La domenica della nonviolenza. 157



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 157 del 30 marzo 2008

In questo numero:
Alcuni estratti da "Niente come prima. Il passaggio del '68 tra storia e
memoria" a cura di Marina Giovannelli

LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "NIENTE COME PRIMA. IL PASSAGGIO DEL '68 TRA
STORIA E MEMORIA" A CURA DI MARINA GIOVANNELLI
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti (scelti da
Elisabetta Cavalli) dal libro di Marina Giovannelli (a cura di), Niente come
prima. Il passaggio del '68 tra storia e memoria, Kappa Vu, Udine 2007. Con
interventi di M. Mauro, L. Accati, M. Giovannelli, L. Cantarutti, L. Palma,
M. Modolo, P. Raso, V. Candido, M. Carminati, M. Richter, C. Benussi, A. De
Stefano, G. Musetti, E. Franco, R. Corbellini, A. Kersevan, A. Comuzzi, B.
Vuano, A. Sbuelz.
Il libro raccoglie saggi di Luisa Accati (atorica, Universita' di Trieste),
Cristina Benussi (letterata, Universita' di Trieste), Vilia Candido
(scrittrice), Ludovica Cantarutti (giornalista e scrittrice), Maria
Carminati (poeta, collaboratrice Universita' di Udine), Annalisa Comuzzi
(storica), Roberta Corbellini (storica, direttrice Archivio di Stato di
Udine), Aldina De Stefano (poeta), Elvia Franco (filosofa), Marina
Giovannelli (scrittrice), Alessandra Kersevan (editrice e storica), Marta
Mauro (conservatrice del Museo di Storia contadina di Pagnacco), Mariangela
Modolo (scrittrice), Gabriella Musetti (scrittrice, direttivo Societa'
Italiana delle Letterate), Leda Palma (attrice, scrittrice), Pina Raso
(presidente Universita' delle LiberEta' di Udine), Melita Richter
(sociologa, Universita' di Trieste), Antonella Sbuelz (scrittrice), Barbara
Vuano (scrittrice).
Marina Giovannelli e' poetessa e scrittrice. Da suo sito
www.marinagiovannelli.it riprendiamo la seguente scheda: "Marina Giovannelli
e' nata a Udine nel 1941. E' sposata, ha due figli, molti amici e amiche e
due gatte. Ha insegnato a lungo materie letterarie nella scuola media
inferiore e superiore, dove ha realizzato insieme ai suoi allievi ricerche,
giornali, allestimenti teatrali. Questi ultimi, raccolti nel volume "Gran
teatro", sono stati premiati alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna nel
1996. Con gli allievi dell'Ipsaa di Pozzuolo del Friuli ha curato "Ma
qualche volta mi viene da piangere. Storie di emigranti friulani", edito dai
Circoli Culturali della Carnia. L'indirizzo della sua tesi di laurea e
l'interesse personale, l'hanno spinta ad occuparsi di storia del Friuli,
interesse che si e' concretizzato nel primo libro pubblicato nel 1990,
"Sotto le ali del Leone", racconti ambientati nel Friuli del secolo XVI, e
nei successivi romanzi "Il segno della vipera", 1991, di epoca longobarda, e
"La Comugna", vicenda dell'Ottocento che va alle radici dell'emigrazione nel
Friuli occidentale. Altro campo d'indagine e' il mito, affrontato con occhio
antropologico nei racconti "Le fanciulle del mito" e nell'ultimo romanzo
"tre lune (storia di Arianna)". Approdata ufficialmente alla poesia nel
1998 - ma da sempre ha nascosto versi nel cassetto - ha pubblicato presso
Campanotto "(An)estesie" e per i "Quaderni di poesia" del Dars la raccolta
di acrostici "Del silenzio".  Fa parte del Comitato friulano Dars (Donna
Arte Ricerca Sperimentazione) e delle Donne in Nero di Udine. Tiene un corso
di "Scritture Femminili" all'Universita' delle LiberEta' di Udine, dedicato
quest'anno a "Epifanie del corpo". Partecipa a dibattiti, incontri,
trasmissioni radiofoniche. Attualmente collabora alle pagine culturali del
settimanale "Nuovo Friuli"". Tra le opere di Marina Giovannelli: Sotto le
ali del Leone, Gremese, Roma 1990; Il segno della vipera, Loescher, Torino
1991; La Comugna, Gremese, Roma 1994; Le fanciulle del mito, Loescher,
Torino 1996; (An)estesie, Campanotto, Udine 1998; (con Aldina De Stefano),
Del silenzio, Dars, Udine 1999; Tre lune (storia di Arianna), Gazebo,
Firenze 2001; Voci dal campo di Drepano, a cura delle Donne in Nero di
Udine, Udine 2001; Una questione di specchi, LiberEta', Udine 2001; Le
virtu' estreme, Edizioni Cooperative S.T.A.F., Udine 2002; Morte di carta.
