Minime. 68



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 68 del 23 aprile 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Anna Bravo: La resistenza e la cura
2. Franco Fortini: Canto degli ultimi partigiani
3. Franco Fortini: marxismo
4. Franco Fortini: comunismo
5. Riletture: Aleksandr Solzenicyn, Arcipelago Gulag
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: LA RESISTENZA E LA CURA
[Estratto dalla bella rivista "Una citta'", n. 103, aprile 2002 (disponibile
anche nel sito: www.unacitta.it), riproponiamo il seguente intervento di
Anna Bravo, li' puibblicato col titolo "La resistenza e la cura. Uno sguardo
su donne e uomini nelle guerre contro i civili. Esperienze storiche".
Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha
insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e
genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non
omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni
nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha
diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione
nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle
storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza
in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni
culturali. Opere di Anna Bravo:  (con Daniele Jalla), La vita offesa,
Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza,
Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di
memoria della deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna
Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza,
Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal
Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria.
Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita
Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne
nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il
Mulino, Bologna 2003]

Ho pensato molto a quale contributo poteva dare la storia a un percorso
formativo complicato e delicato come quello da offrire a persone che vanno
in situazioni difficili, di guerre civili e di guerre contro i civili; mi e'
sembrato possibile presentare alcune riflessioni sulle forme di reazione
sociale all'occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale.
La seconda guerra mondiale e' la prima che si puo' definire guerra contro i
civili, per i bombardamenti a tappeto sulle citta', per le violenze e le
rappresaglie di massa, e prima ancora per le deportazioni e per i
giganteschi spostamenti di popolazioni. Nel Terzo Reich ci sono la
deportazione degli ebrei e degli zingari, le deportazioni per motivi
politici, e i grandi spostamenti di popolazioni destinate al lavoro coatto
nell'economia di guerra. In Urss prima e durante la guerra, gruppi nazionali
non russi come ceceni, tatari, ingusci, turchi, giudicati di "dubbia
lealta'" o accusati in massa di aver collaborato con i nazisti, sono
deportati quasi per intero, sia per "russificare" le loro terre sia per
avere a disposizione forza-lavoro semicoatta per l'industria di guerra.
*
C'e' un altro elemento che mi incoraggia a parlare della seconda guerra
mondiale e riguarda il Kosovo, dove la resistenza nonviolenta condotta dalla
Lega democratica di Rugova e' durata parecchi anni, senza che mai trovasse
spazio sui media e considerazione adeguata sul piano internazionale. Ci si
e' accorti del Kosovo solo quando e' iniziata la lotta armata, e a quel
punto Rugova e' stato emarginato.
Se si fossero conosciute le tante forme di resistenza civile o non armata
(le due parole grosso modo si equivalgono) che ci sono state nell'Europa
sotto dominio nazista, forse si sarebbe prestata piu' attenzione
all'esperienza kosovara, unica, fra l'altro, nella situazione balcanica.
Invece non c'era conoscenza, non c'era un orizzonte simbolico che facesse
capire come fosse importante. Qui anche la storiografia ha i suoi torti. Se
si fosse creata una memoria condivisa capace di valorizzare quella
resistenza, forse anche in Kosovo si sarebbe potuto fare qualcosa prima che
la situazione degenerasse. Tanto piu' che ci sono delle parentele fra alcune
pratiche adottate nei paesi occupati dal Terzo Reich e altre messe in atto
dalla societa' civile per esempio in Kosovo, in Afghanistan e anche in Sud
Tirolo nel periodo fascista.
Intendo la societa' come luogo dell'associarsi delle persone in tante forme,
che esprimono e producono liberta', ma contemplano anche ambivalenze e
conflitti. Le identita' collettive, comprese quelle etniche, che
dall'esterno sembrano un tutt'uno, sono segnate da conflitti interni che,
per fortuna, portano a cambiamenti di idee, di mentalita'. Societa' quindi
come insieme di attori collettivi, di complesse strutture di coesione.
Schematicamente, se ne possono indicare due tipi, uno formalizzato, l'altro
