milano 1975, Mondadori, Milano 1978; La confessione, SE, Milano 1995;
Perche' la gente si droga? e altri saggio su societa', politica, religione,
Mondadori, Milano 1988; Il regno di Dio e' in voi, Bocca, Roma 1894, poi
Publiprint-Manca, Trento-Genova 1988; La legge della violenza e la legge
dell'amore, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 1998; La vera vita,
Manca, Genova 1991; l'antologia Tolstoj verde, Manca, Genova 1990. Opere su
Lev Tolstoj: dal nostro punto di vista segnaliamo particolarmente Pier
Cesare Bori, Gianni Sofri, Gandhi e Tolstoj, Il Mulino, Bologna 1985; Pier
Cesare Bori, Tolstoj, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole
(Fi) 1991; Pier Cesare Bori, L'altro Tolstoj, Il Mulino, Bologna 1995; Amici
di Tolstoi (a cura di), Tolstoi il profeta, Il segno dei Gabrielli, S.
Pietro in Cariano (Vr) 2000]

Arriva un momento in una vita di letture in cui ti accorgi di avere sugli
scaffali libri che forse non rileggerai mai. Libri che un tempo hanno
cambiato il tuo senso dell'esistenza. Che ti hanno aperto gli occhi, il
contesto della tua consapevolezza nel mondo. Proponendo la letteratura
dell'immaginazione come verita' al di la' della portata dei resoconti
storici, ho ripetuto spesso: "Per sapere della famosa ritirata da Mosca di
Napoleone, bisogna leggere Guerra e pace, non un libro di storia".
Oggi davanti al monumentale volume consunto di Guerra e pace mi chiedo
quando e' stata l'ultima volta che l'ho letto e se mai tornero' a leggerlo.
L'ho fatto. E capisco che come scopriamo nuovi significati nelle situazioni
ricorrenti nella nostra vita, cosi' ogni volta che rileggiamo un grande
libro scopriamo qualcosa che ci era sfuggito perche' noi e quel primo
momento non eravamo pronti a coglierlo: un messaggio nascosto per questo
particolare presente. Non e' l'interpretazione ardita e sottile dei
conflitti personali a rendere contemporaneo questo romanzo scritto 139 anni
fa. E' la sorprendente preveggenza della natura della violenza senza fine,
continuamente utilizzata in modo confuso e disperato per risolvere i
problemi umani tra popoli e nazioni, moltiplicandoli attraverso i secoli.
Il conte Lev Nikolaevic Tolstoj nacque nel 1828 e il romanzo fu pubblicato
nel 1864. Copre l'arco temporale delle campagne napoleoniche in Russia dal
1805 al 1812. Avvenimenti accaduti prima che l'autore nascesse.
Tolstoj non scriveva della sua epoca e io non leggo della mia. Ci accomuna
il fatto che illuminiamo, ciascuno la propria epoca, con segni premonitori
del presente contenuti nel passato. A 52 anni di distanza per lui, 191 per
me, nel 2003. Lo splendore del racconto parte dai saloni della buona
societa' intorno allo zar Alessandro I, con gli intrighi d'amore, e il suo
concomitante potere contrattuale in denaro e titoli nobiliari, per arrivare
ai campi di battaglia dove nulla di tutto cio' conta piu' in mezzo alla
neve, alla sofferenza, alla fame e alla morte. I temi si intersecano, i
personaggi fittizi si mescolano a quelli storici, le chiacchiere inventate
con autentici dispacci militari. Tolstoj era un post-modernista quasi due
secoli fa. Il suo romanzo si appropriava in modo geniale di qualunque cosa
avesse bisogno: la vita stessa e' incongruenza.
Tra i personaggi che emergono dai saloni delle feste, Pierre Bezuchov e' per
me il piu' straordinariamente attuale. Ricco, porta il titolo di conte anche
se grazie alla relazione extraconiugale di un nobiluomo. Educato all'estero
non ha particolari ambizioni di carriera. Fa a sua volta un matrimonio
sbagliato innamorandosi della femme fatale Helen. La scelta del nome e' un
tocco dell'umorismo ironico di Tolstoj.
Elena e' infedele e da qui inizia cio' che era latente nel personaggio di
Pierre, la vita interrogata alla ricerca di un significato esistenziale.