Zelig - Mobydick, Faenza-Udine 2003; Una condizione ablativa, Joker, Novi
Ligure (Al) 2003; Cantata per la donna al telaio, Edizioni Le Arti tessili e
Circolo culturale Menocchio, Montereale Valcellina (Pn) 2004; Iacoba
Ancilla. biografia imperfetta di una ragazza nel Cinquecento, Kappa Vu,
Udine 2005]

Indice del volume: Introduzione di Marina Giovannelli; Marta Mauro: Non
sara' mai un luogo comune; Luisa Accati: Parole rivelatrici; Marina
Giovannelli: Memorie dalla campana di vetro; Ludovica Cantarutti:
Millenovecentosessantotto; Leda Palma: Perche' recitano cosi' bene -
1968-1978 - Donne e attrici; Mariangela Modolo: La veglia del fiore; Pina
Raso: Il mio '68; Vilia Candido: Cronistoria di una mancata esperienza;
Maria Carminati: "Sembra preistoria"; Melita Richter: Tra Parai e Zagabria.
Il mio '68; Cristina Benussi: Luci e ombre di un mito; Aldina De Stefano:
Verso dove; Gabriella Musetti: Lettera dal Giappone; Elvia Franco: Era il
'68...; Roberta Corbellini: Lucia Mondella, il sigaro toscano e la legge
salica; Alessandra Kersevan: Un '68 incominciato prima; Annalisa Comuzzi:
Marx, l'irrinunciabile; Barbara Vuano: Un pollo cresciuto in batteria;
Antonella Sbuelz: Io e Mafalda. Fotogrammi del Settantasette; Notizie
bio-bibliografiche.
*
Introduzione di Marina Giovannelli (p. 7 e seguenti)
Questo libro raccoglie riflessioni e memorie di donne oggi residenti nella
regione Friuli Venezia Giulia, in vario modo impegnate culturalmente, la cui
eta' varia fra i 70 e i 45 anni, ed ha origine nella proposta di riandare al
1968 e dintorni che rivolsi ad alcune amiche alla fine del 2005 in seguito
alla pressione crescente che sentivo (e sento) sull'autonomia del pensare e
fare delle donne, che aveva peraltro gia' innescato un generale movimento di
ripresa con le manifestazioni femministe programmate per il 14 gennaio 2006
a Roma e a Milano. La proposta fu accolta con slancio: condividevamo i
timori per la campagna conservatrice in atto, per le continue ingerenze
clericali, sentivamo che tornare ai giorni di quella rivoluzione dei valori
e del costume avvenuta nel periodo indicato, se non era sufficiente per
ricostruire una storia organica, tantomeno per elaborare interpretazioni di
un momento ancora cosi' dibattuto, poteva tuttavia essere utile per
ripensare se stesse, rievocare un clima, confrontarlo con il presente,
promuovere incontri e discussioni, attivare consapevolezza.
Poche delle invitate alla scrittura non accettarono la proposta, alcune
perche' il ricordo di quei lontani giorni, esaltanti ma duri, genera un
dolore ancora indicibile, altre perche' non si riconoscevano nelle premesse
iniziali.
Il presupposto comune consisteva nel ritenere il '68 non un anno, ma un
periodo di durata variabile, di cui ciascuna delle scriventi aveva avuto
nozione in un momento individuabile soggettivamente, ma che aveva indotto in
ognuna mutamenti radicali nella propria esistenza.
Che il '68 sia da considerarsi un "passaggio" e' un dato storiografico ormai
acquisito, anche se variano i termini temporali prescelti, oscillando le
premesse dai primi anni Sessanta per alcuni, al periodo delle prime
occupazioni accademiche del '66-'67 per altri, per finire comunque alla fine
degli anni Settanta con l'imbuto della lotta armata.
L'altro dato che veniva implicitamente accolto nell'adesione al progetto
riguardava la propria collocazione all'interno, se non di una istanza
femminista, di una volonta' di riflessione sul movimento delle donne, cosi'
come si era andato formando negli anni Settanta e modificando negli anni
successivi, e sulla sua influenza nei percorsi personali.
Per il resto l'assoluta liberta' di ciascuna nell'esprimersi preludeva a una
lettura comparata da rinviare all'esito delle testimonianze stesse.
Da queste emerge, gia' ad una prima lettura, una straordinaria ricchezza di
notizie, temi, osservazioni, spunti critici, nodi irrisolti, esposti con una
sorta di appassionata urgenza, a conferma dell'attualita' politica delle
questioni proposte.
L'altra innegabile evidenza riguarda la distanza, in queste pagine, da un
generico femminile poiche' in esse risuonano voci di donne, ciascuna nella
propria singolare e differenziata unicita', a riprova che la differenza di
genere incrocia molteplici differenze, anche se non tutte qui rappresentate.
Esse rimandano in primo luogo ad appartenenze generazionali e sociali: noi
donne nate alla fine degli anni Trenta e nella prima meta' dei Quaranta
eravamo molto diverse da quelle nate attorno al '50, perche' l'esser
cresciute durante o subito dopo la guerra e l'aver ricevuto un
condizionamento educativo molto forte in senso tradizionale avevano
determinato un'influenza a fatica disattivabile. "Per sentire l'onda del '68
bisogna aver vissuto il dopoguerra da bambini, il rigore, la modestia, la
paura di se' e del proprio corpo...", scrire a questo proposito Mariangela
Modolo.
