Minime. 60



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 60 del 15 aprile 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Solo
2. Maddalena Gasparini: Tre perche'
3. Raffaella Lamberti: Presenza paritaria e duale
4. "Una citta'" intervista Annette Wieviorka sulla memoria dell'irreparabile
5. Letture: Giovanna Scarca, Alessandro Giovanardi (a cura di), Poesia e
preghiera nel Novecento
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. SOLO

Solo la pace ferma la guerra.
Solo la democrazia sconfigge il terrorismo.
Solo il disarmo riduce le uccisioni.
Solo la nonviolenza contrasta la violenza.
Solo la giustizia invera la liberta'.
Solo il dialogo riconosce umanita'.
Solo la misericordia fonda la convivenza.

2. RIFLESSIONE. MADDALENA GASPARINI: TRE PERCHE'
[Dal sito www.usciamodalsilenzio.org riprendiamo il seguente contributo al
"manifesto dei perche'"" a sostegno della campagna e della proposta di legge
"50e50 ovunque si decide" (su cui cfr. anche il sito www.50e50.it).
Maddalena Gasparini, laureata in medicina e chirurgia e specializzata in
neurologia, ha svolto attivita' clinica e curato l'organizzazione di
congressi e corsi di aggiornamento e formazione in collaborazione e per
conto di strutture ospedaliere del Consiglio nazionale delle ricerche, della
Regione Lombardia e della Provincia di Milano; grazie all'incontro con la
Libera universita' delle donne, da anni segue gli sviluppi delle tecnologie
riproduttive approdando agli interrogativi etici che l'evoluzione delle
biotecnologie pone alla collettivita'; dal 2003 e' vicecoordinatrice del
gruppo di studio di "Bioetica e cure palliative in neurologia" della
Societa' Italiana di Neurologia]

"Usciamo dal silenzio" mi ha permesso di guardare con occhi diversi alla
politica istituzionale, che ho sempre considerato estranea, quando non
apertamente ostile. Ai miei occhi e' stato per caso; dopo il 14 gennaio
c'erano due turni elettorali: quale migliore occasione per dare pubblica
evidenza al nostro fare e pensare?
In questo tempo ci siamo impegnate perche' fosse riconosciuta la
responsabilita' collettiva di fatti che hanno una dimensione personale,
intima, come la violenza, e perche' fosse garantita concretamente la
liberta' di disporre della propria vita, e non solo riproduttiva. E abbiamo
provato a farlo con donne, e uomini, della politica.
Benche' in piu' di un'occasione "Usciamo dal silenzio" sia stata
riconosciuta e interpellata dalla politica, la distanza fra la radicalita'
(qui nel senso di andare alla radice delle cose) del nostro fare e pensare e
la sciatteria dell'iniziativa politica, spesso limitata a disegni di legge
che dovrebbero rifletterla o la mancanza di adeguamento delle leggi
esistenti (vedi la Ru486, la mediazione linguistica, la vicenda della
rianimazione dei feti), mostra la necessita' di un cambiamento visibile
della politica: che la presenza di donne non porti il segno della minoranza
tutelata o cooptata e ancor meno quella della lobby.
Non siamo una categoria o una parte, siamo piu' della meta'; non ci
interessa il salvataggio della politica (in crisi) ma l'affondamento di quel
ceto politico che l'ha ridotta in questo stato. E questo e' il mio primo
perche': la pari rappresentanza estromette piu' della meta' dell'attuale
ceto politico.
*
Il rimprovero piu' pesante che faccio a questa politica e' quello di
guardare alla Vita come a un valore astratto, senza prendersi cura delle
condizioni materiali e morali in cui e' vissuta. E' questa la premessa che
legittima il controllo dei corpi, la progressiva erosione dei diritti
acquisiti e líincapacit‡ di riconoscere nuove libert‡, legate ai cambiamenti
sociali e introdotte dalla tecnoscienza. Libert‡ da maneggiare con cura
piuttosto che spingere o lasciare nella clandestinita'. Dice Paola Redaelli
che l'appello ai principi favorisce la conservazione. Perche' trascendono il
corpo? Ci liberano del suo ingombro? Nel confronto fra Vita e Liberta',
sembra aver vinto la prima. Piu' si fa vicina al corpo e piu' la liberta' si
fa evanescente: accerchiata da leggi punitive (come la legge 40),
subordinata al potere medico, negata e ricattata (come per Welby), non
riconosciuta, come per le coppie omosessuali, non sembra piu' un valore
fondante, ma un peso da portare in solitudine. La pari rappresentanza puo'
far si' che i corpi si facciano soggetti. Un corpo politico che rappresenta
l'uguale presenza dei sessi nel mondo fara' piu' fatica a espellere i corpi
dalla politica o a ridurli a pura materia biologica, oggetto di regole e
leggi che impediscono di disporne. E questo e' il mio secondo perche': il
corpo diventi soggetto della politica.
