La nonviolenza e' in cammino. 1390



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1390 del 17 agosto 2006

Sommario di questo numero:
1. Severino Vardacampi: La politica delle cannoniere e l'alternativa
nonviolenta
2. Ehren Watada: Come soldati, come patrioti, come esseri umani ci opponiamo
alla guerra illegale e criminale
3. Padri, figlie
4. Enrico Peyretti: Dall'Afghanistan al Libano
5. Gabriele De Veris: Una vita oltre la guerra
6. Eduardo Galeano: Salvagente di piombo
7. Maria Antonietta Saracino presenta "Il treno di notte" di Ruskin Bond
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. SEVERINO VARDACAMPI: LA POLITICA DELLE CANNONIERE E
L'ALTERNATIVA NONVIOLENTA

Se vi fosse ancora una distinzione tra politica interna e politica estera
(ma da tempo vi e' solo una politica internazionale, di cui sono
articolazione fin i problemi amministrativi di un quartiere), diremmo che la
politica estera italiana attuale e' la versione ritardataria e stracciona
della politica delle cannoniere dell'epoca d'oro (dell'oro rapinato
lasciando scie di sangue per tutti i continente e i sette mari) del
colonialismo e dell'imperialismo.
Una politica estera che privilegia lo strumento militare; una politica
estera di guerra e di complicita' con la guerra; una politica estera di
potenza, stragista e razzista. La politica delle cannoniere, appunto.
Dopo la squallida cialtronata propagandistica in puro stile berlusconiano
della conferenza di Roma, il governo italiano si appresta a mettere a
disposizione militari italiani per una missione Onu a parole di
interposizione tra israele e Libano, nei fatti di internazionalizzazione
ulteriore del conflitto bellico mediorientale.
E si appresta a farlo con il consenso, dichiarato fin qui con minimi ed
ipocriti distinguo, della totalita' delle forze politiche totalitarie che
gia' unanimi hanno avallato or non e' guari la prosecuzione della scellerata
e criminale partecipazione italiana alla guerra afgana in violazione della
Costituzione repubblicana e del diritto delle genti.
*
No. La partecipazione militare italiana alla missione Onu nel Libano
meridionale e' peggio che un errore, e' una follia: se la finalita'
dichiarata della missione (di cui tutto il resto e' confuso e inquietante)
e' far cessare gli attacchi di Hezbollah contro Israele, ovvero disarmare le
milizie di Hezbollah, la cosa piu' irragionevole che si possa fare e'
investire di tale compito le forze armate di un paese gia' impegnato nelle
coalizioni che stanno facendo guerre e stragi in Afghanistan e in Iraq:
ovvero guerre che vengono interpretate da milioni e forse miliardi di esseri
umani secondo il paradigma della guerra dell'occidente cristiano,
capitalistico, colonialista e imperialista contro i popoli oppressi, contro
l'islam, contro il sud del mondo al fine di continuare a rapinare le risorse
di quei popoli e quei territori, calpestando la dignita' e l'identita' di
persone e popoli che non accettano di farsi schiavizzare.
*
Non solo: l'interposizione che occorre deve essere di pace con mezzi di
pace. Di piu': deve essere nonviolenta.
E il disarmo di Hezbollah deve avvenire per via politica e di polizia. La
via militare ha gia' dimostrato il suo completo fallimento.
E per essere piu' chiari: per quanto attiene a Hezbollah come forza politica
presente fin nel governo libanese, e' evidente che l'azione politica -
negoziale in senso forte - deve essere condotta dal governo libanese, e
sostenuta dalla comunita' internazionale in modo adeguato.
Per quanto attiene a Hezbollah come milizia armata e organizzazione che
pratica il terrorismo, e' evidente che l'azione di disarmo deve avere
carattere di polizia e non militare; deve essere condotta precipuamente da
forze dell'ordine non militarizzate e con il coinvolgimento attivo della
societa' civile locale; non deve essere e neppure apparire un intervento che
la propaganda terrorista possa denunciare come "operazione dell'occidente
per disarmare la resistenza dell'Islam al neocolonialismo e al
neoimperialismo" trovando un ascolto di massa; e deve avvalersi di tecniche
adeguate e fondamentalmente nonviolente: ad esempio nella campagna
brasiliana per il disarmo le istituzioni offrirono compensi in denaro alle
persone (anche appartenenti a gruppi criminali) che consegnavano armi -
senza doverne dichiarare la provenienza - affinche' fossero pubblicamente
distrutte: e' un modello cui si puo' far riferimento per una delle
molteplici iniziative da condurre.
*
La vicenda libanese, letta nelle sue dinamiche di lungo periodo e
valorizzando la spinta di pace e riconciliazione degli ultimi anni,
costituisce forse oggi un'occasione privilegiata per cominciare a
sperimentare alcune cose che ci stanno molto a cuore:
a) un'Onu che finalmente intervenga come soggetto che esercita un'azione di
polizia internazionale contro la guerra, un'azione di pace con mezzi di
pace, un'azione autonoma dagli interessi di parte delle maggiori potenza
statali;
b) i Corpi civili di pace come soggetto civile e disarmato che esercita
un'azione nonviolenta e riconciliativa contro la guerra e per la giustizia;
c) la costruzione di ponti tra persone e popoli nel segno del rispetto
dell'altro e della convivenza muovendo dal soccorso a tutte le vittime, dal
progressivo disarmo delle parti in conflitto, da pratiche di riconoscimento,
solidarieta' e riconciliazione che per cerchi concentrici includano aree
sempre piu' vaste di popolazioni e di istituzioni di esse rappresentative;
d) una politica internazionale centrata non su meccanismi punitivi e
belligeni ma su incentivi positivi: rovesciando la logica infernale degli
embargo e delle guerre, e promuovendo la democrazia nell'unico modo in cui
la democrazia si puo' promuovere: facendola crescere dal basso, cessando di
rapinare i poveri ed anzi sostenendoli nei loro bisogni e nei loro diritti.
Molto altro vi sarebbe da dire, ma almeno questo deve essere detto.

