La nonviolenza e' in cammino. 1370



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1370 del 28 luglio 2006

Sommario di questo numero:
1. Tutti i fuochi, il fuoco
2. Peppe Sini: La guerra e chi la approva
3. Maria G. Di Rienzo: Costruendo il futuro con la nonviolenza
4. Eduardo Galeano: Fino a quando?
5. Maria G. Di Rienzo: Il caffe' delle donne
6. Marina Forti intervista Akbar Ganji
7. Maria G. Di Rienzo: Un bellissimo venerdi'
8. Homi K. Bhabha: Connessi. A cosa?
9. Maria G. Di Rienzo: Parihaka
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. TUTTI I FUOCHI, IL FUOCO

Tutti i fuochi, il fuoco.
Tutte le stragi, una stessa strage.
Tutte le guerra, contro l'umanita' intera.
Cessate il fuoco.

2. EDITORIALE. PEPPE SINI: LA GUERRA E CHI LA APPROVA

Tutte le chiacchiere di questo mondo non mutano il fatto che la guerra sia
un crimine che consiste nell'uccisione di esseri umani, e chi vota in suo
favore se ne fa corresponsabile.
Niente ipocrisie per favore: nessun obiettivo politico puo' giustificare la
commissione di omicidi.
*
Tutte le chiacchiere di questo momento non mutano il fatto che la
partecipazione militare italiana alla guerra afgana e' illegale e criminale,
che e' un atto di violazione della legge fondamentale del nostro ordinamento
giuridico, la Costituzione della Repubblica Italiana che all'articolo 11 e'
inequivocabile: ripudia la guerra, sia come strumento di offesa alla
liberta' degli altri popoli, sia come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali.
Niente ipocrisie per favore: se la Costituzione e' in vigore, il voto a
favore della guerra e' un atto criminale, il piu' scellerato che un
parlamento possa commettere.
*
La trovata - da machiavellismo degli stenterelli - del voto di fiducia al
senato rivela solo a quale abisso di infamia e di irresponsabilita' si sia
giunti: il governo in carica attesta che la scelta della guerra e' una
scelta cosi' intrinseca alla sua azione complessiva da giocarsi su essa
l'intera sua credibilita'. Siamo al cuore dell'assurdo e dell'orrore.
*
Nessuno creda di potersi far scudo di penosi giochi di parole, di squallidi
trucchi da ciarlatani. Chi vota per la guerra vota per la guerra. E chi in
queste settimane si e' arruolato al servizio della scelta della guerra si e'
arruolato al servizio della scelta della guerra. Certe decisioni sono
irreversibili. Ciascuno ne rispondera' alla sua coscienza, e dinanzi alle
vittime.
*
La nonviolenza si oppone alla guerra.
La Costituzione si oppone alla guerra.
Il senso di umanita' si oppone alla guerra.
Chi vota per la guerra, e chi lo favoreggia, non speri nella nostra
complicita', non speri nel nostro silenzio.
E non speri neppure in un futuro perdono: poiche' il perdono e' un
privilegio delle sole vittime - solo la vittima di un male, non altri, puo'
perdonare chi quel male le ha inflitto: ma le vittime della guerra vengono
uccise, ed essendo state uccise non possono piu' perdonare, e quindi il
crimine della guerra resta imperdonabile per sempre.

3. ESPERIENZE. MARIA G. DI RIENZO: COSTRUENDO IL FUTURO CON LA NONVIOLENZA
[Da "Azione nonviolenta" di marzo 2006 (disponibile anche nel sito:
www.nonviolenti:org).  Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it)
e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa
intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista
teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche
sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]

Ayed Morrar, palestinese, e Jonathan Pollak, israeliano, sono amici. E' raro
vedere immagini in cui i due non sorridano, o non si sorridano l'un l'altro.
Forse i loro nomi non vi dicono molto, ma sono fra i maggiori attivisti
della lotta nonviolenta contro l'occupazione israeliana dei Territori.
Largamente ignorato dai media, il loro lavoro ha compreso l'organizzazione
di una grande campagna di resistenza alla costruzione del famoso (o infame,
dichiarato illegale nel 2004 dal Tribunale internazionale di giustizia)
"muro", che ha coinvolto a livello di base migliaia di israeliani e di
palestinesi: agricoltori, lavoratori, madri, studenti, volontari
internazionali hanno sfidato i gas lacrimogeni, le percosse e le pallottole
in oltre cinquanta marce di protesta ed hanno spesso bloccato la costruzione
del muro con i loro corpi.
Wafaa Shaheen e' un altro nome poco noto. E' una donna palestinese,
cofondatrice di "Al Zahraa", e vive in Israele. Un quinto della popolazione
israeliana lo e', ed il 70% di essi vivono in zone rurali. Wafaa lavora con
le donne, in tali zone, per insegnare ed imparare a sconfiggere la violenza.
Il suo gruppo organizza incontri e seminari sin nei piu' sperduti villaggi,
dopo di che le donne generalmente danno vita ad organizzazioni autonome
nelle loro comunita'. Il 98% delle donne che vengono in contatto con "Al
Zahraa" sono madri povere (la maggior parte e' sposata ed ha figli prima dei
vent'anni), vivono esistenze difficili in luoghi isolati e non hanno
contatto con le organizzazioni internazionali. "Il primo incontro e' spesso
molto commovente. Per molte donne si tratta della prima occasione nella loro
vita di parlare di se stesse. La violenza, domestica e non, e la
partecipazione sociale sono due istanze ricorrenti. Quando le donne possono
definire i propri bisogni ed organizzarsi l'impatto sulla comunita' e'
positivo ed immediato", dice Wafaa.
Lo sa bene il villaggio di Bana Al Zjedet, dove le donne, dopo l'incontro
con "Al Zahraa", hanno organizzato una manifestazione contro la violenza
domestica. Si tratto' della prima azione politica femminile mai compiuta nel
villaggio, e vi presero parte 1.500 donne su una popolazione di 6.000
persone.
Nel 2002 "Al Zahraa" organizzo' il primo "8 marzo" per le donne palestinesi
in Israele. Con grande sorpresa delle organizzatrici, oltre 1.700 donne da
tutto il paese gradirono l'idea e parteciparono. Lo stesso anno, spronate
dal successo, le donne del gruppo organizzarono una conferenza nazionale in
cui, a parlare del proprio desiderio di pace e dei metodi per ottenerla
nelle proprie esistenze, vennero donne druse, beduine, musulmane e
cristiane.
"Alcuni uomini ci fanno visita per lamentarsi", racconta Wafaa Shaheen,
"Dicono che le loro mogli sono diverse. Ecco un vero segno di cambiamento:
adesso le loro mogli vogliono essere ascoltate". E ride, perche' anche nella
situazione piu' buia e dolorosa, com'e' spesso quella del conflitto
israeliano-palestinese, i volti di Ayed, Jonathan e Wafaa sanno dare luce e
speranza. Sorridono, si', al futuro che stanno costruendo.