informale. Il primo sono le associazioni di persone che si danno un nome,
uno statuto e si riuniscono intorno a una ragione sociale che puo' essere la
piu' varia, dalla cultura all'assistenza, allo sport e quant'altro. Per
esempio la Germania pre-nazista era un pullulare di organizzazioni di base
di questo tipo, dalle corali alle filarmoniche, alle bocciofile, alle
societa' di storia locale, alle associazioni di mestiere. La seconda forma,
molto piu' fluida, e' quella dei reticoli familiari, amicali, parentali, di
quartiere, di vicinato.
Tutte e due queste strutture della coesione sociale hanno in comune un
radicamento locale forte e la presenza di un solo obiettivo, o di obiettivi
circoscritti, a differenza dei partiti che chiedono un'adesione a una linea
complessiva. Tutte e due hanno una funzione particolarmente importante
durante le emergenze e le guerre, in generale quando lo stato vive una
crisi; e in queste circostanze si puo' cogliere con piu' chiarezza quel loro
carattere ambivalente, progressivo sotto certi aspetti, regressivo per
altri.
In ogni caso sono forme vitali, che hanno contato e contano nel farsi della
storia. Non e' vero che la storia va avanti secondo processi economici o
decisioni a livello di alta politica. Reti familiari e di tipo etnico hanno
avuto un grande peso nel determinare i tempi del mutamento sociale: in Usa
nella prima fase del taylorismo, per esempio, spesso le fabbriche assumevano
non secondo i criteri attitudinali, ma tenendo conto dei legami "etnici"
degli operai immigrati.
*
Quanto fossero importanti le strutture della coesione sociale lo dice
innanzitutto il modo in cui sono state trattate dai totalitarismi. La prima
cosa che fanno i nazisti quando salgono al potere e' distruggere
completamente queste realta', sciogliendole di forza, o nazificandole, ossia
assimilandole nelle organizzazioni di massa per il tempo libero del partito
nazista. Anche per quanto riguarda la seconda tipologia - le reti di
relazione - c'e' il tentativo di penetrazione spionistica, che magari non
riesce totalmente, ma basta a seminare quella sfiducia reciproca che non
permette piu' di parlare tranquillamente con gli amici e persino nella
famiglia. In Urss c'e' un processo simile: lo stato, il partito-stato azzera
tutte le realta' associative e comunitarie tradizionali, e gia' all'indomani
dell'ottobre azzera anche, svuotandoli o sciogliendoli brutalmente, i tanti
comitati e associazioni - di inquilini, di massaie, di caseggiato, di
mestieri - nate tra febbraio e ottobre nel fervore del mutamento.
In Italia, la situazione e' un po' diversa perche' il fascismo deve
patteggiare molto con i centri di potere preesistenti, innanzitutto con la
chiesa cattolica. Il partito fascista neanche lontanamente avrebbe potuto
pensare di azzerare le organizzazioni dell'Azione cattolica.
I totalitarismi temono le strutture della coesione sociale perche' sono i
luoghi delle relazioni fra persone, quelle relazioni che possono produrre
l'imprevisto nella storia. Sono luoghi in cui ci si parla, ci si confronta,
si possono avere delle idee diverse da quelle dominanti.
Pero' sono anche luoghi del conformismo di gruppo, qualsiasi gruppo ne ha in
se' i germi, sono luoghi dove si e' esercitata e si esercita anche la
violenza.
Sta di fatto che nell'Europa occupata queste realta' hanno avuto un ruolo
primario in quella che un importante studioso francese, Jacques Semelin,
chiama "resistenza civile"; la chiama cosi' perche' nasce dalla societa',
dai cittadini, ed e' una resistenza non violenta, ma non sempre: ci sono
azioni non armate, soprattutto di donne, in cui si usa la massa d'urto dei
corpi, come quando si assaltano i magazzini di viveri.
Queste innervature di base della societa', sia di tipo associazionistico,
sia di tipo familiare, parentale, di mestiere, anche di bar se volete, sono
decisive per impedire al nazismo di esercitare pienamente la sua volonta' di
dominio sulla societa' civile, di sfruttamento di tutte le sue risorse,
comprese quelle umane; sono decisive per far si' che ci siano degli
ostacoli, che le cose non possano funzionare come loro vorrebbero; con
differenze fra situazione e situazione, fra paese e paese, anche in
relazione alla diversita' dei piani riservati da Hitler alla loro
popolazione.
*
Vi faccio l'esempio della Polonia, primo stato ad essere invaso, uno stato
che Hitler, nei suoi piani del Reich millenario aveva destinato al lavoro
servile, a essere una sorta di colonia che facesse il lavoro grezzo, bruto.
La pratica applicata nei confronti del popolo polacco era sfruttarlo sul
piano economico, depotenziarlo anche demograficamente, ma soprattutto
