Nonviolenza. Femminile plurale. 74



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 74 del 27 luglio 2006

In questo numero:
1. Maria G. Di Rienzo:; Arrestata Medea Benjamin
2. Svetlana Aleksievic: Da "Ragazzi di zinco"
3. Elena Buccoliero intervista Pat Patfoort
4. Ingeborg Bachmann: Tutti i giorni
5. Simone Weil: Quasi sempre

1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: ARRESTATA MEDEA BENJAMIN
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005.
Medea Benjamin vive a S. Francisco, e' fondatrice e direttrice di Global
Exchange e co-fondatrice del gruppo pacifista femminista "Codepink". Opere
di Medea Benjamin: (a cura di, con Jodie Evans), Stop the Next War Now:
Effective Responses to Violence and Terrorism, Inner Ocean Publishing]

Ieri mattina, 26 luglio, il primo ministro iracheno Nouri al-Maliki e'
intervenuto ad una sessione congiunta del Congresso a Washington. Mentre il
primo ministro diceva che le dita macchiate d'inchiostro (per
l'identificazione a fini elettorali) degli iracheni testimoniano il
desiderio di democrazia nel suo paese, Medea Benjamin, cofondatrice di
Codepink, si e' alzata in piedi nella galleria riservata agli spettatori ed
ha gridato: "Gli iracheni vogliono che i soldati se ne vadano, portateli a
casa adesso! Ascoltate gli iracheni!". La donna ha ripetuto il suo invito
parecchie volte, prima di essere letteralmente sollevata, ammanettata e
condotta fuori dalla polizia.
Medea Benjamin, cinquantaquattrenne, e' attualmente al ventitreesimo giorno
del digiuno collettivo organizzato da Codepink e chiamato "Troops Home
Fast". L'accusa di cui dovra' rispondere e' di aver ostacolato i lavori del
Congresso: se le verra' consegnata una semplice citazione o se dovra'
attendere il processo in carcere non e' ancora stato deciso.
Il suo intervento e' la conseguenza dei due giorni di richieste, da parte
dei digiunatori, di poter incontrare il primo ministro iracheno. Sin
dall'arrivo di Nouri al-Maliki, una lettera era stata consegnata
all'ambasciata irachena: in essa la proposta di discutere insieme un piano
di riconciliazione che include il ritiro scaglionato delle truppe
statunitensi.
Medea, assieme ad altri digiunatori, era rimasta ad attendere la risposta
davanti all'ambasciata appunto per due giorni.
La sera del 25 luglio, la polizia ha ordinato di togliersi dal marciapiede,
in previsione dell'arrivo del primo ministro. In cinque hanno rifiutato di
farlo, rischiando l'arresto. L'ambasciatore iracheno ha parlato
personalmente al telefono con Medea, assicurandole che se tutti i
digiunatori se ne fossero andati, il primo ministro avrebbe parlato con lei
e con Cindy Sheehan quella sera stessa. Le due donne avevano anche accolto
l'invito dell'ambasciatore a terminare il digiuno in cambio del colloquio.
Per qualsiasi problema, l'ambasciatore le avrebbe chiamate per tempo.
Tuttavia, il primo ministro e' arrivato e ripartito dall'ambasciata senza
che l'accordo fosse mantenuto. A Medea, che aveva tentato comunque di
entrare all'ambasciata, e' stato rifiutato l'ingresso.

2. TESTIMONIANZE. SVETLANA ALEKSIEVIC: DA "RAGAZZI DI ZINCO"
[Dal sito dell'Universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo i seguenti brani estratti da uno
dei libri piu' intensi di Svetlana Aleksievic, Ragazzi di zinco, nella
traduzione di Maria Nadotti (traduzione non dall'originale ma dalla
traduzione inglese). Nel sito il testo (alcune pagine tratte dal suo Boys in
Zinc, 1990, riprese dal volume The Best of Granta Reportage, tr. dal russo
di Arch Tait, Granta Books in association with Penguin Books, Londra 1993)
e' apparso per gentile concessione di Svetlana Aleksievic, con l'avvertenza
che "questi testi sono usciti sul mensile 'Lo straniero', a cui Svetlana
Aleksievic li ha con generosita' destinati". Ragazzi di zinco e' stato
successivamente pubblicato in traduzione italiana (ovviamente dall'originale
russo) presso le benemerite Edizioni e/o di Roma.
