Voci e volti della nonviolenza. 103



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 103 del 9 ottobre 2007

In questo numero:
Adriano Paolella e Zelinda Carloni: Un altro modo e' possibile (parte prima)

ADRIANO PAOLELLA E ZELINDA CARLONI: UN ALTRO MODO E' POSSIBILE (PARTE PRIMA)
[Da "A. rivista anarchica", anno 37, n. 329, ottobre 2007, riprendiamo il
seguente dossier "Un altro modo e' possibile. Riflessioni sull'uso delle
merci",  a cura di Adriano Paolella e Zelinda Carloni, settimo inserto della
serie "Globalizzazione e ambiente. Idee per capire, vivere e opporsi al
nuovo modello di profitto"]

In una societa' in cui il commercio e' parte preponderante delle relazioni,
spesso le azioni compiute dai singoli sono dettate dagli interessi che altri
vi ripongono.
Piu' le merci sono inutili e piu' e' richiesta la loro promozione, e nella
societa' occidentale contemporanea la stragrande quantita' di oggetti e di
servizi in commercio non e' necessaria.
Anche un piccolo artigiano ha interesse a vendere la sua merce. Se egli e'
consapevole che il suo lavoro e' importante per la comunita' in cui vive non
ha necessita' di promuovere il suo prodotto; le persone andranno
direttamente da lui, senza bisogno di essere stimolate, in quanto il suo
lavoro e' utile.
Il modello sociale contemporaneo e' lontano da questo. Da una parte preleva
risorse naturali e sociali e dall'altra immette nel mercato e stimola al
consumo di una quantita' enorme di merci spesso inutili.
Il modello e' governato da una continua proposizione di merci, come se
attraverso di esse si possa acquisire una nuova condizione di vita
inspiegabilmente migliore della precedente.
La felicita' e' una questione individuale ma la condizione per esser felici
dovrebbe essere la rimozione delle comuni ragioni di infelicita'. E troppi
sono i motivi per constatare che insieme non vi sono ragioni di felicita'.
Troppi gli interessi che impongono altre priorita', troppa l'attenzione alle
merci, troppo scarso l'impegno nella ricerca di un benessere individuale e
collettivo.
Per lasciare libero lo spazio alla concretezza delle merci, l'attenzione e'
indirizzata su valori alienati, estranei alla comune soddisfazione.
Subissati dalle merci e' difficile anche rendersi conto di come cinquanta
anni fa, per esempio, l'italiano medio, che viveva dignitosamente, aveva
abitudini di vita del tutto spartane, se confrontate con le attuali, e
questo senza che ne risentisse la sua condizione esistenziale.
Ma il paradosso e' che quelle condizioni, allora del tutto normali e niente
affatto "primitive", oggi non sono praticabili facilmente. La struttura
stessa della societa' occidentale crea nel tempo delle nuove poverta'
relative, impensabili in altre condizioni storiche e culturali. Il "livello
medio" imposto alla nostra collettivita' non prevede variazioni
significative e al di sotto del quale pone la miseria, e non la poverta'.
Sono le strumentazioni, e quindi le merci, che rendono faticoso un percorso
diverso. Esempio chiarificatore e' il telefono. Negli anni Sessanta, in
Italia il telefono era appena arrivato al livello della popolazione media e,
per esempio, consentiva di usare il duplex. Il duplex era un saggio modo di
utilizzo dello strumento per cui, una stessa linea, veniva usata da due
utenti. C'era il disagio di trovare, di tanto in tanto, la linea occupata,
ma costava la meta'. Oggi questa circostanza non solo non e' possibile anche
volendo, ma e' impensabile per l'utente stesso. Non si puo' accettare che
per fare una telefonata si debba aspettare che un altro abbia finito di fare
la sua.
L'uso del telefono ha raggiunto un livello di utilizzo paragonabile ad un
bene primario; tanto che in un pregevole libro relativo ad alcuni barboni
romani, scopriamo che i "senza casa-beni-affetti-conforti ecc." di cui si
parla, considerano indispensabile il cellulare, e lo posseggono.