decapitarlo culturalmente, assassinando intellettuali e membri della classe
dirigente, e poi impedendo la formazione della futura classe dirigente. Ecco
perche' i nazisti distruggono le scuole, ecco perche' una delle azioni piu'
ammirevoli della resistenza polacca e' l'organizzazione di scuole
clandestine che vanno dalle elementari fino all'universita' in modo che, a
guerra finita, la Polonia possa avere una sua classe dirigente.
Qui, e non e' una forzatura, viene immediatamente da pensare alle scuole del
Kosovo, che la Lega democratica aveva organizzato a tutti i livelli ovunque
fosse possibile, magari nelle case, in modo che ci fossero scuole dove si
parlava la lingua della maggioranza della popolazione, sia per continuare a
formare i quadri dirigenti, sia per garantire l'istruzione di base a tutti.
Mi viene in mente l'Afghanistan, dove c'erano gruppi di donne che
organizzavano scuole clandestine per le bambine, non solo nei campi profughi
in Pakistan, ma anche nel paese. Mi dicono che in questa zona, in Sud
Tirolo, quando il fascismo, con il suo nazionalismo razzista e aggressivo,
voleva estirpare la lingua tedesca, c'erano le Katacomben Schulen, in cui si
dava l'istruzione che non si sarebbe ricevuta nella scuola statale
fascistizzata.
Tutto questo fa capire come tra le potenze occupanti e la popolazione si
creasse spesso un contenzioso diretto; come la societa' non fosse soltanto
il contorno della lotta armata; come il territorio della resistenza non
fosse soltanto quello dove si combatteva con le armi. Fra queste forme di
resistenza civile, ce n'e' una particolarmente "alta", bella, commovente, ed
e' la cura di chi e' in pericolo, di chi ha bisogno. Dico cura per indicare
un accudimento, una sollecitudine verso le persone in difficolta', che non
sempre e' legata a solidarieta' preesistenti o a convinzioni politiche,
ideologiche o religiose. Una cura che nasce piuttosto dall'incontro tra una
persona e la vulnerabilita' dell'altra, proprio dall'incontro faccia a
faccia, occhi negli occhi. E' un altro imprevisto che fa paura ai
totalitarismi, che non a caso puntano a isolare i perseguitati in modo da
impedire contatti da cui possa scattare il desiderio di fare qualcosa per
l'altro. La cura e' un concetto associato molto al femminile, pero' bisogna
dire che nei gruppi che si occupano di nascondere, di far scappare le
persone ricercate c'e' anche una forte presenza maschile.
*
Anche queste pratiche di aiuto sono diverse da fase a fase, da paese a
paese. Nella protezione degli ebrei, banco di prova della resistenza civile,
si vedono bene le differenze fra i tre paesi abitualmente considerati
"amichevoli", la Danimarca, la Bulgaria, che pero' su questo punto ha una
storia troppo particolare per parlarne qui, e l'Italia che, a mio avviso,
negli ultimi tempi sta un poco esagerando nel rivendicare i propri meriti.
La Danimarca era un paese di tradizione democratica, con sentimenti civici
forti e un alto livello di identificazione nelle istituzioni, e visse una
situazione sul filo del rasoio per tutta la guerra: il governo non si oppose
militarmente all'ingresso dei nazisti, ma siglo' un protocollo in cui si
impegnava a fornire alla Germania delle risorse soprattutto economiche, in
cambio dell'assicurazione formale che gli occupanti non avrebbero mai
toccato le leggi e la costituzione danese, vale a dire i valori democratici
di quel paese.
Inizia cosi' un lungo braccio di ferro tra governo danese e nazisti: i
danesi tergiversano quando si tratta di consegnare merci o viveri, ma,
soprattutto, si oppongono fermissimamente all'emanazione di qualsiasi misura
razzista contro gli ebrei in nome del fatto che, sancendo la costituzione
danese l'uguaglianza dei cittadini, qualsiasi norma discriminatoria
l'avrebbe violata. Si arriva a un punto di frizione tale che la solidarieta'
popolare e la fermezza del governo hanno un effetto demoralizzante sui capi
nazisti e Hitler e' costretto a sostituirli. Hannah Arendt ne La banalita'
del male parla quasi di un contagio del bene: i nazisti non riuscivano ad
essere abbastanza efferati in una societa' che stigmatizzava il razzismo.
Sta di fatto che a un certo punto i tedeschi prendono in mano la situazione
e cominciano i primi arresti e le prime deportazioni degli ebrei. E qui si
apre un altro scenario imprevisto, una cosa mai successa, il fatto che la
grande maggioranza di un popolo con le sue istituzioni, con le sue
associazioni e i suoi singoli cittadini, si organizza per portare in salvo
in Svezia i "suoi" seimila ebrei. Portarli in salvo con delle navi - piu'
facilmente con delle barche - voleva dire avvertirli segretamente, riunirli
segretamente, trovare soldi per le navi o per le barche, traghettarli,