Il testo che riportiamo presenta, nel riferire una conversazione, alcune
espressioni di feroce turpiloquio: derogando per una volta dal rigido
principio di non accogliere nel nostro notiziario parole volgari, in
considerazione del valore testimoniale (e della qualita' anche letteraria
nel senso piu' alto del termine) di queste pagine, abbiamo riprodotto - dopo
aver lungamente esitato - quelle espressioni tali e quali: ne chiediamo
venia a chi legge, crediamo che non fosse lecito in questo caso ne'
censurare ne' attenuare.
Dal medesimo sito riprendiamo anche le ulteriori notizie, avvertendo che in
esse, come del resto anche nella traduzione con effetti fin bizzarri,
traspare la fonte - riflessa - in lingua inglese: "La scrittrice bielorussa
Svetlana Aleksievic, di cui la casa editrice e/o ha pubblicato Preghiera per
Cernobyl', e' un'autrice conosciuta e ammirata in tutto il mondo. I suoi
testi - The War's Unwomanly Face, Last Witnesses, Zinky Boys, Enchanted with
Death, Preghiera per Cernobyl' e tre opere teatrali - sono stati finora
tradotti in diciassette lingue e pubblicati ovunque con grande successo di
critica e di pubblico (dato alle stampe nel 1997, il suo libro su Chernobyl
ha venduto oltre cinquantamila copie in Francia e due milioni di copie
soltanto in Russia). Per la sua opera Aleksievic ha ricevuto vari e
prestigiosi riconoscimenti internazionali: il Pen svedese 'per il suo
coraggio e la sua dignita' di scrittrice'; il premio Andrei Sinyavsky 'per
la sua nobilta' di spirito'; il russo Triumph; il premio Leipzig 'Per la
comprensione intereuropea' 1998; il francese 'Temoin du monde'1999; l'Herder
e il premio 'per il miglior libro politico' tedeschi. La metodologia
adottata da Aleksievic e' assolutamente originale. Come lei stessa dice: 'Ho
cercato un metodo letterario che mi permettesse di accostarmi quanto piu'
possibile alla vita reale. La realta' mi ha sempre attirata come una
calamita, torturandomi e ipnotizzandomi. Volevo catturarla sulla pagina e
alla fine ho scelto un "genere" che tiene insieme la viva voce di uomini e
donne, confessioni, testimonianze oculari e documenti. E' il mio modo di
sentire e vedere il mondo - come un coro di voci individuali e un collage di
dettagli quotidiani. Il mio occhio e il mio orecchio funzionano cosi'. In
questo modo tutto il mio potenziale mentale e emotivo trova piena
realizzazione. Non posso fare a meno di essere allo stesso tempo scrittrice,
reporter, sociologa, psicologa, sacerdote'. Il riferimento alla tradizione
letteraria russa e in particolare a Tolstoj e' del resto esplicito. 'Seguire
il corso della vita', ama dire la scrittrice, citando quello che considera
un suo maestro, 'e' assai piu' interessante che inventarla'. Le opere di
Aleksievic sono una vera e propria cronaca della nostra epoca, il tracciato
evolutivo di varie generazioni sovietiche, dall'infatuazione e dal
disincanto di fronte alla grande utopia al disorientamento del cittadino
post-sovietico davanti al suo crollo e alla nuova realta'. La storia nel suo
farsi viene 'riferita' da donne e uomini comuni. Compito di chi scrive e'
restituirla con assoluta onesta' e lucidita', senza sovrapporsi ai propri
informatori e senza mai dimenticare il debito di fiducia che si e' contratto
nei loro confronti. Nata nel 1948 in un villaggio della Bielorussia,
Aleksievic si e' laureata in giornalismo presso l'Universita' di Minsk e,
prima di scegliere definitivamente la strada del reportage di ampio respiro
e della scrittura per il teatro, ha lavorato per varie testate
giornalistiche. In Francia, Germania, Svezia e Bulgaria i suoi libri sono
stati adattati per il teatro e portati sulla scena, mentre dai suoi drammi
teatrali sono stati finora ricavati ventuno film documentari. Amata da
lettrici e lettori e invisa all'establishment politico e amministrativo
dell'ex-Unione sovietica, dopo il successo di The War's Unwomanly Face