4. RIFLESSIONE. EDUARDO GALEANO: FINO A QUANDO?
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 luglio 2006. In questo testo alcune
espressioni possono essere inadeguate o unilaterali, alcuni dati imprecisi o
errati, ed alcune sottovalutazioni o omissioni finanche inaccettabili, ma
chi legge sapra' cogliere cio' che conta e che vale, e relativizzare e
criticare o anche ove occorra tout court rifiutare il resto (p. s.). Eduardo
Galeano e' nato nel 1940 a Montevideo (Uruguay); giornalista e scrittore,
nel 1973 in seguito al colpo di stato militare e' stato imprigionato e poi
espulso dal suo paese; ha vissuto lungamente in esilio fino alla caduta
della dittatura. Dotato di una scrittura nitida, pungente, vivacissima, e'
un intellettuale fortemente impegnato nella lotta per i diritti umani e dei
popoli. Tra le sue opere, fondamentali sono: Le vene aperte dell'America
Latina, recentemente ripubblicato da Sperling & Kupfer, Milano; Memoria del
fuoco, Sansoni, Firenze; e i recenti A testa in giu', Sperling & Kupfer,
Milano, e Le labbra del tempo, Sperling & Kupfer, Milano. Tra gli altri suoi
libri editi in italiano: Guatemala, una rivoluzione in lingua maya, Laterza,
Bari; Voci da un mondo in rivolta, Dedalo, Bari; La conquista che non
scopri' l'America, Manifestolibri, Roma; Las palabras andantes, Mondadori,
Milano]

Un paese ne bombarda due. L'impunita' potrebbe meravigliare se non fosse
costume normale. Qualche timida protesta in cui si dice di errori. Fino a
quando gli orrori continueranno a chiamarsi errori?
Questo macello di civili si e' scatenato a partire dal sequestro di un
soldato. Fino a quando il sequestro di un soldato israeliano potra'
giustificare il sequestro della sovranita' palestinese?
Fino a quando il sequestro di due soldati israeliani potra' giustificare il
sequestro del Libano intero?
La caccia all'ebreo e' stata, per secoli, lo sport preferito degli europei.
Sbocco' ad Auschwitz un vecchio fiume di terrori, che aveva attraversato
tutta Europa. Fino a quando i palestinesi e altri arabi continueranno a
pagare per delitti che non hanno commesso?
Quando Israele spiano' il Libano nelle sue precedenti invasioni, Hezbollah
non esisteva. Fino a quando continueremo a credere alla favola
dell'aggressore aggredito, che pratica il terrorismo perche' ha diritto a
difendersi dal terrorismo?
*
Iraq, Afghanistan, Palestina, Libano... Fino a quando si potra' continuare a
sterminare paesi impunemente?
Le torture di Abu Ghraib, che hanno sollevato un qual certo malessere
universale, non sono niente di nuovo per noi latinoamericani. I nostri
militari hanno appreso quelle tecniche di interrogatorio nella School of
Americas, che oggi ha perso il nome ma non il vizio.
Fino a quando continueremo ad accettare che la tortura continui a
legittimarsi, come ha fatto la corte suprema di Israele, in nome della
legittima difesa della patria?
Israele ha ignorato quarantasei raccomandazioni dell'Assemblea generale e di
altri organismi delle Nazioni Unite. Fino a quando il governo israeliano
continuera' a esercitare il privilegio di essere sordo?
Le Nazioni Unite raccomandano, pero' non decidono. Quando decidono, la Casa
Bianca impedisce che decidano, perche' ha diritto di veto. La Casa Bianca ha
posto il veto, nel Consiglio di sicurezza, a quaranta risoluzioni che
condannavano Israele. Fino a quando le Nazioni Unite continueranno a
comportarsi come se fossero uno pseudonimo degli Stati Uniti?
Da quando i palestinesi sono stati cacciati dalle loro case e spogliati
della loro terra, e' corso molto sangue. Fino a quando continuera' a correre
il sangue perche' la forza giustifica cio' che il diritto nega? La storia si
ripete, giorno dopo giorno, anno dopo anno, e muore un israeliano ogni dieci
arabi morti. Fino a quando la vita di ogni israeliano continuera' a valere
dieci volte di piu'?
*
In proporzione alla popolazione, i cinquantamila civili, in maggioranza
donne e bambini, morti in Iraq equivalgono a ottocentomila statunitensi.
Fino a quando accetteremo, come se fosse normale, la mattanza degli iracheni
in una guerra cieca che ha ormai dimenticato i suoi pretesti? Fino a quando
continuera' ad essere normale che i vivi e i morti siano di prima, seconda,
terza o quarta categoria?
*
L'Iran sta sviluppando l'energia nucleare. Fino a quando continueremo a
credere che cio' basta a provare che un paese e' un pericolo per l'umanita'?
La cosiddetta comunita' internazionale non e' per nulla angustiata dal fatto
che Israele possieda 250 bombe atomiche, nonostante sia un paese che vive
sull'orlo di una crisi di nervi.
Chi gestisce il pericolosimetro universale? Sara' stato l'Iran il paese che
butto' le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki?
*
Nell'era della globalizzazione, il diritto di pressione e' piu' forte di
quello di espressione. Per giustificare l'occupazione illegale di terre
palestinesi, la guerra viene chiamata pace. Gli israeliani sono patrioti e i
palestinesi terroristi, e i terroristi seminano allarme universale. Fino a
quando i mezzi di comunicazione continueranno a seminare paura?
Questa mattanza, che non e' la prima e temo non sara' l'ultima, accade in
silenzio. Il mondo e' diventato muto? Fino a quando le voci
dell'indignazione continueranno a suonare come campane di legno? Questi
bombardamenti uccidono bambini: piu' di un terzo delle vittime, non meno
della meta'.
Chi si azzarda a denunciarlo e' accusato di antisemitismo. Fino a quando
continueremo ad essere antisemiti, noi che critichiamo il terrorismo di
stato? Fino a quando accetteremo questa estorsione? Sono antisemiti gli
ebrei che inorridiscono per quanto viene fatto in loro nome? Sono antisemiti
gli arabi, tanto semiti quanto gli ebrei? Per caso non ci sono voci arabe
che difendono la patria palestinese e ripudiano il manicomio
fondamentalista?
*
I terroristi si somigliano tra loro: i terroristi di stato, rispettabili
uomini di governo, e i terroristi privati, che sono matti singoli e matti
organizzati dai tempi della guerra fredda al totalitarismo comunista. E
tutti agiscono in nome di dio, si chiami Dio, Allah o Jahve'. Fino a quando
continueremo a ignorare che tutti i terrorismi disprezzano la vita umana e
che tutti si alimentano tra loro?
Non e' evidente che in questa guerra tra Israele e Hezbollah sono i civili -
libanesi, palestinesi, israeliani - quelli che ci mettono i morti?
Non e' evidente che le guerre di Afghanistan e Iraq e le invasioni di Gaza e
del Libano sono incubatrici di odio, fabbriche di fanatici in serie?
Siamo l'unica specie animale specializzata nello sterminio reciproco.
Destiniamo duemila e cinquecento milioni di dollari, ogni giorno, alle spese
militari. La miseria e la guerra sono figlie dello stesso padre: come
qualche dio crudele, mangia i vivi e anche i morti. Fino a quando
continueremo ad accettare che questo mondo innamorato della morte sia il
nostro unico mondo possibile?