trovar loro una sistemazione dall'altra parte. Questa operazione riesce. E'
il piu' grande episodio di salvataggio di tutta la storia della persecuzione
antiebraica.
L'Italia e' un paese molto diverso, che l'8 settembre esce da vent'anni di
un regime che ha frantumato l'opposizione e fascistizzato le strutture della
coesione sociale. I partiti di opposizione sono debolissimi, quelli che non
hanno scelto l'esilio, come il partito comunista, sono stati falcidiati
dalla repressione. L'Italia poi e' un paese dove non c'erano forti
sentimenti civici e dove se c'era qualche barlume di identificazione con le
istituzioni era stato spazzato via dalla fuga del re. Il nostro non e' il re
di Danimarca, che e' presente, attivo e ha posizioni molto rigide, in
particolare sul razzismo.
Anche in Italia una parte della popolazione si sforza di dare aiuto, sebbene
forse non sia ampia come si dice oggi. Ma le "strutture" di salvataggio sono
spesso costituite di un individuo solo, con una piccola rete di aiutanti;
sono i religiosi che accolgono nelle sacrestie, nei conventi; sono alcuni
comandanti militari delle zone occupate dall'Italia - in Francia, in
particolare questi alti ufficiali, pur essendo legati al governo fascista,
fanno scelte diverse, e per una serie di motivi complessi ai quali pero' non
e' estraneo l'umanitarismo, cercano di non emanare o di non applicare le le
misure contro gli ebrei. Poi ci sono delle persone "comuni"; basta fare il
nome di Perlasca, che comune non e' per la sua azione, ma comune e' per la
sua origine sociale, la sua caratterizzazione culturale; e' un uomo come
tanti. Su scala molto piu' piccola poi ci sono uomini e donne che nascondono
le persone, per esempio medici che le ricoverano negli ospedali facendole
passare per malati, donne che fanno passare un bambino ebreo per proprio
figlio.
Un grande ruolo, in Italia, ce l'hanno proprio le reti familiari, parentali,
di quartiere e di vicinato, dove la fiducia reciproca consentiva di creare
percorsi molto fluidi, in cui alcuni ricercati passano da un luogo all'altro
seguendo i fili di queste reti. A volte ad agire sono intere comunita': in
una valle piemontese, in un paesino che si chiama Ror‡, per due anni vivono
in segreto delle famiglie ebree e tutti lo sanno. Il paese viene
rastrellato, ma nessuno le tradisce. Va reso onore a questi gruppi e persone
che, a rischio di vita, a rischio di deportazione, proteggono e salvano.
*
Va detto che pero' a guerra finita, queste realta', comprese quelle
familiari e comunitarie, possono rivelare il loro aspetto violento, feroce,
patrocinando vendette private e spacciandole per azioni politiche, oppure
esasperando la propria vendetta politica contro alcuni, o legittimando le
rese dei conti. Altre volte riescono invece a disinnescare la violenza; per
esempio, qualcuno del paese garantisce per quel tale fascista che ha aderito
a Salo', ma non si e' macchiato di crimini, e riesce cosi' a salvarlo,
perche' magari il capo della formazione partigiana locale e' un parente, un
amico, uno che si conosce; in questi casi spesso il ruolo delle donne e'
decisivo. Insomma, da queste strutture puo' dipendere il salvataggio di
alcuni e la morte di altri, e la fisionomia del dopoguerra.
L'ambivalenza si manifesta ovunque, non solo in Italia. In Danimarca le
strutture della coesione sociale svolgono un'azione di straordinaria
civilta', ma a guerra finita fanno cio' che a me sembra molto poco civile:
mettono in un unico fascio le collaborazioniste donne, che c'erano, le
ragazze che si erano innamorate di un soldato tedesco e le donne che si
erano prostituite per ragioni di sopravvivenza, considerandole tutte
traditrici della nazione e sottoponendole tutte, indiscriminatamente, a
umiliazioni e violenza. Le strutture sono le stesse o dello stesso tipo, e
su un aspetto si mostrano altamente civili, su un altro appaiono portatrici
dell'ideologia vecchia e mortifera per cui l'onore nazionale si identifica
con l'onore sessuale, misurato su quello che fanno o non fanno le donne.
Insisto, oltre che sull'ambivalenza, sulle donne, perche' in molti posti
dove andrete ci sono tensioni e guerre di tipo "etnico", e uno degli aspetti
principali delle "identita' etniche" e' lo statuto assegnato alle donne sul
piano simbolico, sociale, familiare, politico; e' uno dei massimi terreni di
scontro fra "etnie", ma lo e' anche al loro interno. Per questo il discorso
sul rispetto delle culture locali e' un punto di principio necessario, ma
che non mi sembra basti a orientare i comportamenti: assistere in silenzio a
gesti aggressivi contro una donna, per esempio, non vuol dire
automaticamente rispettare una cultura, puo' voler dire che se ne sta
legittimando una parte, la peggiore, e sacrificandone un'altra.