Prova con la massoneria (negli anni '60 sarebbe sceso in strada a pieni nudi
a cantare Hare Krishna). Prova a fare opera di bene tra i contadini schiavi,
il disinganno rispetto al materialismo e' presagio delle insoddisfazioni dei
benestanti che sniffano ecstasy nel nostro millennio di grandi ricchezze e
di piu' grande poverta'.
Per Pierre la guerra contro l'invasione della Russia da parte di Napoleone
fu la salvezza. Dapprima prigioniero dei francesi, poi lacero e affamato tra
le rovine di Mosca, scopre tra i suoi compagni di sventura che la felicita'
nella vita e' la voglia stessa di vivere.
Tolstoj mette in discussione l'atteggiamento di attribuire la causa degli
eventi catastrofici ad un singolo individuo simbolo. Un Napoleone, un
Hitler... ora per noi un Bin Laden, un Saddam Hussein. "Riguardo a quale sia
la vera causa degli avvenimenti storici... il corso del mondo dipende dalla
coincidenza delle volonta' di tutti gli interessati...". Il mondo, nel 1812,
era fatto come lo facevano i suoi popoli, non Napoleone o Alessandro I,
cosi' come il nostro e' cio' che ne facciamo e ne faremo.
L'inutilita' delle vittorie ottenute con la violenza e' evidente quando
Napoleone si ritira da Mosca e i contadini russi arrivano dalla campagna a
saccheggiare i beni della loro stessa gente. E' evidente quando assistiamo
allo stesso spaventoso crollo morale in Congo, Costa d'Avorio, Kosovo,
Burundi, ogni mese da qualche parte nuova. Nel giorno in cui 80.000 uomini,
russi e francesi, vennero uccisi a Borodino, "Napoleone non sparo' un colpo
ne' uccise un uomo". Non e' la vecchia realta' di fatto che i capi se ne
stanno al sicuro e mandano l'uomo della strada ad uccidere o ad essere
ucciso. Tolstoj vuol dire (al di la' del tempo e del mutare delle
circostanze, i giorni dell'impero diventano i nostri giorni della
globalizzazione) che come individui portiamo il peso della responsabilita'
del nostro mondo, che crea politici e leader messianici emblematici i quali
ci trascinano nel caos e sono profezia della nostra stessa corruzione.
Rileggere il romanzo di Tolstoj significa accorgersi che non viviamo un
coraggioso nuovo millennio quanto un epilogo di cio' che quel libro rivela
dell'assurda continua sofferenza e depravazione della violenza intesa come
condizione inumana.

2. MAESTRE. NADINE GORDIMER: LA PAURA (2003)
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 30 marzo 2003, col titolo "Quella paura
che ci unisce"]

Esiste uno stato d'animo mondiale? Di certo un fenomeno simile si e'
manifestato nelle scorse settimane, eccetto, forse, in qualche enclave
isolata dalla natura, ammesso che la foresta impenetrabile e i ghiacci
impraticabili non siano stati alla fine invasi dall'informatica. Dopo le
guerre non era insolito imbattersi in persone vissute in isolamento in
luoghi remoti, del tutto ignare del conflitto. Il nostro mondo non e' mai
stato tanto informato. La consapevolezza di una guerra che vede contrapposte
la potenza dominante tra le nazioni ed un potere di amorfa potenzialita'
(chi sa per certo quali forze si uniranno in solidarieta' religiosa) ha
rappresentato un permeante cambiamento del clima globale che tutti abbiamo
respirato.
Sul preteso problema delle armi di distruzione di massa emergono numerose
reazioni: rabbia, bellicosita', scetticismo, sacro furore da parte dei
fedeli della democrazia e dei fedeli dell'Islam.
Tra i nemici che temono gas venefici e infezioni occulte (il gas non
esplodera' anche sopra a chi lo lancia, i morbi non infetteranno anche chi
li diffonde?) c'e' un miasma di quel clima da cui nessun indumento speciale,
maschera o protezione di plastica potra' difenderci. La paura. Inconfessata,
condivisa da amici e nemici anche quando null'altro lo e'.
Si cerca una qualche saggezza nelle altrui meditazioni sulla paura. Ecco
l'euforia del discorso di investitura di Franklin Delano Roosevelt del 1933.