Di piu', nel '68 ci trovavamo ad avere un'eta' allora cruciale per il
matrimonio e la maternita', cosicche' questi eventi ci rendevano
"distratte", spettatrici piu' o meno turbate piuttosto che attrici, come
testimonia lo straniamento cosi' ben narrato da Ludovica Cantarutti. Sulla
nostra generazione premeva, senza che ne fossimo consapevoli, il peso di
quel "problema senza nome" di cui aveva gia' scritto Betty Friedan in The
femminine Mystique nel 1963 (tradotto in Italia nel '64), che poche pero'
allora avevamo letto, ("avanzava una infelicita' profonda nella mia parte di
donna che aveva compiuto la sua missione per la specie", ricorda Marta
Mauro), eppure anche in noi stava maturando una tensione verso il
cambiamento che si rivelera' nelle scelte esistenziali e professionali
successive.
Il contesto ambientale e familiare con l'educazione che ne deriva, influi'
sul grado e la modalita' di ricezione del movimento durante il "ciclo breve
dell'insorgenza", dall'adesione incondizionata della giovanissima Barbara
Vuano all'immediatamente critica "estraneita' partecipante" di Luisa Accati,
passando per tutte le sfumature intermedie.
Di comune invece, nella varieta' dei luoghi dove venne vissuta quella
stagione divampante, da Messina a Trieste e Udine, da Torino a Padova, da
Roma a Genova, e "Tra Parigi e Zagabria", c'e' lo stesso clima diffuso di
ottimismo, di euforica speranza, e in tutte era convinto il senso
d'appartenenza al mondo intero, cosi' che al mondo intero si rivolgevano
attenzione e volonta' di cambiamento sostenute da un generale e forte senso
di responsabilita'. Ne derivava desiderio di prendere parola - "Dappertutto
discorsi pubblici, dibattiti, proclami, annunci", testimonia Melita Richter
da Parigi - e di far parte del progetto generale, vissuto con quel
sentimento di "felicita'" che avverte chi si senta impegnato nella
fondazione di una nuova polis, in un'atmosfera trans-nazionale cui da tempo
aveva contribuito la cultura.
Ricorrono infatti nei testi delle autrici i nomi degli stessi scrittori, gli
stessi titoli di libri, le stesse canzoni, ma soprattutto emerge un
convincimento profondo e forse ingenuo, fatto di fiducia nella possibilita'
di forzare la politica e la societa' nella direzione dell'equita', insieme
agli altri ed altre, studenti e operai.
Comune e' anche, per molte, la consapevolezza che il "passaggio" del '68,
inteso come sopra indicato, ha segnato una frattura tra un prima e un dopo,
innescando un processo di mutamento cosi' radicale che da quella soglia si
e' aperta per ogni donna - almeno nel mondo occidentale - la liberta' che
oggi e' sotto gli occhi di tutti, che significa possibilita' di raccontare
un romanzo di formazione femminile non piu' a senso unico, secondo quanto
era stato fino ad allora salvo eccezioni alla regola, ma articolato nelle
piu' varie direzioni pensabili, come per i maschi era da sempre.
Se la ribellione all'autoritarismo, intesa come rifiuto del primato
dell'apparato accademico, partitico, burocratico in genere, era il
fondamento primo dello slancio rivoluzionario del movimento studentesco, e
quindi patrimonio condiviso di tutti e di tutte - Gabriella Musetti cita uno
slogan allora molto diffuso: "Vietato vietare" - si deve dire pero' che
l'orfanita' cercata e gridata dai gruppi nelle piazze non si accompagna
nella maggior parte delle scriventi al rifiuto della famiglia d'origine e in
molte anzi si converte nel riconoscimento di un padre consapevole e nella
valorizzazione della figura della madre (non del materno), vista con occhi
nuovi come soggetto capace di pensiero e di autonomia, se pur dotata di
strategie ancora tradizionali, come le "matriarche" di Vilia Candido o la
madre elusiva di Pina Raso, e nell'individuazione di una precorritrice
"linea matrilineare" da parte di Alessandra Kersevan. A questa nuova
autorevolezza femminile si accompagna la scoperta della possibile amicizia
fra donne (al posto della tradizionale concorrenza): "Amiche-madri,
amiche-figlie, amiche-sorelle, amiche-amate", scrive Aldina De Stefano,
mentre piu' avanti si delineera' per alcune un percorso che conduce al
pensiero della differenza e per Elvia Franco in modo diretto alla comunit‡
di Diotima. [...]
Oggi alcune sottopongono la "rivolta" del '68 a una critica severa che
sottolinea le gia' allora leggibili contraddizioni e i silenzi colpevoli,
altre ad una rilettura che non nega le "ombre" ma riconosce le "luci", altre
ancora a una valutazione sostanzialmente positiva o quantomeno indulgente,
se non altro per la possibilita' sperimentata per la prima volta di
costituire una "comunit' assoluta" di relazioni fra uguali inedita e, almeno
all'inizio, propositiva.
Quanto e' stato detto finora non esaurisce la ricchezza dei temi affrontati
in queste pagine, in cui si fa riferimento ad aspetti particolari che
richiederebbero spazi ben piu' ampi per esaurire un dibattito indubbiamente
da riprendere e approfondire, o che al contrario sono gia' stati studiati
altrove in modo specifico.