2. MAESTRI. FRANCO FORTINI: CANTO DEGLI ULTIMI PARTIGIANI
[Da Franco Fortini, Foglio di via, Einaudi, Torino 1946, 1999, p. 32,
riproponiamo ancora questo notissimo testo del 1945 (da ultimo ristampato
anche in Franco Fortini, Versi scelti. 1939-1989, Einaudi, Torino 1990, p.
15).
Franco Fortini, (all'anagrafe Franco Lattes, Fortini e' il cognome della
madre assunto come nom de plume) e' nato a Firenze nel 1917, antifascista,
partecipa all'esperienza della repubblica partigiana in Val d'Ossola. Nel
dopoguerra e' redattore del "Politecnico" di Vittorini; in seguito ha
collaborato a varie riviste, da "Comunita'" a "Ragionamenti", da "Officina"
ai "Quaderni rossi" ed ai "Quaderni piacentini", ad altre ancora. Ha
lavorato nell'industria, nell'editoria, come traduttore e come insegnante.
E' stato una delle persone piu' limpide e piu' lucide (e per questo piu'
isolate) della sinistra italiana, un uomo di un rigore morale ed
intellettuale pressoche' leggendario. E' scomparso nel 1994. Opere di Franco
Fortini: per l'opera in versi sono fondamentali almeno le raccolte
complessive Poesie scelte (1938-1973), Mondadori; Una volta per sempre.
Poesie 1938-1973, Einaudi; Versi scelti. 1939-1989, Einaudi; cui si
aggiungano l'ultima raccoltina Composita solvantur, Einaudi, e postuma la
serie di Poesie inedite, sempre presso Einaudi. Testi narrativi sono Agonia
di Natale (poi riedito col titolo Giovanni e le mani), Einaudi; e Sere in
Valdossola, Mondadori, poi Marsilio. Tra i volumi di saggi, fondamentali
sono: Asia Maggiore, Einaudi; Dieci inverni, Feltrinelli, poi De Donato; Tre
testi per film, Edizioni Avanti!; Verifica dei poteri, Il Saggiatore, poi
Garzanti, poi Einaudi; L'ospite ingrato, De Donato, poi una nuova edizione
assai ampliata col titolo L'ospite ingrato. Primo e secondo, presso
Marietti; I cani del Sinai, Einaudi; Ventiquattro voci per un dizionario di
lettere, Il Saggiatore; Questioni di frontiera, Einaudi; I poeti del
Novecento, Laterza; Insistenze, Garzanti; Saggi italiani. Nuovi saggi
italiani, Garzanti (che riprende nel primo volume i Saggi italiani apparsi
precedentemente presso De Donato); Extrema ratio, Garzanti; Attraverso
Pasolini, Einaudi; e adesso il postumo incompiuto Un giorno o l'altro,
Quodlibet, Macerata 2006. Si veda anche l’antologia fortiniana curata da
Paolo Jachia, Non solo oggi, Editori Riuniti; la recente bella raccolta di
interviste, Un dialogo ininterrotto, Bollati Boringhieri; e la raccolta di
Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003. Tra le opere su Franco Fortini
in volume cfr. AA. VV., Uomini usciti di pianto in ragione, Manifestolibri,
Roma 1996; Alfonso Berardinelli, Fortini, La Nuova Italia, Firenze 1974;
Romano Luperini, La lotta mentale, Editori Riuniti, Roma 1986; Remo
Pagnanelli, Fortini, Transeuropa, Jesi 1988; Daniele Balicco, Non parlo a
tutti. Franco Fortini intellettuale politico, Manifestolibri, Roma 2006. Su
Fortini hanno scritto molti protagonisti della cultura e dell'impegno
civile; fondamentali sono i saggi fortiniani di Pier Vincenzo Mengaldo; la
bibliogafia generale degli scritti di Franco Fortini e' in corso di stampa
presso le edizioni Quodlibet a cura del Centro studi Franco Fortini; una
bibliografia essenziale della critica e' nel succitato "Meridiano"
mondadoriano pubblicato nel 2003]