5. ESPERIENZE. MARIA G. DI RIENZO: IL CAFFE' DELLE DONNE
[Da "Azione nonviolenta" di aprile 2006 (disponibile anche nel sito:
www.nonviolenti:org)]

Le mani di Rosa Catalina Sanchez si muovono metodicamente lungo il ramo,
mentre raccoglie le rosse bacche di caffe' nel cesto che porta attorno al
collo. Notando la destrezza e la forza che mette nel proprio lavoro, nessuno
direbbe che Rosa ha 66 anni. Glades Valencia, quattordicenne, sta facendo la
stessa cosa, e passa le mani fra i rami come se stesse pettinando dei
capelli.
Rosa e Glades rappresentano il lavoro di una vita, la vita dei coltivatori
di caffe' nel Peru' del nord. Molti agricoltori della regione hanno ottenuto
la certificazione per il commercio equo, tuttavia i loro guadagni restano
sempre al di sotto della media annua pro capite. 68.600 famiglie povere
producono circa il 49% del caffe' peruviano (quasi totalmente esportato).
Nelle societa' rurali a dominio maschile l'alto livello di poverta' si
traduce in problemi specifici per le giovani donne, che sono piu' spesso dei
giovani maschi mandate sui campi anziche' a scuola, e che vengono date in
spose gia' a dodici anni per alleviare il disagio economico familiare.
Rosa ha lavorato per anni dalle dieci alle dodici ore al giorno durante la
stagione del raccolto, e per anni ha ricevuto come compenso cio' che il
marito decideva di darle quando il caffe' era venduto. Le cooperative che
fanno riferimento al commercio equo sono state spesso un mondo di uomini
sostenuto dal sudore delle donne, ma le cose stanno cambiando in Peru', per
Rosa e Glades e per centinaia di donne come loro.
Nel 2003 oltre quattrocento coltivatrici decisero di lavorare insieme ad una
speciale varieta' di caffe'. La chiamarono "Caffe' femmina", perche'
attraverso di essa avrebbero suscitato consapevolezza internazionale sulla
cruda disparita' che affrontavano nelle loro vite quotidiane. Trovarono
l'aiuto di Isabel Uriarte Latorre, una donna peruviana che da molto tempo
assieme al marito sostiene le comunita' agrarie aiutandole ad organizzarsi
in cooperative e ad ottenere miglioramenti nelle infrastrutture comunitarie.
Ora sessanta importatori di caffe' del Canada, dell'Australia e degli Usa
pagano volentieri quei due centesimi in piu' alla libbra che andranno alla
Fondazione Caffe' Femmina, che produce miglioramenti economici nelle vite
delle donne. Nel contratto che devono firmare, infatti, c'e' la clausola che
essi pagheranno questi due centesimi alla Fondazione oppure li devolveranno
al Centro antiviolenza piu' vicino alla loro residenza.
"Le donne in Peru' sono viste tradizionalmente come lavoratrici e madri, non
come proprietarie della terra o come coloro che prendono decisioni",
racconta Isabel Latorre, "Si suppone che servano principalmente a fare
bambini. Le donne delle comunita' piu' povere raggiunte dal progetto "Caffe'
femmina' hanno in media sette figli". Per entrare nella cooperativa, una
donna deve dimostrare che il suo nome e' sui documenti di proprieta' della
terra che lavora, e poiche' tramite la cooperativa i guadagni sono piu'
alti, padri e mariti hanno trovato conveniente avere le donne al loro fianco
come proprietarie. Oggi queste donne si incontrano regolarmente al tramonto,
in cerchi di dialogo provvisti di una facilitatrice e gli uomini non glielo
stanno impedendo. Isabel Latorre dice che la diminuzione della violenza nei
rapporti fra i generi si nota a vista d'occhio: "Gli uomini hanno molto piu'
rispetto per loro. E ora le donne stanno parlando di frequentare le scuole,
di capire meglio l'andamento dei mercati, di organizzare seminari sui metodi
di coltivazione organica e sui loro diritti umani".
A Nuevo York, in Amazzonia, le donne della cooperativa si incontrano tutte
una volta all'anno. Appendono ovunque palloncini colorati, e le orchestrine
suonano musica da ballo. Attorno al cerchio di dialogo, quest'anno, c'erano
alcuni uomini in piedi con le braccia conserte, che mostravano un certo
cipiglio. Le donne sorridevano, come la bella e giovanissima Glades:
"Vogliamo che gli uomini beneficino del nostro progetto e ne siano
coinvolti. Ma dev'essere chiaro che per noi stesse le decisioni siamo noi a
prenderle".
Andate a trovarle, almeno virtualmente: www.cafefemeninofoundation.org