2. TESTIMONIANZE. EHREN WATADA: COME SOLDATI, COME PATRIOTI, COME ESSERI
UMANI CI OPPONIAMO ALLA GUERRA ILLEGALE E CRIMINALE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento
tenuto dal tenente statunitense Ehren Watada al convegno dei Veterani per la
pace il 12 agosto 2006. Ehren Watada il 22 giugno scorso si e' rifiutato di
partire per l'Iraq, considerando illegali la guerra e l'occupazione:
"Poiche' l'ordine di prendere parte ad un atto illegale e' ovviamente contro
la legge, io devo rifiutare quest'ordine". Mentre si accingeva a fare il suo
intervento, oltre cinquanta membri dei Veterani che hanno fatto esperienza
del conflitto iracheno si sono posti in fila alle sue spalle in un simbolico
sostegno al suo gesto. Il tenente Watada ha iniziato a parlare visibilmente
commosso]

Grazie a tutti. Grazie per questo enorme sostegno.
Non so dirvi quanto sono onorato e felice di essere nello stesso luogo con
voi. Sono profondamente, umilmente riconoscente di essere in compagnia di
tali meravigliosi oratori.
Voi siete tutti veri patrioti americani. Sebbene non vestiate piu'
l'uniforme, voi vi attenete ai principi che un tempo avete giurato di
praticare e difendere. Nessuno conosce la devastazione e la sofferenza della
guerra meglio di chi l'ha provata, ed e' per questo che noi veterani
dovremmo essere i primi a prevenirla.
Non ero troppo sicuro di cosa avrei detto stasera. In generale, come
comandante di uomini, dovrei parlare per motivare altri. Ma questo non e'
l'esercito, e poi sono solo un tenente. Siamo tutti cittadini di questo
paese e cio' che ho da dire non concerne la mia autorita', parlo quindi da
cittadino ad altri cittadini.
Noi tutti abbiamo visto questa guerra lacerare il nostro paese negli ultimi
tre anni. Sembra che nulla di cio' che abbiamo fatto, dalle veglie alle
proteste, alle lettere al Congresso, abbia avuto un minimo effetto nel
persuadere i potenti. Stasera vorrei parlarvi delle mie idee a proposito di
un mutamento di strategia. Sono qui adesso perche' ho fatto idealmente un
salto in avanti. La mia azione non e' la prima di questo tipo, e certamente
non sara' l'ultima. Pure, per il bene di coloro che mi seguiranno, io
richiedo il vostro aiuto, un vostro sacrificio, lo chiedo a voi e a numerosi
altri americani.
Posso fallire. Potremmo fallire. Ma nulla di quello che abbiamo tentato sino
ad ora si e' spinto molto lontano. E' tempo di cambiare, e il cambiamento
comincia con ciascuno di noi. Sto qui davanti a voi, oggi, non come un
esperto; non sono uno che pretende di avere tutte le risposte. Sono
semplicemente uno statunitense ed un servitore del popolo statunitense. La
mia opinione e' questa.
Capisco che potrete non essere d'accordo con tutto quel che ho da dire.
Tuttavia, non ho fatto la scelta che ho fatto per essere popolare. L'ho
fatta per spirito di servizio, e per rendere migliori i soldati di questo
paese. E giuro di portare avanti questo impegno in modo onorevole, sotto il
dettato della legge.
Vi parlo di un'idea radicale, che nasce dallo stesso concetto di soldato
americano, o membro in servizio. E' stata cruciale nel porre fine alla
guerra in Vietnam, ma da molto tempo giace dimenticata. Ed e' la seguente:
per porre fine ad una guerra illegale ed ingiusta, i soldati devono
scegliere di non combatterla.
*
Non che sia un compito facile per chi e' sotto le armi. Lui o lei deve
essere consapevole di essere usato/a in un gioco sporco. Deve saper essere
responsabile per le proprie azioni individuali. Deve ricordare che il suo
primario dovere verso la Costituzione ed il popolo e' superiore alle
ideologie dei leader.
Il soldato deve avere la volonta' di affrontare l'ostracismo dei suoi pari,
la preoccupazione per la propria famiglia e ovviamente per la possibilita'
di perdere la propria liberta' personale. Deve capire che resistere ad un
governo autoritario a casa propria e' importante quanto combattere un
aggressore esterno. Infine, coloro che vestono un'uniforme devono sapere
senza ombra di dubbio che se rifiutano di obbedire ad ordini immorali ed
illegali, saranno sostenuti dalla gente non con semplici parole, ma con
azioni.
Il soldato americano deve saper vedere oltre l'addestramento che gli dice di
obbedire all'autorita' senza porre domande. Il grado dovrebbe essere
rispettato, ma mai seguito ciecamente. La consapevolezza della storia di
atrocita' e distruzioni commesse in nome dell'America, sia con interventi
militari diretti che sostenendone altri, e' cruciale. I soldati devono
capire che questa guerra non e' stata intrapresa per autodifesa ma per
scelta, per il profitto e la dominazione imperialistica. Le armi di
distruzione di massa, i legami con Al Qaida, le connessioni con l'11
settembre [da parte dell'Iraq - ndr], tutto questo non e' mai esistito.