Aleksievic e' stata accusata di 'pacifismo' e 'di aver dipinto a tinte non
sufficientemente eroiche la donna sovietica'. Fino all'avvento della
perestroika l'autrice ha vissuto anni durissimi di persecuzione. E' nel
1989, tuttavia, con il reportage Zinky Boys (sulla guerra tra Urss e
Afghanistan vista attraverso gli occhi dei protagonisti), che Aleksievic
deve affrontare il periodo piu' cupo della sua vita professionale. Accusata
di disfattismo, viene denunciata e portata in tribunale. La salvera' la
mobilitazione degli intellettuali democratici russi e bielorussi e di varie
organizzazioni internazionali per i diritti umani, che si schiereranno al
suo fianco e bloccheranno l'azione legale intentata contro di lei. Nel 1993
l'autrice pubblica Enchanted with Death, un grande requiem sulla fine
dell'utopia e sullo smarrimento di chi, non sapendo ripensarsi fuori dalla
cornice del socialismo reale, sceglie di sottrarsi all'ignoto del nuovo
attraverso il suicidio. Nel 1997 Aleksievic da' alle stampe Preghiera per
Cernobyl': Cronaca del futuro, un amoroso, monumentale oratorio sul
'dopo-disastro' e sul 'popolo di Cernobyl', vale a dire tutti noi,
un'umanita' scampata alla morte ma non alla mutazione irreversibile del
senso del tempo e della percezione del proprio corpo e dell'universo fisico
nel suo complesso. Oggi Svetlana sta scrivendo un nuovo libro, The Wonderful
Deer of the Eternal Hunt, a tema sull'amore. Interrogando donne e uomini
dell'ex-Urss sulle loro esperienze sentimentali e amorose, l'autrice chiede
e si chiede 'chi siamo, cosa siamo diventati, in che paese viviamo?'.
Sussurrate, meste, sincere e pudiche, le voci dei suoi interlocutori
ripercorrono a ritroso la storia del secolo che ci siamo appena lasciati
alle spalle, dimostrando che privato e politico costituiscono un unico e
indissolubile nodo refrattario ad essere trattato solo con le armi della
ragione, della forza o della volonta'. Dall'anno scorso Aleksievic vive a
Pontedera, ospite di una delle citta'-rifugio coordinate dal Parlamento
europeo degli scrittori" (nota a cura di Maria Nadotti).
Svetlana Aleksievic (1948), giornalista e scrittice, e' autrice di
libri-inchiesta (ma di straordinaria qualita' letteraria nell'adesione alla
verita' e nella fedelta' alle voci e ai volti dei testimoni) pubblicati e
apprezzati in molti paesi; tra essi: La guerra non ha un volto femminile
(1985), sulle donne-soldato sovietiche nella seconda guerra mondiale;
Ragazzi di zinco (1991), sulla guerra afghana vista con gli occhi dei reduci
sovietici e delle madri dei caduti; Incantati dalla morte (1993), sui
suicidi causati dal crollo dell'Urss; Preghiera per Cernobyl (1997), che
raccoglie testimonianze sugli effetti della catastofe atomica del 1986.
Opere di Svetlana Aleksievic disponibili in italiano: Preghiera per
Cernobyl, Edizioni e/o, Roma 2002, 2004; Ragazzi di zinco, Edizioni e/o,
Roma 2003; Incantati dalla morte, Edizioni e/o, Roma 2005.
Maria Nadotti, giornalista, saggista, traduttrice, consulente editoriale,
scrive di teatro, cinema, arte e cultura per molte testate italiane e
straniere, ed ha promosso varie attivita' culturali e di solidarieta'. Tra
le opere di Maria Nadotti: Silenzio = morte. Gli Usa nel tempo dell'Aids,
Anabasi, 1994; Nata due volte, il Saggiatore, Milano 1995; Cassandra non
abita piu' qui, La Tartaruga, Milano 1996; Sesso & Genere, il Saggiatore,
Milano 1996; Scrivere al buio, La Tartaruga, Milano 1998. Con traduzioni,
interviste, curatele delle edizioni italiane, ha dato un utilissimo
contributo a far conoscere autori ed autrici, opere e tematiche, di
fondamentale importanza]

Nel 1986 decisi che non avrei mai piu' scritto di guerra. Per molto tempo,
una volta concluso il mio La guerra non ha una faccia di donna, non ero
riuscita a reggere alla vista di un bambino che perde sangue dal naso.