6. IRAN. MARINA FORTI INTERVISTA AKBAR GANJI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 luglio 2006.
Marina Forti, giornalista particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei
diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione, scrive per il
quotidiano "Il manifesto" sempre acuti articoli e reportages sui temi
dell'ecologia globale e delle lotte delle persone e dei popoli del sud del
mondo per sopravvivere e far sopravvivere il mondo e l'umanita' intera.
Opere di Marina Forti: La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati
ambientali nel Sud del mondo, Feltrinelli, Milano 2004.
Akbar Ganji, giornalista iraniano, attivista nonviolento per i diritti umani
e la democrazia, e' stato lungamente perseguitato e detenuto nelle carceri
del regime]

In Italia avremmo usato le parole "strage di stato" e "controinformazione".
Con una serie di articoli apparsi alla fine degli anni '90, un paio di
giornalisti iraniani indagava su alcuni misteriosi omicidi che si erano
susseguiti a meta' del decennio: erano chiamati i serial killings, casi
sempre archiviati come opera di ignoti. Le vittime erano scrittori e
intellettuali dissidenti. In un caso, nel 1998, erano stati uccisi marito e
moglie: Darius e Parvaneh Fohuar, e il loro funerale era diventato una sorta
di manifestazione di massa. Anche perche' in Iran quella era epoca di
cambiamenti: l'anno prima era stato eletto presidente Mohammad Khatami, un
religioso che parlava di liberta', di societa' civile e di riforme, e aveva
suscitato grandi aspettative. Uno dei primi effetti era stato il fiorire di
giornali indipendenti. Spesso chiudevano, per ordine della magistratura in
mano a correnti conservatrici del sistema (capo del tribunale per la stampa
era Saed Mortazavi, oggi Procuratore generale dello stato), ma poi ne
aprivano altri. Era sui giornali che si esercitava la critica: cosi' sono
diventati terreno dello scontro politico tra i "riformisti" che sostenevano
Khatami e i "conservatori" ai vertici dello stato. Con i nuovi giornali
circolavano piu' liberamente fatti e idee, e anche le denunce sui serial
killings.
Uno dei protagonisti di quel periodo e' Akbar Ganji. Negli articoli sui
Fohuar parlava di mandanti altolocati e chiamava in causa gli apparati di
sicurezza. Niente nomi e cognomi, ma i lettori riconoscevano nel "maestro
delle chiavi" l'ex ministro dei servizi segreti Ali Fallahian, nel "signore
dalla veste rossa" l'ex presidente Hashemi Rafsanjani, predecessore di
Khatami. Raccolti poi in un libro (L'eminenza rossa e l'eminenza grigia),
davano un quadro inquietante del potere nella Repubblica islamica. Le
rivelazioni erano tali che l'anno dopo, al processo per l'uccisione dei
Fouhar, il tribunale di Teheran ha finito per condannare il braccio destro
dell'ex ministro Fallahian (Said Emami, poi misteriosamente suicidato in
carcere). Non era mai successo in Iran: il sistema aveva dovuto ammettere
che uomini degli apparati di sicurezza erano responsabili di omicidi
politici (in Italia avremmo detto "elementi deviati dei servizi"?).
Gran parte dei giornalisti, studenti, editori, avvocati protagonisti di quel
periodo hanno pagato con la galera. Akbar Ganji, arrestato nella primavera
del 2000, e' stato scarcerato solo alla fine di marzo scorso. Nei sei anni
trascorsi in carcere ha continuato a dare battaglia, tra l'altro scrivendo
un "manifesto repubblicano" (e altri scritti regolarmente circolati).
L'estate scorsa ha effettuato due lunghi mesi di sciopero della fame in
carcere che lo hanno ridotto in fin di vita.
Ancora magrissimo, Akbar Ganji era in Italia il mese scorso, su invito del
Comune di Firenze e dell'Associazione per la liberta' d'espressione in Iran:
e' stata l'occasione per incontrarlo. Era entrato in carcere mentre l'Iran
era in piena "primavera" riformista: oggi il presidente e' Mahmoud Ahmadi
Nejad, espressione della corrente piu' fondamentalista dello stato; il
parlamento e' dominato dai conservatori, e un giornale indipendente resiste
a patto di non sfidare troppo la censura. "Allora incarceravano
intellettuali e giornalisti perche' i vertici del sistema erano spaventati,
sentivano minacciata la loro autorita'", risponde Ganji: "Ora i conservatori
occupano il potere e non ci sono mass media dove esercitare la critica. C'e'
internet, certo, ma non e' la stessa cosa".
Il regime, fa notare Ganji, "parla del programma nucleare come di una
questione nazionale e lascia intendere che ci sia un consenso unanime. Ma
non e' cosi': nella societa' e perfino nell'elite politica c'e' un forte
dissenso". L'impressione di unanimita' e' "propaganda ideologica", dice il
giornalista. A Teheran certo tutti sono convinti del buon diritto dell'Iran
a costruire le sue centrali nucleari civili, e anche ad arricchire uranio
per scopi civili e sotto il controllo dell'Onu. Ma poi molti si chiedono: le
centrali nucleari sono davvero una priorita' per l'Iran? Anche figure
interne all'establishment come l'ex presidente Rafsanjani, capo del
Consiglio per il discernimento delle scelte, criticano la strategia del
governo sul nucleare. "Solo una minoranza nel regime vuole andare avanti a
ogni costo, e in particolare la Guida suprema", avverte Ganji: "In effetti,
quando parla il presidente sappiate che sta parlando il Leader". Il regime,
spiega Ganji, continua a evocare il "nemico" per zittire la dissidenza: chi
critica il regime si fa strumento di potenze esterne, i giornalisti sono
agenti del nemico e minacciano la "sicurezza nazionale".
Un anno fa il giornalista, ancora in carcere, faceva appello a non votare
argomentando che il sistema non e' riformabile dall'interno. Oggi insiste:
"Le vie per la democrazia in Iran sono chiuse. I riformisti hanno commesso
l'errore di pensare che liberta', democrazia, diritti sono cose che si
ottengono col voto. Bisogna lottare per conquistarle, e pagarne il prezzo:
Khatami e i suoi non l'hanno fatto. Quali strade restano? Qualcuno chiede un
referendum sulla repubblica islamica: ma quasi tutto il potere e' in mano
alla Guida suprema e alle istituzioni che lui controlla, e' impensabile che
permettano quel referendum. Dobbiamo continuare con gesti di disobbedienza
civile, lotte di massa e nonviolente. Il regime potra' rispondere con la
violenza e la repressione: ma e' il prezzo da pagare".
Dopo la sconfitta pero' l'opposizione e' fragile. "In Iran c'e' una forte
opinione riformista: pero' sono tanti rivoli, mancano una dirigenza e una
struttura organizzata. I gesti di critica collettivi e organizzati attirano
una repressione violenta. E poi e' un movimento in cui convivono sinistra e
destra, religiosi e laici: servirebbe un fronte ampio con una direzione
collegiale. Prima o poi sara' la forza della realta' a unire l'opposizione".
Ganji pero' non vede cambiamenti a breve. "Nessuna dittatura apre spazi
senza pressione. E siamo noi, in Iran, che dobbiamo fare questa pressione.
In fondo, l'elezione di Khatami era il risultato di anni di battaglie su
tanti fronti: parlo di lavoro culturale, satira, cinema, insegnamento,
tasselli di un lavoro contro il modello unico voluto dal regime".