Sulla spalletta del ponte
Le teste degli impiccati
Nell'acqua della fonte
La bava degli impiccati.

Sul lastrico del mercato
Le unghie dei fucilati
Sull'erba secca del prato
I denti dei fucilati.

Mordere l'aria mordere i sassi
La nostra carne non e' piu' d'uomini
Mordere l'aria mordere i sassi
Il nostro cuore non e' piu' d'uomini.

Ma noi s'e' letta negli occhi dei morti
E sulla terra faremo liberta'
Ma l'hanno scritta i pugni dei morti
La giustizia che si fara'.

3. MAESTRI. FRANCO FORTINI: MARXISMO
[Riproponiamo ancora il seguente testo, da Franco Fortini, Non solo oggi,
Editori Riuniti, Roma 1991 (una bella raccolta di testi brevi e dispersi
curata da Paolo Jachia, qui fine editore ma anche autore di egregi studi -
vedi ad esempio le sue belle monografie laterziane su Bachtin e De Sanctis).
Li' il testo che riportiamo e' alle pp. 145-149. Era primieramente apparso
sul "Corriere della sera" del 29 marzo 1983]

Quelli che hanno la mia eta' Marx l'hanno letto alla luce delle nostre
guerre. Hanno sempre sentito chiamare marxista chi le potenze delle armi,
del profitto o del potere avevano voluto ridurre al silenzio. "E tu come li
chiami i popoli oppressi o uccisi in nome di Marx?", mi si chiedera' ora;
forse supponendo che non abbia trovato il tempo, finora, di chiedermelo.
Rispondo che sono dalla mia parte. Li conto insieme a quelli che dal
Diciassette, quando sono nato, sono nemici dei miei nemici, a Madrid come a
Shanghai, a Leningrado come a Roma, a Hanoi, a Santiago, a Beirut... I
cacciatori di "bestie marxiste" (cosi' si esprimono) devono sempre aver
avuto difficolta' ad apprezzare le differenze teoriche fra marxiano,
marxista, socialista, comunista, bolscevico e cosi' via.
Mi spieghero' meglio, per loro beneficio. C'e' una foto russa, del tempo
della guerra civile: un plotone di morti di fame, in panni ridicoli,
cappellucci alla Charlot in testa, scarpe slabbrate; e a spall'arm i fucili
dello zar. Questo e' marxismo. C'e' un'altra foto, Varsavia 1956, un giovane
magro, impermeabile addosso, sta dicendo nel microfono, a una sterminata
folla operaia che il giorno dopo l'Armata rossa, come a Budapest, puo'
volerli morti o deportati. Anche questo e' marxismo. Con chi queste cose
dice di non capirle, di marxismo e' meglio non parlare neanche.
Un certo numero di italiani miei coetanei sparve anzitempo dalla faccia
della terra, combattendo borghesi e fascisti. Grazie a loro se le forze
dell'ordine volessero perquisirmi, potrei mostrare che sul miei scaffali
invecchiano le opere di Marx, di Lenin e di Mao, senza temere, ancora, di
venire trascinato alla tortura e alla fossa com'e' accaduto e ogni giorno
accade a poche ore di aereo da casa nostra. Dieci o quindici anni fa poco e'
mancato che la civica arena o il catino di San Siro non accogliessero, come
lo stadio di Santiago del Cile, le "bestie marxiste". So chi mi avrebbe
aiutato, in quel caso: non sarebbero stati davvero quelli che mi conoscono
perche' hanno letto i miei libri. E ora approfitto di queste righe per
salutare Alaide Foppa, mia collega di letteratura italiana a Citta' di
Messico. La conobbi anni fa. In questi giorni ho saputo chi l'ha ammazzata,
in Guatemala. Anche questo e' marxismo.
Cominciai nel 1940 col Manifesto, per consiglio di Giacomo Noventa e
Giampiero Carocci; senza alcun entusiasmo. Capii poi qualcosa da Trockij e
Sorel. Durante la guerra vissi in fanteria un buon corso di marxismo
pratico. A Zurigo, nell'inverno 1943-44, non so quanti libri lessi,
riassunsi e annotai, che parlavano di socialismo e di materialismo storico.
Si faceva fuoco di ogni frasca, allora. Un opuscolo in francese, ricordo, mi
fu molto utile; l'aveva scritto un tale che firmava con lo pseudonimo, seppi
poi, di Saragat. L'apprendistato comprendeva testi anche troppo disparati:
Malraux e Rosselli, Victor Serge e Silone, Mondolfo e Eluard...
A guerra finita vennero letture meno selvagge: le opere storiche (Le lotte
di classe in Francia, Il diciotto brumaio, La guerra civile in Francia),
parte della Sacra famiglia, i primi capitoli, splendidi di genio e forza
sintetica, della Ideologia tedesca, i due volumi del primo libro del
Capitale, e a partire dal 1949 quei Manoscitti economico-filosofici del 1844
oggi tanto derisi e che mai hanno cessato di stupirmi per la loro capacita'
di guidarci da Hegel fino ai giorni che ancora ci aspettano; e di dirci
parole di incredibile attualita'. E altro ancora.
Dopo vent'anni di diatribe storico-filologiche sul primo e il secondo Marx;
dopo Lukacs e Sartre, Bloch e Sohn-Rethel, Adorno e Althusser, Mao e gli
amici torinesi di "Quaderni rossi", a quelle pagine non ho piu' sentito il
bisogno di tornare se non nei termini di cui parla Brecht in una poesia
intitolata, appunto, "Il pensiero nelle opere dei classici":

Non si cura
che tu gia' lo conosca; gli basta
che tu l'abbia dimenticato...
senza l'insegnamento
di chi ieri ancora non sapeva
perderebbe presto la sua forza rapido decadendo.