Era forse la salita al potere di Hitler, cosi' europeo e lontano, che
Roosevelt aveva in mente quando pronuncio' queste parole: "Lasciate che
esprima la ferma convinzione che l'unica cosa di cui dobbiamo aver paura e'
la paura stessa". Suona insulso oggi, dopo le nuove forme di sterminio umano
che da allora abbiamo scoperto per noi.
La paura puo' rivelarsi una risorsa positiva? Ricordate il vecchio adagio
"La paura e' la miglior difesa". Ma un'affermazione del genere suscitera'
obiezioni morali, giustifica la vigliaccheria, rifuggendo dal dovere di
difendere i valori in possesso della nostra societa'.
Tucidide fu il primo filosofo che studiai da adolescente. E' naturale che
oggi ritorni a lui e trovi in un vecchio quaderno un'altra interpretazione
del fenomeno della paura. "Che la guerra sia un male e' noto a tutti e non
avrebbe scopo continuare ad elencare tutti gli svantaggi insiti in essa.
Nessuno e' costretto alla guerra dall'ignoranza, ne', ove creda di poterne
trar vantaggio, gli e' di freno la paura".
Le proteste di massa contro la guerra in Iraq condotta dagli Usa nascono dal
convincimento che il vantaggio, portato dalla guerra, di avere il controllo
dei giacimenti petroliferi secondi nel mondo, non e' "frenato" dalla paura
che migliaia di persone "agli ordini del nemico" saranno uccise e che ai
sacchi che sigillano i cadaveri di virtuosi giovani vincitori non servira'
mai piu' carburante.
"La paura ha molti occhi e puo' vedere sottoterra", osserva Cervantes. La
paura di cio' che sta accadendo - ne abbiamo nelle orecchie il rombo - non
e' forse iniziata dentro di noi quando l'11 settembre 2001, ha sepolto
l'invincibilita'?
Se il tempo appartiene ad un piano dell'esistenza che i grandi scrittori a
volte riescono a penetrare, non anticipa forse Ground Zero T. S. Eliot
quando scrive, nel lontano 1922: "E vi mostrero' una cosa diversa da tutte/
la vostra ombra al mattino che vi cammina alle spalle/ o la vostra ombra la
sera che sale a incontrarvi;/ vi mostrero' la paura in un pugno di polvere".
Faccio parte di quelli che vivono lontani dal terribile rischio di attacchi
e rappresaglie attraverso gli oceani e i cieli. Ma non mi trovo fuori dal
mondo, in un'enclave isolata ormai inesistente. E al pari di molti che
vivono distanti dai continenti di battaglia, ho tuttavia in gioco una posta
personale in questa guerra: qualcuno che mi e' molto caro abita con la sua
giovane famiglia nel cuore vulnerabile di New York.
Mi racconta che la scuola dei suoi figli ha comunicato ai genitori di aver
attrezzato a rifugio il seminterrato con scorte d'acqua e un sistema di
ventilazione in grado di impedire l'ingresso di sostanze tossiche. C'e'
gente, dice, che ha fatto i bagagli e ha lasciato la citta', ovvio bersaglio
di violenza, diretta o insidiosa.
Andarsene significa cedere terreno a chi minaccia? O e' una scelta razionale
per chi puo' permettersi di assentarsi dal posto di lavoro e ha dove andare:
da qualche parte al sicuro.
Al sicuro. Chi puo' dire quale e dove sia il luogo fuori dalla gittata delle
armi non convenzionali che, ci dicono, provengono dai laboratori, non dagli
arsenali?
Che cosa pensi di fare? Gli chiedo.
Mi ricorda allora: "Che cosa avete fatto tu e quelli come te durante i
periodi difficili dell'apartheid, quando incombeva il pericolo di essere
arrestati dalla polizia politica o che un fanatico di destra piazzasse una
bomba per farti saltare in aria sulla tua auto?".
Continuato a fare una vita normale.
I pericoli sono relativi, oltre il tempo e la distanza. La paura e'
relativa, sia che minacci una moltitudine che una singola vita, ma esige
sempre la stessa risposta: un si' o un no. Arrendervisi intimamente o
rifiutare di subirne il logorio, paura che divora l'anima.