Immagino che ognuno di noi abbia una soglia che lo protegge dal dolore; la
mia era stata superata.
Due furono gli avvenimenti che mi fecero cambiare idea.
Ero al volante della mia auto, diretta a un certo villaggio, e detti un
passaggio a una studentessa. Era andata a fare compere a Minsk, e aveva con
se' una sporta da cui sporgevano delle teste di pollo. In paese trovammo sua
madre, in piedi in lacrime sul cancello del giardino. La ragazza corse verso
di lei.
La madre aveva ricevuto una lettera dal figlio Andrey. La lettera veniva
dall'Afghanistan. "Lo riporteranno indietro come hanno riportato Ivan, il
figlio di Fyodorina", disse, "e scaveranno una fossa per mettercelo dentro.
'Mamma, non e' fantastico! Sono un paracadutista...'".
E poi ci fu un altro incidente. Un ufficiale dell'esercito, la valigia
stretta al fianco, aspettava seduto nella sala d'attesa semivuota della
locale stazione degli autobus. Con lui c'era un ragazzo esile e con i
capelli a spazzola che, servendosi di una forchetta da tavola, continuava a
scavare dentro il vaso di una pianta di plastica. Due donne di campagna gli
si sedettero accanto e gli domandarono chi fossero. L'ufficiale disse che
stava scortando un soldato semplice che aveva perso la ragione. "Da quando
siamo partiti da Kabul non ha mai smesso di scavare, con qualsiasi cosa gli
venga a tiro, una forchetta, un bastone, una penna stilografica". Il ragazzo
alzo' lo sguardo. Le sue pupille erano cosi' dilatate che gli occhi ne
sembravano invasi.
All'epoca si continuava a parlare e a scrivere del nostro dovere
internazionalista, degli interessi dello stato, dei nostri confini
meridionali. I censori si assicuravano che i resoconti di guerra non
facessero menzione delle perdite che stavamo subendo. Che nelle capanne
delle nostre zone rurali stessero arrivando le notifiche di morte e che le
bare di zinco regolamentari andassero allineandosi in edifici prefabbricati
non erano altro che voci. Non intendevo scrivere di nuovo di guerra, ma mi
ci ritrovai in mezzo.
Nei tre anni successivi parlai con molte persone, a casa e in Afghanistan.
Ogni confessione era come un ritratto. Non si tratta di documenti, ma di
immagini. Stavo tentando di costruire una storia dei sentimenti, non della
guerra in se'. Cosa pensano le persone? Cosa le rende felici? Quali sono le
loro paure? Cosa resta impresso nella loro memoria?
La guerra in Afghanistan e' durata il doppio della seconda guerra mondiale,
ma ne sappiamo solo quanto hanno voluto farci sapere. Non e' piu' un segreto
che ogni anno, per dieci anni, 100.000 soldati sovietici sono stati mandati
a combattere in Afghanistan. Ufficialmente ne sono stati uccisi o feriti
50.000. Se volete, potete credere a questa cifra. Sappiamo tutti come
funzionano le contabilita' dalle nostre parti. Non abbiamo ancora finito di
contare e seppellire tutti i morti della seconda guerra mondiale.
Nelle pagine che seguono, non ho chiamato nessuno con il suo vero nome. C'e'
chi mi ha chiesto di rispettare il segreto della confessione, e altri che
sento di non poter esporre a una caccia alle streghe. Siamo ancora cosi'
vicini alla guerra che nessuno ha dove nascondersi.
Una notte sono stata svegliata dallo squillo del telefono.
"Senti", ha attaccato senza qualificarsi, "Ho letto la tua spazzatura. Se
pubblichi anche solo un'altra parola...".
"Chi parla?".
"Uno dei ragazzi di cui stai scrivendo. Dio, come odio i pacifisti! Hai mai
scalato una montagna in tenuta da marcia? Mai stata su un mezzo blindato per
il trasporto dei soldati con una temperatura di settanta gradi? Col cazzo
che ci sei stata. Vaffanculo! E' roba nostra! Vaffanculo tu e tutto quello
che ti riguarda".
Gli ho chiesto di nuovo chi parlasse.
"Lascia perdere, hai capito! Il mio migliore amico - per me era come un
fratello - me lo sono riportato indietro da un'incursione dentro a un sacco
di plastica. Lo avevano scuoiato, gli avevano mozzato la testa, le braccia,
le gambe, gli avevano tagliato l'uccello... Lui ne avrebbe potuto scrivere,
tu no. La verita' era in quel sacco di plastica. Vaffanculo tu e tutti
quelli come te!".