I soldati devono sapere in che modo funzionari eletti hanno intenzionalmente
manipolato le prove portate al Congresso, all'opinione pubblica e al mondo,
per giustificare la guerra. Devono sapere che ne' il Congresso ne' il
governo hanno autorita' bastante a violare la proibizione della guerra
preventiva: e' una legge americana che e' ancora in vigore oggi.
Questa stessa amministrazione ci usa per commettere flagranti violazioni di
leggi esistenti da lungo tempo, che bandiscono la tortura e l'umiliazione
dei prigionieri di guerra. Anche se un soldato americano volesse comportarsi
giustamente, l'illegittimita' dell'occupazione, le politiche di questa
amministrazione, e le regole di ingaggio di disperati comandanti sul campo,
lo forzeranno ad essere complice di crimini di guerra. I soldati
statunitensi devono venire a conoscenza almeno di alcuni di questi fatti, se
non di tutti, per poter agire.
Mark Twain una volta lo rimarco': "Ogni uomo deve decidere per se stesso
cio' che e' giusto e cio' che e' sbagliato, quale condotta sia patriottica e
quale no. Non puoi evitare questo e rimanere umano. Decidere in maniera
contraria alle tue convinzioni e' diventare un traditore senza scusanti, un
traditore di te stesso e del tuo paese". Percio' ogni soldato americano,
ogni marine, ogni pilota, ogni marinaio, e' responsabile delle sue scelte e
delle sue azioni. Il giuramento che abbiamo prestato ci lega non ad un uomo,
ma ad un documento fatto di principi e leggi, disegnato per proteggere il
popolo.
Arruolarsi non significa abiurare al proprio diritto di cercare la verita',
ne' e' una scusante che ci priva del pensiero razionale o della capacita' di
distinguere fra cio' che e' giusto e cio' che e' ingiusto.
"Eseguivo gli ordini" non e' mai una giustificazione. I processi di
Norimberga hanno dimostrato che la cittadinanza ed i soldati hanno
l'inalienabile obbligo di rifiutare la complicita' in crimini di guerra
perpetrati dai loro governi.
Tortura e trattamento inumano dei detenuti sono crimini di guerra.
Una guerra di aggressione nata da una politica non legittima di supposta
prevenzione e' un crimine contro la pace.
Un'occupazione che viola l'essenza stessa delle leggi umanitarie
internazionali e la sovranita' di un paese e' un crimine contro l'umanita'.
Sono crimini che si nutrono dei soldi delle nostre tasse. Se i cittadini
dovessero rimanere silenti, imponendosi di ignorarlo, cio' li renderebbe
complici quanto i soldati.
*
La Costituzione non e' un semplice pezzo di carta, ne' e' vecchia, obsoleta
o irrilevante. E' l'incarnazione di cio' che tutti gli statunitensi sentono
prezioso: verita', giustizia, uguaglianza per tutti. E' la formula di un
governo del popolo che lavora per il popolo. Un governo trasparente e
responsabile verso coloro che serve. La Costituzione disegna un sistema di
controlli e contrappesi, e la separazione dei poteri, per prevenire il male
della tirannia. Ma per forte che sia, la Costituzione non e' a prova di
bomba. Non tiene completamente in conto la fragilita' dell'umana natura.
Profitto, avidita', fame di potere, possono corrompere gli individui cosi'
come le istituzioni. I redattori della Costituzione non avrebbero neppure
potuto immaginare quanto il denaro avrebbe infettato il nostro sistema
politico. Ne' avrebbero potuto credere che un intero esercito sarebbe stato
usato per il profitto ed interessi privati. Come in ogni comune dittatura,
ai soldati viene ordinato di commettere atti di natura cosi' infame da
essere indegni di un paese libero.
Il soldato statunitense non e' un mercenario. Non combatte semplicemente
guerre a pagamento. Forse, il suo status e' un po' peggiore di quello di un
mercenario, perche' quest'ultimo puo' semplicemente andarsene, se gli atti
del suo datore di lavoro lo disgustano. Invece, e particolarmente quando si
arriva alla guerra, il soldato americano  e' un servitore con un contratto
scritto, che sia andato volontario per patriottismo o che lo abbia spinto
all'arruolamento la disperazione economica. Che importanza ha cio' che il
soldato crede essere moralmente giusto? Quando si arriva alla guerra
ideologica, la divisione fra giusto e sbagliato diventa confusa. E' tragico
che sia il "comma 22" a descrivere cio' che e' l'esercito americano oggi.
In teoria, il militare americano avrebbe tratti piu' nobili. Semplice
soldato o ufficiale che sia, giura alla Costituzione ed al popolo. Se i
soldati comprendono che la guerra e' contraria a cio' che la Costituzione
dice, se si alzano in piedi e depongono le armi, nessun presidente puo' piu'
iniziare una guerra per sua scelta privata. Nel giuramento diciamo "Contro
tutti i nemici esterni ed interni": ma cosa succede se a diventare nemici
sono i nostri rappresentanti eletti? A che ordini obbediremo? La risposta e'