Si tratta ad esempio del linguaggio, sia quello usato dai giovani del '68
letto come elemento di distinzione dal mondo adulto oppure come rivelatore
simbolico di caratteri fondamentali ma sottotraccia del movimento, sia come
indagine non ancora compiuta sulla parola letteraria femminile, "portatrice
di stimmate" (Benussi) e priva di riconoscimento nel mondo accademico, o
degli effetti della "liberazione sessuale" sulle giovani donne di quegli
anni, con quanto di taciuto e perfino di imposto vi era in essa, poiche' il
discorso sul "corpo" era ancora tutto da farsi, sia come sua conoscenza che
come sua gestione, dal sesso alla maternita'.
Si pone inoltre in certe pagine il tema a tutt'oggi non sufficientemente
indagato della violenza, in se' e nel rapporto fra violenza privata e
pubblica, sulla cui equazione e' aperto il dibattito.
Su tutti gli altri si ripropone con insistenza in quasi tutti gli scritti un
argomento di interesse sostanziale, che costituisce l'interrogazione
politico-filosofica per eccellenza, e cioe' se (e come) l'analisi marxiana
sulla dialettica di classe, da cui la maggioranza delle scriventi muove
nell'avvicinarsi al movimento, sia rimasta poi la linea guida di
interpretazione del mondo nei tempi successivi e come (e se) la si concilio'
con il femminismo.
L'ultima osservazione riguarda la scelta dei titoli dei propri interventi da
parte delle autrici: dopo aver tutte ripercorso la propria esperienza nella
piena interiorizzazione di quella rivendicazione condivisa allora, e ancor
oggi funzionante "il personale e' politico", percio' senza remore o falsi
pudori, nella piena assunzione delle proprie responsabilita' e nella
consapevolezza delle proprie conquiste, hanno siglato gli scritti con parole
che segnano fortemente una distanza dal '68 e dagli anni immediatamente
successivi. Alcuni titoli rinviano alla favola, al sogno, al mito, comunque
a un "c'era una volta" trascorso e perduto. Questa percezione di lontananza
che non e' di tipo temporale ma allude al disincanto, si accompagna alla
preoccupazione espressa da molte rispetto al presente, a causa
dell'orizzonte privo di aperture dei giovani d'oggi, della pochezza della
societa' attuale che non offre risorse e nemmeno speranze.
Eppure queste pagine, che in molti casi non si limitano a ricordare e
tendono a proporsi come strumento per riprendere l'azione, seppure in modi
diversi e forse ancora da individuare, dimostrano quanta energia piu' o meno
latente sia pronta a sprigionarsi se incanalata in modi adeguati. Non
chiederemo a queste pagine piu' di quanto possano dare, molti temi accennati
incalzano un approfondimento di tipo storico o sociologico, ma non si puo'
negare che il potenziale politico in esse presente sia altissimo, e che la
proposta implicita delle autrici avvii verso la continuazione della
riflessione sul passato insieme al desiderio di intervenire nel presente,
per se stesse e per coinvolgere le altre.
*
Luisa Accati: Parole rivelatrici (p. 23 e seguenti)
Nel 1968 io ero ancora all'Universita', stavo finendo, mi restava solo la
tesi di laurea, a cui peraltro lavoravo gia' da tempo. Ero gia' stata a Roma
dove, all'Archivio di Stato, avevo raccolto materiale sulla occupazione
delle terre nel sud dell'Italia per il periodo 1921-'22. L'avrei discussa
nel luglio del '68.
Ero un po' piu' vecchia di quelli che sarebbero stati i protagonisti del
'68, nati perlopiu' fra il '45 e il '48, mentre io ero nata nel '42. Ero in
ritardo rispetto ai miei compagni di corso, gia' laureati, perche' mi ero
sposata nel '64 e nel '66 avevo avuto una figlia. In sostanza, benche' ci
fossi, mi sentivo ed ero in parte esterna a quel che capitava. In primo
luogo partecipavo alle assemblee solo se mia madre o mio marito o qualche
baby sitter poteva occuparsi di mia figlia e, comunque, sempre per spazi di
tempo limitati. Questo era largamente sufficiente per tagliarmi fuori
dall'attivita' vera e propria, frenetica, del movimento e dei gruppi. Ma non
era solo questo a farmi sentire esterna, del resto c'erano anche fra i
leaders persone della mia eta', qualcuno era piu' vecchio e altri avevano
figli. La mia situazione, intermittente e marginale, mi metteva in una
posizione di osservazione: una estraneita' partecipante che mi stava bene.
Infatti quello che sentivo e vedevo mi sembrava eccezionale ed
entusiasmante, mi pareva che davvero qualcosa potesse finalmente combiare,
ma c'erano anche tanti motivi di perplessita'.
Per "rivoluzione" io immaginavo un fatto semplice: il rovesciamento delle
priorita', l'idea insomma che si facesse un progetto sociale partendo dal
bene comune, invece che partendo dagli interessi individuali, di casta e di
corporazione. Il sapore tattico e il tono profetico, misurato sulla
rivoluzione russa e sul leninismo che fioriva intorno alla parola
"rivoluzione" nelle assemblee, mi pareva astratto e non realizzabile, anni
luce di la' da venire. Per me ottenere risultati concreti era troppo
importante, non avevo grande interesse a lavorare per un futuro mitico.
Tuttavia non osavo molto dirlo, perche' pensavo di non conoscere a fondo la
situazione e pertanto di non potere valutarla bene e, per altro verso, la
mia condizione di donna sposata con una figlia mi faceva guardare con un
certo sospetto dalle mie compagne. La prossima rivoluzione mi sembrava in
realta' lontanissima, anzi il gran parlarne mi pareva un modo per differire
obiettivi raggiungibili e concreti.
