La nonviolenza e' in cammino. 1417



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1417 del 13 settembre 2006

Sommario di questo numero:
1. Cindy Sheehan: Falsita'
2. Danilo Dolci: E' stato ripetuto giustamente
3. L'esperienza di "Parents' Circle - Families Forum"
4. Ida Dominijanni: Cinque anni dopo
5. Augusto Cavadi: Riflessioni sul sacro
6. Riletture: Quentin Bell, Virginia Woolf
7. Riletture: Simone Petrement, La vita di Simone Weil
8. Riletture: Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. TESTIMONIANZE: CINDY SHEEHAN: FALSITA'
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di
Cindy Sheehan.
Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il
successivo mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in
cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli
per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e
alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio
movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro
Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel
sito www.koabooks.com; sta per uscire il suo secondo libro: Peace Mom: One
Mom's Journey from Heartache to Activism, per Atria Books.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]

"Non te ne e' mai fregato nulla di tuo figlio, e sei una falsa!", mi ha
urlato l'uomo irato (e probabilmente alticcio) mentre seguiva me, la mia
figlia ventenne e due sue amiche fuori dal negozio in cui avevamo fatto la
spesa, nella nostra ex citta' di residenza, Vacaville in California.
Mesi e mesi di attivismo, e la vita in genere, mi hanno insegnato qualche
lezione: una delle quali e' "non metterti mai a discutere con una persona
ubriaca". Questa e' una lezione appresa dalla vita. Il mio attivismo me ne
ha insegnata qualche altra, che ho dovuto apprendere nel modo piu' duro.
Da quando la guerra del terrore di Bush e compagnia si e' presa la vita del
mio figlio maggiore, una delle principali cose che ho imparato e' che non si
deve neppure mai mettersi a discutere con qualcuno che e' ancora cosi'
cieco, o cosi' ingenuo, da credere al "vangelo secondo George Bush", per il
quale Saddam Hussein aveva armi di distruzione di massa o era legato ad
al-Qaida.
Quei pochi nostri compatrioti che ancora sostengono George e gli altri
menzogneri neoconservatori dovrebbero essere commiserati e raccomandati al
loro dio, non ci si puo' discutere perche', credetemi, e' una situazione in
cui tutti perdono, e sempre.
Mi sarebbe piaciuto discutere in modo razionale con il Signor Ubriaco
Repubblicano (in vino veritas) quando ha urlato a me ed alle ragazze che io
non mi sono mai curata di mio figlio. Come puo' qualcuno, persino un
sostenitore di Bush, credere che a una madre non importi nulla dei suoi
figli?
Ha quell'uomo brillo, con sua madre, la stessa relazione che apparentemente
George ha con la propria? Pensa veramente che non me freghi nulla di Casey,
e che io non pianga il suo inutile omicidio ad ogni momento del giorno? Ma
quest'uomo aveva due problemi: l'ubriachezza e l'ingenuita' sufficiente per
credere ancora alle mostruose bugie di Bush.
Avrei voluto potergli mostrare l'articolo del "Washington Post" che
riportava le nuove dichiarazioni del Senato sull'intenzionalmente
fallimentare attivita' di spionaggio usata per giustificare l'invasione
dell'Iraq, quando ha dato della "falsa" a me. Quando il "portabugie" del
presidente, Tony Snow, e' stato interrogato a proposito del rapporto del
Senato, si e' limitato a dichiarare che era "roba vecchia" ed ha aggiunto
che se c'e' della gente che "vuole di nuovo discutere questa causa, e adire
le vie legali, lo faccia pure".
La dichiarazione di Snow e' un'altra falsita': quando mai il rapporto del
Senato sull'intelligence e' stato discusso per la prima volta? La porzione
di questo documento che e' appena stata resa pubblica e' stata tenuta
segreta per due anni, cosi' da non uscire prima della debacle presidenziale
del 2004. Vorrei proprio che le vie legali fossero adite, proprio ora. Mi
riterrei contenta se solo i membri del regime Bush venissero accusati
formalmente e portati in tribunale a rispondere del modo in cui hanno
fraudolentemente condotto il nostro paese in una guerra immorale ed
illegale, basata sulle menzogne e sulle mistificazioni.
Vorrei finalmente avere giustizia per l'assassinio di mio figlio e le
innumerevoli morti di decine di migliaia di innocenti, che potrebbero essere
vivi se la nostra amministrazione non fosse bugiarda. Non troppo tempo fa,
George Bush ha mentito ancora, quando ha detto di non aver mai fatto
collegamenti fra Saddam Hussein e Osama bin Laden.
Con quante altre menzogne devono ingozzarci, prima che noi, la gente, si
provi nausea e si esca dalle nostre zone confortevoli per chiedere
responsabilita' e conseguente azione?
Le ragazze ed io siamo infine riuscite a liberarci dall'ignorante urlatore
nel parcheggio, ma nessuno ci liberera' mai dal fatto che Casey non e' piu'
vivo e non tornera' a casa, mai piu'.
Non saremo mai capaci di far diventare la sua morte "roba vecchia", perche'
e' stato ucciso dalle bugie e dal complice silenzio di molti. Bush e
compagnia hanno ferito molti membri della famiglia di Casey, molti suoi
amici, ma per quante persone dobbiamo moltiplicare questa sofferenza? La
scia di dolore lasciata da Bush e compagnia e' terribilmente tagliente, e
neppure misurabile.
Per favore, unite le vostre voci a quelle che si stanno alzando a
Washington, a Camp Democracy, nel chiedere responsabilita' ed azione.
Non aspettate sino a che il militarismo strisciante ed il fascismo in boccio
dello "stato-Bush" verranno a bussare alla vostra porta, per portar via
qualcuno che amate. Accadra', a meno che noi non ci si alzi e si dica "no",
con le nostre voci piu' alte e persistenti.
Non e' "roba vecchia" per me, signor Tony Snow, lo so che le sue bugie sono
profondamente personali.