che c'e' una coscienza in ogni soldato, in ogni americano, in ogni essere
umano. Il nostro dovere verso la Costituzione non puo' essere messo in
discussione.
L'esercito ha pure in se' sentimenti di fraternita', di vicinanza. La
pressione del gruppo di pari esiste, e assicura coesione, ma pure si fonda
sugli individui, e sul pensiero individuale. L'idea di questo tipo di
fratellanza e' difficile da respingere, se le alternative sono la solitudine
e l'isolamento. Se vogliamo che i soldati scelgano il sentiero piu' giusto
ma piu' difficile, dobbiamo fare in modo che sappiano senza il minimo dubbio
che saranno sostenuti dagli americani. Per sostenere le truppe che faranno
resistenza, dovete far sentire le vostre voci. Se vedono che in migliaia
sosterrete me, lo sapranno.
Sempre piu' militari si stanno domandando cosa si vuole da loro. In
maggioranza non conoscono una verita' seppellita dai titoli dei giornali.
Molti non vedono alternative all'obbedienza cieca. Dobbiamo offrire
un'opportunita' a quelli dalla mente piu' aperta, dando loro il coraggio
necessario ad agire.
Tre settimane fa, il sergente Hernandez della 172a Brigata Stryker e' stato
ucciso, ed ha lasciato la moglie e due bambini. In un'intervista, sua moglie
ha detto che Hernandez ha sacrificato la sua vita affinche' la sua famiglia
potesse sopravvivere. Io sono sicuro che il sergente apprezzava il
cameratismo dei commilitoni, ma sono altrettanto sicuro che se avesse avuto
una scelta non si sarebbe messo a rischio di lasciare una famiglia senza
marito e senza padre.
E' questo il punto, vedete. Persone come il sergente Hernandez non hanno una
scelta. Combattere in Iraq o far morire di fame i tuoi, ecco le scelte che
hanno. Molti non rifiutano totalmente questa guerra perche' valutano le loro
famiglie piu' delle loro stesse vite e forse della loro coscienza. Chi
passerebbe volentieri anni in prigione per i propri principi, se questo
negasse la sussistenza alla propria famiglia?
Vi dico questo perche' dovete sapere che per fermare questa guerra, se
volete che i soldati smettano di combatterla, essi devono avere
l'incondizionato sostegno popolare. Io l'ho visto con i miei stessi occhi.
Per me si e' trattato di quel balzo in avanti che vi dicevo, un balzo in
avanti ideale, nella fede. Altri soldati non hanno questo lusso. Devono
poterlo avere, e voi potete mostrarglielo.
Dovete convincerli che non ha importanza per quanto tempo resteranno seduti
in prigione, non ha importanza quanto ci mettera' il nostro paese a
raddrizzare se stesso, per tutto questo tempo le loro famiglie avranno un
tetto sopra la testa, cibo negli stomaci, opportunita' ed istruzione. E' un
compito assai difficile. Richiede dei sacrifici da tutti noi. Perche' devono
essere i canadesi a dare riparo e nutrimento ai soldati statunitensi che
hanno fatto la scelta giusta? Dovremmo essere noi a prenderci cura di cio'
che e' nostro. O siamo cosi' poco desiderosi di rischiare qualcosa per
coloro che veramente possono mettere la parola fine a questa guerra? Fate
sapere a costoro che la resistenza alla partecipazione ad una guerra
illegale non e' futile, e non e' senza futuro.
*
Io non ho violato leggi, tranne il codice del silenzio e della cieca
lealta'. Se sono colpevole, sono colpevole di aver appreso troppo, e di aver
sofferto troppo profondamente dell'insensata perdita dei miei compagni
soldati, e dei miei simili esseri umani. Se devo essere punito, devo essere
punito per aver eseguito gli ordini immorali di un solo uomo sotto la
parvenza della legge. Se devo essere punito, e' per non aver agito prima.
Martin Luther King Jr. disse: "La storia dovra' registrare come la piu'
grande tragedia di quest'epoca non lo stridente clamore dei malvagi, ma lo
spaventoso silenzio degli onesti". Vedete, io non sono un eroe. Sono un
comandante di uomini che ha detto "quando e' troppo e' troppo". Quelli che
chiamavano alla guerra prima dell'invasione paragonavano i tentativi
diplomatici con Saddam Hussein alla compromissione con Hitler. Io dico che
ci stiamo compromettendo ora, permettendo ad un governo che usa la guerra
come prima opzione di continuare ad agire impunito.
Dopo le Due Torri, molti hanno detto: "Mai piu'". Sono d'accordo. Mai piu'
dobbiamo permettere a chi minaccia la nostra liberta' di spadroneggiare,
siano essi terroristi o funzionari eletti. Il momento di contrattaccare e'
adesso, il momento di alzarci in piedi e' ora.
Vorrei terminare con un'altra citazione di Martin Luther King: "Chi infrange
una legge perche' la sua coscienza gli dice che e' ingiusta, ed accetta
volontariamente la pena della carcerazione per poter innalzare la coscienza
della comunita' su tale ingiustizia, sta in realta' esprimendo il piu' alto
rispetto per la legge".
Grazie, e siate benedetti.