Che cosa intendevo per "obiettivi raggiungibili e concreti"? A me era sempre
parso che il tratto saliente della situazione italiana fosse una
straordinaria ignoranza della popolazione, coltivata nel tempo dalla Chiesa
cattolica. Una straordinaria ignoranza di come debba e possa funzionare una
societa' di individui responsabili. Quella in cui eravamo immersi era una
cultura della delega morale all'autorita' ecclesiastica: una profonda
sfiducia nelle capacita' delle persone di gestire se stesse che parrocchie e
vescovadi, tanto piu' durante il fascismo, avevano coltivato da sempre. Una
cultura della dipendenza dall'autorita', dai suoi luoghi comuni, dai suoi
stereotipi, dalle sue immaginette: una cultura povera, avvilita e avvilente,
dove la superficialita' dell'informazione era considerata un buon strumento
di governo. Cose semplici per i semplici che e' bene che restino semplici e
senza pretese. Poiche' il movimento era un movimento studentesco e aveva i
suoi leaders dentro l'universita' io speravo in una trasformazione radicale
dell'istruzione e della cultura. Immaginavo una estensione a tutto il
tessuto sociale della cultura cosiddetta alta, della cultura critica e della
cultura dei diritti e dei doveri. La cultura alta non mi pareva infatti
difficile per buoni motivi, ma semplicemente elitaria, deliberatamente e
inutilmente difficile, non perche' dovesse esserlo, ma perche' in parte
aveva una componente escludente. Dunque si trattava di tradurre il sapere e
di fare in modo che programmi e contenuti fossero riformati in vista di ampi
obiettivi di istruzione ai massimi livelli per tutti. Ragione critica per
tutti, robusti strumenti per uscire dalle imposture della religione.
Liberare il paese dall'ignoranza pretesca mi pareva un condizione
preliminare a qualsiasi altra e mi pareva anche liberatoria. Con la mente
libera dalle illusioni si sarebbe trovata la strada giusta anche per
pareggiare o almeno per ridurre le disuguaglianze economiche.
La mia delusione diventava crescente osservando che molti erano i bersagli
politici dei miei compagni, ma mai si era nemmeno pensato ad attaccare
l'imperante cultura cattolica. Oggetto degli attacchi erano i professori, i
giudici, i padroni, i capi, i borghesi, i fascisti ma nessun vescovo, nessun
papa, nessuna monaca, nessun pregiudizio clericale. Le mie istanze culturali
piu' profonde non avevano nessuno spazio.
Negli anni del liceo avevo preso parte alle riunioni di una sezione
socialista lombardiana, cioe' della sinistra socialista, e avevo anche
frequentato assemblee di lavoratori metalmeccanici alla Camera del Lavoro,
nei limiti assai stretti che l'educazione severa della mia famiglia mi
lasciava. Non cosi' stretti tuttavia da impedirmi di capire l'importanza che
a Torino avevano gli operai della Fiat e delle altre fabbriche, non cosi'
stretti da impedirmi di osservare come questi operai fossero culturalmente
diversissimi dalle masse di ignoranti allevati dalle parrocchie. Il loro
modo di esprimersi, in un italiano dall'intenso accento piemontese, pieno di
francesismi, le loro richieste, le loro conoscenze dei modi e dei ritmi
della produzione rivelavano una cultura materialista, razionalista e
concreta. Persone autonome e critiche, persone che erano finalmente uscite
dalla schiera dei semplici, non chiedevano ne' carita', ne' protezione.
Proponevano aumenti di salario, migliori condizioni di lavoro e avanzavano i
diritti all'istruzione e alla previdenza: una dignita' sconosciuta ai
semplici di pertinenza vescovile. Due parole dominavano, infinitamente
ripetute, negli interventi di tutti: lotta e dio faus o, in forma
abbreviata, diofa', un intercalare essenziale, un segno di appartenenza.
Tanto che spesso mi ero detta che la lotta era contro la falsita', le
illusioni, il futuribile immortale e contro il falso dio, cioe' il denaro,
inteso come mezzo di potere, anziche' come mezzo per vivere meglio nella
realta' non spirituale o falsamente spirituale del mondo reale, materiale e
fisico.
Gli avversari degli operai erano i padroni, il lavoro, riferimento morale e
materiale per entrambe le parti, il durissimo terreno di scontro.
Sui padroni la sapevo lunga, infatti ero figlia di uno di loro e anch'io
avevo le mie ragioni da farmi con lui in quegli anni. Forse ero alla camera
del lavoro anche per questo. Ma i padroni dei metalmeccanici erano ben
diversi, per esempio, dai padroni "da li belli braghi bianchi" delle mondine
e questo era molto piu' chiaro agli operai che agli studenti. Quello che gli
operai volevano dai padroni era chiaro e quantificato, quello che i padroni
volevano dagli operai era chiaro e quantificato: lo scontro, senza
esclusione di colpi, era nondimeno produttivo e non distruttivo.