2. MAESTRI. DANILO DOLCI: E' STATO RIPETUTO GIUSTAMENTE
[Da Danilo Dolci, La struttura maieutica e l'evolverci, La nuova Italia,
Scandicci (Firenze) 1996, p. 184. Danilo Dolci e' nato a Sesana (Trieste)
nel 1924, arrestato a Genova nel '43 dai nazifascisti riesce a fuggire; nel
'50 partecipa all'esperienza di Nomadelfia a Fossoli; dal '52 si trasferisce
nella Sicilia occidentale (Trappeto, Partinico) in cui promuove
indimenticabili lotte nonviolente contro la mafia e il sottosviluppo, per i
diritti, il lavoro e la dignita'. Subisce persecuzioni e processi.
Sociologo, educatore, e' tra le figure di massimo rilievo della nonviolenza
nel mondo. E' scomparso sul finire del 1997. Di seguito riportiamo una
sintetica ma accurata notizia biografica scritta da Giuseppe Barone
(comparsa col titolo "Costruire il cambiamento" ad apertura del libriccino
di scritti di Danilo, Girando per case e botteghe, Libreria Dante &
Descartes, Napoli 2002): "Danilo Dolci nasce il 28 giugno 1924 a Sesana, in
provincia di Trieste. Nel 1952, dopo aver lavorato per due anni nella
Nomadelfia di don Zeno Saltini, si trasferisce a Trappeto, a meta' strada
tra Palermo e Trapani, in una delle terre piu' povere e dimenticate del
paese. Il 14 ottobre dello stesso anno da' inizio al primo dei suoi numerosi
digiuni, sul letto di un bambino morto per la denutrizione. La protesta
viene interrotta solo quando le autorita' si impegnano pubblicamente a
eseguire alcuni interventi urgenti, come la costruzione di una fogna. Nel
1955 esce per i tipi di Laterza Banditi a Partinico, che fa conoscere
all'opinione pubblica italiana e mondiale le disperate condizioni di vita
nella Sicilia occidentale. Sono anni di lavoro intenso, talvolta frenetico:
le iniziative si susseguono incalzanti. Il 2 febbraio 1956 ha luogo lo
"sciopero alla rovescia", con centinaia di disoccupati - subito fermati
dalla polizia - impegnati a riattivare una strada comunale abbandonata. Con
i soldi del Premio Lenin per la Pace (1958) si costituisce il "Centro studi
e iniziative per la piena occupazione". Centinaia e centinaia di volontari
giungono in Sicilia per consolidare questo straordinario fronte civile,
"continuazione della Resistenza, senza sparare". Si intensifica, intanto,
l'attivita' di studio e di denuncia del fenomeno mafioso e dei suoi rapporti
col sistema politico, fino alle accuse - gravi e circostanziate - rivolte a
esponenti di primo piano della vita politica siciliana e nazionale, incluso
l'allora ministro Bernardo Mattarella (si veda la documentazione raccolta in
Spreco, Einaudi, Torino 1960 e Chi gioca solo, Einaudi, Torino 1966). Ma
mentre si moltiplicano gli attestati di stima e solidarieta', in Italia e
all'estero (da Norberto Bobbio a Aldo Capitini, da Italo Calvino a Carlo
Levi, da Aldous Huxley a Jean Piaget, da Bertrand Russell a Erich Fromm),
per tanti avversari Dolci e' solo un pericoloso sovversivo, da ostacolare,
denigrare, sottoporre a processo, incarcerare. Ma quello che e' davvero
rivoluzionario e' il suo metodo di lavoro: Dolci non si atteggia a guru, non
propina verita' preconfezionate, non pretende di insegnare come e cosa
pensare, fare. E' convinto che nessun vero cambiamento possa prescindere dal
coinvolgimento, dalla partecipazione diretta degli interessati. La sua idea
di progresso non nega, al contrario valorizza, la cultura e le competenze
locali. Diversi libri documentano le riunioni di quegli anni, in cui
ciascuno si interroga, impara a confrontarsi con gli altri, ad ascoltare e
ascoltarsi, a scegliere e pianificare. La maieutica cessa di essere una
parola dal sapore antico sepolta in polverosi tomi di filosofia e torna,
rinnovata, a concretarsi nell'estremo angolo occidentale della Sicilia. E'
proprio nel corso di alcune riunioni con contadini e pescatori che prende
corpo l'idea di costruire la diga sul fiume Jato, indispensabile per dare un
futuro economico alla zona e per sottrarre un'arma importante alla mafia,
che faceva del controllo delle modeste risorse idriche disponibili uno
strumento di dominio sui cittadini. Ancora una volta, pero', la richiesta di
acqua per tutti, di "acqua democratica", incontrera' ostacoli d'ogni tipo:
saranno necessarie lunghe battaglie, incisive mobilitazioni popolari, nuovi
digiuni, per veder realizzato il progetto. Oggi la diga esiste (e altre ne
sono sorte successivamente in tutta la Sicilia), e ha modificato la storia
di decine di migliaia di persone: una terra prima aridissima e' ora
coltivabile; l'irrigazione ha consentito la nascita e lo sviluppo di
numerose aziende e cooperative, divenendo occasione di cambiamento
economico, sociale, civile. Negli anni Settanta, naturale prosecuzione del
lavoro precedente, cresce l'attenzione alla qualita' dello sviluppo: il
Centro promuove iniziative per valorizzare l'artigianato e l'espressione
artistica locali. L'impegno educativo assume un ruolo centrale: viene
approfondito lo studio, sempre connesso all'effettiva sperimentazione, della
struttura maieutica, tentando di comprenderne appieno le potenzialita'. Col
contributo di esperti internazionali si avvia l'esperienza del Centro
Educativo di Mirto, frequentato da centinaia di bambini. Il lavoro di
ricerca, condotto con numerosi collaboratori, si fa sempre piu' intenso:
muovendo dalla distinzione tra trasmettere e comunicare e tra potere e
dominio, Dolci evidenzia i rischi di involuzione democratica delle nostre
societa' connessi al procedere della massificazione, all'emarginazione di
ogni area di effettivo dissenso, al controllo sociale esercitato attraverso
la diffusione capillare dei mass-media; attento al punto di vista della
"scienza della complessita'" e alle nuove scoperte in campo biologico,
propone "all'educatore che e' in ognuno al mondo" una rifondazione dei
rapporti, a tutti i livelli, basata sulla nonviolenza, sulla maieutica, sul
"reciproco adattamento creativo" (tra i tanti titoli che raccolgono gli
esiti piu' recenti del pensiero di Dolci, mi limito qui a segnalare Nessi
fra esperienza etica e politica, Lacaita, Manduria 1993; La struttura
maieutica e l'evolverci, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1996; e Comunicare,
legge della vita, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1997). Quando la mattina
del 30 dicembre 1997, al termine di una lunga e dolorosa malattia, un
infarto lo spegne, Danilo Dolci e' ancora impegnato, con tutte le energie
residue, nel portare avanti un lavoro al quale ha dedicato ogni giorno della
sua vita". Tra le molte opere di Danilo Dolci, per un percorso minimo di
accostamento segnaliamo almeno le seguenti: una antologia degli scritti di
intervento e di analisi e' Esperienze e riflessioni, Laterza, Bari 1974; tra
i libri di poesia: Creatura di creature, Feltrinelli, Milano 1979; tra i
libri di riflessione piu' recenti: Dal trasmettere al comunicare, Sonda,
Torino 1988; La struttura maieutica e l'evolverci, La Nuova Italia, Firenze
1996. Tra le opere su Danilo Dolci: Giuseppe Fontanelli, Dolci, La Nuova
Italia, Firenze 1984; Adriana Chemello, La parola maieutica, Vallecchi,
Firenze 1988 (sull'opera poetica di Dolci); Antonino Mangano, Danilo Dolci
educatore, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1992;
Giuseppe Barone, La forza della nonviolenza. Bibliografia e profilo critico
di Danilo Dolci, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2000, 2004 (un lavoro
fondamentale); Lucio C. Giummo, Carlo Marchese (a cura di), Danilo Dolci e
la via della nonviolenza, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2005. Tra i materiali
audiovisivi su Danilo Dolci cfr. il dvd di Alberto Castiglione, Danilo
Dolci. Memoria e utopia, 2004. Tra i vari siti che contengono molti utili
materiali di e su Danilo Dolci segnaliamo almeno www.danilodolci.net,
www.danilodolci.toscana.it, danilo1970.interfree.it, www.nonviolenti.org]