3. RIFLESSIONE. PADRI, FIGLIE

Padri che uccidono figlie.
Mariti che uccidono mogli.
Fidanzati che fidanzate uccidono.
Il professionista pedofilo. E il prete.
Il proletario razzista a caccia di schiave nere.
Il branco.
Il magistrato comprensivo.
Il branco.
*
Banchi, neri, europei, asiatici, consumisti e rigoristi, cattolici e
musulmani, del Milan e della Juve, discotecari e filarmonici, austeri padri
di famiglia e yuppies senza inibizioni.
*
Il patriarcato e' gia' la guerra.
Il maschilismo e' gia' il fascismo.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.
La nonviolenza: femminile, plurale.

4. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: DALL'AFGHANISTAN AL LIBANO
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo
intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di
nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con
altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio",
che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi
"Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research
Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi
per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della
rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro
Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e
del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie
prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e
politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile
nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza
guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di
cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie
Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico
Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte
riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari
suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e
alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu'
ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731
del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

Sono uno che, andando contro se stesso, il mese scorso, insieme ad altri
sinceri persuasi della nonviolenza ha ritenuto in coscienza necessario e
doveroso, per ottenere il minor male possibile nelle strette costrittive
della realta' politica, non condannare il rinnovo temporaneo e calante della
spedizione militare italiana in Afghanistan.
Ora, nuove preoccupazioni e rischi mostrano la gia' nota qualita' di guerra
e non di vera pace di quella spedizione. Cio' impegna tutti ad accelerare il
ritiro dei mezzi militari italiani, in vista della scadenza semestrale di
dicembre, per sostituirli completamente con forme di solidarieta' e aiuto
civile alla popolazione stremata da guerre e violenze.
Era evidente, a me e a chi conosce il movimento e la cultura nonviolenta di
cui intendo essere seguace, che quello non era approvare o vedere un bene
nel metodo militare di affrontare i conflitti. Ho anch'io tante volte, fino
alla noia, distinto come diversi per essenza e non a parole, la forza e la
violenza, la polizia e la guerra, spesso volutamente confuse dai prepotenti.
Una polizia davvero internazionale, non faziosa, e' necessaria alla
comunita' dei popoli.
Al punto attuale dell'evoluzione umana (lenta e tarda sul piano morale), le
societa' non possono fare a meno della forza limitata, regolata, e non
distruttiva della polizia, come riconosceva anche Gandhi. Ma la guerra -
l'azione offensiva e distruttiva della violenza - e' ogni giorno piu' chiaro
che deve essere progressivamente e totalmente abolita, espulsa dai mezzi
della politica. Anche la difesa mediante la guerra e' diventata una falsa
difesa, perche' sempre di piu' le armi si ritorcono su chi le usa,
accomunano nel danno aggressori e difensori, creano un mare di odio che
assicura insicurezza e infelicita' a tutti per molte generazioni.
Bisogna affermare sempre piu' decisamente e pacatamente queste verita'
evidenti, anche e proprio quando la guerra ritorna feroce e stolta,
alluvione di vendetta, a uccidere persone e a distruggere le condizioni
minime di vita delle popolazioni.
Ora, sospesa nella tregua la guerra tra Israele e Libano (ma non quella tra
Israele e Palestina), la comunita' internazionale pensa e prepara una
interposizione militare, senza escludere l'uso delle armi per mantenere...
la sospensione della guerra. Anche l'Italia vi partecipera', sembra, al
momento, con un consenso politico generale.
Il timore grande e' che, nella cronica deficienza di cultura pacifica del
conflitto nella classe politica (quasi tutta, da destra a sinistra), non si
sappia distinguere, nel principio e nei fatti, l'azione di polizia
dall'azione di guerra.
Inoltre, l'esercito che va a fare interposizione ha cultura e struttura e
strumentazione di guerra e non di polizia.
La stessa polizia, anche negli stati democratici, ha in genere scarsa
educazione democratica e cultura dei diritti umani, che qualifichi il suo
dovere di imporre ai riottosi il rispetto degli altri.
Bisogna dire anche in questa occasione, nonostante il grave ritardo della
politica corrente, che l'interposizione veramente di pace deve essere
pensata, organizzata, finanziata, addestrata, voluta e realizzata come forza
umana disarmata nonviolenta, educata all'esercizio della forza nonviolenta,
istruita nell'arte della mediazione tra avversari, disinteressata e libera
da calcoli di potere e di influenza.
Nulla e' facile e comodo. L'interposizione nonviolenta non esclude vittime e
costi, ma, a differenza dell'interposizione militare, assicura la dignita'
umana a tutte le parti implicate e costa infinitamente meno in risorse umane
e materiali, e in danni morali lunghi nel tempo.
La presenza italiana tra Libano e Israele sara' solo quella che la cultura
politica corrente sa concepire. Ma la cultura nonviolenta la discute, ne
critica i limiti, e fa conoscere le esperienze alternative di Corpi Civili
di Pace che oggi, in mancanza di forme istituzionali, si svolgono in modo
volontario e anticipatore per iniziativa tutta meritoria di singoli e
associazioni. Queste esperienze si affiancano alle associazioni costruttive
di pace, formate insieme tra le popolazioni in conflitto, come le simili
associazioni miste israelo-palestinesi.
Le intermediazioni nonviolente hanno anche i loro martiri, testimoni della
consapevole dedizione senza condizioni profusa da tanti senza alcun clamore.
Essi sono la vera promessa della politica internazionale di pace. Conosciamo
queste figure umili e serie, libere dalla retorica ufficiale, tanto
umanamente superiori al soldato ucciso mentre va per uccidere, celebrato da
morto da chi lo ha usato da vivo.
Queste esperienze tagliano muri e confini, costruiscono ponti, sono l'esatto
contrario della guerra, e non una sua tregua, creano quel clima umano nel
quale puo' svolgersi la fatica del dialogo e la ricerca razionale e
inventiva di soluzioni e mediazioni, nel conveniente riconoscimento
reciproco.
La cultura di pace dovra' andare oltre la protesta e la denuncia, anche nel
prossimo incontro nazionale di Assisi il 26 agosto, e diventare sempre piu'
politica, proposta e volonta' di mezzi nonviolenti costruttivi e di progetti
concreti, come la proposta di Galtung per il Medio Oriente sul modello
dell'Unione Europea.

5. RIFLESSIONE. GABRIELE DE VERIS: UNA VITA OLTRE LA GUERRA
[Ringraziamo Gabriele De Veris (per contatti: gdeveris at tiscali.it) per
questo intervento.
Gabriele De Veris e' una delle figure piu' conosciute e stimate dell'impegno
per la pace e la nonviolenza in Italia; vive e lavora a Perugia come
bibliotecario; capo scout, obiettore di coscienza, si occupa da molti anni
di educazione alla pace e nonviolenza; collabora con varie associazioni, e
in particolare con la Tavola della pace per l'organizzazione della marcia
Perugia-Assisi; attualmente sta anche organizzando un centro di
documentazione su pace e nonviolenza.
Angelo Frammartino, giovane militante della sinistra italiana, amico della
nonviolenza, impegnato nella solidarieta' concreta con i bambini palestinesi
a Gerusalemme, e' stato assassinato alcuni giorni fa]

Abbiamo nel cuore la morte di tante persone nel Libano, abbiamo nel cuore la
morte di Angelo Frammartino. Una vita giovane dedicata alla ricerca della
pace.
Credo che anche per lui dovremmo rilanciare la proposta dei caschi bianchi a
parlamento e governo.
Da otto anni aspettiamo che una legge riconosca questo strumento di pace,
che renda efficace la prevenzione dei conflitti e la ricostruzione dopo una
guerra.
Quando avremo i caschi bianchi potremo davvero parlare di "missioni di
pace".

6. RIFLESSIONE. EDUARDO GALEANO: SALVAGENTE DI PIOMBO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 agosto 2006. Eduardo Galeano e' nato
nel 1940 a Montevideo (Uruguay); giornalista e scrittore, nel 1973 in
seguito al colpo di stato militare e' stato imprigionato e poi espulso dal
suo paese; ha vissuto lungamente in esilio fino alla caduta della dittatura.
Dotato di una scrittura nitida, pungente, vivacissima, e' un intellettuale
fortemente impegnato nella lotta per i diritti umani e dei popoli. Tra le
sue opere, fondamentali sono: Le vene aperte dell'America Latina,
recentemente ripubblicato da Sperling & Kupfer, Milano; Memoria del fuoco,
Sansoni, Firenze; e i recenti A testa in giu', Sperling & Kupfer, Milano, e
Le labbra del tempo, Sperling & Kupfer, Milano. Tra gli altri suoi libri
editi in italiano: Guatemala, una rivoluzione in lingua maya, Laterza, Bari;
Voci da un mondo in rivolta, Dedalo, Bari; La conquista che non scopri'
l'America, Manifestolibri, Roma; Las palabras andantes, Mondadori, Milano]