7. ESPERIENZE. MARIA G. DI RIENZO: UN BELLISSIMO VENERDI'
[Da "Azione nonviolenta" di maggio 2006 (disponibile anche nel sito:
www.nonviolenti:org)]

Il 24 ottobre 1975, il 90% delle donne islandesi si rifiuto' di lavorare,
cucinare o badare ai bambini. Il 1975 era stato proclamato "Anno delle
donne" dalle Nazioni Unite, ed un comitato formato da rappresentanti delle
piu' grandi organizzazioni femminili islandesi era incaricato di organizzare
eventi celebrativi. Durante una riunione del comitato, una donna chiese:
"Perche' non scioperiamo, semplicemente?". L'azione sarebbe stata un modo
forte di ricordare alla societa' il ruolo che le donne giocano nel
sostenerla con il lavoro in casa e fuori casa. L'idea fu dibattuta, ed alla
fine l'intero comitato acconsenti': solo, la parola "sciopero" venne
sostituita con "giorno di pausa". Le donne pensarono che messa cosi' la
questione sarebbe risultata meno disturbante per l'opinione pubblica e che i
datori di lavoro, che avrebbero potuto licenziare le donne per aver
scioperato, avrebbero avuto piu' problemi nel negare loro un giorno di
pausa. Nei giorni precedenti lo sciopero erano visibili ovunque gruppetti o
capannelli di donne, al caffe' o per la strada, che discutevano
animatamente.
A Reykjavik, il 24 ottobre, si radunarono piu' di 25.000 donne: un numero
notevole, se si pensa che l'intera popolazione islandese ammontava allora a
circa 220.000 persone. Ad ascoltare gli interventi, dibattere istanze e
cantare c'erano donne di tutte le eta', di ogni professione, di ogni classe
sociale. Alcune vennero indossando i loro abiti da lavoro, altre si
vestirono a festa per l'occasione. Scuole, negozi, fattorie, pescherie e
asili dovettero chiudere, o cercare di provvedere i consueti servizi con
meta' del personale.
Coloro che parteciparono a questo giorno speciale oggi ricordano soprattutto
il senso di appartenenza e comunita', la tranquilla determinazione che
pervadeva le partecipanti. Gerdur Steinthorsdottir, allora trentunenne e fra
le organizzatrici dell'evento dice che la risposta delle donne fu cosi' alta
perche' durante la preparazione esse erano state capaci di lavorare insieme,
a qualsiasi partito politico, organizzazione o sindacato aderissero.
Leggere oggi l'intervento di Adalheidur Bjarnfredsdottir, delegata del Sokn
(il sindacato che riuniva le donne dal reddito piu' basso) alla riunione del
1975, trasmette un brivido nella schiena: "Gli uomini hanno governato questo
mondo da tempi immemorabili, e che cos'e' oggi questo mondo?". Rispondendo
alla propria domanda, la sindacalista descrive un pianeta annegato nel
sangue, una terra inquinata e sfruttata sino a livelli irreparabili. Una
descrizione che sembra piu' vera che mai.
Nel frattempo gli uomini cercavano di venire a capo dalla confusa situazione
in cui si erano trovati: preoccupati non piu' di tanto per la sparizione
delle colleghe o delle mogli, dovevano pero' provvedere a bambini scatenati
che volevano accompagnare i padri al lavoro, ai piu' piccoli che non si
poteva lasciare da soli, e cosi' via. Ci fu un acquisto massiccio di matite
colorate, caramelle e salsicce gia' cotte dagli esercizi che erano ancora
aperti, e molti padri pagarono i figli piu' grandi perche' badassero ai
fratelli minori. Anche gli uomini islandesi ricordano benissimo quel giorno
che li lascio' esausti per carico di lavoro: fra di loro, lo chiamano ancora
"Il lungo venerdi'" o "Il venerdi' che non finiva mai".
L'azione, costruendo solidarieta' e consapevolezza fra le donne, apri' la
via cinque anni piu' tardi all'elezione della prima presidente eletta in uno
stato democratico, Vigdis Finnbogadottir: "Dopo il 24 ottobre", ricorda oggi
Vigdis, "le donne pensarono che era venuto il momento di una presidente
donna. Mi offrirono questa opportunita', ed io accettai di impegnarmi".
Trenta anni dopo lo storico sciopero, le donne islandesi riconoscono i
risultati raggiunti, ma provano anche un senso di amarezza per le troppe
cose che non sono cambiate. I loro salari, ad esempio, ammontano mediamente
solo al 64,15% di quelli degli uomini, a parita' di orario e qualifica. Ma
dall'esperienza hanno imparato molto: il 24 ottobre 2005 un gran numero di
esse ha ripetuto lo sciopero, lasciando il lavoro alle ore 2,08 del
pomeriggio, ovvero al momento in cui guadagnerebbero il 64,15% della paga se
avessero gli stessi stipendi degli uomini. Dalle cucine si sono portate
dietro padelle e pentole e per farsi ascoltare dalle autorita' e hanno
eseguito con esse un chiassoso e allegro concerto per le strade d'Islanda.

8. RIFLESSIONE. HOMI K. BHABHA: CONNESSI. A COSA?
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 maggio 2006 riprendiamo
l'anticipazione del testo dell'intervento di Homi K. Bhabha al Festival di
filosofia di Roma del giorno successivo. Dalla stessa fonte riprendiamo la
seguente notizia su Homi K. Bhabha: "Homi K. Bhabha e' nato a Mumbay nel
1949. Dopo la laurea a Mumbay, il dottorato a Oxford, ha insegnato
all'universita' di Londra e in diverse universita' americane. Attualmente e'
professore di lingua e letteratura inglese e americana alla Harvard
University. Homi Bhabha e' senza dubbio una delle voci piu' importanti
nell'ambito degli studi postcoloniali. Nei suoi saggi critica il "progresso"
come "unica misura del mondo" che registra il duro divario tra il
sovrasviluppato e il sottosviluppato, gli stereotipi occidentali sulle
culture altre, l'imposizione della lingua imperiale sui colonizzati.
Convinto che la lingua e' il punto critico dei conflitti e degli squilibri
legati al potere. Come Said, Spivak, Gilroy, Appadurai, Homi Bhabha offre
una visione dell'alterita', dei rapporti tra Oriente e Occidente e scardina
gli stereotipi razziali sedimentati dal colonialismo. In Nation and
Narration (Nazione e narrazione, Meltemi '97) sfida a trattare le nazioni
del terzo mondo come fossero un blocco omogeneo. Di Location of culture (I
luoghi della cultura, Meltemi 2001) Toni Morrison ha scritto: 'Bhabha
appartiene a quel piccolo gruppo di intellettuali che occupa le posizioni
piu' avanzate dell'indagine teorica sul rapporto tra letteratura e cultura.
Qualunque seria riflessione sulla ricerca postcoloniale/postmoderna non puo'
oggi prescindere da un confronto con il suo pensiero'"]