*
Se i corpi pensanti tornano al centro della politica possiamo (ri)aprire
pubblicamente e dar contenuto a quel discorso sui limiti, che, nato nel
movimento delle donne negli anni '80 (dopo Cernobyl), e' rimasto
un'affermazione di principio. Cosicche' le critiche, per esempio alle
biotecnologie o ad alcune forme della scienza, hanno poca voce (e poco
ascolto), ma anche difficolta' da chi di noi cerca di tenere insieme
pensiero critico e liberta' di disporre di se'. E questo e' il mio terzo
perche': liberta' di conflitto sui contenuti e censura del conflitto delle
appartenenze (inclusa quella di genere).
*
Finche' la rappresentanza femminile e' minoritaria c'e' poco spazio per le
donne che si sottraggono agli stereotipi della femminilita': materna,
salottiera, emancipata, omologata. Le nostre vite, di donne e di femministe,
faticosamente costruiscono una femminilita' che si riscatta dalla
tradizione. Vorrei che questo diventasse un fatto politico.

3. RIFLESSIONE. RAFFAELLA LAMBERTI: PRESENZA PARITARIA E DUALE
[Dal sito "Server donne" (www.women.it) riprendiamo il seguente articolo del
2 marzo 2007 sul recente convegno dell'Udi sulla campagna "50e50" (cfr.
anche il sito www.50e50.it).
Raffaella Lamberti, insegnante di storia e filosofia dal 1964, nella seconda
meta' degli anni Settanta lascia l'insegnamento per l'attivita' di
formazione degli insegnanti, progettando e costituendo il Landis
(Laboratorio nazionale di didattica della storia), di cui diviene prima
direttrice e poi presidente fino alla fine degli anni Ottanta. In quegli
stessi anni Settanta, assieme ad un gruppo di donne di varie provenienze
geografiche, competenze professionali e afferenze ideali fonda il Centro di
documentazione, ricerca e iniziativa delle Donne di Bologna - dal 1983
associazione "Orlando". Diviene prima coordinatrice del Centro, poi
presidente dell'Associazione "Orlando" che lo gestisce, carica che tuttora
ricopre, da alcuni anni collegialmente. Oggi detto Centro e' la piu'
importante istituzione di genere esistente sul territorio nazionale, con la
maggiore biblioteca specializzata del paese (la quinta per importanza nel
mondo occidentale), il solo ServerDonne con sala da te' internet di donne in
Europa, progetti di ricerca locali, nazionali e internazionali, funzioni di
direzione in reti nazionali, europee e globali e di conduzione di progetti
di sviluppo in varie aree geografiche con particolare riguardo al
Mediterraneo e all'Est europeo. Dagli anni Ottanta favorisce la nascita e la
crescita di Centri di donne in varie parti del mondo, tra cui l'Argentina,
il Cile, la Palestina, Israele, la Bosnia, il Cossovo, la Serbia, l'Albania,
l'Algeria e, con il Centro delle donne e il Landis, promuove campi di pace
tra giovani palestinesi, israeliani e italiani. Nei primi anni Novanta
collabora alla costituzione di una "Scuola di pace" a Monte Sole, teatro
della strage nazista di Marzabotto, e viene eletta copresidente del
Coordinamento delle associazioni di Monte Sole. In tale veste, svolge
attivita' di ricerca, formazione di formatrici e formatori ed organizzazione
di incontri tra parti diverse di aree in conflitto. Negli stessi anni
progetta e organizza la "Scuola di Politica Hannah Arendt", di cui e' la res
ponsabile scientifica. Quando si apre la crisi albanese, dal Tavolo di aiuti
per il popolo albanese le viene affidato l'incarico di coordinare le
aggregazioni e le ong che si occuperanno del Programma Donne. Con
l'Associazione per le donne albanesi, di cui e' presidente, ha numerosi
progetti coordinati e disseminati sul territorio albanese riguardanti il
lavoro agricolo e la piccola impresa, i diritti civili di donne e bambine e
quelli riproduttivi delle donne, l'associazionismo democratico e le sedi per
esercitarlo, la vulnerabilita'. In veste di relatrice e/o promotrice
partecipa a numerosissimi convegni e seminari in Italia e all'estero in
tutti gli ambiti ricordati. E' stata parte del Comitato di genere per
l'evento "Bologna Capitale Europea della Cultura nel Duemila". Le sue
principali pubblicazioni riguardano il rinnovamento dell'insegnamento della
storia e delle scienze sociali; la modificazione delle attitudini e dei
comportamenti giovanili in ordine alla politica ed alla storia; vicende di
rilievo generale, quali il ruolo delle donne nel conflitto
israelo/palestinese e la guerra del Golfo; il conflitto nello spazio ex
iugoslavo e lo stupro in Bosnia; il significato teorico e pratico dei grandi
Forum mondiali dell'Onu; il contributo femminile alle dottrine politiche con
particolare riguardo agli scritti di pensatrici ebree europee, quali Hannah
Arendt e Gillian Rose]

"50 e 50 ovunque si decide" e' formula con cui ci troveremo a fare i conti.
Racchiude il succo della campagna che l'Udi - Unione Donne in Italia, lancia
per la "democrazia paritaria" e interferisce positivamente con la
riflessione che l'associazione "Orlando" prende con i "dialoghi tra
femminismo e democrazia" della Scuola di politica "Hannah Arendt". Dialoghi
che affrontano dilemmi cruciali per una "democrazia paritaria, locale e
globale", per dirla con un nostro slogan.
