Minime. 310



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 310 del 21 dicembre 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Mao Valpiana: La moratoria
2. Lea Melandri: Arcobaleni e tempeste
3. Monica Lanfranco: Un incontro a "Trama di terre" tra migranti e native
4. Pam O'Toole: Le donne afgane chiamano alla pace
5. Enrico Piovesana: Le donne di Kandahar
6. Borzou Daraghai: Ridisegnare la vita
7. Riletture. Gabriele Bevilacqua, Didattica interculturale dell'arte
8. Riletture: Antonella Fucecchi, Didattica interculturale della lingua e
della letteratura
9. Riletture: Antonio Nanni, Decostruzione e intercultura
10. Riletture: Alessio Surian, L'educazione interculturale in Europa
11. Riletture: Aluisi Tosolini, Sebi Trovato, New media, internet e
intercultura
12. La "Carta" del Movimento Nonviolento
13. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. MAO VALPIANA: LA MORATORIA
[Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: azionenonviolenta at sis.it) per
questo intervento.
Mao (Massimo) Valpiana e' una delle figure piu' belle e autorevoli della
nonviolenza in Italia; e' nato nel 1955 a Verona dove vive ed opera come
assistente sociale e giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel
Movimento Nonviolento (si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come
metodo innovativo di intervento nel sociale"), e' membro del comitato di
coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa
della nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile "Azione
Nonviolenta", fondata nel 1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al
servizio e alle spese militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla
campagna per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione
della Lega obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario
nazionale; durante la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione
diretta nonviolenta per fermare un treno carico di armi (processato per
"blocco ferroviario", e' stato assolto); e' inoltre membro del consiglio
direttivo della Fondazione Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio
della War Resisters International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione
di Coscienza); e' stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato
di sostegno alle forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per
la pace da Trieste a Belgrado nel 1991; nel giugno 2005 ha promosso il
digiuno di solidarieta' con Clementina Cantoni, la volontaria italiana
rapita in Afghanistan e poi liberata. Un suo profilo autobiografico, scritto
con grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4
dicembre 2002 de "La nonviolenza e' in cammino"; una sua ampia intervista e'
nelle "Minime" n. 255 del 27 ottobre 2007]

La guerra e' una pena di morte collettiva e indiscriminata.
Ora ci aspettiamo che i paesi, Italia in testa, che meritoriamente si sono
impegnati in sede Onu per la "moratoria della pena di morte" nel mondo,
applichino da subito la "moratoria della guerra" (che e' la peggiore delle
pene di morte, perche' eseguita senza processo e senza possibilita' di
chiedere la grazia), a partire dall'Afghanistan e dai conflitti in cui sono
coinvolti.

2. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: ARCOBALENI E TEMPESTE
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul
quotidiano "Liberazione" del 13 dicembre 2007 col titolo "Arcobaleni e
tempeste a sinistra".
Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista,
redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della
rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella riflessione
teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente
L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977, Manifestolibri, Roma 1997;
Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988, Bollati Boringhieri,
Torino 2002; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa
del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby
Dick 1996; Una visceralita' indicibile, Franco Angeli, Milano 2000; Le
passioni del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Dal sito
www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha
insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene
corsi presso l'Associazione per una Libera Universita' delle Donne di
Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E' stata
redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L'erba
voglio (1971-1978), di cui ha curato l'antologia: L'erba voglio. Il
desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al
movimento delle donne negli anni '70 e di questa ricerca sulla problematica
dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni:
L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997);
Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati
Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991;
La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996;
Una visceralita' indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle
donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000;
Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati
Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: 'Ragazza
In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto', 'L'Unita''. Collaboratrice della
rivista 'Carnet' e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la
rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione femminile', di cui ha curato,
insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista,
Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle donne scrive per le
rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'"]