E' stato ripetuto giustamente: "Possiamo aiutare un albero a crescere
nutrendone le radici, non tirandone i rami".

3. ESPERIENZE. L'ESPERIENZA DI "PARENTS' CIRCLE - FAMILIES FORUM"
[Dal sito di "Una citta'" (www.unacitta.it) riprendiamo il seguente testo,
estratto dall'introduzione del libro Per mano. Per mano dell'altro, per mano
con l'altro. Una raccolta di interviste a israeliani e palestinesi che hanno
avuto un familiare ucciso e che militano insieme nell'associazione pacifista
Parents' Circle - Families Forum, edito dalla casa editrice Una citta' di
Forli']

I Parents' Circle, oggi Families Forum, si definiscono "un gruppo di
famiglie in lutto che sostengono la pace, la riconciliazione e la
tolleranza".
Il fondatore, Yitzhak Frankenthal, e' nato nel 1951 a Bnei Brak, Tel Aviv,
in una famiglia ortodossa. Il 7 luglio 1994 il corpo di suo figlio Arik, 19
anni, venne rinvenuto in un villaggio vicino a Ramallah, crivellato di
proiettili e ferite da accoltellamento. Arik, soldato dell'esercito
israeliano ed ebreo ortodosso, stava andando a casa in congedo quando venne
rapito e assassinato da alcuni membri di Hamas.
Arik aveva 19 anni. Stava tornando a casa dalla base militare, prese un
taxi, dentro c'erano tre palestinesi, ma lui non li aveva riconosciuti
perche' erano vestiti da ebrei ortodossi e stavano ascoltando musica
israeliana. Appena entrato in auto gli dissero che erano di Hamas, inizio'
una colluttazione, l'autista fu colpito alla gamba, ma Arik fu colpito alla
testa e quella fu la sua fine.
*
Quello stesso anno Frankenthal abbandono' il lavoro e fondo' i Parents'
Circle, di cui e' stato presidente fino al 2004.
Allora vivevo in un paesino non lontano dall'aeroporto Ben Gurion, un
villaggio ortodosso. Iniziai a parlare coi miei amici circa la mia
intenzione di iniziare a impegnarmi per una riconciliazione tra i due
popoli. A un tratto mi ritrovai senza amici. Non riuscivano a capacitarsi
che io volessi mettermi a lavorare per la pace e la riconciliazione con chi
aveva ucciso mio figlio. Il mio primo passo fu una lettera inviata al primo
ministro Yitzhak Rabin, a Shimon Peres e a Ehud Barak: li incoraggiavo a
continuare a cercare una soluzione pacifica a questo conflitto. Rabin venne
a trovarci a casa, diventammo amici.
In Israele la gente era sotto una forte pressione. Da un lato il governo di
Yitzhak Rabin e Shimon Peres pareva fortemente impegnato nel processo di
pace avviato a Oslo. Dall'altro tv e giornali sbattevano in prima pagina
immagini di terrore, disperazione e morte. Tutti ricordavano le parole di
Yitzhak Rabin alla Casa Bianca quello storico 13 settembre 1993, quando
avvenne il primo incontro pubblico, aperto e ufficiale, con i leader
palestinesi: "Permettetemi di dirvi, palestinesi: noi siamo destinati a
vivere assieme, sulla stessa terra. Noi, soldati tornati dalla battaglia
macchiati di sangue, che abbiamo visto parenti e amici uccisi sotto i nostri
occhi, che abbiamo presenziato ai loro funerali senza poter guardare negli
occhi i loro genitori, noi che veniamo da un paese dove i genitori
seppelliscono i figli, che abbiamo combattuto contro di voi, palestinesi.
Noi oggi vi diciamo con parole chiare e a voce alta: basta sangue e lacrime.
Basta".
Non tutti pero' condivisero le successive considerazioni di Rabin.
"Non aneliamo alla vendetta. Non vi portiamo rancore. Noi, come voi,
vogliamo solo poter costruire la nostra casa, piantare un albero, amare,
vivere accanto a voi, in dignita', con empatia, come esseri umani, come
uomini liberi. Oggi stiamo dando una possibilita' alla pace e vi ripetiamo:
preghiamo assieme che venga presto il giorno in cui tutti diremo ora basta,
addio alle armi".
L'Associazione per le vittime del terrorismo (Tva) era uno degli oppositori
piu' strenui al processo avviato da Rabin. Ogni qualvolta c'era un
attentato, l'associazione era la', all'entrata dell'ufficio del primo
ministro, a esprimere la propria rabbia e disperazione con appelli alla
vendetta e alla violenza contro i palestinesi. Anche il 7 luglio del 1994
erano la'. Il brutale assassinio di Arik, un giovane soldato con un profilo
cosi' affine a quello dei coloni, certamente incoraggio' l'associazione ad
alzare la propria voce. Tuttavia quel giorno qualcosa accadde, qualcosa di
rivoluzionario. Il padre di Arik, anch'egli ebreo ortodosso, affronto' il
gruppo dicendo: "Voi non rappresentate ne' me ne' la mia famiglia. Il mio
giudaismo non ha nulla a che fare con vendetta e odio".
Io sono un ebreo religioso, ortodosso, come si dice. Ma per me giudaismo
significa pace, non occupazione. Dal mio punto di vista l'occupazione e' una
forma di terrorismo. Tenere milioni di palestinesi senza uno Stato, senza
un'economia, con l'80% di disoccupazione, senza permettere loro di muoversi
liberamente... Se non e' terrorismo questo... e la reazione sono i kamikaze.