Prima, tuttavia, di raccontare il motivo che porta a parlarne ora, e'
opportuno sottolineare come dal novembre 2003 l'Unione Donne Italiane si' e'
voluta ridefinire Unione Donne in Italia ponendo attenzione a chi, nata
altrove, emigra e vive nel nostro paese e riconoscendone il diritto alla
piena cittadinanza.
*
Preceduto da incontri aperti del dicembre 2006 e del gennaio scorso, il 22
febbraio 2007 si e' tenuto a Roma, in piena crisi di governo, un convegno in
vista del prossimo 8 marzo, giorno di lancio dell'azione in questione il cui
logo campeggia oggi nel sito dell'Udi.
Aperto da Pina Nuzzo e introdotto dalla relazione di Milena Carone e
Stefania Guglielmi, il convegno ha consentito di cogliere gli spostamenti
nel tempo e i nodi concettuali e politici che inducono un'organizzazione a
carattere nazionale ad impegnarsi nella raccolta di 50.000 firme per
giungere ad una legge che imponga meccanismi paritari ad ogni livello della
rappresentanza e della decisione. Poiche' il sito ufficiale dell'Udi
contiene visibili e comprensibili i chiarimenti, i documenti e le
indicazioni necessarie ad aderire alla campagna o a farsene attrice, mi
limito ad analizzare spostamenti e nodi salienti che giustificano perche'
una legge, perche' "50 e 50", perche' una campagna.
*
Alle spalle della scelta del tema della presenza paritaria e duale e delle
modalita' che l'Udi assume per farne politica stanno due ordini di
considerazioni che rilevano da altrettanti spostamenti. Milena Carone e
Stefania Guglielmi, richiamando la Proposta di legge di iniziativa popolare
contro la violenza sessuale (1978) di cui l'Udi fu copromotrice, hanno
ricostruito il "percorso travagliato" che porto' l'associazione a mutare il
proprio atteggiamento verso la norma e ad interrogarsi sul rapporto tra "la
soggettivita' sessuata" femminile e la legge. Un processo che in seguito ha
condotto a riflettere su concettualizzazioni e istanze quali universalita',
uguaglianza, democrazia fino a giungere all'attuale formulazione
"cittadinanza duale" che a quelle istanze e principi offre risposta.
Con occhi esterni all'Udi, l'influenza del pensiero della differenza e del
"pensare differentemente" nell'assunzione dell'essere due nel mondo e della
differenza tra i generi come pre-condizione di uguaglianza e' considerevole.
E altrettanto lo sono le riflessioni che sul rapporto donne/diritto sono
scaturite da una pluralita' di differenti voci dei femminismi e non solo da
giuriste.
Certo l'assunzione del concetto d'uguaglianza e la presa di posizione a
favore della democrazia sono buona stoffa Udi.
*
Il secondo spostamento lo ha esposto Pina Nuzzo: con il XIV Congresso
2002-2003, l'Udi ha ritenuto conclusa la pur feconda "era delle assemblee"
per pensare il ruolo del "dirigere" e della "dirigenza" in politica come
assunzione di responsabilita' ed esposizione al giudizio. Ove la frase forte
del ragionamento e' che nel decidere in liberta' cosa sia meglio per il
"noi" - Udi, ci siano le condizioni per decidere "anche cosa e' meglio per
le donne". Il "50 e 50" poggia, piuttosto, su una stigmatizzazione del vizio
di fondo di ogni idea di quote e gioco di proporzione della rappresentanza
che non assuma la presenza paritaria come misura: avere la discriminazione
e, di conseguenza, il divieto di discriminazione a riferimento della
cittadinanza femminile, cosi' come tuttora li hanno le costituzioni
democratiche occidentali e la Dichiarazione universale dei diritti umani.
Ne' diverso criterio ha retto la modifica del Titolo V della Costituzione
italiana.
Senza indugiare sul perche' le donne, essendo piu' degli uomini e parte di
ogni aggregato umano, non possano costituire una minoranza discriminata, e'
evidente come tale criterio configuri una cittadinanza originaria e
principale, quella maschile, ed una derivata e seconda, quella femminile,
che aspira ad essere ammessa alla prima. Ma e' anche evidente come il
concetto di uguaglianza sia ancor piu' da ripensare nella sua complessita'
oggi, se storicamente esso ha retto, come per secoli ha retto, le ipotesi di
esclusione/inclusione e assimilazione al "cittadino" uomo, bianco,
acculturato di chi per genere, ceto e razza non gli fosse uguale. Le
relatrici articolano classicamente il concetto in uguaglianza formale e
sostanziale, ove interessante e' come in ultima istanza la sostanzialita' si
suffraghi. Vale a dire grazie alla soggettivita' sessuata, alla dualita'
dell'incarnazione di un uomo e di una donna, che mantiene ancora alle donne
la titolarita' del generare. Questo e', si diceva al convegno, il solo
diritto naturale che l'Udi riconosce.