Ovunque viviamo, chiunque siamo, quando lo schermo del nostro televisore o
computer si illumina ci immergiamo nel mondo delle comunicazioni globali.
Siamo connessi. Ma connessi a cosa? La relazione tra connettivita'
tecnologica e connessione culturale e', sotto molti aspetti, il nodo
cruciale, il dilemma che definisce lo spazio problematico della cultura nel
mondo globale di oggi. Con i nostri I-Pod, i Blackberry e i telefoni mobili
che portiamo attaccati come tante protesi, entriamo in una rete connettiva
con persone che possono parlare lingue diverse e abitare in posti diversi,
ma con cui abbiamo in comune la stessa forma di comunicazione tecnologica.
L'icona del Mac Apple - il frutto perfetto a cui e' stato dato un gran
morso - e' il simbolo paradossale della nostra esistenza che ci ricorda la
nostra espulsione dal paradiso terrestre. La mela mangiata a meta' e' un
segno della stupefacente creativita' degli esseri umani, ma suggerisce anche
la fine dell'illusione di un'eta' di innocenza e perfettibilita'. Avendo
assaggiato il frutto proibito, abbiamo perso i miti rassicuranti di societa'
"faccia a faccia", comunita' omogenee, municipi dove possa svolgersi la vita
civica, che per lungo tempo hanno rappresentato il sogno delle culture
nazionali e degli stati sovrani. Se, come sostiene il giurista Larry Lessig,
oggi viviamo in "giurisdizioni multiple e disgiuntive", come dobbiamo
misurarci con questa incertezza sociale e indeterminatezza etica? Che
significa essere locali e globali allo stesso tempo?
*
Coloro che celebrano la rivoluzione della Information Technology e si
entusiasmano per il soft power dei mercati globali, annunciano che "la terra
e' piatta", e il campo da gioco e' piu' spianato che mai. Allo stesso tempo,
i "realisti" globali sostengono che il mondo e' entrato in un insolito e
terrificante "scontro di civilta'", causato da convincimenti incompatibili e
da valori contraddittori. I terroristi kamikaze che devono prepararsi per le
loro missioni spazzando via ogni traccia dell'Occidente dalle loro vite,
usano ancora le tecnologie occidentali per registrare il loro cammino verso
il martirio, e in una certo qual modo raggiungono la vita eterna perche' le
loro testimonianze sono ampiamente presenti sulla rete. I liberal
progressisti e aperti invocano i principi universali di liberta'
prescrivendo allo stesso tempo la democrazia delle cannoniere in tutto il
mondo. Quando i fautori del libero mercato e i terroristi si siedono gli uni
di fronte agli altri nella metropolitana di Londra - ed e' impossibile
distinguerli - ci troviamo davanti a un senso di incertezza e insicurezza
globale che getta un'ombra sull'ordine globale. Se stiamo assistendo a una
nuova alba, dobbiamo ricordarci che il crepuscolo non e' poi cosi' lontano.
Se la globalizzazione e' una trasformazione del mondo cosi' come lo
conosciamo, essa e' anche uno stato di transizione che scompagina i nostri
modi di conoscere il mondo in cui viviamo. I toni fortemente razzisti
associati al dibattito sul velo (hijab) in Francia sono pervasi da un
livello di indignazione e di ansia tale da far pensare che le invasioni
barbariche siano arrivate alla porta della democrazia. Questo avviene
perche' non sappiamo con certezza se il "diritto" di indossare il velo in
istituzioni pubbliche e finanziate dallo stato violerebbe il logoro
principio della cittadinanza che collega il singolo individuo allo stato.
Nessuna discussione su cosa significhi indossare il velo nel suo contesto
sociale d'origine ci aiuterebbe in questo caso. Perche' la questione e' come
il significato di questi simboli e' traslato o trasformato quando essi
divengono parte della vita quotidiana in un'aula scolastica francese. Come
sarebbe ridisegnata la linea, importante eppure enigmatica, che divide la