3. MAESTRE. NADINE GORDIMER: L'INFORMAZIONE VITTIMA DELLA GUERRA (2003)
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 17 aprile 2003, col titolo
"L'informazione vittima della guerra"]

E ricomincia il solito spossante, doloroso viaggio di ritorno alla civilta',
accanto ai cadaveri in putrefazione, attraverso le rovine, in compagnia di
affamati, senzatetto, senza lavoro, aggrappati alle povere cose che restano
dei loro averi.
Lo abbiamo appena fatto un'altra volta. Naturalmente esistono dei distinguo
nel distribuire la responsabilita'. Saddam Hussein ha orgogliosamente
rivendicato per se' l'appartenenza ad una razza che abbiamo allevato nel
secolo scorso. Convinto della missione - proclamata con la chiarezza
adamantina che fu di Hitler - di condurre una propria guerra santa, una
jihad, contro le forze giudaico-cristiane intenzionate a conquistare il
mondo dell'Islam.
Anche George W. Bush ha dichiarato la sua guerra santa, una crociata
riveduta e corretta per portare democrazia in cambio di petrolio. Uno zio
Sam/San Giorgio che atterrisce il mondo prospettando un drago che non sputa
fuoco ma armi chimiche di distruzione di massa.
In un'epoca in cui l'informazione, grazie alla tecnologia, ha una diffusione
incalcolabile, mai raggiunta in passato, questa guerra e' stata la piu'
confusa su cui siamo mai stati mal informati.
Per definire i giornalisti al seguito delle truppe in azione si e' scelto il
piu' infelice degli aggettivi, embedded, che suona a conferma delle accuse
secondo cui avrebbero diviso il letto con le forze alleate, e non avrebbero
trasmesso nulla piu' del consentito, in barba ai mezzi sofisticati a loro
disposizione. I giornalisti che non frequentano letti, fanno notare con
grande franchezza che non c'e' modo di avvicinarsi alla realta' di una
guerra se non si gode della protezione, quale che sia, di uno o dell'altro
protagonista.
C'e' poi il gioco di specchi. Forse nessuno sapra' mai se Saddam e' davvero
morto o mai ci credera'. Il rais sara' mitizzato, insieme alla primula rossa
di Al Qaeda, Osama bin Laden. Quanti gli iracheni uccisi? Quanti i caduti
britannici e americani? Se lo chiedete ai giornalisti embedded, che
rischiano la vita sotto il fuoco incrociato e le bombe, otterrete dati
scelti, passati loro dalle forze alleate. I portavoce iracheni hanno sempre
fornito cifre diverse.
Tutto questo, l¥orrore di questo, e' opera di due uomini investiti di un
tremendo potere? Uso il termine "investiti" perche' allude specificamente
alla responsabilita' che ricade sul resto di noi, che ci sentiamo impotenti
di fronte al ripetersi di queste guerre. Sono gli iracheni che, per
generazioni, attraverso le occupazioni straniere, attraverso l'ascesa e la
caduta di regimi, hanno investito, voluto o accettato un Saddam Hussein nel
ruolo di tutore delle loro vite. E' il popolo degli Stati Uniti che ha
investito George W. Bush del potere di farsi carico di quelle americane.
Ormai questo non avviene piu' attraverso il voto, ma per mancato voto. I
leader sono creazione della psiche nazionale, prodotto delle credenze
religiose dei popoli, del sistema giuridico, delle strutture sociali,
dell'etica finanziaria, degli usi e dei costumi, delle ambizioni e delle
frustrazioni, e del relativo approccio su base pubblica e personale - e' da
questo, dal nostro Dna sociopolitico che nascono i leader. Oltre l'abisso
tra ricchi e poveri, dobbiamo guardare in noi stessi per cercare di capire
il motivo del nostro sentirci impotenti di fronte alla distruzione sfrenata.
Quando la smetteremo di dire "mai piu'" - fino alla prossima volta?

4. MAESTRE. NADINE GORDIMER: MUSEI (2003)
[Dal quotidiano "La Repubblica" dell'8 maggio 2003, col titolo "A cosa
servono i musei sugli orrori della Storia"]

Come tutti i testimoni indiretti delle azioni umane i visitatori reagiscono
in modi diversi alle esposizioni dedicate agli orrori perpetrati nel
passato.