*
Le conseguenze di tali diverse assunzioni sul piano giuridico portano a
conseguenze linguistiche. A una locuzione come "democrazia paritaria", nata
a livello di organismi transnazionali europei con merito di donne in essi
operanti, l'Udi associa quella di "cittadinanza duale" ed insiste sulla
necessita' di tenere compresenti i due aggettivi "paritaria e "duale" pena
l'insignificanza del soggetto femminile a fronte delle moderne democrazia e
cittadinanza. Un ulteriore slittamento linguistico riguarda la stessa idea
di rappresentanza laddove si suggerisce di parlare di "presenza paritaria" e
non di "rappresentanza paritaria". Le assonanze con tanta riflessione
femminista e riflessione "neutra" sui limiti della rappresentanza
porterebbero lontano. Piu' pertinente all'orizzonte dei discorsi ascoltati
il 22 febbraio, e' la cura che s'intende mettere nella predisposizione di un
dispositivo di legge che garantisca presenza paritaria di donne in ogni
organismo e ad ogni livello in cui si decida.
Infine, l'Udi riconosce alla nozione di "campagna" non solo la capacita'
d'esprimere la volonta' di un coinvolgimento ampio delle donne sul
territorio nazionale, ma quella di una lotta politica consapevole e tenace,
dato che affermare la democrazia "paritaria e duale" comporta la riduzione
di quel potere che uomini in carne e ossa hanno fondato e fondano sulla
disuguaglianza di genere.

4. MEMORIA. "UNA CITTA'" INTERVISTA ANNETTE WIEVIORKA SULLA MEMORIA
DELL'IRREPARABILE
[Dalla rivista "Una citta'", n. 84, marzo 2000 (disponibile anche nel sito:
www.unacitta.it) riprendiamo la seguente intervista li' apparsa col titolo
"La memoria dell'irreparabile" e con il seguente sommario: "La convocazione
del testimone in quanto "presenza del passato fra di noi" rischia di
contribuire alla banalizzazione della Shoah. Tanti superstiti non vollero
identificarsi nel sopravvissuto. Il cambiare delle testimonianze nel tempo.
Il racconto della Shoah trasportato nella cultura ottimistica americana
rischia di essere stravolto. Il susseguirsi delle generazioni non ripara la
fine di una civilta'. Intervista a Annette Wieviorka. Annette Wieviorka vive
a Parigi dov'e' ricercatrice al Cnrs, equivalente francese del nostro Cnr
(Centro nazionale delle ricerche), ed e' specialista della storia della
Shoah, cui ha dedicato diverse opere. L'intervista prende le mosse dal
pamphlet L'era del testimone, recentemente tradotto da Raffaello Cortina".
Annette Wieviorka, storica, dirige il Centro nazionale per la ricerca
scientifica alla Sorbona di Parigi; impegnata contro il razzismo; ha
pubblicato vari volumi sull'ebraismo e sulla Shoah. Opere di Annette
Wieviorka: in italiano cfr. Auschwitz spiegato a mia figlia, Einaudi, Torino
1999; L'era del testimone, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999]

- "Una citta'": Lei si e' occupata piu' volte del ruolo della testimonianza
soprattutto in riferimento alla Shoah. Ma fra il discorso della
testimonianza e il discorso storico propriamente detto, basato sulla ricerca
negli archivi, la raccolta di dati, la valutazione critica delle fonti,
orali e scritte che siano, non esiste una contraddizione?
- Annette Wieviorka: Nel mio lavoro ci sono due punti di partenza: da un
lato, il mio profondo interesse per le testimonianze sulle quali ho lavorato
moltissimo; dall'altro, due avvenimenti, per cosi' dire, congiunturali. Il
primo di essi e' la raccolta di testimonianze filmate ai superstiti della
Shoah fatta da Spielberg; il secondo, che mi ha fatto riflettere moltissimo,
e' il cosiddetto affaire Aubrac, cioe' tutta la polemica intorno all'arresto
di Jean Moulin, comandante in capo della Resistenza francese, la
ridiscussione delle versioni successive della testimonianza resa da Aubrac
che e' sfociata in una tavola rotonda organizzata dal giornale "Liberation"
nell'estate del '98. Si tratta di questo: gli storici hanno sottoposto a
critica le variazioni e le incoerenze della testimonianza. Ma, cosi'
facendo, si sono rapportati a un testimone vivente nella veste di pubblici
ministeri in un processo, quasi intimando al testimone di dire che mentiva,
mentre in realta' non mentiva affatto. Tutto cio' mi ha fatto riflettere
molto sulla relazione fra testimone e storico, sulla rivalita' fra il
discorso pubblico del testimone e il discorso dello storico. Quasi che,
prima di recepire una storia che non sia piu' una storia del tempo presente,
ossia una storia definita dalla presenza fra di noi degli attori e dei
testimoni, ci fosse una sorta di lotta per sapere in quale discorso, se
meramente testimoniale o veramente scientifico, collocare questa storia.
Devo dire subito che non ho la religione della storia. Occuparmi di storia
e' il mio mestiere; non penso, tuttavia, che sul passato gli storici abbiano
un monopolio. Ci sono altri modi di conservare il passato nel tempo
presente: il cinema, la letteratura, la discussione filosofica.