E' proprio da questa "fondamentalita'", economicamente dispendiosissima,
delle merci e degli strumenti che e' necessario sganciarsi, utilizzando la
propria intelligenza, la creativita', aiutandosi.
Forse e' opportuno ritrovare il senso della propria esistenza in
comportamenti di cui conosciamo il significato e la finalita',
nell'adoprarsi con mezzi che siano omogenei al fine, nel recuperare un senso
della societa' in cui ciascuno non sia rappresentazione di interessi o di
ruolo, ma di utilita', per quello che sa effettivamente fare, di cultura, di
tecnica, di esperienza, di creativita'.
Forse e' opportuno consumare meno merci, per produrre meno merci, per
lavorare di meno; perche' ad ogni azione inutile, ogni merce inutile,
corrisponde, da qualche parte, miseria e devastazione.
Queste riflessioni si rivolgono a coloro che, nei paesi ricchi, possono dire
di non conoscere la poverta'. Coloro i quali hanno a disposizione una
notevole quantita' di denaro (enorme rispetto ai 4/5 del mondo,
infinitesimale rispetto ai veri ricchi) che spesso non risulta sufficiente
per l'andamento del quotidiano, proprio in ragione dello sperpero di merci a
cui partecipano.
Essi sono, anche inconsapevolmente, le colonne di sostegno del mercato,
coloro che acquisiscono maggiori quantita' di merci, quelli che manifestano
maggiori necessita'.
Essi possono, con i loro comportamenti, contribuire a rallentare questo
aberrante meccanismo produttore di infelicita', limitandone il potere,
riducendone l'ambito operativo, sottoponendolo a visione critica.
Sfilandosi da esso, uscendo dalle sue consuetudini. Seppure
impercettibilmente, seppure con piccole azioni, ognuno di essi, attraverso
il proprio comportamento, attraverso la limitazione delle inutilita', puo'
ridurre la potenza del modello.
Comprando meno merci, dedicando piu' tempo al mantenimento degli oggetti,
alla preparazione del cibo, se possibile alla sua produzione, muovendosi di
meno.
Piccole azioni che non risolvono completamente i nodi del problema ma che
aiutano a ritrovare una consapevolezza sulla base della quale conservare la
propria autonomia culturale e permettere una pratica meno infelice per noi
dei paesi ricchi e per gli altri poveri e dei paesi poveri.
Riflessioni che possono essere utili per cambiare atteggiamenti e abitudini
di cui si sono sottovalutati i negativi effetti ambientali e sociali.
Molti sono i sostenitori inconsapevoli di un modello ingiusto, incongruo,
inefficiente che ogni giorno produce innumerevoli vittime, che ogni giorno
annulla cultura e valori di intere comunita' e ogni giorno porta violenza
sugli oppositori, su coloro che esprimono un giudizio critico.
Sostenitori per pregiudizio o per pigrizia piu' che per convinzione.
Ma per coloro i quali non ritengono la sofferenza degli altri un
indispensabile corollario del proprio benessere allora per costoro e'
possibile che sia stata solo una svista il fatto di aderire
indiscriminatamente a questo modello.
Spesso non si considera quanto attraverso le nostre azioni, quelle
quotidiane, quelle consuete, abitudinarie, apparentemente innocue si
sostengano interessi precisi, nocivi per l'ambiente e l'umanita'. E cio'
avviene principalmente perche' le scelte quotidiane sono poste come non
scelte, ovvero come soluzioni normali senza alternative, perche' sono
sottovalutate nella loro importanza. I consumatori, cosi' come possono
creare un mercato lo possono distruggere. Ma questo i consumatori sembrano
non saperlo.
Non e' necessario rimandare la ricerca e il raggiungimento del benessere ad
un mondo tutto da realizzare, diverso, successivo. Un mondo cambiato
dall'acquisizione del potere, dalla vittoria elettorale, dalla rivoluzione
sociale.
Un altro mondo e' possibile anche oggi, anche comportandosi in maniera
diversa, dando cosi' continuita' tra l'oggi e il domani, lavorando cosi' nel
presente, per il presente e non solo per il futuro.