Il rapporto tra il femminismo e le organizzazioni della sinistra - partiti,
sindacati e movimenti - non e' mai stato ne' pacifico ne' indolore. Una
sfida che avviene sugli stessi temi su cui si e' costruito il movimento
operaio e la lotta anticapitalista - uguaglianza, giustizia, liberta',
democrazia, rivoluzione -, ma che pretende di ribaltarli a partire da quella
struttura portante di ogni dominio che e' la sottomissione delle donne da
parte del sesso maschile, non poteva che suscitare, nel migliore dei casi
diffidenza, nel peggiore ostilita'.
"Democrazia ñ si legge nel libro curato da Rossana Rossanda, Le altre
(Feltrinelli 1978) - e' la certezza che il potere sia di tutti e di
ciascuno, e cioe' che sia 'naturale' non alienare ad altri il proprio
destino... per la donna resta ancora principalmente tempo e modo di
partecipazione. Liberta' e' liberazione dai condizionamenti piu' sottili dei
poteri, delle leggi scritte, da inibizioni introiettate, da soggezioni che
crescono in noi e con noi. Liberta' e' assunzione di poteri di intervento".
*
Il modo con cui la sinistra "alternativa" e' andata avvicinandosi al suo
momento "costituente", gli Stati Generali dell'8-9 dicembre 2007, non
lasciava molte speranze di cambiamenti effettivi riguardo al rapporto tra
partiti, culture critiche e pratiche di movimenti, tanto meno per quella
messa in discussione della matrice maschile, sessista, del potere, che viene
dai gruppi femministi.
Non parlero' quindi di delusione nell'aver visto ripetersi, alla Nuova Fiera
di Roma, un cerimoniale noto, misto di sacro e di spettacolarita' mediatica,
fatto, sia pure involontariamente, per raccogliere consensi e per misurare
l'audience di questo o quel leader.
Mi soffermero' invece sulla "Dichiarazione di intenti", scritta prima delle
due giornate, ma firmata come fosse l'esito di una effettiva assemblea della
sinistra e degli ecologisti. Se le parole hanno ancora un senso o, detto
altrimenti, se non sono usate come specchio per le allodole, allora bisogna
dire che tra cio' che si legge in quel documento e cio' che si e' visto
nelle giornate dell'8-9 dicembre corre una grande distanza, un vuoto di
consequenzialita' che dovrebbe far riflettere su che cosa si intende oggi
per partecipazione, impegno collettivo, responsabilita' condivisa.
Dovrebbe soprattutto interrogare la "nuova" sinistra su quell'ibrido che e'
diventata, misto di impalcature autoritarie - prolungamento inerziale di
tratti del proprio passato - e di tentazioni populiste, umori oggi dominanti
che la politica sempre piu' blandisce. Le analisi che si sono lette finora
sul rischio di "fascistizzazione" di una societa' di massa si richiamano
quasi sempre a ragioni economiche, sociali, politiche, come se la vita
psichica fosse tutt'uno con la realta' sociale o, al contrario, come se
fosse dislocata in un altrove senza storia.
Che i sogni, le paure, i bisogni infantili degli individui - cioe'
l'esperienza che piu' di ogni altro legame avvicina tra loro gli esseri
umani - agiscano sui comportamenti e sulle scelte quanto i maggiori poteri
della vita pubblica, e' una verita' che la sinistra, in nome del
"materialismo", continua a ignorare e che la destra, dietro la bandiera dei
"valori", maneggia con assoluta spregiudicatezza.
Nel fatti e nell'immagine che le opposte parti stanno dando di se', e'
proprio questa componente rimossa della politica a renderle progressivamente
sempre piu' uguali, assimilate a quei modelli patriarcali che le une
assumono "naturalmente" e che le altre dicono oggi di voler combattere.
*
"Uno Stato laico - si legge nella Dichiarazione - combatte l'omofobia e il
maschilismo. Assume del femminismo la critica delle strutture patriarcali e
il principio della democrazia di genere. Crea le condizioni sociali e
istituzionali per rendere effettivi i diritti e le scelte libere di tutte e
di tutti".
La laicita', che qui giustamente si pretende dallo Stato, il femminismo l'ha
collocata prima di tutto nella critica all'investitura del carattere sacro
della famiglia, fondata sulla "naturalizzazione" del ruolo sessuale e
procreativo della donna, e divenuta modello di tutte le aggregazioni
storiche maschili, compresi i partiti dell'eta' moderna.
Di laico, nella liturgia che celebra genealogie, passaggi del testimone tra
padri e figli maschi ñ perche' tale e' stato, al di la' delle presenze
femminili sul palco, il messaggio prevalente della giornata conclusiva -
c'e' ben poco.
Allo stesso modo, non si puo' parlare di "processo popolare, democratico e
partecipato" a proposito di una pratica dove il confronto delle idee e delle
esperienze, la decisione che dovrebbe maturare dalla riflessione collettiva,
arrivano gia' ingessati, preconfezionati dentro relazioni scritte prima
dell'incontro, passaggi di apparente apertura a movimenti, gruppi, singoli,
associazioni, di cui non resta traccia nelle sintesi finali dei segretari di
partito, e tanto meno nell'enfasi retorica di chi sa di poter incarnare come
capo carismatico l'"unita'" che tutti sognano, minacciata dalle divisioni,
dal rischio di una sconfitta elettorale, dalla vaghezza del progetto stesso
di rinnovamento.
*
Paradossalmente, quello che non e' vago nella "Dichiarazione di intenti", e'
la convinzione piu' volte ripetuta che sia indispensabile, per questa nuova
"nascita", "una discussione aperta e libera sulle idee, gli obiettivi, i
programmi, le forme di organizzazione e di rappresentanza", che sia
necessario "rinnovare il sistema politico e le forme della partecipazione
democratica".
Sono proprio queste forme, indisgiungibili come sappiamo dai contenuti, che
sono parse lo sbarramento piu' resistente rispetto alle culture critiche,
incapaci per prime di riconoscere a tutti i soggetti, presenti nelle loro
diversita' e conflittualita', quelle "liberta' individuali e collettive" che
insieme al lavoro e all'ambiente sono tra i temi principali dell'agenda
politica.
Nei maggiori quotidiani, "Repubblica" e "Corriere della sera", il resoconto
degli Stati Generali delle Sinistra e' uscito quasi irriconoscibile, ridotto
ancora una volta alla foto dei segretari di partito, all'abbraccio tra il
padre storico, Pietro Ingrao, e quello che sembra il suo successore
designato da una valanga di applausi, Nichi Vendola.
Depennati i molteplici interventi, che dovevano rappresentare la pluralita'
della nuova forza politica, depennata l'occupazione pacifica del palco dal
corteo del Dal Molin, passato sotto silenzio il comunicato con cui i gruppi
femministi si dissociavano da una sinistra che rinasceva ancora una volta
come "affare di uomini".
La stampa, come si sa, non e' neutra ne' riguardo alla politica ne' riguardo
al sesso. Ma resta il dubbio che abbia colto quello che, nonostante i buoni
intenti, e' passato di fatto come messaggio di fondo delle due giornate alla
Nuova Fiera di Roma.