Ma li abbiamo spinti noi nell'angolo, noi li abbiamo portati alla
disperazione.
*
Questa voce inedita venne presto seguita da altre famiglie in lutto. Il
Forum era accanto a Rabin, Peres e Arafat quando a questi ultimi venne
conferito il premio Nobel.
Era stato Rabin a invitarmi a seguirlo a Oslo. Proprio allora c'era stata
una forte protesta da parte delle famiglie in lutto che gli chiedevano di
interrompere ogni dialogo con i palestinesi. Quello stesso giorno mi recai
da lui e gli dissi che quella gente non parlava a mio nome. "Mi faccia avere
la lista delle famiglie colpite da un lutto a causa di questo conflitto e le
trovero' un gruppo di almeno quindici, venti persone che la pensano come me,
che vi sosterranno". Lui sorrise ed espresse delle perplessita' sul numero
di persone che sarei riuscito a mettere assieme. Io pero' ribadii che ero
sicuro di trovarne molte, "almeno quindici, venti". Rispose che era
impossibile. In realta' non potei ottenere la lista di queste famiglie, per
via della legge sulla privacy. Andai allora in un'emeroteca e mi misi a
guardare tutti i giornali dal 1977, anno in cui Begin era diventato primo
ministro, fino al 1995, diciotto anni. Individuai 422 famiglie israeliane
colpite da un lutto. Mandai una lettera a 350 di loro in cui facevo una
precisa richiesta.
"So bene che tanti di voi pensano che non c'e' con chi fare la pace e che mi
considerano naif perche' io invece penso che si possa fare la pace con i
palestinesi. So anche che la maggior parte di voi non e' d'accordo con me,
pero' ho ricevuto parecchie telefonate di genitori in lutto che mi hanno
chiesto: perche' non ci organizziamo? Per questo motivo vi indirizzo questa
lettera. Mi scuso in anticipo se qualcuno di voi si offendera' per queste
righe e spero che nessuno pensi che lo faccia per qualche scopo non
dichiarato. Lo faccio solo per il bene del popolo israeliano e perche' i
nostri figli possano vivere in questo paese in pace e in sicurezza. Non sono
un uomo politico, non sostengo nessun partito... Sono un uomo che ha perso
la cosa piu' cara che aveva e vorrei proteggere altre famiglie da una simile
tragedia. Vi chiedo di prendere parte a questo gruppo di famiglie in lutto
che sostengono la pace e la necessita' di dare ai palestinesi il diritto a
vivere nel loro Stato, nella sicurezza di Israele".
Un centinaio di lettere torno' indietro perche' l'indirizzo non era
corretto, ma duecentocinquanta persone avevano ricevuto la mia lettera. Mi
arrivarono due risposte molto brutte, che mi davano del pazzo, a dir poco,
ma quarantaquattro risposero positivamente e con questi creammo un gruppo.
Al primo incontro dissi loro che volevo provare a contattare anche qualche
famiglia palestinese che fosse ugualmente decisa a lottare per la pace e la
riconciliazione insieme a noi. Il primo incontro con una famiglia
palestinese me lo ricordo ancora. Fu difficilissimo. Proprio sul piano
emotivo. Quei genitori avevano perduto la figlioletta di soli tre mesi. Era
stata uccisa dagli israeliani, certo non intenzionalmente, e tuttavia era
morta a causa dell'occupazione. Uscii da quell'appartamento in lacrime: una
bambina di tre mesi. Arik aveva 19 anni, almeno lui aveva vissuto. Quella
bambina era stata al mondo tre mesi...
*
Frankenthal era accanto a Rabin anche la tragica notte dell'assassinio.
Il 5 novembre 1995, durante le manifestazioni tenutesi a Tel Aviv, io parlai
pubblicamente. Dieci minuti dopo Rabin venne assassinato. Finito il mio
discorso, lui era venuto ad abbracciarmi e baciarmi e sua moglie aveva detto
alla mia: "Guarda quanto si vogliono bene i due Yitzhak".
*
Yitzhak Frankenthal scrivera' una seconda lettera nel 2000, dopo la morte
del piu' giovane dei figli dell'amico Roni Hirshenson, indirizzata agli
abitanti di Netzarim. Una lettera aperta, durissima, nella quale censurava
in termini gravi e amari la pervicacia con cui stavano abbarbicati al loro
insediamento, situato nel cuore stesso di Gaza.
"Agli abitanti di Netzarim.
Stamattina alle otto ho ricevuto una telefonata dal mio caro amico e collega
Roni Hirshenson che mi ha informato che suo figlio Elad si e' suicidato. Ha
lasciato una lettera in cui ha scritto che non poteva continuare a vivere
dopo la morte del suo migliore amico David, ucciso a Netzarim... Roni e
Miri, i genitori di Elad, avevano gia' seppellito un figlio, Amir, ucciso
nell'attentato di Beit Lid, nel gennaio del 1995 e ora ne stanno seppellendo
un altro. Scrivo questa lettera dal profondo del cuore, scosso da una sorta
di furia, e la mia anima trema al rumore dei sacchi di sabbia che verranno
vuotati sulla sua bara. Guardate cos'e' accaduto alla nostra gente e al
nostro paese a causa della mancanza di pace... Ogni individuo sano di mente
sa che Netzarim sara' uno degli insediamenti che andranno evacuati non
appena tra noi e i palestinesi verra' raggiunta la pace... In nome della