Il padrone dei metalmeccanici lavorava tantissimo, lavorava tutta l'estate e
trovava "stranissima l'usanza delle vacanze, destinata a scomparire". Le
vacanze potevano servire a coloro che facevano lavori fisicamente pesanti,
ma erano del tutto inutili perdite di tempo per chi faceva "lavori a
tavolino" come i dirigenti e a maggior ragione "i titolari" delle aziende;
le vacanze dunque servivano per andare all'estero a imparare le lingue e a
trattare con le aziende straniere. Mare? Per i bambini, per gli adulti, poco
e solo se lo ordinava il medico. Consumi confortevoli, ma senza sprechi.
La resistenza al lavoro era un feroce terreno di sfida che autorizzava a
eliminare chiunque si dimostrasse debole o fragile (mio padre non era piu'
tenero degli altri); ma la capacita' di resistere alla sfida era certamente
riconosciuta come una reale possibilita' di arricchimento, di conquista di
diritti e di ascesa sociale.
Mio padre non diceva dio faus e nemmeno diofa', diceva cribbio, versione
eufemistica di Cristo e infatti, all'occorrenza, diceva anche Cristo.
Cristo, com'e' noto e' la vittima per eccellenza, sicche' l'associazione
Cristo-diritto che accompagnava il suo modo di affrontare i rapporti in
fabbrica, significava: anche le vittime della societa' hanno dei diritti.
Non era generosita' la sua, era convinzione che se non esisteva una
ricchezza minima diffusa e dovuta, mancavano le condizioni stabili perche'
il piu' alto numero possibile di cittadini comprassero gli oggetti che le
fabbriche producevano: punto e basta.
La lotta si svolgeva dentro l'etica del lavoro a cui i due avversari, che si
rispettavano reciprocamente, rispondevano. Carita' nessuna, elemosine ancor
meno ma un rapporto contrattuale in cui al lavoro svolto corrispondeva un
doveroso riconoscimento economico e previdenziale, sempre migliorabile. Da
una parte e dall'altra una logica che eliminava i semplici, gli umili, i
bisognosi e i loro melensi intermediari. Sicche' l'asprezza realistica del
confronto permetteva di scaricare la violenza sociale e di convertirla in
forza politica, in leggi che riconoscevano i diritti all'istruzione, alla
salute, alla casa; in beni e ricchezza per strati sociali sempre piu' ampi.
Altra cosa - dicevo - erano "i padroni" e "gli operai" all'universita',
nelle assemblee studentesche. Mitologica l'avida cattiveria dei primi e
altrettanto mitologica l'aspirazione disinteressata a cambiare il mondo dei
secondi. La natura e le possibilita' contenute nel conflitto che li metteva
in rapporto non erano un vero oggetto di attenzione. Le critiche che avevo
sentito alla camera del lavoro verso i padroni, per quanto scioccanti
inizialmente, non mi avevano messo in conflitto con me stessa, per certi
versi e con alcuni distinguo, mi erano servite a venire a capo di conflitti
personali, mi avevano fatto capire molte cose del mondo in cui vivevo, le
tensioni fuori della famiglia mi avevano insegnato ad affrontare le tensioni
della maturazione e dell'autonomia dalla famiglia. Mi colpiva invece
l'astrattezza delle richieste studentesche, la genericita' dei loro
"padroni" e della loro "borghesia", e mi colpiva tanto piu' perche' padroni
e borghesi erano i loro padri, che ben conoscevo, tanto quanto il mio. Mi
colpiva che fossero considerati "padroni" e/o "borghesi" persone tra loro
diversissime (avvocati, medici, imprenditori e finanzieri) e anche i
professori venivano attaccati in blocco come "autoritari", personaggi che
usavano bocciare tre o quattro volte ogni studente, che avevano evidenti
pregiudizi contro le ragazze e uomini che io consideravo possibili alleati
nei miei propositi di trasformazione della cultura e dell'istruzione. A me
pareva che l'ipotesi di dover cambiare la struttura economica per poter fare
qualsiasi cambiamento significativo fosse un'interpretazione mitica di Marx.
Questa lettura non era altro che un fiume di parole e un modo generico e non
realistico di assumere i fatti, simile piu' a una crisi verso i padri, a una
difficilissima maturazione giovanile che a una realistica volonta' di fare
quello di meglio che si poteva.
*
Pina Raso: Il mio '68 (p. 55 e seguenti)
Il mio '68, come tutte le storie che si rispettano, ha un prologo e un
epilogo. Il prologo risale a qualche anno prima.
Provengo da una famiglia dal forte impegno politico; mio padre e' stato
iscritto al Pci fin dal 1943 - lo rimarra' fino al 1989 -, la mamma e' stata
candidata alle elezioni amministrative gia' alla fine degli anni '50. Si e'
provveduto a iscrivere tutti al partito, via via che raggiungevamo l'eta'. A
meta' degli anni '60 tutta la famiglia, compresi nonni e zii, paterni e
materni, e' iscritta al Pci. Le tessere di mio padre sono ancora conservate
nella casa calabrese.
Un giorno, siamo agli inizi degli anni '60, ci viene a trovare il segretario
della federazione provinciale giovanile che dice: "La prossima settimana
faremo un'importante manifestazione dei giovani comunisti a Reggio Calabria,
contiamo sulla tua presenza". A questo punto arriva il divieto paterno:
essere iscritti al partito e' importante, ma e' assolutamente impensabile
che una ragazza vada fuori paese da sola; manifestazione o altra iniziativa
che sia, non se ne parla neppure che una donna vada in giro cosi'!