3. ESPERIENZE. MONICA LANFRANCO. UN INCONTRO A "TRAMA DI TERRE" TRA MIGRANTI
E NATIVE
[Ringraziamo Monica Lanfranco (per contatti: monica.lanfranco at gmail.com,
siti: www.monicalanfranco.it, www.mareaonline.it) per averci messo a
disposizione questo intervento.
Monica Lanfranco, giornalista professionista, nata a Genova il 19 marzo
1959, vive a Genova; collabora con le testate delle donne "DWpress" e "Il
paese delle donne"; ha fondato il trimestrale "Marea"; dirige il semestrale
di formazione e cultura "IT - Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994
ha curato l'Agendaottomarzo, libro/agenda che veniva accluso in edicola con
il quotidiano "l'Unita'"; collabora con il quotidiano "Liberazione", i
mensili "Il Gambero Rosso" e "Cucina e Salute"; e' socia fondatrice della
societa' di formazione Chance. Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA
Donne di sport; nel 1994 ha scritto per l'editore Solfanelli Parole per
giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi, ristampato in due
edizioni. Per Solfanelli cura una collana di autrici di fantasy e
fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996 l'ufficio stampa per il network
europeo di donne "Women in decision making". Nel 1995 ha curato il libro
Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato imperfetto nelle foto di fine
secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con Silvia Neonato, Lotte da orbi:
1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo testo di storia sociale e
politica scritto anche in braille e disponibile in floppy disk utilizzabile
anche dai non vedenti e rintracciabile anche in Internet. Nel 1996 ha
scritto Storie di nascita: il segreto della partoriente (La Clessidra).
Recentemente ha pubblicato due importanti volumi curati in collaborazione
con Maria G. Di Rienzo: Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli
2003; Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2005. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne
strutturati (politici, sindacali, scolastici) sulla storia del movimento
delle donne e sulla comunicazione.
Per saperne di piu' sul centro interculturale di donne "Trama di terre" si
puo' utilmente viitare il sito www.tramaditerre.org]