Un altro mondo gia' esiste nell'infinita diversita' degli uomini,
nell'enorme capacita' mostrata da parte di popoli e individui di mantenere
la propria cultura, la propria autonomia dal modello vigente.
Molti sono i popoli che vivono al di fuori di esso, allontanati o non
raggiunti, ma molte sono le comunita' e gli individui che consapevolmente
hanno preso le distanza da un modello fagocitatore e vivono secondo criteri
piu' appropriati al proprio piacere, al benessere dalla comunita', alla
gravita' dei problemi ambientali e sociali del pianeta.
E un altro mondo gia' esiste in queste persone che per scelta e con
lucidita' hanno intrapreso esistenze "demercificate" e stanno costruendo
relazioni sociali, produttive, di scambio fondate sulla maggiore qualita'
ambientale, culturale e sociale.
Il modello che viene praticato nei paesi occidentali tende costantemente a
indurre la convinzione che questo criterio garantisce l'eliminazione della
fatica: ma, accanto a strumenti che oggettivamente e utilmente eliminano la
fatica (la lavatrice, per esempio) ne introduce una mole enorme che solo
apparentemente produce questo risultato (vedi scopa elettrica, premiagrumi
elettrico casalingo ecc.), ma che risultano appaiati nella presentazione
delle meraviglie della tecnica. Il preteso riscatto dalla fatica, ognuno di
noi puo' dirlo, non ci ha riscattati dalla stanchezza.
Ognuna delle riflessioni che seguiranno suggerisce una piccola variazione
dei comportamenti e implica una "piccola fatica" nel compiere azioni che
abitualmente attuiamo e nel definire comportamenti diversi dagli abituali.
E' il recupero di questa piccola fatica che riduce il campo del mercato
sostituendo le merci prefabbricate con la nostra diretta attivita'
autogestita e non retribuita.
Questa piccola fatica diviene il parametro di giudizio della convenienza a
compiere azioni e ci aiuta a discernere tra i bisogni effettivi e quelli
indotti, tra i piaceri veri e quelli fittizi.
Essa diviene metro temporale su cui misurare quanto e' possibile fare in una
giornata e quindi selezionare le azioni e porre loro dei limiti, limiti che
il solo consumo pone molto lontano.
Ma questa piccola fatica e' anche lo strumento per mantenere la propria
autonomia culturale e tecnica sia a livello individuale che di comunita' ed
e' dunque mezzo per mantenere cio' che gia' c'e' e per contribuire nel
presente ad un possibile altro mondo.
*
Sbucciarsi le patate
Prendere le patate, pelarle, lavarle, tagliarle, asciugarle, cuocerle.
Un'azione semplice. Che occupa poco tempo. Un momento in cui le mani
agiscono, si riconoscono le parti buone e quelle cattive, si seleziona, se
ne comprende e valuta l'appropriatezza rispetto a quello che serve.
La conoscenza avra' ripercussioni sul nostro acquisto al mercato dove
selezioneremo le patate che ci soddisfano maggiormente e avra' ripercussioni
sul nostro cucinare scegliendo il tipo di patata appropriato ai cibi.
Un'azione, sbucciare le patate, che mette a frutto la nostra capacita'
creativa nella modalita', nella forma, nelle dimensioni del taglio.
Un'azione che e' tecnica e quindi culturale e che lascia il tempo di
pensare: sgombera uno spazio temporale dal consumo e dalla produzione di
lavoro e ci abitua a produrre per noi direttamente.
La sostanza del cucinare e' la capacita', creativa e tecnica, di predisporre
autonomamente prodotti direttamente gestiti e consumati.
I cibi prepuliti, precotti, eliminano tutto questo. Riducono il tempo di
preparazione per lasciare tempo solo alla produzione o al consumo di merci e
di servizi.
Un atto piccolo, sbucciare le patate, preparare il proprio cibo, casomai
insieme con altri, per fare prima, per dividerlo, per risparmiare.
E' difficile da fare? Poco moderno?
Eppure...
*
Un sorso d'acqua
Gran parte delle citta' del nord del mondo e' fornita di una rete di
distribuzione dell'acqua potabile.