divina misericordia, perche' mai volete continuare ad abitare questo luogo
maledetto, al quale tante vite umane sono gia' state sacrificate? Dove sta
l'amore che avete per i vostri figli, se poi mettete a rischio le loro
esistenze? Avete ridotto il vostro messianismo alla difesa di un
insediamento che niente ha a che fare con la sicurezza di Israele. Non ho
bisogno della vostra compassione, voglio la vostra comprensione. Voglio che
capiate che con le vostre azioni state provocando un numero infinito di
tragedie per la gente di Israele. Non crederete davvero di star aiutando la
sicurezza di Tel Aviv. I cittadini di Tel Aviv non hanno bisogno della
vostra protezione. Hanno piuttosto bisogno di essere protetti da voi.
Davvero pensate che Israele possa avere la sicurezza senza la pace, che ci
potra' essere la pace senza compromessi dolorosi per ambedue le parti? Al
posto dei palestinesi forse non avremmo compiuto gli stessi attentati per
avere un nostro Stato? Perche' i palestinesi dovrebbero essere differenti?
Di nuovo, per favore, non datemi del disfattista. Ho combattuto per la pace,
assieme a Roni, per molti anni, proprio per evitare altre inutili e tragiche
morti. Per noi la terra di Israele e' importante e amata. Ma puo' la terra
essere piu' importante di un essere umano? Cosa vi fa credere che questo
dannato buco dimenticato da tutti - Netzarim - che gia' tante vite e'
costato, valga la vita dei figli che stiamo mandando al macello?".
La lettera proseguiva citando le parole della madre di Amir e Elad.
"Si e' mai vista una madre seppellire non uno, ma due dei suoi figli? Li ho
messi al mondo per dargli la vita. Li ho mandati a combattere nei loro anni
migliori e mi sono tornati morti. Giusto una settimana fa gli avevo
comperato un paio di scarpe. Non ha nemmeno fatto in tempo ad indossarle. Io
sono una madre che si prende cura dei suoi figli... Con che cuore ora lo
lascio qui? Avevo cinque figli. Me ne sono rimasti tre. Come faro' a
rientrare nella mia casa mentre Amir e Elad sono qui sul Monte Hertzel? A
quale tomba faro' visita per prima? Perche' continuare a vivere? Non ne ho
piu' la forza. Chi mai avrebbe potuto immaginare che a me sarebbe toccato
due volte. Grazie a voi, coloni di Netzarim, una linea rossa e' stata
tracciata dal vostro insediamento al monte Hertzel. Ho cresciuto i miei
figli perche' contribuissero alla crescita e alla sicurezza del Paese e cosa
ho avuto indietro? Due bare, due tombe ed entrambi avevano solo 19 anni,
nessuno dei due e' arrivato a 20. Non avro' piu' le loro maglie da stirare,
i loro letti da rifare. Solo due stanze vuote".
Yitzhak Frankenthal concludeva con un ultimo accorato appello: "Prima di
lasciare il cimitero, il caro Roni mi ha chiesto di scrivervi una lettera.
Spero di essere riuscito, almeno in parte, a trasmettervi il dolore per la
perdita dei nostri figli. Vi prego, per favore, prendete le vostre cose e
tornate in Israele".
*
I processi di riconciliazione sono spesso legati agli scenari post-bellici,
tuttavia solo questo permette che entrambi i contendenti cambino in qualche
modo la loro visione dell'altro, creando quella fiducia, che rappresenta il
prerequisito di qualsiasi processo di pace che voglia ottenere il sostegno
di entrambe le societa'.
Cosa significa riconciliazione? Per me vuol dire voltare pagina, essere
pronti a dire: "Mi dispiace", e offrire una compensazione, un risarcimento.
E soprattutto essere pronti, ciascuno dentro di se', a fare la pace, e anche
a riconoscere che abbiamo sbagliato. Entrambi. Un mese prima che morisse,
durante una discussione, Arik mi disse che se fosse stato un palestinese
avrebbe ucciso i soldati israeliani, per ottenere uno Stato, come noi
avevamo fatto con gli inglesi.
L'empatia verso il dolore provato anche dal "nemico" per la perdita dei
propri cari e' un passaggio chiave nel processo di riconciliazione. Solo il
sentire assieme, la condivisione, puo' provocare quella "scossa emotiva"
(cosi' l'ha definita Aaron Barnea) necessaria per impegnarsi a rivedere le
proprie credenze e stereotipi. Consapevoli che "i nostri membri hanno tutti
gia' pagato un prezzo molto alto" e che la linea di separazione non passa
tra le due nazioni, ma tra chi persegue una pace giusta e chi no, i membri
del Families Forum, che conta ormai un gruppo di 500 famiglie israeliane e
palestinesi, non intendono limitarsi a offrire una pura testimonianza, per
quanto esemplare, di dialogo improntato alla riconciliazione. L'associazione
persegue i propri obiettivi attraverso iniziative concrete, tra cui,
principalmente, gli incontri pubblici e nelle scuole, dove si cerca di dare
un'idea meno semplificata del conflitto, e di aumentare la consapevolezza
del prezzo pagato da entrambe le parti, anche attraverso la condivisione
delle proprie storie e dei propri sentimenti.

4. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: CINQUE ANNI DOPO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 settembre 2006. Ida Dominijanni,
giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale
all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista.
Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli,
Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo',
Manifestolibri, Roma 2005]

Il numero di "Internazionale" in edicola commemora il quinto anniversario
dell'11 settembre 2001 ripubblicando le prime pagine dei principali
quotidiani del giorno dopo di tutto il mondo. Tornare a sfogliarle fa bene:
riporta a quel primo shock della ragione e dell'inconscio, della parola e
dell'immaginario, che prese tutto il mondo di fronte al collasso delle Torri
gemelle in diretta tv. E aiuta a rispondere alla domanda che tutte le prime
pagine del mondo si pongono in questi giorni, tornando a loro volta a quel
"piu' niente sara' come prima" che si disse allora: che cosa e' cambiato in
realta' in questi cinque anni? tutto, poco, niente? Le risposte, come
sempre, dipendono dal metro di misura. Ed e' uno strano metro di misura,
iperrealistico, quello di chi sostiene, cifre e macrotendenze alla mano
(l'autorevole Foreign Affairs, ma anche e altrettanto autorevolmente
Immanuel Wallerstein), che in verita' e' cambiato poco o nulla - nel
sistema-mondo, nella politica estera americana, nei flussi del capitalismo
mondiale, nel rapporto fra il colosso americano e il colosso cinese
emergente o fra il nord e il sud del mondo -, e che il grande evento con cui
tutt'ora ci troviamo a fare i conti non e' tanto l'11 settembre quanto il
crollo dell'Urss e dell'ordine mondiale bipolare. Altre cifre crude e altri
crudi fatti - le guerre fatte in risposta all'11 settembre e i cadaveri
relativi, la centralita' conquistata dal mondo islamico, l'inasprirsi del
conflitto in Medioriente, i nuovi muri in Palestina e alle frontiere piu'
calde dell'immigrazione, i diritti sacrificati sull'altare della sicurezza -
basterebbero a replicare che in realta' molto e' cambiato eccome. Ma non e'
solo questo il punto, perche' quello che l'11 settembre ha cambiato non si
puo' misurare solo con il metro, sempre discutibile, dell'oggettivita'. Per
quanto poco o molto l'11 settembre abbia cambiato nel mondo, di certo ha
cambiato la nostra percezione del mondo. E accanto alle guerre combattute
sul campo, altre ne ha aperte - "guerre culturali" le chiamano infatti -
nella nostra interpretazione del mondo.
Per questo fa bene rivedere le prime pagine di cinque anni fa, e ripensare
quel "siamo senza parole" che ricorreva nei titoli come nella vita
quotidiana, a significare che lo sfondamento delle Torri era anche uno
sfondamento dei nostri schemi mentali e delle nostre categorie
interpretative. In quei quattro aerei-cyborg nel cielo americano non c'era
solo l'attacco inaudito alla grande potenza, la volonta' di potenza del
terrorismo internazionale, la fine della favola bella della "fine della
storia", di una globalizzazione senza conflitti e di una democrazia senza
resistenze che era spuntata dalle macerie del mondo bipolare. C'era, in quei
quattro aerei cosi' alieni e insieme cosi' familiari, un'improvvisa epifania
del mondo globale che ci piombava in casa via tv come un mondo interconnesso
ma drammaticamente fratturato, secolarizzato nell'uso della tecnologia e
teologico nella deriva apocalittica, multiculturale nei suoi flussi reali
(di 63 etnie erano le vittime delle Torri) e identitario nei suoi proclami
di guerra. Non eravamo attrezzati a interpretarlo, tutto andava ripensato,
le geometrie mentali dovevano aprirsi e adeguarsi a quella nuova geometria
non euclidea del mondo globale.
Il seguito e', in larga parte, storia del conflitto fra chi ha lottato
appunto per aprirle e chi per richiuderle. La "grande narrazione" dello
"scontro di civilta'" che, allestita prima dell'11 settembre, ne ha
interpretato il dopo, altro non rappresenta che questo tentativo di
riportare il "disordine" del mondo globale al rassicurante ordine del due
del mondo bipolare perduto: l'Occidente contro l'Islam, la democrazia contro
il Nemico ritrovato, l'identita' contro la minaccia dell'alterita' e delle
diversita'. Una litania speculare a quella di Bin Laden, che maschera e
ingabbia le fratture reali che lacerano da dentro i due campi, e invalida i
legami altrettanto reali che possono fluidificarli. Tutto il resto ne
consegue, ed e' appunto la posta in gioco - politica, geopolitica,
culturale, antropologica - del cambiamento in corso, che dentro la grande e
la piccola cronaca di questi cinque anni ha riscritto l'agenda del presente.
*
Dalla concezione della vita e della morte ai criteri della convivenza
internazionale, dalla concezione dell'Occidente a quella della democrazia,
dal multiculturalismo ai rapporti fra i sessi nulla ne e' rimasto esente. Se
la pratica sacrificale del terrorismo suicida ha attaccato alla radice il
dispositivo primario della deterrenza, cioe' la difesa della propria vita,
la dottrina e il dispiegamento della guerra preventiva ha fatto fuori a sua
volta il tabu' primario della guerra su cui la convivenza internazionale si
era retta - non senza infrazioni - dopo la seconda guerra mondiale. Con l'11
settembre il costituzionalismo novecentesco e' finito sia nelle relazioni
internazionali, sia all'interno degli stati democratici: lo stato
d'eccezione e' diventato la norma, Guantanamo incombe sulla coscienza
occidentale. La democrazia, esportata con la forza fuori dall'Occidente, si
svuota nelle societa' occidentali; i diritti sono le sue munizioni, da
imporre agli altri e soprattutto alle altre con il nostro linguaggio e i
nostri tempi.
L'Occidente universalistico torna cosi' a mostrare la sua faccia piu'
parziale ed etnocentrica. Il dopo-11 settembre ha inciso potentemente su
questo punto sempre in bilico della nostra storia, piegando la societa'
multiculturale americana, e due decenni di lotte per il riconoscimento, su
una concezione tradizionalista, e irrigidendo a loro volta le societa'
europee. Al centro dei conflitti culturali, la liberta' femminile e i
rapporti fra i sessi sono diventati la posta in gioco dei backlash
patriarcali, fuori dall'Occidente e dentro, e dell'espansionismo
democratico: non si vede solo dai tentativi di legittimare in nome delle
donne le guerre in Afghanistan e in Iraq, si vede dagli ordinari episodi di
cronaca che affliggono la nostra provincia, e dalle ordinarie leggi come
quella francese contro l'uso del velo in nome della laicita', a sua volta
diventata, nella guerra contro il fondamentalismo, un valore aggressivo.
Le cose potevano prendere un'altra piega? Potevano e possono. La fine
dell'invulnerabilita' americana sancita dall'11 settembre poteva esser letta
ed elaborata come un memento dell'interdipendenza, dell'esposizione
all'altro, della fragilita' che ovunque unifica la condizione umana. Poteva,
puo' derivarne non un arroccamento identitario ma un'apertura alla
differenza; non un affossamento ma un ripensamento della democrazia. La
storia ufficiale di questi cinque anni dice che non e' stato cosi'. La
memoria sotterranea del trauma, quella che non passa nei media mainstream ma
traspare nei romanzi di Safran Foer e nei film di Spike Lee, puo' restituire
altre impronte e altre soluzioni, e attende ancora di essere ascoltata e
rappresentata. Dopo l'11 settembre tutto e' cambiato, ma tutto e' ancora in
gioco.