sfera della vita pubblica da quella della vita privata? Quand'e' che il
rituale religioso diventa un costume culturale per trasformarsi poi in una
rivendicazione politica? In quali modi il libero arbitrio dell'individuo
deve essere influenzato dai diritti dei gruppi e dalle sensibilita'
collettive tra le minoranze o le popolazioni svantaggiate?
*
Le lingue della riforma costituzionale e del razionalismo politico sono
prive di un vocabolario che affronti le questioni che toccano la vita
emotiva dei cittadini - i loro sentimenti di ansia, di ambivalenza, di
incertezza, di indecisione - nel momento in cui valutano scelte sociali e
politiche. Queste sono passioni difficili, scomode, della vita politica che
non sono facilmente classificabili come virtu' pubbliche. E tuttavia, sono
queste reazioni emotive a generare un senso di contingenza e confusione tra
i cittadini che non sentono semplicemente di vivere tra stranieri nei mondi
locali-globali in cui conviviamo, quanto piuttosto di essere divenuti
stranieri a se stessi: alcune volte, stranieri esultanti rapiti dalla
scoperta della diversita'; altre volte, destabilizzati e privati di una
casa. Molto spesso, entrambe le cose contemporaneamente.
Un rinnovato senso di appartenenza civica in una eta' globalizzata richiede
una lingua di interpretazione interculturale oltre che la prosa orientata
dalle politiche dell'integrazione sociale. Dev'essere una lingua ricca di
potenza immaginativa e metaforica; una lingua che lentamente si evolva verso
un senso di consenso o comunita' - nazionale, regionale, globale - riuscendo
a sostenere la rappresentazione pubblica dei conflitti sociali e delle
contraddizioni politiche. Ma deve anche essere una lingua capace di
rappresentare (e interpretare) le emozioni piu' oscure dell'esclusione,
dell'umiliazione, della vergogna, della perdita; e deve essere una lingua
capace di interpretare e spiegare le ambivalenze emotive che le persone
sperimentano quando sono soggette ai processi disorientanti della
transizione globale.
*
Per agire nell'interesse nazionale, da una prospettiva globale, bisogna
essere aperti a tradurre le culture e le storie in modi che rendano
possibile riconsiderare e rivedere le storie che ci sono piu' familiari, le
storie della nostra gente e del nostro paese d'origine, dal punto di vista
di coloro che possono non essere nostri compatrioti, ma fanno parte della
popolazione di un mondo che sara' trasformato attraverso quegli atti con cui
lottiamo per ottenere la nostra cittadinanza. E' la scoperta delle passioni
transnazionali - per la pace, per la giustizia, per i diritti, per
l'eguaglianza - a renderci capaci di rapportarci a un mondo che e' soggetto
esso stesso a un processo rapido di transizione culturale e tecnologica.
Questo ci impone di tradurre le nostre idee e convinzioni piu' care - le
cose di cui viviamo, i sogni per cui moriamo - nella lingua di un nuovo
ordine globale.
*
E' pero' dal pieno della turbolenza delle guerre, delle occupazioni, delle
segregazioni, degli sfratti, che io parlo oggi. E tuttavia oso sperare che
da una simile distruzione, da una simile dislocazione possa emergere alla
fine un progetto per vivere con frontiere condivise e storie incrociate. Se
l'oppressione e la distruzione possono far cadere i muri e distruggere le
frontiere, perche' in tempo di pace quei cancelli non possono restare
aperti, quegli spazi essere ripopolati? E', temo, la tragedia dei nostri
tempi che l'ostilita' ci faccia approssimare ai nostri vicini - in un
abbraccio mortale -, piu' di quanto non sembri fare l'ospitalita'.
La porta della storia non e' ne' aperta ne' chiusa; e' nostra comune
responsabilita' varcare questa soglia per dare vita a un'era di sicurezza
globale e solidarieta' umana.