Negli anni passati ciascun cittadino ha sostenuto, civilmente ed
economicamente, il peso della creazione di questo servizio che consente alla
quasi totalita' degli abitanti di questi paesi di avere a disposizione acqua
potabile a basso costo nelle proprie abitazioni.
Un diritto, piu' che un servizio, che conduceva la societa' fuori dalla
sudditanza ai venditori di acque e al controllo da parte di pochi di un bene
appartenente a tutti.
Eppure in pochi anni, volontariamente, i cittadini hanno preferito l'acqua
minerale in bottiglia a quella del rubinetto. File al mercato, grandi pesi
da portare, molti soldi da pagare, limitatezza delle risorsa, rifiuti
incontrollati, aumento del traffico di veicoli commerciali, aumento del
numero di incidenti stradali, accumulo di profitti, privatizzazione dei beni
comuni, nuova sudditanza nei confronti di chi gestisce le acque. Nulla di
tutto cio' pare interessare l'acquirente delle acque minerali, che guarda
con disprezzo scorrere l'acqua dal rubinetto perche' ha "un sapore non
buono".
L'acqua, dall'essere risorsa e bene comune inalienabile degli uomini, torna
ad essere terreno di appropriazione, diventa merce, rappresenta il segnale
di un interesse del mercato verso il controllo delle risorse primarie,
quelle comuni, che comporta di fatto la limitazione dell'autonomia degli
individui e delle comunita'.
Sarebbe dunque giusto esigerne la buona qualita', insieme con la
consapevolezza che la gestione di questa risorsa primaria e' anche affidata
a noi, alla nostra maniera di consumarne e di utilizzarne: riducendone gli
sprechi, aumentandone il recupero, utilizzandola appropriatamente.
Un atto piccolo: non comprare l'acqua minerale, ma ambientalmente e
socialmente importante.
E' difficile da fare? Imbarazza?
Eppure...
*
Una vecchia automobile
Gia' questo: mantenere la vecchia automobile.
Poi vecchia quanto? Un po'. Un po' di piu' di quanto il piacere di avere un
nuovo modello ci imporrebbe. Basterebbe questo per uscire da una dipendenza.
Con la nostra vecchia auto risparmieremmo dei soldi, potremmo lavorare di
meno, potremmo fare lavorare di piu' i meccanici, ripartire quindi la
ricchezza nel tessuto sociale, sottraendola alla concentrazione del grande
monopolio industriale.
L'industria delle automobili ha due obiettivi: vendere nuove auto e far
consumare benzina. Per raggiungere il primo obiettivo sostiene sia la
dipendenza del modello insediativo dalla mobilita' privata su gomma, che
facendo percorrere piu' chilometri consuma le auto, sia il ricorso
all'introduzione sul mercato di modelli sempre nuovi, accattivanti, che
inducano all'acquisto. Per il secondo obiettivo produce macchine che
consumano molta benzina, aumentando (inutilmente, visti i limiti di
velocita' imposti e la ragionevolezza dell'uomo) le prestazioni in velocita'
e in potenza e aumentando la grandezza e il peso del veicolo.
Per sostenere questi obiettivi organizza campagne di promozione enormi che
suggeriscono modelli di vita: e' possibile che ci siano alcuni che hanno
fatto piu' figli solo per comprare automobili piu' grandi?
Per l'industria dell'auto il risultato e' soddisfacente, tanto che nei paesi
ricchi il capitolo di spesa afferente le auto e' il secondo dopo
l'alimentazione come incidenza sul bilancio della famiglia media; e non per
un anno, ma per una vita.
Ripetendo con insistenza che dall'industria dell'auto dipendeva la sorte
dell'occupazione di interi paesi, hanno indotto a credere che l'esborso di
denaro che veniva regolarmente richiesto ai consumatori fosse anche una
sorta di partecipazione solidale alle sorti dei lavoratori.
Ma oggi non vi e' relazione tra merce e occupazione: pochi occupati possono
fare molte merci e oggi non possiamo vantarci di non avere disoccupati
nonostante siamo abbuffati di auto. Comunque in Italia vi sono piu'
forestali che addetti al settore auto, eppure nessuno ci ha mai invitato a
piantare alberi per mantenere gli occupati.