Nel 1993 fu inaugurato a Washington il Museo dell'Olocausto, seguito nel
2001 dal Museo dell'apartheid di Johannesburg e dal Museo ebraico di
Berlino. Benche' nessuno sollevi dubbi sulla necessita' di istituzioni
simili per confrontarci con un passato tuttora vivo nella memoria di molti,
tutti e tre i musei, sia negli aspetti che li accomunano che nelle
rispettive specificita', sono fatti oggetto di critica. Noi visitatori siamo
spettatori a distanza di tempo e di spazio, secondo un processo denominato
prospettiva.
Al fine di analizzare queste critiche credo si debba innanzitutto tenere in
considerazione come il termine "olocausto" abbia perduto il suo significato
originale, discostandosi ormai dalla definizione del dizionario: genocidio
intenzionale. Oggi qualunque genere di massacro tra opposte fazioni o
nazioni viene riferito come "olocausto", anche quando la violenza e' tesa a
sopraffare gli altri, non a cancellarli dalla faccia della terra.
Sorge a questo punto il dubbio che i limiti posti dalla vecchia definizione
siano corretti, ne sono esempio dimostrabile le differenze tra i tre musei.
Il museo di Washington illustra un Olocausto, l'intenzione di uccidere tutti
gli ebrei in Germania e nei paesi da essa occupati.
I musei di Berlino e Johannesburg condividono un doppio obiettivo correlato,
ma diverso: il Museo ebraico narra la storia politica e culturale degli
ebrei in Germania prima che i nazisti scatenassero la campagna di sterminio,
nonche' l'esperienza di quel tempo. Il Museo dell'apartheid ricrea il
background pre-coloniale, il periodo dei primi insediamenti bianchi,
l'effetto sugli africani dello sfruttamento, dell'industrializzazione, della
perdita delle terre e si focalizza sull'assoggettamento politico della
popolazione nera e sulle sue lotte per ottenere infine la liberta'.
Il significato attuale di "olocausto" non si estende forse a ogni tentativo,
con qualsivoglia mezzo condotto, di soffocare il diritto di un popolo a
vivere libero da discriminazione e oppressione?
Una critica spesso rivolta al museo americano e' di non inglobare
l'esperienza di tutte le vittime dell'Olocausto, sei milioni di ebrei,
cinque milioni di attivisti antinazisti, omosessuali, zingari, ed altri. A
tale obiezione si controbatte che l'olocausto confessato dai nazisti
rappresentava il culmine di un unico processo di persecuzione in atto contro
gli ebrei da duemila anni. L'odore delle scarpe delle vittime dei forni,
reliquie del museo, tuttora percettibile, ci dona forse un'indistinta,
sinistra consapevolezza di quello che significa genocidio.
*
Per me l'aspetto piu' impressionante del Museo ebraico di Berlino e' dato
dall'impatto dell'architettura di Daniel Libeskind, una sorta di pugno nello
stomaco (non mi sorprende che New York abbia scelto il suo progetto per
l'area del World trade center). L'edificio che ospita il museo e' un
oltraggio in se', l'oltraggio del tormento, della reclusione, la
persecuzione dei muri, materiale e ideologica.
Per diciotto mesi dall'inaugurazione il Museo ebraico venne lasciato vuoto.
Alcuni sostengono che avrebbe dovuto restare cosi', un enunciato. L'ho
visitato dopo che era stato riempito di opere che si sforzano di ricreare la
vita, la cultura e le convinzioni degli ebrei tedeschi dal medioevo in poi,
e anche piu' indietro nel tempo. I critici hanno avuto la mano pesante: il
museo crea "un'estetica da Disney World", e' "un gigantesco malinteso... un
fallimento... semplicistico".
Si puo' tuttavia dimostrare l'onesta' dell'esposizione nell'approccio alla
scomoda realta' di fatto rappresentata dai tentativi di integrazione da
parte degli ebrei tedeschi nel XIX secolo e agli inizi del XX, nonche'
relativamente ai ragguardevoli contributi offerti alla vita culturale
tedesca, che subirono un'emorragia sotto la persecuzione nazista,
soprattutto a vantaggio degli Stati Uniti.
Vi sono esposti l'albero di natale ebraico tedesco e la bacinella d'argento
e la brocca di cui si era provvista una famiglia molto in vista che tento'
disperatamente di premunirsi contro il destino incombente facendo battezzare
cristiani alcuni dei figli, mentre gli altri restarono ebrei.