9. ESPERIENZE. MARIA G. DI RIENZO: PARIHAKA
[Da "Azione nonviolenta" di giugno 2006 (disponibile anche nel sito:
www.nonviolenti:org)]

C'e' un villaggio, in Nuova Zelanda, che si chiama Parihaka. Ogni anno vi si
tiene un Festival internazionale della pace. Parihaka si e' formato
artificialmente, per cosi' dire, in seguito alle confische delle terre
abitate precedentemente dai Maori ed alla loro conseguente migrazione
interna.
Nel 1870, Parihaka era il villaggio maori piu' grande del paese ed era
divenuto il rifugio principale per i profughi e gli spossessati di qualsiasi
genere. Dieci anni dopo, fu il teatro di una delle peggiori violazioni dei
diritti umani subite da questo popolo, il culmine di una campagna di
repressione che aveva gia' condotto ai lavori forzati, indefinitamente e
senza processo, centinaia di persone.
Il 5 novembre 1881, una milizia armata di 1.500 uomini, affiancata da
irregolari assoldati dai proprietari terrieri europei, invase Parihaka. Due
eminenti figure, due uomini esplicitamente dediti all'azione nonviolenta, i
cui nomi erano Te Whiti o Rongomai e Tohu Kakahi guidarono la resistenza.
Entrambi volevano instaurare buone relazioni fra i due gruppi, sostenuti dai
loro convincimenti spirituali che derivavano sia dalle tradizioni
ancestrali, sia dai piu' recenti insegnamenti cristiani. Da tempo i Maori
avevano deciso che l'uso delle armi e della violenza non avrebbero portato
alcuna soluzione, ed avevano chiamato il governo coloniale a rispondere sul
piano giuridico, proclamando l'illegalita' delle guerre, della confisca
delle terre, delle politiche punitive a cui erano soggetti.
Il giorno dell'invasione, piu' di duemila abitanti del villaggio sedettero
quietamente mentre i bambini andavano a salutare l'esercito. Al popolo di
Parihaka fu letto l'atto governativo contro le sommosse, ed un'ora piu'
tardi Te Whiti e Tohu furono condotti ad un processo farsa, ed incarcerati.
La distruzione del villaggio comincio' immediatamente: ci vollero due
settimane per abbattere tutte le case, e due mesi per estirpare le
coltivazioni. Migliaia di capi di bestiame vennero uccisi e confiscati.
Donne e ragazze Maori vennero sistematicamente stuprate, dando inizio ad
un'epidemia di sifilide nella comunita'. Al posto del villaggio sorse un
fortino che ospitava un'ottantina di soldati: l'occupazione militare di
Parihaka, che duro' cinque anni, era cominciata.
Ma la gente di Parihaka continuo' a fare cio' che aveva fatto in precedenza,
ovvero a chiamare al dialogo i propri oppressori. Il villaggio aveva infatti
stabilito una data ricorrente (il diciottesimo giorno di ogni mese, in una
sorta di rovesciamento della memoria del 18 marzo 1860, data di inizio della
prima guerra nel loro territorio) in cui invitava i coloni europei a sedere
nel proprio cerchio di dialogo. Con il ritorno di Te Whiti o Rongomai e Tohu
Kakahi dal carcere, nel 1883, questi incontri ripresero con regolarita',
mentre lentamente e testardamente gli abitanti del villaggio ricostruivano
tutto: case, stalle, coltivazioni. Te Whiti fu arrestato di nuovo nel 1886,
e rilasciato due anni dopo.
Parihaka aveva adottato il suo convincimento che la tecnologia europea, se
adottata insieme a quella Maori, poteva essere usata per arrivare alla
stabilita' ed alla pace, ed alla costruzione di una nuova grande societa':
nel 1890, i Maori avevano fatto di Parihaka l'insediamento urbano piu'
avanzato del paese, con case in cui vi era acqua corrente calda e fredda,
illuminazione stradale, bonifica dei terreni. E il 18 di ogni mese
continuavano a sedere insieme, e a parlare con i soldati. La resistenza
nonviolenta del villaggio era fonte di imbarazzo per l'intero paese, eccetto
che per coloro che vi appartenevano.
Nel 1898 l'ultimo dei deportati di Parihaka fece ritorno a casa. Nel 1907,
sia Te Whiti che Tohu morirono. Le violazioni contro i Maori non cessarono
nel secolo successivo, deprivandoli di ogni acro di terreno coltivabile,
eppure Parihaka continuava ad esistere, a vivere, a riunirsi pacificamente e
ad invitare chiunque lo volesse a discutere insieme. Gandhi e King
visitarono Parihaka e riconobbero i due leader, Te Whiti e Tohu, come "padri
dell'azione nonviolenta". Parihaka e' ancora oggi il luogo in cui al
diciottesimo giorno di ogni mese la comunita' si riunisce, condivide cio'
che ha appreso, trasmette la tradizioni maori, pratica l'armonia con la
terra e fra esseri umani. Un luogo in cui, come scrisse Te Whiti o Rongomai
ne L'eredita' di Parihaka, ognuno e' "il frutto di uno sforzo verso la
giustizia, e un'erba che guarisce".

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1370 del 28 luglio 2006

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