Mantenersi la macchina vecchia, ridurre i chilometri percorsi.
E' difficile farlo? E' una libidine irrinunciabile?
Eppure...
*
Il mercato dei figli
I figli sono merce. Sono merce in gran parte del mondo perche' vendibili e
acquisibili, ma sono merce nei paesi ricchi perche' ampliano il mercato e le
sue potenzialita'.
Ridurre il numero degli individui implica di fatto ridurre il numero dei
consumatori, e questo diviene preoccupante per il mercato quando si
raggiunge il massimo degli acquisti possibile pro-capite.
Ma i figli, nei paesi ricchi, sono una delle condizioni di massima
concentrazione della domanda di merci: crescono, e quindi anno per anno
cambiano abitudini e quindi cambiano i prodotti necessari, sono sottoposti
in modo massiccio alle pressioni delle mode e della pubblicita', e quindi
spessissimo diventano veicoli tenaci della richiesta di prodotti di consumo.
La pubblicita' stimola oggi piu' delle chiese e degli stati alla
procreazione. Maggiore e' il numero di figli e maggiore e' il mercato. In
questo si rilegge la brama quantitativa che e' alla base della nostra
societa': di piu' e' meglio che di meno.
Non e' vero.
Tenere i figli fuori dal mercato, pensare al pianeta come una collettivita'
unica, diversa ma con alcuni grandi problemi comuni.
E' difficile farlo? Sentirsi genitori solo dei propri figli carnali e'
indiscutibile?
Eppure...
*
Un mondo che non c'e'
I settimanali, le riviste di moda, di costume, di critica, i rotocalchi,
sono pieni di immagini di uomini e di donne che non corrispondono certo ai
cittadini del mondo, ma neppure a quelli dei paesi ricchi.
In una piazza, in un bar, in una stazione, al nord, al sud, non ci sono gli
uomini e le donne presenti nelle riviste, non ci sono le loro espressioni, i
loro usi, i loro problemi. Quello che c'e' dentro quelle pagine non c'e'
fuori, e quello che c'e' fuori non c'e' dentro.
Fuori di quelle pagine altra e' la bellezza, altre le attivita', altra la
ricchezza, altri i problemi, altro il fascino.
Un mondo che non c'e', ben separato da quello esistente, e di cui si
testimonia la possibile realta' attraverso le immagini costruite negli studi
fotografici.
La concretezza paradossale e' data dalla tendenza da parte degli individui
di apparire come quelle immagini e di uniformarsi ad esse.
Sono infatti immagini a cui tendere, che servono a commercializzare merci.
Gran parte dei rotocalchi e' fatta di pubblicita', a cui viene assegnata la
pagina di destra, quella maggiormente visibile, supportata da articoli di
costume che non fanno che confermare il messaggio indotto dalla pubblicita'.
Dicono questi settimanali ben oltre quello che sostengono a parole, dicono
quanto essi siano strumento di supporto al mondo delle merci. Dicono quando
mostrano, dicono quando regalano oggetti inutili, dicono quando vendono la
pubblicita'.
Non comprarle, non comprarne tante, leggerle usate riduce il consumo di
carta, non alimenta il mondo delle merci, riduce. Si possono selezionare
altre riviste, senza pubblicita', o si possono stimolare gli editori a una
maggiore attenzione.
E' difficile da fare? E' un passatempo irrinunciabile?
Eppure...
*
Un panino da casa
Un panino fatto giorni prima (fatto mesi prima?), con prosciutto o formaggio
addizionato, conservato, farcito con crema di ignoto, immerso in un gas,
chiuso in un contenitore di plastica etichettato, presentato come per
alimenti, riscaldato da un forno a microonde.
Decine di milioni di panini cosi' invadono le stazioni ferroviarie, gli
aeroporti, alcuni grandi nodi dove si concentrano grandi quantita' di
potenziali fruitori distratti, indaffarati, affamati, rapidi.
Anni addietro nei treni passavano venditori abusivi di panini. Panini di
giornata, con formaggio o salame, avvolti in carta. Furono nel tempo
guardati, panini e venditori, come segno di sottosviluppo. Non garantivano
la qualita'. Erano plebei. Certamente la sera riciclavano il formaggio non
venduto. Ora la qualita' industriale e' garantita.