E ha riattaccato; il suono nella cornetta come un'esplosione.
Poteva essere il piu' importante dei miei testimoni.
*
Un soldato semplice
Il solo addestramento che ricevemmo prima di fare giuramento fu che un paio
di volte ci portarono al poligono di tiro. La prima volta ci fecero fare
nove tiri al bersaglio a testa; la seconda ci fecero lanciare una granata.
Ci misero in fila sulla piazza e ci lessero gli ordini: "Andrete nella
Repubblica democratica dell'Afghanistan a compiere il vostro dovere
internazionalista. Chiunque non voglia andarci, faccia due passi avanti".
Tre ragazzi lo fecero. Il comandante dell'unita' li ricaccio' in riga con un
calcio nelle reni. "Giusto per controllare il morale". Ci dettero la razione
per due giorni e una cintura di cuoio, ed eccoci in ballo. Nessuno ci disse
una sola parola. Il volo sembrava non dovesse finire mai. Dal finestrino
vedevo le montagne. Magnifico! Erano le prime montagne che vedevamo in vita
nostra. Venivamo tutti dai dintorni di Pskov, dove ci sono solo terreni
boscosi e radure. Atterrammo a Shin Dand. Ricordo la data: 19 dicembre 1980.
Mi dettero un'occhiata. "Un metro e ottanta: compagnia di ricognizione.
Sanno come impiegare ragazzi della tua taglia".
Andammo a Herat a costruire una base di tiro. Scavavamo e trasportavamo
pietre per le fondamenta. Ricoprii il tetto di tegole e feci qualche lavoro
di falegnameria. Alcuni di noi, prima di andare in combattimento, non
avevano mai sparato neanche un colpo. Avevamo fame tutto il tempo. In cucina
c'erano due tini da cinquanta litri: uno per la zuppa, l'altro per il
porridge di patate o orzo. Avevamo una scatoletta di sgombri ogni quattro
soldati, e l'etichetta diceva, "Data di confezione, 1956; da consumare entro
diciotto mesi". In un anno e mezzo, la sola volta che non ho avuto fame e'
stata quando mi hanno ferito. Altrimenti passavi il tempo a pensare come
procurarti qualcosa da mettere sotto i denti. La nostra voglia di frutta era
cosi' disperata che sgattaiolavamo negli orti degli afghani pur sapendo che
rischiavamo di farci sparare addosso. Chiedevamo ai nostri genitori di
infilare dell'acido citrico nelle lettere che ci spedivano, in modo da
scioglierlo nell'acqua e poterlo bere. Era cosi' acido che ci bruciava lo
stomaco.
Prima della nostra prima battaglia suonarono l'inno nazionale sovietico. Il
comandante politico aggiunto ci fece un discorso. Ricordo che ci disse che
avevamo battuto gli americani soltanto di un'ora, e che al nostro ritorno a
casa saremmo stati accolti da eroi.
Non avevo idea di come si facesse a uccidere. Prima di entrare nell'esercito
correvo in bicicletta. Non avevo mai assistito neanche a una rissa con un
vero coltello, ed eccomi la', in viaggio sul retro di un mezzo blindato che
trasportava le truppe. Non mi ero mai sentito come in quel momento: potente,
forte e sicuro. Le alture all'improvviso sembravano basse, i canali
d'irrigazione piccoli, gli alberi scarsi e radi. Dopo una mezz'ora ero cosi'
rilassato che mi sentivo come un turista che si guarda intorno in un paese
straniero.
Superammo un canale passando sopra un ponticello d'argilla: ricordo che mi
stupii che potesse reggere il peso di tante tonnellate di metallo.
All'improvviso ci fu un'esplosione e l'Apc venne centrato in pieno da un
lanciagranate. Stavano gia' portando via degli uomini che conoscevo, uomini
che sembravano animali di pezza con le braccia penzoloni. Non riuscivo a
capacitarmi di questo mondo nuovo e spaventoso. Sparammo tutti i nostri
mortai nella direzione da cui era venuto il colpo, numerosi mortai contro
ogni podere. Dopo il combattimento ci servimmo di cucchiai per raschiare via
la carne dei nostri stessi uomini dalla superficie metallica del nostro
blindato. Non avevamo nessuna piastrina di riconoscimento in caso di
incidente mortale; probabilmente volevano evitare che cadessero nelle mani
sbagliate. Era come nella canzone: Non abitiamo in una casa su una strada,
Il nostro indirizzo e' l'Urss. Cosi' ci limitammo a coprire i corpi con
un'incerata, una fossa comune. La guerra non era neppure stata dichiarata;
stavamo combattendo una guerra che non esisteva.