I nostri paesi si modernizzano. Ora la linea ufficiale comanda di onorare i
debiti (anche se disonorevoli), attirare investimenti (anche se indegni) e
allargarsi al mondo (anche per la porta di servizio). E in realta'
continuiamo a credere alle favole di sempre.
L'America latina e' nata per obbedire al mercato mondiale, fin da quando il
mercato mondiale non si chiamava cosi'. Piu' male che bene, restiamo legati
al dovere dell'obbedienza. Questa triste routine dei secoli comincio' con
l'oro e l'argento e prosegui' con lo zucchero, il tabacco, il guano, il
salnitro, il rame, lo stagno, il caucciu', il cacao, la banana, il caffe' e
il petrolio. E che cosa ci ha lasciato tanto splendore? Ci ha lasciato senza
presente ne' futuro. Giardini diventati deserto, campi abbandonati, montagne
sforacchiate, acque imputridite, lunghe carovane di infelici condannati a
una morte anticipata, palazzi svuotati in cui camminano fantasmi.
Adesso e' il turno della soia transgenica e della cellulosa. E si ripete la
storia delle glorie fugaci, che al suono delle trombe ci annunciano lunghe
disgrazie. Sara' muto il passato? Ci neghiamo l'ascolto delle voci che ci
avvertono: i sogni del mercato mondiale sono gli incubi dei paesi che si
sottomettono ai suoi capricci. Continuiamo ad applaudire il sequestro dei
beni naturali che dio o il diavolo chi ha dato, e lavoriamo per la nostra
propria perdizione, contribuendo allo sterminio della poca natura che ancora
resta in questo mondo.
*
Argentina, Brasile e altri paesi latinoamericani stanno vivendo la febbre
della soia transgenica. Prezzi tentatori, rendimenti moltiplicati.
L'Argentina e', da molto tempo, il secondo produttore mondiale di
transgenici dopo gli Stati Uniti. In Brasile, il governo Lula si e'
esercitato in una di quelle piroette che rendono ben magro favore alla
democrazia e ha detto si' alla soia transgenica, nonostante il suo partito
avesse detto no durante tutta la campagna elettorale. Questo vuol dire pane
per oggi e fame per domani, come denunciano alcuni sindacati rurali e
organizzazioni ecologiste. Ma e' noto che i paesani ignoranti si ostinano a
non comprendere i vantaggi della biada di plastica e della vacca a motore, e
che gli ecologisti sono guastafeste che sputano regolarmente sull'arrosto.
Gli avvocati del transgenico affermano che non e' provato che siano dannosi
per la salute umana. In ogni caso, nemmeno e' provato che non lo siano. E se
sono tanto inoffensivi, perche' i fabbricanti di soia transgenica si
rifiutano di scrivere sulle confezioni che vendono cio' che vendono?
L'etichetta di soia transgenica non sarebbe la migliore delle pubblicita'? E
ci sono prove che queste invenzioni del dottor Frankenstein danneggiano la
salute del suolo e riducono la sovranita' nazionale. Esportiamo soia o
esportiamo suolo? E non finiremo intrappolati tra le mascelle della Monsanto
e delle altri grandi imprese dei cui semi, erbicidi e pesticidi ormai
dipendiamo?
Terre che producevano tutto per il mercato locale ora si consacrano a un
solo prodotto per la domanda estera. Mi sviluppo dal di fuori, e del dentro
mi dimentico. La monocultura e' una prigione, lo e' sempre stata, e ora con
i transgenici lo e' molto di piu'. La diversita', invece, libera.
L'indipendenza si riduce all'inno nazionale e alla bandiera se non si basa
sulla sovranita' alimentare. L'autodeterminazione comincia dalla bocca.
Soltanto la diversita' produttiva puo' difenderci dai repentini crolli dei
prezzi che sono il costume, il mortifero costume, del mercato mondiale.
Le immense estensioni destinate alla soia transgenica stanno devastando i
boschi originari e espellendo i contadini poveri. Poche braccia vengono
occupate in questo sfruttamento altamente meccanizzato, che in cambio
stermina le piccole piantagioni e gli orti familiari con il veleno dei suoi
fumi. Si moltiplica l'esodo rurale verso le grandi citta', nelle quali si
suppone che gli espulsi vadano a consumare, se hanno fortuna, cio' che prima
producevano. E l'agraria riforma. la riforma agraria al contrario.
*
Anche la cellulosa e' diventata di moda, in diversi paesi.
L'Uruguay, senza andare piu' lontano, sta cercando di trasformarsi in un
centro mondiale di produzione di cellulosa per rifornire lontane fabbriche
di carta di materia prima a basso costo. Si tratta di monocultura da
esportazione, nella piu' pura tradizione coloniale: immense piantagioni
artificiali che dicono di essere boschi e si trasformano in cellulosa con un
processo industriale che riempie di rifiuti chimici i fiumi e rende l'aria
irrespirabile. Qui hanno cominciato con due fabbriche enormi, una delle
quali e' gia' mezzo completata. Poi si e' aggiunto un altro progetto e si
parla di un altro e un altro ancora, mentre sempre piu' ettari vengono
destinati alla fabbricazione in serie di eucalipti.
Le grandi imprese transnazionali ci hanno scoperto sulla mappa e si sono
accese di repentino amore per questo Uruguay dove non c'e' tecnologia capace
di controllarle, lo stato concede loro sussidi ed evita le imposte, i salari
sono rachitici e gli alberi crescono in un amen. Tutto indica che il nostro
piccolo paese non potra' sopportare l'abbraccio asfissiante di questi
giganti. Come spesso accade, le benedizioni della natura si trasformano in
maledizioni della storia. I nostri eucalipti crescono dieci volte piu' in
fretta che quelli della Finlandia e questo si traduce cosi': le piantagioni
industriali saranno dieci volte piu' devastanti.
Al ritmo di sfruttamento previsto, buona parte del territorio nazionale
sara' spremuto fino all'ultima goccia d'acqua. Questi giganti ci vanno a
seccare il suolo e il sottosuolo. Tragico paradosso: questo e' stato l'unico
luogo al mondo in cui e' stata sottoposta a plebiscito la proprieta'
dell'acqua. A grandissima maggioranza, noi uruguaiani abbiamo deciso,
nell'anno 2004, che l'acqua e' di proprieta' pubblica. Non c'e' la maniera
di evitare questo sequestro della volonta' popolare?
La cellulosa, c'e' da ammetterlo, si e' trasformata in qualcosa di simile a
una causa patriottica e la difesa della natura non risveglia entusiasmi.
Peggio: nel nostro paese, malato di cellulosite, alcune parole come
ecologista e ambientalista si stanno trasformando in insulti che
crocifiggono i nemici del progresso e i sabotatori del lavoro. Si celebra la
disgrazia come fosse una buona notizia. Meglio morire di inquinamento che di
fame: molti disoccupati credono che non ci sia altro rimedio che scegliere
tra due calamita', e i venditori di illusioni sbarcano offrendo migliaia di
posti di lavoro.
Ma una cosa e' la propaganda e un'altra la realta'. Il Mst, il movimento dei
contadini "sem terra", ha diffuso dati eloquenti che non valgono solo in
Brasile: la cellulosa genera un posto di lavoro ogni 185 ettari,
l'agricoltura familiare cinque posti ogni 10 ettari. Le imprese promettono
il meglio. Lavoro a vagoni, investimenti milionari, stretti controlli, aria
pura, acqua pulita, terra intatta. E uno si chiede: perche' non mettono
tutte queste meraviglie a Punta del Este, per migliorare la qualita' della
vita e stimolare il turismo della nostra principale stazione balneare?