Tornando al ruolo della testimonianza, mi ha sempre colpito che la
testimonianza emerga dalla Shoah, nel momento stesso in cui il genocidio si
svolge. Significa che in molti ebrei, polacchi soprattutto, nel pieno
svolgersi del genocidio, c'era la coscienza che non sarebbero sopravvissuti
e che la loro scomparsa non sarebbe stata solo una morte individuale, ma una
morte totale, nella misura in cui la societa' in cui vivevano, la civilta'
di cui facevano parte erano destinate a scomparire con loro.
Era un sentimento acutissimo, che li spingeva a salvare le tracce del loro
mondo, attraverso tutta un'opera di archiviazione cui si sono dedicati gli
Judenratte dei ghetti delle citta' polacche, a partire da quello di
Varsavia, attraverso la stesura di memorie e diari privati, scritti con la
coscienza di non esprimere semplicemente la propria individualita', ma anche
del proprio mondo, affinche' gli ebrei non siano privati della memoria e
della storia.
A me colpisce in modo particolare che queste testimonianze non siano mai
state considerate al di fuori della piccola sfera degli studiosi, che mai un
pubblico piu' vasto se ne sia interessato. Eppure molte di queste
testimonianze, scritte in lingue poco accessibili, come lo yiddish,
l'ebraico, il polacco, sono state tradotte in francese, in italiano, ma non
hanno mai fatto parte del canone delle testimonianze della Shoah, che,
costituitosi ai nostri giorni, contiene un certo numero di opere, per
esempio l'opera di Primo Levi, ma non questo genere di testimonianze. Questo
significa che non sono mai state integrate in modo da essere studiate,
commentate, lette, insegnate. Eppure quelle testimonianze sono fondamentali
perche' permettono di scrivere una storia del genocidio che non sia
semplicemente la storia di cio' che ha compiuto il carnefice.
Paradossalmente, oggi, piu' di cinquant'anni dopo gli avvenimenti, si
convocano i testimoni e si pretende che parlino. E li si convoca in una
situazione che e' particolare e che non puo' distaccarsi dall'epoca nella
quale viviamo. Noi viviamo - sto dicendo delle banalita', che pero' non sono
meno vere - nella societa' dello spettacolo, in una societa' che non conosce
piu' il tempo, in cui conta solo l'hic et nunc. E questo implica che, per
parlare del passato, con la scusa di mostrare che c'e' una profondita'
storica, si convoca il testimone perche' e' la presenza del passato fra di
noi. Lo si convoca non perche' faccia un discorso sul passato, ma perche'
mostri che quel passato e' presente in lui e, tramite lui, anche in noi. In
questo senso, totale diventa la banalizzazione del genocidio perche' il
testimone entra in un dispositivo identico a quello in cui rientra chi
testimonia, che so, di essere scampato alla tempesta che ha sconvolto la
Francia a fine anno.
In altri termini, la banalizzazione nasce dal dispositivo, dal modo di
prendere la parola e dai temi che vengono affrontati, che sono gli stessi di
ogni catastrofe. Ogni volta che c'e' una catastrofe si sente lo stesso
discorso. E il discorso del superstite della Shoah e' codificato in questo
dispositivo.
Primo Levi in Se questo e' un uomo narra il sogno ricorrente che ha fatto
nel lager, al pari di molti altri. Levi insiste sul bisogno profondo che ha
avuto di raccontare. Al ritorno tutti parlano; molti hanno scritto, come
Primo Levi, un po' di tempo dopo; alcuni hanno dimenticato quanto avevano
scritto immediatamente dopo il ritorno. Quindi c'era una necessita'
impellente di raccontare, quasi il bisogno di essere riconosciuti nella
propria identita', in modo che si riconoscesse che l'uomo che era davanti a
noi e' lo stesso che era nel lager, lo stesso che era prima del lager. Il
bisogno di essere riconosciuti nella totalita' della propria identita' e'
stato molto forte, e lo e' sempre. In questo senso, e' piu' che legittimo
che il testimone testimoni, ma un certo numero di testimoni non hanno voluto
testimoniare per ragioni molto diverse.
Qualche tempo fa e' uscito un libro molto interessante di uno psichiatra,
Stanislav Tomkievic, dal titolo L'adolescence volee. Tomkievic era un
adolescente ebreo-polacco, frequento' il primo anno di Medicina nel ghetto
di Varsavia, venne arrestato, inviato a Treblinka, ma riusci' a saltare giu'
dal treno; dopo la guerra scelse di venire in Francia diventando
neuropsichiatra infantile. Ora, Tomkievic ha iniziato a scrivere molto
tardi, quindi rientra fra coloro che non hanno mai voluto che l'identita'
derivante dall'essere un superstite avesse maggior peso di quella derivante
dal proprio successo professionale.
Credo che ci sia anche il problema di sapere come si vuole essere
considerati: qualcuno non vuole essere considerato solo come un superstite
del ghetto. Penso che questo fosse anche uno dei problemi di Primo Levi.
Ritengo abbia sofferto del fatto di non essere riconosciuto nella propria
identita' di scrittore e di essere considerato solo come un testimone. Anche
se e' vero che e' proprio a partire dalla sua testimonianza che e' diventato
scrittore. Pero', in qualcuno questa identita' multipla costituisce un
problema; c'e' il timore che l'identita' di vittima della Shoah sia tale da
annullare il successivo cammino esistenziale.
*
- "Una citta'": Nel libro afferma che c'e' il "pericolo" di
un'americanizzazione della Shoah, in cosa consiste?