I documenti e le fotografie dell'Olocausto in mostra a Berlino sono in
qualche modo piu' personali rispetto alle prove conservate nel museo di
Washington. Alcuni critici suggeriscono che la testimonianza resa dai
defunti dovrebbe essere completata da un resoconto della vita degli ebrei
tedeschi ai tempi della diaspora. A quanto sembra un ampliamento del genere
e' gia' in programma.
*
All'origine del Museo dell'apartheid di Johannesburg c'e' un appalto per un
casino'. Fu stabilito che la licenza sarebbe stata assegnata a condizione
che il complesso dedicato al divertimento inglobasse un progetto di
"responsabilita' sociale". Il fatto che il museo sorga nella stessa area che
ospita un gigantesco ottovolante offende la sensibilita' di chi, come me,
trova tutto questo lesivo della dignita' della lotta per la liberta' del Sud
Africa, ma la realta' e' che noi, il governo di maggioranza dell'African
National Congress e i movimenti politici cui facciamo capo, pur avendone
sempre parlato non siamo mai riusciti a realizzare un museo dell'apartheid.
Volte le spalle al casino', l'edificio che ospita il museo, opera di
architetti sudafricani, produce un impatto simile all'architettura di
Libeskind, e richiama in effetti il nazismo e l'apartheid, accoppiando a
ragione due forme di duro razzismo.
All'ingresso si acquista un tesserino di plastica che, se sei bianco,
certifica che sei nero e, se sei nero, ti etichetta come bianco. Si entra
poi in due spazi adiacenti separati, in cui il nero sperimenta i privilegi
dell'essere bianco e il bianco la discriminazione dell'essere nero.
Il percorso all'interno del museo e' tutto basato su questa evidente
tematica, con la documentazione, il vocabolario della discriminazione in
tutta la sua crudezza e crudelta'. L'enfasi finale pero' e' posta sulla
resistenza, i movimenti di liberazione e i loro eroi.
Infuriano le critiche su chi e che cosa non vi trova posto. Alcuni hanno
l'impressione che l'esposizione si concentri sul ruolo avuto dall'African
National Congress nella liberazione benche' esistesse un'alleanza tra Anc e
il South African Indian Congress e il South African Communist Party. I
liberali bianchi lamentano di essere ignorati, il Pan African Congress
giudica che il proprio ruolo nella liberazione venga sottovalutato. Un
videoclip elenca volti e nomi, azioni, scomparsi, decessi.
Quale l'intento di un museo simile? E' comunemente accettato che il
confronto con la colossale inumanita' del passato ci portera' a non essere
mai piu' parte in causa di cio' di cui siamo testimoni. Non accadra' mai
piu'.
Ma mentre ci confrontiamo con il passato, in certi luoghi del nostro mondo
globalizzato la colossale inumanita' si e' ripresentata e si ripresenta:
dalle pulizie etniche in Bosnia al genocidio tribale in Ruanda, alla
devastazione di vite nel conflitto tra cristiani e musulmani in Costa
d'Avorio, alla distruzione di vite palestinesi da parte di Israele e di vite
israeliane per mano di terroristi suicidi palestinesi.
Nel 1995 lo scrittore Philip Gouratvich raccolse questo commento di un
visitatore del Museo dell'Olocausto di Washington: "Siamo al corrente delle
atrocita' che accadono nel mondo in questo preciso istante, e che cosa
facciamo? Ce ne stiamo seduti in un museo".
E li' siamo ancora, otto anni dopo.

5. MAESTRE. NADINE GORDIMER: VENTUNO SCRITTORI CONTRO L'AIDS (2004)
[Dal quotidiano "La Repubblica" del primo dicembre 2004, col titolo "Anche
noi scrittori in trincea contro l'Aids" e il sommario "Nadine Gordimer
presenta Telling Tales. Ventuno scrittori contro l'Aids. Cinque di questi
scrittori sono Premi Nobel, e i ricavati del libro verrano totalmente
devoluti in beneficenza. Presentando l'iniziativa a Johannesburg la
settimana scorsa, Nadine Gordimer ha spiegato che da tempo pensava a un
progetto editoriale che potesse contribuire alla lotta contro l'Aids. Ha
quindi chiamato a raccolta scrittori, intellettuali e amici come Margaret
Atwood, Gabriel Garcia Marquez, Gunter Grass, Kenzaburo Oe, Jose' Saramago,
Woody Allen, Susan Sontag, Amos Oz e molti altri. Il libro, che uscira' per
Feltrinelli nel 2005, e' stato presentato il 30 novembre 2004, alle Nazioni
Unite - alla vigilia della giornata mondiale dell'Aids - da Kofi Annan".