7. LIBRI. MARIA ANTONIETTA SARACINO PRESENTA "IL TRENO DI NOTTE" DI RUSKIN
BOND
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 agosto 2006.
Maria Antonietta Saracino, anglista, insegna all'Universita' di Roma "La
Sapienza"; si occupa di letterature anglofone di Africa, Caraibi, India e di
multiculturalismo. Ha curato numerosi testi, tra cui Altri lati del mondo
(Roma, 1994), ha tradotto e curato testi di Bessie Head (Sudafrica), Miriam
Makeba (Sudafrica), la narrativa africana di Doris Lessing e Joseph Conrad,
testi di Edward Said, di poeti africani contemporanei, di Aphra Behn; ha
curato Africapoesia, all'interno del festival Romapoesia del 1999; ha
pubblicato saggi sulle principali aree delle letterature post-coloniali
anglofone, collabora regolarmente con le pagine culturali de "Il manifesto"
e con i programmi culturali di Radio3.
Ruskin Bond e' nato nell'Himachal Pradesh nel 1934; da giovane ha vissuto
per alcuni anni nelle Channel Islands e a Londra; e' ritornato in India nel
1955, dove oggi vive con la sua famiglia allargata; ha pubblicato il suo
primo romanzo breve, The Room on the Roof, all'eta' di diciassette anni, da
allora ha scritto piu' di cento racconti, numerosi romanzi e piu' di trenta
libri per bambini. Tra le opere di Ruskin Bond disponibili in italiano:
Piccolo manuale della serenita', Idea Libri, 2003; Il treno di notte. Storie
e racconti dall'India, Donzelli, 2006]