"E' importante questo posto, perche' quanto arrivi qui non conta da dove
vieni o che problema hai, quando arrivi qua sei benvenuta. 'Trama di terre'
e' importante non solo per le donne straniere, ma anche per le italiane".
Victoria Ada Nwadike e' una forza della natura, africana possente e
accogliente che si illumina quando parla di "Trama di terre", che definisce
senza esitazione casa sua. Ma non solo lei descrive il casale a due piani
restaurato nel centro storico di Imola, dove ci sono alloggi per una decina
di donne e i loro bambini e bambine, una biblioteca, una sala riunione,
internet point, una scuola di italiano, un ristorante (La cucina abitata) e
un cortile con pozzo come "casa mia" o come la propria seconda casa. Lo
dicono anche Naida Altoungi, Kadija Aitoubi, Teresa Gagliostro, Maria Luisa
Mazzocca, Marina Grazia, Silvia Varas che a Trama lavorano in vari ruoli:
mediatrici culturali, insegnanti di italiano, segreteria, formazione.
"Trama di terre" e' l'ultimo centro interculturale indipendente gestito da
donne migranti e native rimasto in piedi in Italia, che nei primi giorni di
dicembre ha festeggiato i suoi dieci anni tondi di vita, lotta e
re-esistenza in un territorio difficile, come quello di una provincia
emiliana ricca e ripiegata su di se', e piu' in generale in un paese (e da
parte di una sinistra in particolare) che non sempre premia gli sforzi
generosi e intelligenti di un pugno di donne ostinate.
Ostinate a cercare di coniugare l'accoglienza di migranti in situazioni
problematiche, la gestione dell'emergenza e lo sviluppo culturale attivo e
tangibile della differenza di genere che si e' concretizzata in questi anni
attraverso centinaia di incontri, seminari, manifestazioni, produzione di
video, cd e testi che oggi sono un patrimonio immenso al quale chi vuole
fare intercultura puo' e deve accedere se vuole praticare una relazione tra
migranti e native con un taglio di genere che non si nasconde dietro alle
difficolta'.
Ostinate anche nel nominarle le difficolta' e i conflitti, le donne di
"Trama di terre" lo sono fino in fondo, e lo hanno dimostrato proprio nel
momento del loro genetliaco, al punto da promuovere, proprio per un
compleanno cosi' importante come quello dei dieci anni, una tre giorni a
dicembre dal titolo inequivocabilmente provocatorio "Il multiculturalismo fa
male alle donne?".
La domanda, lanciata a fine anni '90 dalla studiosa femminista Susan Moller
Okin, scomparsa di recente, e' stata raccolta come un fecondo approccio
conflittuale in Europa da parte dei gruppi e dei movimenti che si occupano
di intercultura con ottica di genere in modi diversi e con diversa fortuna;
in particolare la rete del Wluml (Women living under muslims laws) e il
centro londinese Southall Black Sister, ospiti nel 2006 della rivista
"Marea" all'incontro genovese "La liberta' delle donne e' civilta'",
lavorano da tempo sull'allarmante fenomeno del relativismo culturale, che
diventa difesa e tutela acritica dei diritti universali neutri delle
comunita' a scapito di quelli, non considerati universali ed inviolabili,
delle donne. In Italia l'approccio della Okin che antepone i diritti delle
donne a quelli delle tradizioni e dei costumi, in genere di derivazione
patriarcale e religiosa, delle comunita' migranti e' guardato con sospetto
per due ordini di motivi: il primo perche' viene da una studiosa
nordamericana, quindi invisa alle frange piu' ideologiche a sinistra e il
secondo perche' lo si percepisce come poco accogliente verso le comunita'
migranti, dove evidentemente la questione dei diritti di uguaglianza e
cittadinanza delle donne apre conflitti e scompagina la logica dell'enclave.
Il difficile crinale sul quale le donne di Trama da un decennio hanno scelto
di lavorare e' proprio questo: coniugare accoglienza senza nascondere il
proprio posizionamento a favore della crescita della capacita' delle donne
di autodeterminarsi, anche e soprattutto quando questo significa entrare in
conflitto con le comunita' di appartenenza. Un compito assai arduo, visto da
una parte la diffidenza di parti di femminismo e, inoltre, l'apatia e
l'incompetenza istituzionale.
"Trama e' stato ed e' da dieci anni un tentativo di dare corpo e voce ad
altre parole e a vite spezzate, un luogo molto abitato e uno spazio di
riflessione positiva, luogo di storie che non sanno piu' rimettere insieme i
pezzi e un luogo dove e' possibile praticare un continuo riadattamento. Non
tanto delle nostre posizioni, ma anche dell'habitat, del modo di stare
insieme rispetto alle esigenze nuove che via via si presentavano - spiega
Tiziana Dal Pra', che di Trama e' una delle fondatrici -. Il nostro e' un
lavoro che svolgiamo spesso in un deserto di solitudine sia politica che
economica, perche' se la questione interculturale non e' di certo
nell'agenda dei femminismi altrettanto vale per l'agenda delle istituzioni.
Si confondono politica e servizi: i servizi da soli non bastano, serve far
capire che il lavoro da fare sull'immigrazione non e' solo erogazione di
servizio, ma e' soprattutto creare cittadinanza e dentro la cittadinanza
formare consapevolezza dei diritti delle donne. Trama e' depositaria di nodi
cruciali, tra i quali quello piu' spinoso riguarda proprio i diritti
femminili, e la loro nominazione. Abbiamo raccolto l'eredita' piu'
importante e anche piu' disattesa del pensiero femminista: il personale e'
politico. Se tengo mia moglie dentro case e le impedisco di uscire, di
mangiare, di educare i bambini io lo chiamo sequestro di persona e questo e'
duro da dire perche' il discorso scivola presto sul fatto che sono culture
'altre', che comunque in tutte le famiglie, anche quelle italiane, ci sono
problemi. La nostra peculiarita' e' proprio questa, evidenziare che e'
necessario il cambiamento, cosi' come tra i nativi e le native, tra di noi,
cosi' anche nelle comunita' migranti".
All'incontro di Imola c'erano le poche, ma molto attente, realta' sparse in
Italia che lavorano sulla questione migrante dal punto di vista delle donne:
Acmid, associazione di donne marocchine, Candelaria, Cisda (coordinamento
aiuto donne afgane), Amnesty. Da Imola nei primi mesi del nuovo anno
partira' la costruzione di una rete che, avendo a disposizione l'enorme
patrimonio costruito da "Trama di terre", diventi un soggetto collettivo in
grado di diventare punto di riferimento per tutte, migranti, native, e
soprattutto giovani donne e uomini delle seconde generazioni, che
costituiscono il vero banco di prova dell'integrazione.