- Annette Wieviorka: Quando parlo di "americanizzazione" della Shoah intendo
il meccanismo seguente, particolarmente presente nella cultura statunitense:
si prende un avvenimento che si e' svolto sul suolo europeo, e il genocidio
degli ebrei resta un evento europeo, e lo si trasporta negli Stati Uniti
adattandolo ai valori americani, che sono la tolleranza, la democrazia, la
liberta', in modo da servire all'educazione dei giovani americani. Insomma
l'Olocausto viene chiaramente usato a fini di educazione interna delle
giovani generazioni. In questo modo, l'avvenimento viene svuotato della sua
dimensione storica per diventare un simbolo dell'esemplarita' della
democrazia americana. Il rischio e' che, cosi' facendo, finiscono per
rimandarci questo avvenimento immerso in un'altra componente dello spirito
americano: l'ottimismo. L'ottimismo e' qualcosa che colpisce molto. Se si
guarda al modo in cui sono costruiti i prodotti di Spielberg, Schindler's
List o il documentario Gli ultimi giorni, costruito sulle testimonianze di
cinque ebrei ungheresi sopravvissuti, ci si accorge che la materia di cui
sono costituite e' la sopravvivenza. Sono storie di sopravvivenza, storie
ottimiste, in cui si racconta la Shoah senza volerne dare il senso di
completa disperazione con cui viene in realta' vissuta dalle vittime. La
Shoah diventa un episodio che mostra la forza umana. Ma se si guarda alla
realta' storica, non e' questo lato che emerge: la Shoah e' piu' una storia
di morte che una storia di sopravvivenza; e' piu' una storia che permette di
riflettere sull'omicidio di massa che una storia sulla sopravvivenza
individuale.
Per fare un esempio, non giudico negativamente Schindler's List, la
ricostruzione del ghetto di Cracovia e' straordinaria, ma l'ultima immagine
che rappresenta le persone salvate da Schindler e la loro discendenza e'
un'immagine che annulla la morte di massa poiche' mostra che c'e' di nuovo
una discendenza. Si e' distrutto un popolo e nel film non si pone la
questione di sapere se la discendenza annulla la morte della civilta'
dell'yiddishland. E questo e' l'irreparabile. Nel film l'irreparabile e'
come se fosse riparato dalle generazioni successive. A ben vedere, questo e'
anche il leit-motiv del film di Benigni, per cui si puo' dire che anche dopo
la Shoah la vita e' bella.
*
- "Una citta'": E le nuove generazioni non fanno piu' parte di quella
civilta' scomparsa...
- Annette Wieviorka: Certo, stiamo vivendo adesso il passaggio delle
generazioni: la generazione dei contemporanei dell'avvenimento, pur essendo
ancora viva, non e' piu' al comando. Nei media, nell'editoria, in politica,
il potere e' nelle mani delle generazioni nate dopo la guerra. Ancora la mia
generazione, pur non avendo vissuto quegli avvenimenti, e' cresciuta alla
loro ombra, ma le generazioni piu' giovani non possono avere una qualche
sensibilita' nei confronti della Shoah.
*
- "Una citta'": C'e' una differenza fra le testimonianze dell'immediato
dopoguerra, come quella di Primo Levi, e l'attuale ricerca di testimoni,
intrapresa mediante il video e non attraverso la scrittura? Nel libro, cita
l'episodio del sopravvissuto che ha scritto la propria testimonianza
immediatamente dopo la guerra, ma che, chiamato davanti al video, non si
riconosce piu' negli episodi sgradevoli della vita nel lager, di cui aveva
scritto...
- Annette Wieviorka: Beh, quest'ultima e' un'esperienza che ognuno di noi
puo' fare: si mettono a posto vecchie carte, si trovano cose scritte dieci o
vent'anni prima e ci si chiede se veramente le abbiamo scritte noi. E'
un'esperienza banale, che pero' ci dice che non si puo' mai prescindere da
chi testimonia e da quando testimonia. Oggi, abbiamo testimoni che parlano
quando sono ormai giunti alla fine della loro vita, e ne sono coscienti.
Sotto molti aspetti, la testimonianza e' anche un bilancio.
Per cui credo che chi torna dalla deportazione, ossia chi non e' morto nel
lager o subito dopo il ritorno e che non e' diventato pazzo (non si sono
fatti studi in merito, ma nei manicomi ci sono molte persone che hanno
vissuto questi avvenimenti oppure che hanno perso tutta la famiglia,
rimanendo i soli sopravvissuti), chi non e' stato distrutto, direttamente o
indirettamente, dagli avvenimenti, nonostante tutto ha l'avvenire davanti a
se'. E questo avvenire se lo costruisce.
Fra coloro che sono sopravvissuti alla deportazione ci sono persone con una
straordinaria forza vitale che gli ha fatto conquistare un successo
eccezionale nel proprio campo; penso a Simone Veil, a Elie Wiesel. Ora,
quando si e' alla fine della propria vita, ognuno fa un bilancio, testimonia
con le parole di oggi e non con le parole di quel tempo, testimonia a
partire da cosa e' oggi, riscrivendo il suo racconto, ricodificandolo. Non
c'e' un racconto neutro, ogni testimonianza e' un racconto che ha un proprio
senso interno, altrimenti e' un'agenda, non un racconto. E questo racconto
viene fatto a partire da cio' che si e'; non si puo' prescindere dalla
soddisfazione o meno, dal sentimento di fallimento o di successo, che non e'
obiettivo; e' in relazione alle proprie speranze e delusioni; e' pervaso dal
sentimento della fine della propria vita.