*
Una madre
Quando portarono nella stanza la bara di zinco, mi ci sdraiai sopra e
continuai a misurarla. Un metro, due metri. Mio figlio era alto due metri.
Misurai con le mie mani per essere sicura che la bara fosse della misura
giusta per lui. La bara era sigillata, cosi' non potei baciarlo un'ultima
volta, o toccarlo, non sapevo neppure come fosse vestito, continuai a
parlare alla bara come una pazza.
Dissi che volevo essere io a scegliergli il posto al cimitero. Mi fecero due
iniezioni, e ci andai con mio fratello. C'erano fosse "afghane" sul viale
principale.
"Mettete qui anche mio figlio. Sara' piu' contento in mezzo ai suoi amici".
Non riesco a ricordare chi ci fosse li' con noi. Qualche funzionario. Scosse
la testa. "Non abbiamo il permesso di seppellirli insieme. Devono essere
sparsi per il cimitero".
Dicono che in un caso abbiano riportato una bara a una madre, e che lei
l'abbia sepolta, e un anno dopo suo figlio sia tornato a casa vivo. Lo
avevano soltanto ferito. Io non ho mai visto il corpo di mio figlio, e non
gli ho dato il bacio dell'addio. Continuo ad aspettare.
*
Un'infermiera
Ogni giorno che passavo in quel posto mi dicevo che ero stata una pazza ad
andarci. Soprattutto di notte, quando non avevo nulla da fare. Durante il
giorno non facevo altro che pensare "Come faccio ad aiutarli tutti?". Non
riuscivo a credere che ci fosse gente capace di fabbricare i proiettili che
stavano usando. Chi se li era inventati? Il punto d'entrata era piccolo, ma
dentro, l'intestino, il fegato, la milza erano tutti squarciati e lacerati.
Come se non bastasse ucciderli o ferirli, bisognava sottoporli anche a
quella specie di agonia. Quando il dolore era forte o quando avevano paura,
invocavano sempre la madre. Non ho mai sentito nessuno invocare qualcun
altro.
Ci avevano detto che era una guerra giusta. Stavamo aiutando il popolo
afghano a mettere fine al feudalesimo e a costruire una societa' socialista.
Per qualche ragione non volevano ammettere che i nostri uomini stavano
morendo. Durante tutto il mio primo mese di servizio non fecero altro che
abbandonare le gambe e le braccia amputate ai nostri soldati e ai nostri
ufficiali, persino i loro corpi, proprio li' accanto alle tende. Se avessi
visto una cosa del genere nei film sulla guerra civile, avrei stentato a
crederci. Allora non c'erano bare di zinco: non si erano ancora decisi a
fabbricarle.
Due volte alla settimana ci facevano indottrinamento politico. Ci facevano
una testa cosi' con il nostro sacro dovere e con la necessita' di avere
confini inviolabili. Il nostro superiore ci ordinava di passare
l'informazione a ogni soldato ferito, a ogni paziente. Lo chiamavano
monitoraggio dello stato morale: l'esercito deve essere in buona salute! Non
dovevamo provare compassione. Ma noi provavamo compassione: era la sola cosa
che ci teneva insieme.
*
Un addetto stampa dell'esercito
Comincero' dal punto in cui tutto e' crollato.
Stavamo avanzando verso Jalalabad quando, in piedi sul bordo della strada,
trovammo una bimbetta di circa sette anni. Aveva un braccio schiacciato,
attaccato alla spalla solo per un filo, come se si trattasse di una bambola
di pezza sbrindellata. Aveva occhi neri come olive e li teneva fissi su di
me. Saltai giu' dal veicolo per prenderla tra le braccia e portarla dalle
nostre infermiere, ma lei scatto' indietro terrorizzata gridando come un
animaletto. Sempre gridando corse via, il braccino penzoloni che sembrava le
si dovesse staccare del tutto dal corpo. Le corsi dietro urlando, la presi e
me la strinsi al petto, accarezzandola. Mordeva e graffiava, tutta tremante,
come se l'avesse catturata un animale selvatico. Fu solo allora che il
pensiero mi colpi' come un fulmine: non credeva che la volessi aiutare;
pensava che la volessi uccidere. Il modo in cui era corsa via, il suo modo
di rabbrividire, la paura che aveva di me sono cose che non dimentichero'
mai.