Comprate le concessioni, perseguiti in termini di legge gli abusivi (nelle
stazioni hanno tolto anche le fontanelle per evitare di ridurre il mercato
delle acque minerali), vinta la concorrenza di piccoli bar ed alimentari,
l'alimentazione nel mondo del viaggio e' in mano a pochi gestori.
Ma l'alimentazione esterna alla residenza e' in gran parte gestione e quindi
proprieta' di pochi, che garantiscono igiene ed efficienza ma non la
qualita', ne' relativamente ai cibi ne' per quanto riguarda gli effetti che
questi possono comportare.
Non andare nelle grandi catene di ristorazione, preferire il piccolo
artigiano.
Portarsi un panino da casa con la frittata (che ha un peso ambientale minore
del prosciutto) o con gli avanzi del giorno prima.
Portarsi l'acqua da casa, cosi' da fare intendere che togliere le fontanelle
non vuol dire aumentare automaticamente il mercato.
E' difficile farlo? E' troppo imbarazzante?
Eppure...
*
Una vacanza a casa
Le vacanze: altro modo di consumare merci, merci naturali.
Le vacanze vendono luoghi, paesaggi, ambienti intatti, societa' ospitali.
Vendono i luoghi trasformandoli in quello a cui servono: infrastrutture,
alberghi, autoveicoli, banche, impianti di risalita, piste da sci, pontili,
ombrelloni, bar, ristoranti, windsurf, moto d'acqua, piscine, gatti delle
nevi, negozi, trampolini, piste su ghiaccio, residenze.
Ogni volta che un luogo diviene turistico si trasforma, perde la sua
naturalita', che e' quello che lo ha reso di interesse, e viene adattato
all'immagine standard del turismo globale.
Ogni volta che una persona va da turista in un luogo conferma la necessita'
di quelle infrastrutture.
Per il proprio piacere destruttura, danneggia ambiti pregiati, aumenta la
dipendenza di quei luoghi da fattori esterni alla sua caratteristica,
esporta un modello la cui limitatezza e' evidente anche nei paesi piu'
ricchi.
Attua una razzia.
E piu' il soggiorno e' breve, piu' e' attuato in strutture organizzate ed
aliene dal contesto, piu' e' lontano e maggiore e' il peso ambientale e
sociale della sua presenza.
Ci si muove sempre di piu'. Sempre piu' breve la permanenza, sempre piu'
lungo il tempo della percorrenza.
Allungare le vacanze, stare nei luoghi piu' a lungo, conoscerli, partecipare
ad essi, contribuire alla comunita'.
Non andare in paesi lontani, in luoghi incontaminati, in strutture
organizzate, per poco tempo.
E' difficile farlo? E' troppo angosciante lo stare?
Eppure...
*
Immersi negli oggetti
Un indiano Lakota non possedeva piu' di 200 oggetti, inclusi gli attrezzi,
componenti dell'abitazione, armi e vestiti.
Noi viviamo immersi negli oggetti. Alcuni di questi hanno una funzione,
altri sono assolutamente inutili.
Il decimo orologio, il ventesimo accendino, la centesima penna a sfera, il
quarto cellulare, la terza televisione, il diciottesimo elettrodomestico, le
bomboniere, i pensierini affettuosi, i ricordi di viaggio, i soprammobili, i
servizi da caffe', le attrezzature per i numerosi sport, le riviste, gli
impianti per la musica, le radio, i computer, gli attrezzi per i mille
passatempi, etc.
Tutti oggetti che noi compriamo, ci facciamo regalare, ci regalano, mossi
dal piacere di un attimo, dallo sfizio, dal gusto irrefrenabile del bambino
viziato che vuole un gioco nuovo, lo usa pochi minuti e ne cerca subito un
altro.
A questi si aggiungono le promozioni commerciali, le "merci gratis":
giornali, riviste, hamburger, salvagenti, pareo, cd, film, libri,
formaggini, etc.