Non stiamo commemorando la nostra giovinezza. Anche se fondamentale, quel
pensiero non e' se non un passaggio dell'ininterrotto processo che porta da
luce a oscurita' poi ad altra luce, e dal credere di sapere al sapere di
credere. Se ne compone (come quella di chiunque) la nostra esistenza. O per
la gioia dei piu' sciocchi dovremmo ripetere qual che ci sembra di aver
detto sempre e cioe' di non aver creduto mai che il pensiero di Marx potesse
fungere da chiave interpretativa del mondo piu' o meglio di quanto lo
faccia, ad esempio, la poesia dell'Alighieri?  Una educazione alla storia ci
faceva almeno intravvedere quel che era stato detto e fatto ben prima e
sarebbe stato detto e patito molto dopo di noi.
Quando, per l'Italia, almeno dal 1900, data del libro di Croce, ci viene
ogni qualche anno ripetuto che quella di Marx e' filosofia superata, non ho
difficolta' ad ammetterlo; sebbene subito dopo domandi che cosa significa
superare la filosofia di Platone o di Kant. Quando ci viene spiegato che la
teoria marxiana del valore o quella sulla caduta tendenziale del saggio di
profitto sono manifestamente errate, non ho difficolta' ad ammetterlo; anche
perche' mai l'ho impiegata per capire come vadano le cose di questo mondo.
Quando mi si dimostra che l'idea, certo marxiana, di un passaggio dalla
preistoria umana alla storia mediante la fine della proprieta' privata,
dello Stato e del lavoro alienato, si fonda su di una antropologia fallace e
senz'altro smentita dai "socialismi reali", apertamente lo riconosco; anche
perche' ho sempre attribuita la figura d'un progresso illimitato all'errore
che afferma la indefinita perfettibilita' dell'uomo, un errore
illuministico-borghese che Marx ebbe a ereditare.
Ma quando mi si dice che la teoria delle ideologie e' falsa, che la lotta
delle classi e' una favola e che il socialismo e' una utopia senza neanche
l'utilita' pragmatica delle utopie, chiedo allora un supplemento di
istruttoria. Primo, perche' il pensiero epistemologico contemporaneo, dalla
critica psicanalitica del soggetto fino alla semiologia, conferma la fine
d'ogni immediata coerenza fra parola, coscienza e realta', come fra mondo e
concezioni del mondo; secondo, perche' a tutt'oggi e' difficile negare - e
lo si sapeva ben prima di Marx - l'esistenza di ininterrotti conflitti di
interessi fra gruppi umani per il possesso dei mezzi di produzione e la
ripartizione del prodotto sociale; conflitti determinati dai modi del
produrre e determinanti l'assetto, o lo sconvolgimento, dell'intera
societa'. Per quanto e' del terzo ed ultimo punto, convengo volentieri che
esso rinvia ad una persuasione indimostrabile.
La volonta' di eguaglianza e giustizia pertiene alla politica solo grazie
alla mediazione dell'etica e della religione. Marx non ne ha data nessuna
ragione migliore. Indipendentemente da ogni mito perfezionista, credo si
debba continuare a volere (un volere che implica lotta) una sempre piu'
sapiente gestione delle conoscenze e delle esistenze. Il "sogno di una cosa"
e' la realizzata capacita' dei singoli e delle collettivita' di operare sul
rapporto fra necessita' e liberta', fra destino e scelta, fra tempo e
attimo.
Il movimento socialista e comunista si e' fondato per cent'anni su quel che
si chiamava l'insegnamento di Marx. Ne era parte maggiore l'idea che il
passaggio al comunismo dovesse essere conseguenza dello sviluppo delle forze
produttive, della industrializzazione e della crescita della classe operaia;
e compiersi con una pianificazione centralizzata. In questi nodi di verita'
e di errore si e' legato il "socialismo reale". Oggi gli esiti del passato
ci impediscono di guardare al futuro. Sono esiti tragici non solo per cadute
politiche, economiche o culturali ne' solo per costi umani; ma perche',
anche al di fuori dei paesi comunisti, il "marxismo reale" ha accettato il
quadro mentale del suo antagonista: primato della tecnologia, etica della
efficienza, sfruttamento dei piu' deboli. Sembrano falliti tutti i tentativi
per uscire da questa logica: massimo quello cinese. Eppure, Bloch dice, non
e' stata data nessuna prova che quella uscita sia impossibile. L'eredita'
marxiana e' divisa: una meta' e' ancora nostra, l'altra e' dei nemici del
socialismo e comunismo, sotto ogni bandiera, anche rossa.
Quanto alla mente geniale morta cent'anni fa, e' anche grazie ad essa che e'
stato ridimensionato il ruolo delle grandi personalita' e dei loro sepolcri.
Pero' ho visitato con commozione a Parigi il Muro dei Federati, a Nanchino
la Terrazza della Pioggia di Fiori o dei Centomila Fucilati; mi fosse
possibile, andrei a onorare i morti dei Gulag: sono tutti di una medesima
parte, tuttavia parte; non ipocrita bacio tra vittime e carnefici. Marx ci
ha infatti insegnato a capire una volta per sempre quale opera implacabile
gli ignoti, gli infiniti vinti vincitori, compiano entro le societa' che
preferirebbero ignorarli ed entro di noi; quali cunicoli scavino, quali
fornelli di mina preparino anche in coloro che li odiano per aver voluto
qualcosa che interi popoli oppressi continuano, morti e vivi, a volere.
Tutta la storia umana, ci dice, deve essere ancora adempiuta, interpretata,
"salvata". E o lo sara' o non ci sara' piu' - sappiamo che e' possibile -
nessuna storia. O ti interpreti, ti oltrepassi, ti "salvi" o non sarai
esistito mai.
L'amico di Federico Engels non e' stato davvero il primo a dircelo. L'ultimo
si'. E meglio ancora ogni giorno lo dice, oscuro a se stesso, "il movimento
reale che abolisce lo stato di cose presente" (Ideologia tedesca, 1845-46,
I, a). Anche questo e' marxismo.

4. MAESTRI. FRANCO FORTINI: COMUNISMO
[Riproponiamo ancora il seguente testo, da Franco Fortini, Extrema ratio,
Garzanti, Milano 1990, pp. 99-101; era stato pubblicato per la prima volta
nell'inserto settimanale satirico "Cuore" del quotidiano "L'Unita'" del 16
gennaio 1989. Dopo la pubblicazione in Extrema ratio, questo testo e' stato
ristampato anche nell'opuscolo Una voce: comunismo, Edizioni del Centro di
ricerca per la pace, Viterbo 1990; in Non solo oggi, Editori Riuniti, Roma
1991; in Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003]

"Termine con cui si designano dottrine che propugnano e descrivono una
societa' basata su forme comunitarie di produzione ovvero di produzione e
consumo, in alternativa a societa' basate su forme di proprieta' privata
ovvero di distribuzione e di consumo diseguali. Possesso comune della terra
e dei mezzi di produzione, lavoro per tutti, regolazione pianificatrice dei
bisogni e delle funzioni (...) parte integrante di tali dottrine e'
l'educazione comune, pubblica, di tutti gli individui" (Enciclopedia
Garzanti).