Ero partito per l'Afghanistan con gli occhi splendenti di idealismo. Mi era
stato detto che gli afghani avevano bisogno di me, e io ci avevo creduto.
Finche' sono rimasto in Afghanistan non ho mai sognato la guerra, ma adesso
ogni notte sogno di rincorrere quella bimbetta dagli occhi come olive, e il
suo braccino penzola come se si dovesse staccare ad ogni istante.
Laggiu' il sentimento che provavamo nei confronti del nostro paese era
diverso. "L'Unione", la chiamavamo. Sembrava che dietro di noi ci fosse
qualcosa di grande e bello, qualcosa che avrebbe sempre preso le nostre
parti. Ricordo, pero', che una sera dopo un combattimento - avevamo subito
delle perdite, c'erano morti e feriti gravi - accendemmo la televisione per
distrarci, per vedere cosa succedeva nell'Unione. In Siberia avevano
costruito una nuova, gigantesca fabbrica; la regina d'Inghilterra aveva
organizzato un banchetto in onore di qualche vip; dei giovani di Voronezh
avevano stuprato due studentesse per il gusto di farlo; in Africa era stato
ucciso un principe. Il paese badava ai fatti suoi e noi ci sentimmo del
tutto inutili. Qualcuno spense la televisione, prima che la facessimo a
pezzi a pistolettate.
Era una guerra di madri. Ci erano dentro fino al collo. La popolazione nel
suo complesso non soffriva, non sapeva cosa stava succedendo. Le avevano
detto che stavamo combattendo contro dei banditi. In nove anni un esercito
regolare di 100.000 uomini non riusciva a sconfiggere un pugno di banditi
straccioni? Un esercito dotato della tecnologia piu' moderna (Dio aiuti
chiunque si sia trovato in mezzo a un bombardamento d'artiglieria con i
nostri lanciamissili Hail o Hurricane). I "banditi" avevano soltanto vecchie
mitragliatrici che avevamo visto nei film, gli Stingers e le mitragliatrici
giapponesi sono venute dopo. Quelli che facevamo prigionieri erano uomini
emaciati con mani grandi da contadini. Non erano banditi. Erano il popolo
dell'Afghanistan.

3. ESPERIENZE. ELENA BUCCOLIERO INTERVISTA PAT PATFOORT
[Da "Azione nonviolenta" di aprile 2006 (disponibile anche nel sito
www.nonviolenti.org) riprendiamo questa intervista li' apparsa col titolo
"Laboratori di nonviolenza in carcere. Capire le ragioni della violenza.
Rimarginare le ferite attraverso la consapevolezza, per cambiare".