Le case diventano sempre piu' piccole e il numero degli oggetti diventa
sempre maggiore, in una sorta di parossismo collettivo.
Scegliere quegli oggetti che effettivamente rappresentano qualche cosa, che
ci possono accompagnare nel ricordo o nel piacere, in un numero limitato.
Lasciare le offerte e i regali. Andare nei luoghi per vedere, capire,
sentire ma non comprare.
E' difficile farlo? Non vi sono antidoti al morbo dell'acquisto?
Eppure...
*
Uno strumento appropriato
Il grande sviluppo delle tecniche e' sicuramente uno dei dati
caratterizzanti il nostro tempo.
Gran parte delle innovazioni sono dettate dalle caratteristiche del mercato
e dalla necessita' di immettervi nuove merci competitive, gran parte di
queste merci e' predisposta per il consumo individuale. Telefoni cellulari,
che nelle successive evoluzioni divengono anche telecamere, registratori,
strumenti di scrittura, computer che trasmettono musica e immagini; computer
e televisioni sempre piu' connessi in una unica rete, sistemi per ascoltare
la musica sempre piu' sofisticati, elettrodomestici elettronici, etc. sono
alcuni esempi di un apparato in cui la tecnologia e' lo strumento principale
per fare vendere la merce.
Il computer con cui si scrive ha una potenza pari o forse minore a quella
che fu necessaria per mandare nello spazio i primi satelliti, eppure per
gran parte dell'uso che se ne fa' essi sono solo macchine da scrivere,
calcolatrici o motori per videogiochi.
Coglie serio il dubbio che lo strumento sia leggermente sovradimensionato
rispetto a quello a cui realmente serve.
Un autoveicolo di cinquemila di cilindrata che supera i 270 chilometri
all'ora e raggiunge i 100 km in tre secondi non e' appropriato alla nostra
necessita' di movimento urbano, dove la media e' 15 km all'ora; una grande
automobile fuoristrada, lunga piu' di cinque metri, con delle ruote alte un
metro e spesse quaranta centimetri, pesante una tonnellata e mezza e con una
portata di quasi una tonnellata non e' appropriata per andare a comprare una
spesa di venti chili; uno spremiagrumi elettrico di acciaio e plastica che
consuma un kw, che ha bisogno di essere montato e smontato, pulito e
ripulito prima e dopo l'uso, non e' appropriato a spremere un limone.
Forse non e' necessario cambiare il nostro computer, l'automobile, il
cellulare, il lettore ogni tre anni per comprare il modello piu' recente,
piu' potente, con maggiore adattabilita' perche' gia' quello che abbiamo non
lo usiamo completamente.
Non solo la tecnologia e' una merce ma i prodotti non sono appropriati.
Rallentiamo la sostituzione. Manteniamo gli strumenti che possediamo,
facciamoli invecchiare, innoviamoli in ritardo. Rallentando non diverremo
noi stessi promotori del processo. Il mercato e' sensibile e rallenta
l'innovazione delle merci se non incontra un adeguato riscontro.
E' difficile farlo? Non possiamo aspettare un po' e vedere se possiamo farne
a meno?
Eppure...
*
Un bicchiere di plastica
Un oggetto semplice, apparentemente inoffensivo ma che lentamente sta
sostituendosi ai bicchieri di vetro.
E' piu' comodo, ovvero evita al gestore del bar di utilizzare la
lavastoviglie, al barista di pulire i bicchieri. E' piu' comodo, ovvero
evita a casa di lavare i bicchieri, si mantiene la cucina piu' ordinata e si
rigoverna con facilita'.
Ma quanti miliardi l'anno di bicchieri di plastica si consumano? Quante
migliaia di tonnellate di plastica vanno a discarica dopo un uso di qualche
secondo: un sorso d'acqua, al massimo un pasto.
E quant'e' il costo ambientale del processo produttivo e dello smaltimento
del rifiuto?
Quanti operai ci vogliono per produrre questi miliardi di bicchieri? Pochi,
pochissimi, enormemente meno di quelli necessari a fare altrettanti
bicchieri in vetro.
E quanti baristi in meno servono visto che non hanno nulla da lavare? Tanti,
tantissimi.