Come annunciato, il libro ideato e curato da Nadine Gordimer e' stato
successivamente pubblicato anche in Italia col titolo Storie, Feltrinelli,
Milano 2005. Il libro, aperto dall'introduzione di Nadine Gordimer, contiene
racconti di Arthur Miller, Jose' Saramago, Es'kia Mphahlele, Salman Rushdie,
Ingo Schulze, Gabriel Garcia Marquez, Margaret Atwood, Guenter Grass, John
Updike, Chinua Achebe, Amos Oz, Paul Theroux, Michel Tournier, Njabulo S.
Ndebele, Susan Sontag, Claudio Magris, Hanif Kureishi, Christa Wolf, Woody
Allen, Nadine Gordimer, Kenzaburo Oe. I proventi di esso sono destinati alla
Treatment Action Campaign. La Treatment Action Campaign, meglio nota come
Tac, e' un'organizzazione no profit indipendente i cui fondi sono utilizzati
per la cura e il sostegno a persone sieropositive e affette da Aids e per la
prevenzione della malattia nel paese con il piu' alto numero di persone
colpite, il Sudafrica. Il presidente della Tac e' Zackie Achmat, che convive
egli stesso con l'Aids e si prodiga attivamente e con tutte le sue forze a
raggiungere gli obiettivi della Tac: accesso alle cure necessarie per le
persone sieropositive o affette da Aids, prevenzione attraverso
l'informazione e aumento della consapevolezza circa le condizioni di vita
nelle zone povere che amplificano le sofferenze e impediscono la nutrizione
necessaria all'efficacia delle cure. Achmat e la Tac sono stati candidati al
Premio Nobel nel 2004 e nel 2003 all'associazione sono stati conferiti il
prestigioso Premio Nelson Mandela per la salute e i diritti umani e il
Premio della stampa nazionale per l'ente informativo dell'anno.
L'instancabile operato dell'associazione continua a mobilitare non solo il
Sudafrica ma il mondo intero, diffondendo la consapevolezza delle disparita'
nelle possibilita' di accesso alle cure, col sostegno di gruppi religiosi,
civili e individui di spicco. La Tac e' diventata l'associazione guida del
Sudafrica per la sensibilizzazione sull'Aids e, attraverso Zackie Achmat,
una voce per le persone affette dalla malattia in tutto il mondo (per
ulteriori informazioni consultare il sito www.tac.org.za)]

Perche' ventuno scrittori hanno offerto il loro talento e undici editori il
loro tempo e le loro strutture, tutti senza richiedere in cambio alcun
compenso o diritto? Perche' degli artisti dovrebbero disegnare e realizzare
una copertina per questo libro, gli agenti letterari adoperarsi nel gravoso
compito di ottenere i diritti, anche loro senza alcun compenso? Tutti loro e
tanti altri che hanno reso possibile la sua pubblicazione sono stati animati
dalla volonta' di offrire qualcosa della loro creativita' a favore di
un'azione di responsabilita' collettiva verso il problema dell'Aids/Hiv.
La mia parte in questo gruppo? Sempre piu' mi rendevo conto di quanto i
musicisti, sia quelli classici, sia in particolare tutti coloro che, -
attraverso il jazz, il pop, il be bop, e tutte le culture e gli stili -
hanno una vasta influenza a livello popolare, si fossero ammirevolmente
impegnati, con rappresentazioni e spettacoli, per offrire il loro talento
sia per la raccolta di fondi sia per la sensibilizzazione delle coscienze
sul fatto che la nostra e' l'era del vivere con l'Aids. Noi scrittori,
invece, per quanto ne so, non avevamo fatto nulla collettivamente.