A dire il vero, non e' che me la passassi tanto male, specie in confronto
alle mie coetanee. Non avevo limitazioni, per esempio, sull'abbigliamento:
ho sempre portato i calzoni, la minigonna non ha fatto fare neanche una
piega in famiglia. Potevo uscire liberamente in paese, ho scelto da sola il
mio corso di studi, sia liceali sia universitari, liberta' che allora erano
impensabili, almeno al sud, per la maggior parte delle ragazze, il cui unico
destino sembrava essere quello di sposarsi e far figli.
Ma ero pur sempre una donna: si poteva concedere una tale liberta'? E cosa
avrebbe detto la gente?
Questo e' stato il primo scontro con mio padre, che osa iscriversi, a soli
23 anni, a un partito ancora fuorilegge, ma non riesce ad affrontare le
proprie contraddizioni.
Ne sono seguiti tanti altri, che sono durati fino quasi alla sua morte.
L'epilogo invece e' di una decina di anni dopo, il '74, quando, giovane
insegnante, gia' in Friuli, mi sono sentita dire da uno studente di
Avanguardia Operaia, durante un'assemblea all'Istituto d'Arte, dove
insegnavo, che non avevo diritto di parola perche' "ogni insegnante e',
indipendentemente dalle idee dichiarate, reazionario".
In quel momento ho capito che era finito, per me, il tempo della
contestazione ed era cominciato quello del fare. Se si decodifica
adeguatamente la frase dello studente, al di la' delle esagerazioni del
momento, il significato e' chiaro. Tu non sei piu' una giovane, sei
dall'altra parte, hai "il potere" di fare. Avevo solo 27 anni, ma ero gia'
sposata, avevo un bambino piccolo e un lavoro stabile, non potevo piu', in
effetti, mischiarmi ai giovani contestatori, potevo semmai partecipare alle
lotte dei lavoratori. Cosa che ho fatto, aderendo alla Cgil e partecipando,
seppur con un ruolo molto marginale, alla nascita del sindacato scuola.
Ma andiamo con ordine e torniamo al '68.
Quell'anno mi vede studentessa di matematica all'Universita' di Messina. Se
pero' qualcuno pensa che, con quella formazione familiare e quel clima, io
parli di un periodo epico, commette un grande errore. Le cose, almeno
all'inizio, sono andate diversamente.
Siamo all'inizio di un anno particolarmente freddo; frequento il primo anno
di matematica in una citta' che mi e' estranea. Alloggio in una pensione in
cui oltre al freddo, anomalo per quella regione che non ha bisogno di
riscaldamento, soffro di solitudine per essermi allontanata per la prima
volta dall'ambiente familiare. All'inebriante senso di liberta' fa da
contrappunto lo scoramento per non avere alcun punto di riferimento durante
intere lunghe giornate in cui, finito di studiare, non so cosa fare.
Comincio a partecipare alle prime assemblee. Sto cosi' al caldo e conosco
nuovi amici. Non e' che capisca molto dei discorsi che vengono fatti, sia
perche' sono solo una matricola, sia perche' non ho mai partecipato a questo
tipo di riunioni.
Oggi i giovani partecipano alla loro prima assemblea gia' a 14 anni; la mia
generazione a scuola doveva solo studiare, obbedire e, soprattutto, tacere.
Io, a dire il vero, studiavo, qualche volta ubbidivo, ma farmi tacere no,
non c'e' mai riuscito nessuno. Per quanto riguarda il rapporto tra docenti e
alunni, si diceva, per scherzo, ma non tanto, che "il professore ha sempre
ragione, soprattutto quando ha torto". Parlare di politica poi! Basti
pensare che al ginnasio avevo persino paura che si sapesse dell'impegno
familiare dentro il Pci. L'unico sciopero cui ricordi di aver partecipato mi
procuro' una figuraccia che non dimentichero' mai.
Ero in quarta ginnasio; il giorno dopo la manifestazione, il preside, dopo
averci fatto la ramanzina, rivolto a me, seduta al primo banco, fa:
"Sentiamo, parlami dello sciopero e dei motivi che ti hanno indotta ad
aderirvi". E' stata forse la peggiore figuraccia che io abbia fatto a
scuola, ma ho rispettato il preside che ha saputo trovare gli argomenti
giusti per richiamarci al senso di responsabilita'.
Tornando alle assemblee, la storia si ripete. Un giorno un ragazzo mi dice:
"Perche' non intervieni mai?". Lascio immaginare il panico. Ma e' stato
utile, ho cominciato a sforzarmi di capire, a comprare tutti i giorni il
quotidiano, ad ascoltare e confrontare le posizioni, a confrontare quanto
sentivo con tutti i discorsi che da sempre si facevano in casa. Scoprii, a
questo punto, oltre a tutti i problemi della scuola e dell'universita' noti
a tutti, situazioni inimmaginabili. Sacche di privilegio, studenti
fuoricorso da tanti anni che stavano alla casa dello studente non per meriti
di studio o per svantaggio economico, ma per "meriti goliardici".
Quella era una societa' fortemente classista, in cui il privilegio di pochi
era un diritto acquisito e intoccabile, mentre la massa della classe operaia
lavorava per loro. Forse pochi sanno oggi che prima dei diritti sindacali
conquistati in quel periodo, un operaio aveva diritto alla liquidazione solo
se veniva licenziato dal padrone, niente gli toccava se era lui a lasciare.