Ed allora questo oggetto semplice, apparentemente inoffensivo, comporta in
realta' significativi effetti negativi nell'ambiente e nella societa'.
Ed allora che cosa ci vuole a sciacquare un bicchiere di vetro, usandolo per
una decina di anni, e dov'e' la difficolta' a chiedere al bar una tazzina di
ceramica, che si usa per decenni, sapendo che si sta agendo per salvare il
posto di lavoro forse proprio all'infastidito barista? Che cosa ci vuole a
non consumare nei luoghi dove si serve solo nella plastica o in contenitori
monouso?
E' difficile farlo? E' troppo impegnativo?
Eppure...
*
Un gran caldo
Tra auto di cilindrata sempre piu' elevata e facendo sempre piu' chilometri,
utilizzando una quantita' di energia di origine fossile enorme e scaricando
inquinanti a tutto spiano, ansimiamo dal caldo.
E' possibile che non si riesca a collegare l'uso degli autoveicoli e
dell'energia fossile al riscaldamento del pianeta?
Una volta fatta questa connessione, fulminati dalla consapevolezza, dovremmo
scendere dalle nostre auto ed abbandonatele dove sono, muoverci a piedi, in
bicicletta, sui pattini, a cavallo.
Ma cio' non avviene. Persone del tutto normali, pur consapevoli del
problema, nel momento in cui scelgono il loro autoveicolo guardano la forma,
la velocita', il prezzo, gli accessori, la dimensione.
Gli autoveicoli con i loro motori a scoppio ma anche, seppur in maniera
molto minore, con le lamiere, sono dei riscaldamenti mobili.
Eppure persone ragionevoli comprano autoveicoli di cilindrata sempre
maggiore, eppure persone ragionevoli ogni anno fanno migliaia di ore in fila
in macchina per andare al lavoro o peggio per andare in vacanza, senza un
dubbio, senza un'idea di mezzo alternativo, eppure persone ragionevoli
consumano energia elettrica come se la sua produzione non avesse alcun
effetto nell'ambiente e poi sulla loro salute.
Fare meno chilometri con le auto, scegliere le cilindrate piccole a maggiore
efficienza, andare piu' piano (per consumare meno), andare a piedi per
piccoli percorsi, ridurre l'uso degli elettrodomestici.
E' difficile farlo? Siamo troppo dipendenti?
Eppure...
*
La conoscenza indotta
Il televisore e' una macchina fantastica. Attraverso di esso si vedono cose
mai viste, ci si puo' rilassare, distrarre.
Meravigliosa e incantatrice, la televisione ci mostra il mondo e ce lo
racconta senza che noi ci si debba muovere dalla nostra poltrona; in realta'
altera la nostra conoscenza e la nostra capacita' di relazione,
modificandoci la cultura e i criteri di osservazione, presentandoci contesti
ignoti e con i quali non possiamo relazionarci.
Definisce la nostra cultura impregnandola di fattori estranei e arbitrari,
non connessi alla nostra esistenza se non attraverso la sua mediazione.
Passivi, persi in una quantita' di immagini paurosamente grande,
delocalizzati, ci componiamo una conoscenza del mondo attuata con una specie
di "settimo senso": una visione molto piu' ridotta come estensione ottica
dell'immagine oggettiva, ma in cui ci immedesimiamo di piu' che in qualunque
situazione oggettiva che comprenda tutti gli altri nostri sensi.
Alienati, in sintesi. Inquinati di immagini.
E proprio per questo la meraviglia e lo stupore, qualita' elette dell'uomo
di fronte al mondo, sono quasi esclusivamente utilizzati dalla televisione
per veicolare merci e per sostenere e normalizzare un modello insostenibile.
E' possibile immaginare che non si comprino i prodotti pubblicizzati?
E' possibile immaginare che non si guardino programmi e reti che si
comportano in maniera ambientalmente e socialmente scorretta, sostenendo o
facendosi sostenere da merci e da comportamenti aberranti e dannosi?
E' difficile farlo? Siamo troppo assuefatti?
Eppure...
(Parte prima - segue)

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
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Numero 103 del 9 ottobre 2007

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