Chi abbia memoria del film Gandhi, di Richard Attenborough, quello che piu'
di altri in tempi recenti ha contribuito a creare in occidente un
immaginario cinematografico sull'India, ne ricordera' forse la scena
iniziale, nella quale il futuro Mahatma, qui giovane avvocato indiano del
foro di Londra inviato a fare praticantato in Sudafrica, viene letteralmente
afferrato e buttato giu' dal treno, dalla carrozza di prima classe nella
quale lui, indiano, aveva osato sedersi. E' da quel gesto di sopraffazione
che in questo racconto tutto comincia, segnando un percorso che di li' a
qualche decennio avrebbe portato al crollo dell'impero britannico in quella
che l'Inghilterra considerava la sua roccaforte piu' sicura e prestigiosa. E
piu' avanti si vedra' Gandhi con i suoi seguaci distesi sui binari della
ferrovia, a protestare perche' il governo conceda il voto agli intoccabili.
In treno il Mahatma percorrera' il paese predicando il verbo della
resistenza nonviolenta.
Se la strada e' lo spazio nel quale la liberta' simbolicamente comincia, il
treno, elemento reale ma anche dell'immaginario, mezzo di trasporto e
veicolo di Storia, sta all'India come l'automobile sta all'America. Sara'
certo per questo che esso abita la geografia del subcontinente, e al tempo
stesso la sua cinematografia e le pagine dei romanzi che la narrativa
indiana contemporanea ci ha consegnato numerosi: bersaglio spesso di
attentati, anche recenti, che a tutt'oggi nel treno individuano un facile
veicolo di strage, ma anche potente elemento simbolico. Famosi in questo
senso, i cosiddetti treni-fantasma, che nell'estate del 1947, nelle
settimane successive alla Partition, la spartizione tra India e Pakistan,
arrivano a destinazione pieni unicamente di cadaveri.
*
Grande storia, piccole storie
Difficile trovare un romanzo che affrontando tematiche legate a quel momento
della storia dell'India, non ne parli. Valgano per tutti, per spessore
narrativo, Quel treno per il Pakistan, di Khushwant Singh, classe 1915
(Marsilio, traduzione di Maria Teresa Marenco); e, per la generazione
successiva, La spartizione del cuore, di Bapsi Sidhwa, classe 1942 (Neri
Pozza, traduzione di Luciana Pugliese), che dello stesso episodio parla a
partire dalla sua esperienza di bambina; questa verra' poi trasposta nel
film Earth, di Deepa Mehta, che dell'episodio del treno-fantasma, come gia'
nel romanzo, fara' uno dei momenti centrali della narrazione: "E' appena
arrivato un treno da Gurdaspur... Tutti morti. Massacrati. Tutti musulmani.
Nemmeno una giovane donna tra i morti! Solo due sacchi pieni di seni di
donna... Stavo aspettando sei parenti... da tre giorni... dodici ore al
giorno ho aspettato quel treno!". Treni che trasportano la storia, nel bene
e nel male. Quella con la esse maiuscola.
Al contrario, Il treno di notte, deliziosa raccolta di racconti dell'indiano
Ruskin Bond, appena uscito per Donzelli nella bella traduzione di Maria
Baiocchi (pp. 246, euro 21,90) non trasporta la grande storia, ma piccole
storie individuali. Frammenti di vita. Una vita che ha il respiro poetico di
un mondo d'altri tempi, e d'altro tempo. Il tempo lento dei ricordi, di
momenti d'amore vissuti o solo sognati, in un'India come ci piacerebbe che
fosse - e come certamente anche e'. Un mondo fatto di attese, di sguardi, di
sorrisi e di incontri fugaci che lasciano intuire piu' che svelare, ma che
della vita dei singoli personaggi costituiscono molto spesso il centro, il
momento attorno al quale anni di ricordi si raccolgono e coagulano.
Trenta racconti brevi, composti dall'autore in momenti diversi della sua
vita, a partire dagli anni Cinquanta, fino all'ultimo, Un amore di tanto
tempo fa, scritto mentre la raccolta andava in stampa. Il tutto tenuto
insieme dalla costante presenza del treno. Ed e' lo stesso Bond, nella
"lettera al lettore" che costituisce la prefazione al volume, a spiegarne il
perche', quando dice che "nei miei racconti sentimento e avventura
trionfano, spesso associati ai treni. La gente non fa altro che spostarsi in
treno e andare in treno dappertutto, ma solo qualche volta succede che due
persone si incontrino, che i loro sentieri si incrocino, e anche se presto
si dovranno di nuovo separare, le loro vite saranno modificate in qualche
indefinibile modo".
Ruskin Bond e' una figura di narratore piuttosto anomalo secondo i parametri
a noi consueti. Quasi sconosciuto in occidente, i suoi testi sono viceversa
molto letti in India, e comunemente presenti in ogni biblioteca familiare.
Nasce nel 1934 a Kasauli, nell'Himachal Pradesh, da padre inglese e madre
indiana. Durante la prima giovinezza trascorre quattro anni a Londra, con la
famiglia, ma nel 1955 fa ritorno in India, da solo, per non allontanarsene
mai piu'. Da allora vive a Mussoorie, sugli altipiani himalayani. A
diciassette anni esordisce con un romanzo, The Room on the Roof, che nel
1957 gli vale il John Llewellyn Rhys Prize per la narrativa. A questo fa
seguito un secondo, e una raccolta di saggi, ma soprattutto una lunghissima
serie di racconti, alcuni dei quali per bambini, la forma narrativa che piu'
gli addice e che, in oltre cinquant'anni di inesausta attivita' assommano
ormai a oltre un centinaio; questi, uniti a raccolte di saggi e di poesia e
a cinque romanzi, fanno di Ruskin Bond un autore quantomai prolifico, con
oltre ottanta volumi al suo attivo.
*
Via dalla pazza folla
Bond non e' un autore che sperimenti con il linguaggio, alla Salman Rushdie,
per intenderci. Non e' un innovatore. Suo e' il ritmo lento e sicuro dei
grandi narratori dell'Ottocento, con i quali condivide, per l'appunto,
l'amore per le singole storie, con una spiccata predilezione per storie
d'amore, storie a due. Piu' spesso intessute di silenzio, con scambi verbali
ridotti all'indispensabile. E' forse per questo che lo scrittore si trova
cosi' a suo agio nella dimensione del racconto, preferibilmente con pochi
personaggi, lontana dai grandi affreschi brulicanti di umanita', di facce,
di voci, della narrativa indiana piu' famosa. Nei suoi racconti prevalgono
il rumore di sguardi e di pensieri, e una certa dose di solitudine e
disincanto. Piuttosto, e' l'incrociarsi e lo sfiorarsi delle vite, a
interessarlo, in storie che spesso prendono lo spunto da momenti della sua
autobiografia. "E' una mia debolezza", dichiara, "non ci posso fare niente.
Sono uno scrittore fatto cosi'".
E davvero si ha la sensazione di carpire momenti di vita passata
dell'autore. Che sia lui il bambino che ne La donna del binario n. 8,
aspetta la madre che non si fa vedere e che per non sfigurare davanti ai
compagni accetta la complicita' di una sconosciuta che presenta come madre.
Lui, l'amico del giovane che vende pettini e spazzole in una piccola
stazione nel racconto Prossima fermata, Pipalnagar. Lui, il diciottenne
protagonista de Il treno di notte a Deoli - che nell'originale inglese da'
il titolo alla raccolta - il quale si innamora perdutamente della ragazza
che vende cestini di paglia, senza mai avere il coraggio di parlarle.
Nutritosi, come tutti gli autori della sua generazione, della grande
narrativa inglese otto-novecentesca, Ruskin Bond trova in quella scrittura,
in quella lingua, i suoi modelli. Ma e' vicino empaticamente a quanti - e
sono sempre piu' numerosi - in India hanno scelto di scrivere nella loro
lingua madre, visibilmente affrontando un cammino piu' arduo e impopolare:
"Sono molti - osserva ancora nella prefazione - gli scrittori coraggiosi che
oggi scrivono nella propria lingua, sia essa il Bengali, l'Oriya, il Telugu
o il Marathi, o dozzine di altre, zappando il proprio orticello in
solitudine, senza godere del privilegio di avere alle proprie spalle agenti,
media o il Booker Prize. La ricompensa sara' minuscola, i lettori pochi, ma
questo basta a impedire loro di spegnere la luce. Perche' sanno bene che la
penna ha la forza di sconfiggere la morte. Ed e' per questo, caro lettore,
che io mi separo da te con l' augurio che tu sappia avere tanta saggezza da
riuscire ad essere semplice, e tanta ironia da riuscire ad essere felice".

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1390 del 17 agosto 2006

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