5. RIFLESSIONE. AUGUSTO CAVADI: RIFLESSIONI SUL SACRO
[Ringraziamo Augusto Cavadi (per contatti: acavadi at alice.it) per averci
messo a disposizione il seguente articolo pubblicato nell'edizione
palermitana del quotidiano "La repubblica" il 5 settembre 2006.
Augusto Cavadi, prestigioso intellettuale ed educatore, collaboratore del
Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo, e'
impegnato nel movimento antimafia e nelle esperienze di risanamento a
Palermo, collabora a varie qualificate riviste che si occupano di
problematiche educative e che partecipano dell'impegno contro la mafia.
Opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari alla ricerca della
consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi. Risposte possibili a
questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare teologia a Palermo,
Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini, Paoline, Milano 1990; trad.
portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua. Tracce per un'altra preghiera,
Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad.
portoghese 1999; Le nuove frontiere dell'impegno sociale, politico,
ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa
puo' fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna 1993, nuova
edizione aggiornata e ampliata Dehoniane, Bologna 2003; Il vangelo e la
lupara. Materiali su chiese e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A
scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze
didattiche, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo
1994; Essere profeti oggi. La dimensione profetica dell'esperienza
cristiana, Dehoniane, Bologna 1997; trad. spagnola 1999; Jacques Maritain
fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998; Volontari a Palermo.
Indicazioni per chi fa o vuol fare l'operatore sociale, Centro siciliano di
documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1998, seconda ed.; voce
"Pedagogia" nel cd- rom di AA. VV., La Mafia. 150 anni di storia e storie,
Cliomedia Officina, Torino 1998, ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici.
Naufragio della politica e indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000;
Le ideologie del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; Volontariato
in crisi? Diagnosi e terapia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2003; Gente
bella, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004; Strappare una generazione alla
mafia, DG Editore, Trapani 2005; E, per passione, la filosofia, DG Editore,
Trapani 2006. Vari suoi contributi sono apparsi sulle migliori riviste
antimafia di Palermo. Indirizzi utili: segnaliamo il sito:
http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con bibliografia completa).
Rene' Girard, nato ad Avignone nel 1923, pensatore poliedrico, fondamentali
le sue riflessioni sulla violenza e sul sacro. Opere di Rene' Girard:
Menzogna romantica e verita' romanzesca (1961), Bompiani, Milano 1965;
Dostoevskij dal doppio all'unita' (1963), SE, Milano 1996; La violenza e il
sacro (1972), Adelphi, Milano 1980; Delle cose nascoste sin dalla fondazione
del mondo (1978), Adelphi, Milano 1983; Il capro espiatorio (1982), Adelphi,
Milano 1987; L'antica via degli empi (1985), Adelphi, Milano 1994;
Shakespeare. Il teatro dell'invidia (1990), Adelphi, Milano 1998; La vittima
e la follia. Violenza del mito e cristianesimo, Santi Quaranta, Treviso
1998; Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell'uomo contemporaneo,
Cortina, Milano 1999; Vedo Satana cadere come la folgore (1999), Adelphi,
Milano 2001. Opere su Rene' Girard: A. Carrara, Violenza, sacro, rivelazione
biblica. Il pensiero di Rene' Girard, Vita e pensiero, Milano 1985; S.
Tomelleri, Rene' Girard. La matrice sociale della violenza, Angeli, Milano
1996; Claudio Tugnoli, Girard. Dal mito ai Vangeli, Edizioni Messaggero
Padova, Padova 2001.
Paul Tillich, 1886-1965, uno dei massimi teologi contemporanei; docente
universitario in Germania, destituito all'avvento del nazismo, dal 1933 si
trasferisce in America. Opere di Paul Tillich: segnaliamo particolarmente La
mia ricerca degli assoluti, Ubaldini-Astrolabio, Roma 1968 (un libro aperto
da un'ampia autopresentazione, impreziosito dagli stupendi disegni di Saul
Steinberg); Lo spirito borghese e il kairos, Claudiana, Torino (consiste
dell'edizione italiana curata da A. Banfi ed edita da Doxa, Roma 1929); cfr.
ovviamente anche la fondamentale Teologia sistematica, il primo dei quattro
volumi e' stato finalmente edito in italiano dalla Claudiana di Torino nel
1996. Opere su Paul Tillich: cfr. l'interessante volume di Stefano Mistura,
Paul Tillich, teologo della nuova psichiatria, Claudiana, Torino 1978]