Ho intravisto cosi' un modo per iniziare, come scrittori, a impegnare il
nostro talento sia per raccogliere fondi e per ampliare la coscienza sulla
pandemia Hiv/Aids, sia per procurare gli strumenti - sanitari, economici,
socio-psicologici - con i quali questa piaga mondiale del Nuovo Millennio -
e' proprio cio' che essa e' - potra' essere affrontata, invece di essere
ignorata con fastidio. Se i musicisti sono riusciti a farsi avanti e a
cantare, noi potevamo farci avanti e scrivere. Le canzoni non
necessariamente trattavano dell'Aids. I racconti non necessariamente
avrebbero dovuto trattare dell'Aids.
*
Un importantissimo e sempre aggiornato quadro d'informazione e' disponibile
nelle ricerche condotte dalle Nazioni Unite e da altre organizzazioni, sul
modo con cui la malattia si propaga, sulla tragedia di come distrugge la
qualita' della vita e sulla sentenza di morte a cui continua a portare, in
assenza di una soluzione scientifica che individui una cura e un vaccino
preventivo per l'Aids.
Come in ogni altra lotta per la sopravvivenza, anche quando la sofferenza
non e' stata ancora sconfitta, e' lo spirito creativo della vita stessa il
primo principio che deve essere riaffermato. Non una consolazione, ma una
convinzione. Un'affermazione rivolta a coloro che coraggiosamente vivono con
l'Aids. E' un compito che le arti si sono assunte, nel corso dei secoli,
volta dopo volta. La bellezza, la sfida, la tenerezza, il senso
dell'umorismo, la delusione, il coraggio, la disperazione e la gioia, il
loro manifestarsi, l'eterno nella sopravvivenza umana, persiste nelle arti,
superando ogni disastro.
Le storie che ho raccolto non hanno dunque come oggetto l'Hiv/Aids, ma
riaffermano la pienezza della vita, che dovrebbe essere un diritto per
coloro che ne sono privati dall'Aids. Gli autori, inclusi cinque premi
Nobel, rivelano le meravigliose possibilita' che l'uso delle parole apre
quando gli scrittori creano degli esseri viventi. E, naturalmente, mentre
grazie a cio' il lettore penetra nella varieta' della letteratura
fantastica, nei drammi della guerra e dell'amore sessuale, nel comico e nel
commovente, nella satira e nel dramma di cio' che si sta raccontando, sta,
allo stesso tempo, offrendo in dono il denaro pagato per acquistare il
libro, per soccorrere e sostenere, attraverso la Treatment Action Campaign,
i milioni di persone che in Sudafrica e nell'Africa del Sud sono ammalati di
Hiv/Aids o che sono a rischio in questa regione, la piu' colpita al mondo.
Mentre parlo, il numero dei bambini che in questa regione diventano orfani a
causa dell'Aids e' quasi di uno su cinque - saranno 18 milioni nel 2010 e
non saranno trascorsi neppure cinque anni da oggi. L'ultimo rapporto delle
Nazioni Unite sulla popolazione mondiale classifica questa regione come
quella che, tra il 2000 e il 2005, ha avuto e ha, a causa dell'Aids, la piu'
bassa aspettativa di vita. Mentre le stime del governo sudafricano
correggono le cifre del rapporto riguardante la diminuzione della
popolazione nel paese per il periodo che va fino all'anno 2050, suggerendo
una stima piu' bassa, la nostra atterrita preoccupazione e' che ci dovrebbe
essere un computo totale di tutto cio': si dovrebbe cioe' non considerare
l'Aids responsabile soltanto della mortalita' infantile, ma anche delle
conseguenze economiche e di sviluppo provocate dalla decimazione tra le
figure professionali istruite come maestri, infermieri, funzionari pubblici,
nell'industria e nell'agricoltura. Coloro insomma che costruiscono una
societa', un paese.
La presentazione di Telling Tales davanti alle Nazioni Unite supera di gran
lunga qualunque incoraggiamento e appoggio noi scrittori potremmo aver
desiderato: le Nazioni Unite sono la sede della responsabilita'
internazionale per cio' che minaccia l'umanita' nel nostro mondo, il
quartier generale per l'azione da intraprendere tra i popoli e i paesi per
superare gli ostacoli, tra i quali vi e' sempre piu' l'Hiv/Aids, che
impediscono l'eliminazione della poverta', eliminazione che rappresenta il
compimento della condizione umana, il fondamento di una reale liberta' e di
una vera giustizia.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 161 del 27 aprile 2008

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