4. MONDO. PAM O'TOOLE: LE DONNE AFGANE CHIAMANO ALLA PACE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Pam
O'Toole per "Bbc news" del 12 dicembre 2007.
Pam O'Toole, portavoce dell'Unhcr, collaboratrice di  "Bbc news", e'
un'attenta conoscitrice della situazione mediorientale]

Moltissime dicono di non poterne piu' della violenza. Hanno tenuto incontri
di preghiera in tutto il paese per chiamare alla pace e condividere le
proprie esperienze. Le organizzatrici stimano che oltre mille donne abbiano
partecipato a questi incontri nelle sei principali province afgane.
L'evento, chiamato Preghiera nazionale delle donne per la pace, si e' tenuto
nelle province del sud di Kandahar e Helmand e altrove. Tali iniziative sono
assai inusuali in un Afghanistan lacerato dalla guerra. Il paese resta
profondamente conservatore e patriarcale, soprattutto al sud. Quando fu
permesso a diverse centinaia di donne di pregare in pubblico, a Kandahar,
all'inizio di quest'anno, si disse che si trattava del primo evento del
genere in assoluto. Ora, mentre la violenza si diffonde nel paese, donne di
altre cinque province si sono aggiunte a quelle di Kandahar, per far sentire
le loro voci, che chiedono pace. Rangina Hamid, una delle organizzatrici,
dice che cio' mostra l'unita' delle donne afgane: "Non penso sia mai
accaduto prima nella storia dell'Afghanistan. In primo luogo, il fatto che
sei differenti province lavorino insieme senza altro fine che la pace. Da
tutte si e' levato lo stesso alto grido: le donne sono nauseate e stanche
degli omicidi gia' avvenuti e di quelli che avverranno".
Le organizzatrici spiegano anche che alcune donne afgane erano chiaramente
preoccupate dell'essere coinvolte in tali eventi. La madre di Kandahar che
per prima ha gettato il seme degli incontri ha chiesto che il suo nome non
venga pubblicizzato, perche' la sua famiglia non approverebbe. Rangina
Hamidi racconta che quelle che hanno partecipato all'evento a Kandahar erano
particolarmente sollevate dal fatto che l'incontro pubblico non fosse stato
investito da minacce o aggressioni: "Stavano rischiando le loro vite. Non
sapevamo come la cosa sarebbe stata vista. E non abbiamo neppure informato
le forze di sicurezza affinche' ci proteggessero. Volevamo che il tutto
fosse il piu' naturale possibile. In questo modo, quando le donne agiscono
da se stesse, si sentono fiere di cio' che fanno, e fiere delle loro
sorelle".
Le organizzatrici aggiungono che gli incontri di mercoledi' 12 dicembre
segnano l'inizio di un movimento: lo scopo, ora, e' di diffondere eventi
simili in tutte le 34 province afgane.

5. MONDO. ENRICO PIOVESANA: LE DONNE DI KANDAHAR
[Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente
articolo del 13 dicembre 2007, dal titolo "I burqa della pace" e il sommario
"Le donne di Kandahar hanno dato vita a un movimento pacifista nazionale".
Enrico Piovesana, giornalista, lavora a "Peacereporter", per cui segue la
zona dell'Asia centrale e del Caucaso; e' stato piu' volte in Afghanistan in
qualita' di inviato]

Le donne afgane scendono in campo pubblicamente per chiedere la pace, la
fine della guerra e della violenza che da trent'anni insanguina il loro
paese. Un evento epocale per l'Afghanistan, dove le donne non hanno mai
potuto schierarsi pubblicamente.
*
Ieri, migliaia di donne si sono riunite contemporaneamente in sei diverse
province afgane per pregare per la pace. L'iniziativa, denominata "Preghiera
nazionale delle donne per la pace", e' stata coordinata da un gruppo di
donne di Kandahar. "E' la prima volta nella storia dell'Afghanistan che le
donne si organizzano a livello nazionale per chiedere la pace", dice Rangina
Hamidi, una delle organizzatrici. "Siamo stanche della morte e vogliamo
urlarlo forte. Per farlo abbiamo scelto la religione: trattandosi di una
cosa religiosa i nostri mariti non si sono opposti a questa iniziativa di
preghiera".
Il debutto delle donne per la pace era avvenuto circa un anno fa, con una
giornata di preghiera che pero' interessava solo le province di Kandahar e
Helmand. "Con l'estendersi delle violenze in tutto il Paese, anche le donne
di altre province hanno sentito la necessita' di unire le loro voci alle
nostre per chiedere la pace", ha spiegato Hamidi. "La preghiera di ieri e'
stata solo l'inizio di un vero movimento nazionale: il nostro obiettivo e'
di estenderlo a tutte le trentaquattro province afgane".