Lascio immaginare cosa capitava nel caso il datore di lavoro volesse, per
qualsiasi motivo, liberarsi di un dipendente.
Per non parlare delle donne cui, sul lavoro, non era neanche riconosciuto il
diritto alla maternita'.
*
Melita Richter: Tra Parigi e Zagabria. Il mio '68 (p. 81 e seguenti)
Sulla scia della protesta lo stesso scenario, biciclette rovesciate,
macchine danneggiate, vetrine dei negozi rotte, librerie nella vicinanza
della Sorbonne bruciate, segni di rabbia ovunque, facce giovani tese che
gridano slogan infiammanti, cortei infiniti, il muro minaccioso delle forze
dell'ordine... Parigi, primavera del 2006 come il maggio del 1968. Non e' la
stessa cosa.
Il 1968 serbava in seno l'illusione della storia e allo stesso tempo la
grande speranza che la storia si fosse messa in cammino. La situazione era
estremamente coinvolgente, alludeva alla rivoluzione, ma i semi della
rivoluzione culturale li aveva gettati per davvero. Le barricate erette nel
Quartiere Latino dimostravano che le cose si facevano seriamente, anche se
su quelle barricate nessuno e' stato ucciso a differenza del G8 del 2001 a
Genova quando un giovane dei no-global e' caduto vittima della violenza
della polizia.
Lo shock al quale la societa' francese era esposta e' stato provocato prima
di tutto dalla manifesta unione tra il movimento studentesco e il grande
movimento operaio. Una bomba inattesa con potenziali detonazioni
impensabili. L'inizio non fu in Francia, ma la Francia detiene il primato
del suo fulcro intellettuale e filosofico e rimane l'immagine simbolo dello
storico movimento europeo del 1968.
Quel primo maggio mi trovavo a Parigi. Anche per me tutto ebbe inizio li'.
Toccai il nervo vitale del forte smottamento della societa' in quel
luogo-fulcro dell'ondata del movimento studentesco che si e' diffuso in
Europa come un vento, minaccioso per chi deteneva il potere e pieno di
promesse per noi, giovani di allora... Sulle rive della Senna i platani
appena annunciavano i primi getti e la primavera si trascinava lenta,
gravosa. Al leggero sole delle Tuileries la gente si acquietava distesa
sulle panchine e allungava le membra secche in cerca del tepore. Una strana
sensazione serpeggiava nell'aria: ovunque ti trovassi, sapevi con buona dose
di certezza che le cose importanti stavano succedendo altrove. Nei pressi
della Sorbonne.
Piu' uno si avvicinava all'area dell'universita' piu' si sentiva avvolto dal
pregnante clima dell'avvenimento che prendeva le sembianze di un'autentica
rivolta. Tra la Sorbonne e il teatro Odeon c'erano dei continui meeting, dei
punti di accentramento di giovani e di meno giovani; si poteva percepire
nell'area l'esplosione della parola. Dappertutto discorsi pubblici,
dibattiti, proclami, annunci, poster con richieste degli studenti affissi
sui tronchi degli alberi, sulle vetrine dei negozi, incollati ai portoni
degli enti pubblici, nei passaggi sotterranei della metropolitana, brossure
che ti venivano recapitate a mano agli incroci, sui tavolini dei caffe'...
la trasformazione della rivolta in parola scritta che accompagnava quella
pronunciata nei raduni in strada era diventata impressionante.
Bisogna pero' ricordare lo sfondo ideologico e filosofico dell'epoca, anche
se non direttamente legato agli avvenimenti della rivolta, ma dimostratosi
il suo humus fertile.
Gia' nel 1966 Lacan scrive i suoi Ecrits, Derrida pubblica i suoi libri uno
dietro l'altro: L'Ecriture et la difference, La Grammatologie, esce Les Mots
et les Choses di Foucault, Levi-Strauss e' seguitissimo, come lo sono gli
altri autori dell'area antropologica, etnologica, della linguistica
strutturale, della psicoanalisi. C'e' Althusser, Barthes, ma ci sono anche
Godard, Truffaut... Il cinema diventa particolarmente importante. Ecco come
lo descrive il grande Bernardo Bertolucci, l'autore di un film importante e
molto discusso sul 1968 parigino, Dreamers: "Tutto e' cominciato con il
film. La polizia e' diventata molto violenta per la prima volta quando ha
attaccato gli studenti filmofili e gli intellettuali parigini. Hanno
attaccato Truffaut e Godard, tutto e' cominciato con il film. E poi si e'
esteso a Londra, a Roma, alla Germania, a Berkley e alla Columbia
University. Tutte le brame e tutti gli obbiettivi erano connessi con il
cinema. Il cinema e' diventato straordinariamente importante. Si trattava
della proiezione delle illusioni che avevano il valore cinematico".
Si profila quindi un "continente intellettuale", come dira' Marcel Gauchet,
e questo continente alla ricerca di una comune teoria scientifica dell'uomo
e della societa', si puo' considerare la parte inscindibile, anche se meno
visibile, dell'iceberg che galleggera' minaccioso sulla scena politica e
culturale della Francia (e dell'Europa) alla fine degli anni '60.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 157 del 30 marzo 2008

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