Queste testimonianze non sono un racconto sull'esperienza che si e' vissuta
nei campi, ma un racconto sul modo in cui si pensa che l'esperienza vissuta
nei campi abbia determinato la persona che si e' nel momento in cui si
racconta.
Questa, molto spesso, e' la convenzione tacita che si stabilisce fra la
persona che fa l'intervista e la persona che rende testimonianza.
Credo che la caricatura di questa relazione sia leggibile nell'affaire
Wilkomirski. Wilkomirski e' l'autore di un resoconto della propria infanzia
sconvolta dalla Shoah, che si e' scoperto essere un falso. Gli interrogativi
vertevano solo sul fatto se fosse un'opera falsa o vera, insomma
sull'autenticita' del testo. Ma la cosa interessante non e' questa, bensi'
l'interrogativo sul perche' un testo del genere sia stato fatto oggetto di
un tale entusiasmo senza che ci fosse stato alcun lancio editoriale, del
tipo di quello che ha preceduto il Libro nero del comunismo. Il libro di
Wilkomirski si e' fatto strada da solo attraverso il passaparola, perche', a
ben vedere, dice esattamente quel che oggi vogliamo sentirci dire della
Shoah.
Oggi, abbiamo voglia di sentirci dire che non si e' mai usciti da questa
storia e il talento di Wilkomirski risiede appunto nel mostrare che si puo'
capire il mondo solo attraverso questa esperienza.
E' l'anti-Levi, in un certo senso: "Non si esce mai dal campo", che
corrisponde al discorso che si sente oggi, e che non si sentiva vent'anni
fa, che afferma: "Non sono mai uscito da Auschwitz" e che molti deportati
sostengono. Questo discorso corrisponde a quel che ci si aspetta oggi da
questa storia e la genialita', probabilmente psicologicamente perturbata, di
Wilkomirski sta nell'essere riuscito a percepire questa attesa, scrivendo il
racconto che forniva la prova di cio' che ci si attendeva. L'affaire
Wilkomirski pone il problema non solo del testimone ma anche
dell'accoglienza della testimonianza e dell'influenza giocata dall'attesa
nei confronti del racconto stesso.
*
- "Una citta'": Nell'iniziativa di Spielberg lei vede un pericolo per la
storia, consistente nella possibilita' di sostituire la storia cosi' come la
conosciamo con le storie individuali?
- Annette Wieviorka: Il pericolo dal mio punto di vista risiede
nell'incapacita' che abbiamo oggi di pensare in termini collettivi, cioe' di
avere la coscienza che un avvenimento storico non e' solo la
giustapposizione di racconti individuali. Se la storia dovesse essere
questo, non c'e' piu' storia. E' proprio della letteratura dare una visione
individuale della storia, anche se spesso il vero romanziere in questo modo
raggiunge una certa verita' sull'epoca.
Spielberg mostra quindi l'odierna capacita' a pensare gli avvenimenti solo
in funzione del fascino che possono esercitare sugli individui. Mentre nelle
testimonianze del dopoguerra o in quelle scritte durante la "soluzione
finale" nei ghetti c'era il sentimento della dimensione collettiva. Questo
e' un pericolo molto grave per la storia, e mostra anche come funziona la
societa' odierna: ognuno per se', ognuno la propria storia.
*
- "Una citta'": La raccolta di video-testimonianze sulla Shoah non potrebbe
rientrare nella disciplina della storia orale, in cui si va ad intervistare
appartenenti alle classi sociali che non hanno lasciato tracce scritte di
se' nella storia?
- Annette Wieviorka: Quello della storia orale e' un altro discorso. La
storia orale dell'esperienza dei lager e' esistita fin dall'apertura dei
campi, ed e' stata importante perche' si inseriva in un progetto collettivo.
Quella di Spielberg non e' storia orale ed e' tanto meno indispensabile dal
momento che si hanno centinaia di migliaia di testimonianze raccolte e
catalogate. La domanda che ci si pone e': ma perche' ora e' come se si fosse
i primi a fare una raccolta del genere? Quando non si e' affatto i primi. A
cosa sono destinate queste testimonianze? A volte mi chiedo se la cosa
importante non sia tanto la testimonianza da inserire in archivio, ma l'atto
stesso del testimoniare, ossia l'atto di testimoniare per coloro che
testimoniano nel momento in cui testimoniano e per coloro che raccolgono le
testimonianze. Se questo e' vero, allora quanto risulta dall'atto di
testimoniare non e' piu' cosi' interessante. Coloro che hanno dato una prima
testimonianza subito dopo gli avvenimenti dicono che questa testimonianza e'
la memoria dell'avvenimento quindi conservano questa testimonianza come la
matrice delle testimonianze e riflessioni ulteriori; e' a questa che fanno
riferimento e questo permette loro di conservare lo stato di quello che
sapevano e come lo capivano in un momento precoce, e di farvi riferimento
loro stessi.