6. MONDO. BORZOU DARAGAHI: RIDISEGNARE LA VITA
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di
Borzou Daragahi apparso sul "Los Angeles Times" dell'8 dicembre 2007.
Borzou Daragahi, giornalista, e' corrispondente da Teheran per l'Associated
Press ed altre testate, acuta conoscitrice della situazione del Medio
Oriente e dell'Asia centrale]

Teheran, Iran. Benestante donna alla moda, della zona nord di Teheran,
Sudaveh non aveva la piu' pallida idea di cosa fare quando la "polizia
morale" si presento' ad ispezionare la sua fabbrica di abiti. Zarir, la sua
giovane assistente proveniente dai pii slum del sud della citta', sapeva
esattamente come comportarsi. "Non entrate in quella stanza!", disse agli
uomini della polizia mentre Sudaveh correva a coprirsi la testa per
rispondere al "codice d'abbigliamento islamico", "Alla signora non piace
essere disturbata quando prega". Ed anche: "Non aprite quel cassetto", che
era dove Sudaveh, nel passato grande viaggiatrice, teneva i cataloghi di
design che giudicava piu' rischiosi, "Potrebbero esserci sue fotografie
senza sciarpa in testa".
Mentre Zarir aiutava Sudaveh a destreggiarsi fra le intricate norme della
Repubblica Islamica, Sudaveh aiutava Zarir a trasformare se stessa da
vittima di violenza domestica inchiodata nella propria casa a donna
d'affari, una donna che ha affrontato il suo ex marito ed una severa
famiglia tradizionalista. Da quasi vent'anni, le due donne appartenenti a
due diversi Iran, sono diventate amiche. I fili delle loro vite si sono
intrecciati. La loro nazione e' cambiata. Il loro commercio di abiti e'
cresciuto sino a diventare un piccolo impero.
Dopo la rivoluzione islamica del 1979, l'Iran fu rovesciato da cima a fondo.
Dalle strade sparirono prostitute e ubriachi, e divennero sobrie come
moschee durante le preghiere del pomeriggio. Furono le case, un tempo rifugi
di quiete dalla baldoria della citta', a mutarsi in bar e nightclub
improvvisati. Le famiglie benestanti persero status e beni, e molte si
trasferirono all'estero. In questo mondo trasformato, Sudaveh e Zarir
strinsero alleanza. Prima della rivoluzione, Sudaveh lavorava come
vicedirettrice della Banca agricola statale, un posto d'elite che aveva
raggiunto tramite le sue conoscenze ed il background quasi aristocratico
della famiglia. Ma come molti altri, fu cacciata dal lavoro.
Inquieta ed instancabile, allora sulla trentina, Sudaveh comincio' a
vagliare le proprie opzioni. Voleva guadagnare denaro per la sua famiglia,
essere occupata e restare distante dalla nuova classe di pii burocrati e dai
loro codici "islamici" di comportamento. "Non ero il tipo che resta a casa.
Dovevo lavorare". Decise di entrare nel ramo dell'abbigliamento,
specialmente infantile, per evitare i problemi che si accoppiano a qualsiasi
cosa abbia a che fare con i vestiti delle donne iraniane. Comincio' a
disegnare magliette, che venivano prodotte a basso costo nei laboratori dei
sobborghi di Teheran, e assieme ad un'amica di nome Haleh le proponeva ai
negozi.
"Mio marito lo considerava un gioco. Mi prendeva in giro", ricorda Sudaveh,
che ha chiesto di non venir identificata ne' con il proprio cognome ne' con
il nome della sua ditta, per non mettere in pericolo i suoi dipendenti. Agli
inizi ci furono parecchi problemi, in un settore di mercato dominato dagli
uomini. "E' stata dura, si'. I negozianti cercavano di imbrogliarci.
Pensavano che io fossi semplicemente una donna ricca, a cui il marito
permetteva di fare queste cose per tenersi occupata. Ho dovuto dimostrare
loro che non potevano mettermi nel sacco, che sapevo benissimo quel che
stavo facendo". Il suo giro d'affari aumento', e Sudaveh colse l'occasione.
Acquisto' le attrezzature, assunse dei lavoratori e si mise a produrre abiti
in proprio. All'epoca, era rarissimo che si permettesse ad una donna di
dirigere una fabbrica, e immediatamente cio' desto' i sospetti della
"polizia morale", che prese a fare capolino.
*
Le restrizioni imposte dalla Repubblica Islamica sui vestiti e sul
comportamento sociale non erano nulla di nuovo per Zarir, nel cui quartiere
praticamente tutte le donne erano avvolte in chador neri che lasciavano
fuori solo il viso e le mani, e i genitori arrangiavano matrimoni tra
bambini. Zarir veniva da una famiglia strettamente religiosa, e persino
durante il governo dello scia' Mohammed Reza Pahlavi aveva frequentato una
scuola islamica. A sedici anni, fu data in moglie. Suo marito era violento,
e divorzio' unilateralmente da lei e ottenne la custodia dei figli. Il
divorzio divenne un marchio di vergogna per Zarir e la sua famiglia. Per
rendere peggiore la situazione, l'ex marito le proibi' di accostarsi ai
propri figli, un maschio e una femmina. Non avendo piu' mezzi per
mantenersi, la giovane donna persuase un padre conservatore a permetterle di
cercare un lavoro. Allora incontro' Sudaveh, nella seconda meta' degli anni
'80. "Quando arrivai qui, stavo davvero male", dice Zarir, oggi quarantenne
e manager del laboratorio. E' l'esatto opposto, dal punto di vista fisico,
della sottile Sudaveh: braccia muscolose, guance rotonde e una voce tonante
che sovrasta i rumori della fabbrica. Suo padre, pur riluttante, ebbe una
buona impressione di Sudaveh e permise a Zarir di lavorare purche' restasse
al piano superiore, e non scendesse al piano terra dove lavoravano gli
uomini.
*
Sudaveh non ci mise molto a scoprire i talenti nascosti della sua operaia:
"Lei capiva benissimo questi tipi religiosi, la polizia. Quando arrivavano
qui io ero terrorizzata e lei si faceva avanti e rispondeva al posto mio".
Sudaveh aveva perduto la sua socia in affari, Haleh, dopo un'ispezione della
"polizia morale". Arrivarono all'improvviso, e trovarono nel cassetto di una
scrivania un catalogo con foto di donne in bikini. Haleh fini' in galera,
fra tossicodipendenti e rapinatori. Lascio' l'Iran subito dopo.
"Devi risponder loro velocemente", spiega Zarir, "Se ti chiedono: perche'
sei truccata? Tu dici: mi trucco per le donne, non per gli uomini. Se
dicono: Le tue calze sono troppo sottili, tu rispondi: Ma il mio hijab e'
lungo". La polizia l'ha presa da parte piu' volte per farle domande sulla
sua datrice di lavoro, soprattutto per sapere come tratta i suoi dipendenti.
"Non ha mai maltrattato nessuno, ho risposto, Ma talvolta e' spinosa: ad
esempio, non sopporta nessun rumore quando prega". Sudaveh, le cui
preferenze in merito al proprio abbigliamento vanno a jeans attillati e
sandali aperti, ha trovato l'aiuto di Zarir indispensabile. "Non sapevo
neppure come indossare l'hijab. Nella mia famiglia non ce n'era alcuno.
Nemmeno le mie nonne lo portavano".
Dopo aver saputo della storia difficile di Zarir, Sudaveh pote' ricambiare
con alcuni consigli sofisticati: perche' non si faceva amica, con
discrezione, della nuova moglie del suo ex marito, e non si offriva di
prendersi cura dei bambini ogni tanto? Funziono'. Presto Zarir e la seconda
moglie cooperarono e Zarir pote' passare con i suoi figli il tempo che il
loro padre e i tribunali islamici le avevano negato. Quando la seconda
moglie si ammalo' gravemente, affido' i figli di entrambe a Zarir per il
tempo in cui il marito era al lavoro. "E' stata una grande lezione, per me",
racconta Zarir, "Ho imparato ad ottenere cio' di cui avevo bisogno". La
giovane fu molto impressionata dalle abilita' sociali della datrice di
lavoro. Sebbene venisse derisa, assieme a quanti i conservatori religiosi
definivano "lacche' dell'Occidente", Zarir trovava il suo tipo di relazioni
attraente: "Non ho mai visto un uomo della sua famiglia trattare una donna
nel modo in cui mio marito trattava me".
*
Sudaveh ingaggio' altre donne, che divennero dodici su quaranta dipendenti.
Ma era frustrata dal fatto che non volessero interagire con i colleghi di
sesso maschile. Si rifiutavano persino di alzare gli occhi su di loro e si
ritraevano per far spazio se gli uomini passavano troppo vicini. Se una
donna voleva rifinire il proprio lavoro d'ago su una camicia che un uomo
stava mettendo insieme, era Sudaveh ad andare a chiederlo per lei. "Non
andava troppo bene, neppure a livello di efficienza", spiega Sudaveh, "Un
gruppo deve fare gruppo". Un giorno, qualche anno fa, Sudaveh riuni' tutte
le donne che lavoravano al piano superiore della fabbrica: "Dissi loro:
Voglio che andiate di sotto. Non abbasserete la testa. La terrete alta e
guarderete gli uomini negli occhi". E le guido' personalmente giu' dalle
scale. Lo fece anche il giorno successivo, e quello dopo ancora. Nel giro di
qualche mese, l'atmosfera divento' rilassata ed informale. Uomini e donne si
chiamavano per nome e lavoravano fianco a fianco. Gli uomini cominciarono a
comportarsi molto educatamente, a non usare scurrilita' nel linguaggio e a
tenere pulito il proprio ambiente di lavoro. Uno di essi porto' nel
laboratorio dei parrocchetti, che oggi sembrano cinguettare a ritmo con la
musica pop iraniana che suona di sottofondo. "Adesso la cosa e' normale, non
ci fanno piu' caso", dice Sudaveh incrociando le gambe e sorridendo
soddisfatta, "Nessuno, ne' uomo ne' donna, si e' licenziato".
*
Mentre gli anni passavano, la societa' iraniana continuo' a cambiare. La
gente si mosse dai villaggi e dalle fattorie verso grandi citta' come
Teheran, Tabriz e Mashhad, e si ammasso' in piccoli appartamenti. Le coppie
avevano meno figli, due o tre invece dei sei o sette che erano comuni
all'inizio della rivoluzione, secondo i dati delle Nazioni Unite. I genitori
presero a viziare un po' i loro figli, e produrre buoni e begli abiti per
loro divenne un affare conveniente.
Sette anni fa, Sudaveh apri' il proprio negozio, con il proprio marchio.
"Molti dei proprietari dei punti vendita non sanno nulla di cio' che
vendono, o di vestiti", dice. Ma lei lo sa bene, cosi' presto i negozi
divennero due. Sua figlia Ghazaleh termino' gli studi universitari e
comincio' a lavorare per sua madre: assunse un programmatore di software per
creare un sistema d'inventario computerizzato, mettere codici a barre su
ogni pezzo e dare alla compagnia maggiori capacita' produttive. La cosa che
il marito di Sudaveh vedeva un tempo come un gioco, si e' espansa sino ad
avere dodici magazzini sul territorio nazionale, e genera milioni di dollari
di entrate. Sudaveh ha comperato un condominio a Toronto. Zarir ha mandato
la figlia all'universita'.
La "polizia morale" continua a venire, ma ora sono piu' una seccatura che
una minaccia. Chiudono i negozi, ma temporaneamente, se la commessa non e'
secondo loro abbastanza "islamica" nell'abbigliamento. Di recente, il padre
di Zarir si e' ammalato ed ha dovuto essere ricoverato in ospedale. Lei e'
andata a fargli visita, ed era seduta sul bordo del suo letto, quando un
collega del padre e' entrato nella stanza. Il malato e' stato felice di
presentare Zarir all'altro uomo: "Questa e' mia figlia, quella che lavora",
ha detto con orgoglio.