Il sacro nella societa' contemporanea a proposito del pellegrinaggio
multietnico alla grotta di santa Rosalia: parliamone - invita sul nostro
giornale [il quotidiano "La repubblica", nell'edizione palermitana - ndr]
don Carmelo Torcivia - al di la' dei dogmatismi ecclesiastici ma anche dei
pregiudizi tardoilluministici. Invito santo, verrebbe da dire: purche' si
sappia che si entra in territori esplosivi. Cos'e' infatti il sacro secondo
l'antropologia contemporanea?  Se lo usiamo, inoffensivamente, come sinonimo
di religioso, confessionale, rituale, possiamo intrecciare pacifiche
conversazioni accademiche. Ma se scaviamo un po' piu' dentro il significato
del termine, ci imbattiamo - gia' con il fenomenologo Otto - in una
definizione inquietante: sacro e' tutto cio' che affascina e atterrisce. E
che cosa attira e respinge l'essere umano piu' che il vuoto, il nulla, la
morte? Sacro e' dunque tutto cio' che ci mette al cospetto della morte, che
ci immerge nell'angoscia dell'annullamento e ci fa balenare una qualche
forma di restituzione a noi stessi: una qualche forma di "salvezza". Gia'
questa prima, generica concettualizzazione mette in crisi molte affermazioni
correnti. Per esempio che le nostre processioni rumorose e sbadiglianti
dietro ad una statua della Santuzza o della Madonna siano manifestazioni
sacre (sia pur impastate di profano): forse sono invenzioni collettive
profane per esorcizzare il sacro. Un po' come abbiamo rischiato qualche anno
fa a Segesta quando una lungimirante amministrazione locale paventava
l'erezione di un parco mistico nella zona archeologica: una sorta di
festival idolatrico (in quanto centrato su enormi statue di Redentori e
Padri Pii) destinato a vanificare l'aura di sacralita' - di silenzio, di
smarrimento, di spiazzamento rispetto alle certezze quotidiane - che il
tempio greco emana e custodisce.
Non tutte le manifestazioni cultuali sono dunque "sacre". Ma bisogna
aggiungere: per fortuna. Perche' l'antropologo cattolico Rene' Girard ha
scritto negli ultimi decenni diversi volumi per dimostrare che il sacro,
proprio in quanto scaturisce dall'angoscia del nulla, provoca violenza. Non
accidentalmente: piuttosto per essenza. Dove c'e' sacro c'e' ricerca di un
capro espiatorio, sacrificio, sangue: ragazze vergini, prigionieri di
guerra, primogeniti d'animali, ma anche infedeli da infilzare, eretici  da
bruciare, omosessuali da ghettizzare.
Se questi cenni sono fondati, non possono essere differite nel tempo le
possibili terapie. La prima riguarda i teologi cristiani: a cui spetta il
compito  - per la verita' non lieve - di mostrare che Girard ha ragione di
sostenere che l'unica religione non "sacra" (cioe': non violenta) e' il
vangelo. E, conseguentemente, il compito di vigilare sulle comunita'
cristiane affinche' non riproducano al proprio interno i meccanismi violenti
(emarginazione, persecuzione, giustizia vendicativa...) tipici di ogni altra
religione. La seconda terapia riguarda non solo i teologi, ma ogni
intelligenza responsabile: per dirla con Paul Tillich consiste nell'usare il
profano per purificare continuamente il sacro. In altri termini: usare le
acquisizioni scientifiche (storiche, esegetiche, psicologiche, sociologiche,
etnologiche...) per  ripensare continuamente la dimensione religiosa,
evitandone le derive infantilistiche ed esaltandone le risorse etiche. Solo
se chi vive un'esperienza di fede teologica accetta le sfide della laicita'
piu' avvertita, provando - come dice un brano neotestamentario - a "rendere
ragione della speranza" che e' in lui, si puo' camminare verso la citta' del
futuro: dove si sentano a casa i credenti di ogni orientamento, anche quelli
che credono soltanto nella giustizia, nella liberta' e nella bellezza in
questo mondo.

6. RILETTURE. QUENTIN BELL: VIRGINIA WOOLF
Quentin Bell, Virginia Woolf, Garzanti, Milano 1974, 1994, pp. 557, lire
26.000. Una bella biografia di una delle nostre maestre maggiori.

7. RILETTURE. SIMONE PETREMENT: LA VITA DI SIMONE WEIL
Simone Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994, pp. XXIV +
688, lire 85.000. Una bella biografia di una delle nostre maestre maggiori.

8. RILETTURE. ELISABETH YOUNG-BRUEHL: HANNAH ARENDT
Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo,
Bollati Boringhieri, Torino 1990, 1994, pp. 642, lire 40.000. Una bella
biografia di una delle nostre maestre maggiori.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1417 del 13 settembre 2006

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