Qui, invece, c'e' una testimonianza resa a una grande distanza
dall'avvenimento, quando fra l'avvenimento e l'atto del testimoniare ci sono
molte cose che sono state dette, rappresentate, viste in documentari, film e
filmati. Per cui quando ci sono state molte rappresentazioni
dell'avvenimento, che la gente ha visto, letto, non si puo' piu', secondo
me, separare bene cio' che appartiene all'esperienza personale da quello che
e' stato visto e sentito dopo.
*
- "Una citta'": La molla che spingeva a scrivere memoriali e ricordi era la
sensazione che il proprio mondo stesse scomparendo...
- Annette Wieviorka: E' vero che in altri periodi della storia ebraica si
sono diffusi sentimenti di fine del mondo, ma non con la stessa intensita'
di quelli provati durante la "soluzione finale". La testimonianza di massa,
con tutta una popolazione in grado di scrivere, e' sorta per la prima volta
durante la guerra '14-'18, in particolare fra gli ebrei dell'Est. Quello fu
un periodo terribile, tanto piu' che la maggior parte degli ebrei dell'Est
viveva nella zona di residenza dell'impero zarista, una larga fascia di
territorio che andava dal Mar Baltico al Mar Nero, piu' volte attraversata
dal fronte. E fu terribile perche' subito dopo scoppio' la guerra civile in
Russia fra Bianchi e Rossi, descritta da Isaak Babel ne L'armata a cavallo,
accompagnata da pogrom in cui gli ebrei vennero decimati a decine di
migliaia. Quello fu un salto di vaste proporzioni nella storia delle
persecuzioni contro gli ebrei: il periodo che va dal 1915 al 1920 segno' la
prima distruzione del mondo ebraico tradizionale. Nel 1903 c'era stato il
grande pogrom di Kishinev, che suscito' proteste a livello internazionale.
Ma se consideriamo il numero di morti provocati, si contano sulle dita di
una mano.
I pogrom dell'impero zarista causavano morti che si contavano per unita', al
limite per decine; con la prima guerra mondiale i morti si contano a
migliaia. E' in quel momento che nel mondo ebraico compaiono le prime
raccolte di racconti di massacri.
Un americano, David Roskies, ha lavorato molto sui racconti di distruzione,
che lui chiama "la letteratura della catastrofe", una letteratura che si
sviluppa in quel periodo per via delle grandi dimensioni delle stragi e
della secolarizzazione del mondo ebraico. Questi racconti, in generale, sono
stati scritti da ebrei che, anche se praticanti, hanno avuto un'esperienza
politica, che quindi non vivono piu' all'interno di un universo mentale
unicamente religioso, dove la catastrofe viene inserita nel rituale
religioso. Come sapete, nel calendario ebraico c'e' un certo numero di feste
e di celebrazioni che sono la memoria di avvenimenti storici rimaneggiati:
per esempio, l'espulsione dall'Egitto, la cui verita' storica e' accertabile
o meno, rientra nel rituale della Pasqua; le persecuzioni antiche, la storia
di Esther, corrispondono alla festa di Purim; le crociate e le stragi
verificatesi nel XIV secolo in Polonia sono inserite nel rituale. Ma a
partire dal XX secolo c'e' una sorta di laicizzazione della societa' ebraica
che consente questo tipo di scrittura memorialistica, non piu' rituale, per
cui anche il carattere, il senso della strage subita cambia. Quindi, la
testimonianza moderna e' un risultato della secolarizzazione del mondo
ebraico. Roskies, poi, mostra anche come in questi racconti, nel modo stesso
di scrivere, si ritrovino certi paradigmi essenzialmente religiosi, delle
matrici che provengono dalla tradizione. E queste si ritrovano anche nei
racconti dell'immediato dopoguerra, al ritorno dal lager.
*
- "Una citta'": Nel passaggio dalla scrittura al mezzo audiovisivo?
- Annette Wieviorka: Penso che quelle testimonianze siano piu' influenzate
da altri modelli, soprattutto psicanalitici, per cui appartengono ad un
altro universo culturale. Dipendono anche dal destinatario della
testimonianza e sappiamo bene qual e' il sistema di valori che la persona
che pone le domande in televisione ha in mente...

5. LETTURE. GIOVANNA SCARCA, ALESSANDRO GIOVANARDI (A CURA DI): POESIA E
PREGHIERA NEL NOVECENTO
Giovanna Scarca, Alessandro Giovanardi (a cura di), Poesia e preghiera nel
Novecento. Clemente Rebora, Cristina Campo, David Maria Turoldo, Pazzini
Editore, Villa Verucchio (Rimini) 2003, pp. 112, euro 10. Le figure di
Rebora, Campo e Turoldo nella lettura che della loro opera e meditazione
offrono i curatori e studiosi acuti e sensibili come Bernardo Antonini,
Monica Farnetti, Filippo Secchieri (di ciascuno dei quali qui viene
presentata una conferenza); con una poesia inedita di Turoldo e un testo di
John Lindsay Opie tradotto e presentato da Cristina Campo.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell’ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell’uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 60 del 15 aprile 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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