7. RILETTURE. GABRIELE BEVILACQUA: DIDATTICA INTERCULTURALE DELL'ARTE
Gabriele Bevilacqua, Didattica interculturale dell'arte, Emi, Bologna 2001,
pp. 128, euro 6,20. In breve giro di pagine e con un'esposizione pianamente
introduttiva (e molto dando necessariamente per sottinteso, come segnalato
alle pp. 97-99) un primo quadro generale ed alcuni primi concetti chiave.
Per richieste alla casa editrice: Emi, via di Corticella 179/4, 40128
Bologna, tel. 051326027, fax: 051327552, e-mail: sermis at emi.it,
stampa at emi.it, ordini at emi.it, sito: www.emi.it

8. RILETTURE. ANTONELLA FUCECCHI: DIDATTICA INTERCULTURALE DELLA LINGUA E
DELLA LETTERATURA
Antonella Fucecchi, Didattica interculturale della lingua e della
letteratura, Emi, Bologna 1998, 2001, pp. 128, euro 6,20. Un testo agile e
semplice con alcune interessanti proposte didattiche. Per richieste alla
casa editrice: Emi, via di Corticella 179/4, 40128 Bologna, tel. 051326027,
fax: 051327552, e-mail: sermis at emi.it, stampa at emi.it, ordini at emi.it, sito:
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9. RILETTURE. ANTONIO NANNI: DECOSTRUZIONE E INTERCULTURA
Antonio Nanni, Decostruzione e intercultura, Emi, Bologna 2001, pp. 128,
euro 6,20. Un apprezzabile libro della collana pedagogica e didattica dei
"Quaderno dell'interculturalita'" che propone brevi, semplici, chiari e
stimolanti testi introduttivi; e' un testo che puo' essere molto utile a chi
lavora in ambito scolastico e formativo (forse con qualche eccesso di
sintesi e di semplificazione, ma e' un limite per cosi' dire necessariamente
implicato dalle caratteristiche e dalla destinazione della collana in cui il
libro appare). Per richieste alla casa editrice: Emi, via di Corticella
179/4, 40128 Bologna, tel. 051326027, fax: 051327552, e-mail: sermis at emi.it,
stampa at emi.it, ordini at emi.it, sito: www.emi.it

10. RILETTURE. ALESSIO SURIAN: L'EDUCAZIONE INTERCULTURALE IN EUROPA
Alessio Surian, L'educazione interculturale in Europa, Emi, Bologna 1998,
2001, pp. 128, euro 6,20. Un rapido giro d'orizzonte nell'ambito dell'Unione
Europea e un repertorio di materiali e riferimenti utili. Per richieste alla
casa editrice: Emi, via di Corticella 179/4, 40128 Bologna, tel. 051326027,
fax: 051327552, e-mail: sermis at emi.it, stampa at emi.it, ordini at emi.it, sito:
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11. RILETTURE. ALUISI TOSOLINI, SEBI TROVATO: NEW MEDIA, INTERNET E
INTERCULTURA
Aluisi Tosolini, Sebi Trovato, New media, internet e intercultura, Emi,
Bologna 2001, pp. 112, euro 6,20. Un libro introduttivo per per certi
aspetti forse troppo cursorio, ma decisamente utile e stimolante come
repertorio di percorsi e proposte. Per richieste alla casa editrice: Emi,
via di Corticella 179/4, 40128 Bologna, tel. 051326027, fax: 051327552,
e-mail: sermis at emi.it, stampa at emi.it, ordini at emi.it, sito: www.emi.it

12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

13. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 310 del 21 dicembre 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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