Il combattimento per il comunismo e' gia' il comunismo. E' la possibilita'
(quindi scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior
numero di esseri umani - e, in prospettiva, la loro totalita' - pervenga a
vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante. Unico
progresso, ma reale, e' e sara' il raggiungimento di un luogo piu' alto,
visibile e veggente, dove sia possibile promuovere i poteri e la qualita' di
ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi e'
condizione perche' ogni singola vittoria tenda ad estinguere la forma
presente di quello scontro e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando
ogni favola di progresso lineare e senza conflitti.
Meno consapevole di se' quanto piu' lacerante e reale, il conflitto e' fra
classi di individui dotati di diseguali gradi e facolta' di gestione della
propria vita. Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti;
differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-liberta'
di altri uomini si pagano l'illusione di poter scegliere e regolare la
propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro
"liberta'" non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana,
come limite da riconoscere e usare, ma come un nero Nulla divoratore. Per
dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di
liberta', cioe' di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria.
Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati
solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilita' e
miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarieta' e nella
paura della morte ora nella insensatezza e non-liberta' della produzione e
dei consumi. Ne' gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che
ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in
oppressori e sfruttatori di altri uomini. Migliori cominciano ad esserlo
invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta
durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone
alla gestione sovraindividuale delle esistenze; ma anche flessibilita' e
amore per tutto quel che la promuove e la fa fiorire.
Il comunismo in cammino (un altro non esiste) e' dunque un percorso che
passa anche attraverso errori e violenze, tanto piu' avvertiti come
intollerabili quanto piu' chiara si faccia la consapevolezza di che cosa gli
altri siano, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca
anche gli altri; e viceversa. Il comunismo in cammino comporta che uomini
siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come
oggi avviene, per un fine che non e' mai la loro vita. Usati, ma sempre
meno, come mezzi per un fine, un fine che sempre piu' dovra' coincidere con
loro stessi. Ma chi dalla lotta sia costretto ad usare altri uomini come
mezzi (e anche chi accetti volontariamente di venir usato cosi') mai potra'
concedersi buona coscienza o scarico di responsabilita' sulle spalle della
necessita' o della storia.
Chi quella lotta accetta si fa dunque, e nel medesimo tempo, amico e nemico
degli uomini. Non solo amico di quelli in cui si riconosce e ai quali, come
a se stesso, indirizza la propria azione; e non solo nemico di quanti
riconosce, di quel fine, nemici. Ma anche nemico, sebbene in altro modo e
misura, anche dei propri fratelli e compagni e di se stesso; perche' non
dara' requie ne' a se' medesimo ne' a loro, per strappare essi e se stesso
agli inganni della dimenticanza, delle apparenze e del sempreuguale.
Dovra' evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia
che l'uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Questo
errore, con le piu' varie manipolazioni, ha gia' prodotto, e puo' produrre,
dei sottouomini o dei sovrauomini; egualmente negatori degli uomini in cui
ci riconosciamo. Ereditato dall'Illuminismo e dallo scientismo, depositato
dalla cultura faustiana della borghesia vittoriosa dell'Ottocento,
quell'errore ottimistico fu presente anche in Marx e in Lenin e oggi trionfa
nella maschera tecnocratica del capitale. Quando si parla di un al di la'
dell'uomo, e' dunque necessario intendere un al di la' dell'uomo presente,
non un al di la' della specie. Comunismo e' rifiutare anche ogni sorta di
mutanti per preservare la capacita' di riconoscersi nei passati e nei
venturi.
Il comunismo in cammino adempie l'unita' tendenziale tanto di eguaglianza,
fraternita' e condivisione quanto quella di sapere scientifico e di sapienza
etico-religiosa. La gestione individuale, di gruppo e internazionale,
dell'esistenza (con i suoi insuperabili nessi di liberta' e necessita', di
certezza e rischio) implica la conoscenza delle frontiere della specie umana
e quindi della sua infermita' radicale (anche nel senso leopardiano). Quella
umana e' una specie che si definisce dalla capacita' (o dalla speranza) di
conoscere e dirigere se stessa e di avere pieta' di se'. In essa,
identificarsi con le miriadi scomparse e con quelle non ancora nate e' un
atto di rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi; ed e' allegoria e
figura di coloro che saranno.
Il comunismo e' il processo materiale che vuol rendere sensibile e
intellettuale la materialita' delle cose dette spirituali. Fino al punto di
sapere leggere nel libro del nostro medesimo corpo tutto quel che gli uomini
fecero e furono sotto la sovranita' del tempo; e interpretarvi le tracce del
passaggio della specie umana sopra una terra che non lascera' traccia.

5. RILETTURE. ALEKSANDR SOLZENICYN: ARCIPELAGO GULAG
Aleksandr Solzenicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano 1974, 1975, 1978,
1995, 3 voll. per complessive pp. XXII + 1958. Un'opera fondamentale che e'
indispensabile aver letto.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell’ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell’uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 68 del 23 aprile 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe

Per non riceverlo piu':
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe

In alternativa e' possibile andare sulla pagina web
http://web.peacelink.it/mailing_admin.html
quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su
"subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).

L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196
("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing
list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica
alla pagina web:
http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004
possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web:
http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la
redazione e': nbawac at tin.it