Elena Buccoliero (per contatti: e.buccoliero at comune.fe.it), nata a Ferrara
nel 1970, collabora ad "Azione nonviolenta" e fa parte del comitato di
coordinamento del Movimento Nonviolento; lavora per Promeco, un ufficio del
Comune e dell'azienda sanitaria locale di Ferrara dove si occupa di
adolescenti con particolare attenzione al bullismo e al consumo di sostanze,
e con iniziative rivolte sia ai ragazzi, sia agli adulti; a Ferrara, insieme
ad altri amici, anima la Scuola della nonviolenza. E' autrice di diverse
pubblicazioni, tra cui il recente (con Marco Maggi), Bullismo, bullismi,
Franco Angeli, Milano 2005. Un piu' ampio profilo biobibliografico di Elena
Buccoliero e' nel n. 836 de "La nonviolenza e' in cammino"
Pat Patfoort, antropologa e biologa, e' impegnata nei movimenti nonviolenti
e particolarmente nella formazione alla nonviolenza. Dal sito del Centro
documentazione scuola dell'infanzia (www.centrodocumentazione.net)
riprendiamo la seguente scheda: "Antropologa fiamminga belga e' docente,
trainer e mediatrice a livello internazionale nel campo della trasformazione
e della gestione nonviolenta dei conflitto sulla base di un approccio
teorico da lei stessa elaborato; e' autrice di diversi libri e articoli,
tradotti in varie lingue; e' cofondatrice e direttrice del Centro per La
gestione nonviolenta del conflitto "De Vuurbloem" ("Il fiore di fuoco") a
Brugge-Bruges, in Belgio. Tiene lezioni e conferenze in molte Universita'
del mondo (Belgio, Italia, Olanda, Svezia, Spagna, Stati Uniti, Russia,
ecc.); lavora con una grande varieta' di gruppi sia a livello educativo (con
bambini, adolescenti, genitori, insegnanti, educatori), sia con adulti in
situazioni di conflitto (relazioni familiari, colleghi di lavoro,
prigionieri); ha svolto attivita' di facilitazione anche in progetti di
dialogo e riconciliazione tra gruppi etnici in conflitto, come in Caucaso,
Kossovo, Rwanda, Congo e Senegal; ha lavorato in collaborazione con i
quaccheri, con organizzazioni cattoliche come Pax Christi o la Caritas, con
istituzioni come l'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione
in Europa), il Consiglio d'Europa, il Ministero degli affari esteri belga e
le Nazioni Unite". Tra le opere di Pat Patfoort: Una introduzione alla
nonviolenza. Presentazione di uno schema di ragionamento, Edizioni del
Movimento Nonviolento, Verona 1988; Costruire la nonviolenza. Per una
pedagogia dei conflitti, La Meridiana, Molfetta (Bari) 1992; Io voglio, tu
non vuoi. Manuale di educazione nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino
2001; Difendersi senza aggredire. Il potere della nonviolenza, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 2006]

Pat Patfoort e' uno dei nomi piu' belli e piu' noti della nonviolenza
europea. E' una signora dolcissima e ridente, piena di grinta e ben persuasa
del suo pensiero. Le sue tracce si ritrovano in Cecenia, in Kossovo, in
Ruanda... nelle situazioni di conflitto piu' dure, piu' aspre, dove proporre
training che aiutino gruppi di entrambe le parti - di solito prima
separatamente e poi insieme - a riconoscere le ragioni dell'altro, la sua
umanita'.
Pat Patfoort e' anche impegnata da oltre 15 anni nella conduzione di gruppi
sulla nonviolenza, in diverse carceri del suo paese, il Belgio. Per una
volta le abbiamo chiesto di parlarci di questo aspetto, meno noto, della sua
azione per la nonviolenza. E come inizia a parlare dei carcerati, si
intuisce una vicinanza personale molto forte alle tante storie che ha
incontrato.
*
- Pat Parfoort: Il carcere e' una strategia adottata dalla societa' per
difendere se stessa, mettendo gli autori di reato in posizione minore. Ora,
io ammetto che chi ha determinati comportamenti possa avere bisogno di un
tempo di isolamento per pensare a quello che ha fatto, a come e' stato
possibile, a come avrebbe potuto agire diversamente. Questo pero' comporta
un intenso lavoro con le persone dei carcerati, ed anche con le guardie, o
con le persone la' fuori, perche' tutti oscillano tra le posizioni di
debolezza o di sopraffazione, tra minore e Maggiore come io sono solita
dire, ed anche i prigionieri tra loro ripropongono lo stesso modello
relazionale se non vengono aiutati a fare diversamente.
*
- Elena Buccoliero: La tua e' una critica radicale alla istituzione
carceraria, alle sue modalita'...?
- Pat Patfoort: Io credo ci siano diversi modi per consentire la riparazione
dei reati, e dovrebbero essere esplorati di piu'. Un tema su cui si riflette
e si sperimenta da tempo e' la ricostruzione di un rapporto tra vittima e
autore di reato, quando questo e' possibile, perche' entrambi possano
rielaborare cio' che hanno vissuto. Io dico ai carcerati che incontro: non
puoi piu' cambiare il passato; puoi solo scegliere di proseguire come prima,
in una posizione M o m, oppure puoi cercare l'equivalenza, il rapporto alla
pari con gli altri.
*
- Elena Buccoliero: La mediazione e' molto importante, ma credo richieda un
grosso percorso alle vittime.
- Pat Patfoort: Si', ma non soltanto a loro. Anche per chi ha commesso il
crimine e' molto difficile accettare di incontrare la propria vittima. Non
sono pronti. Per molti di loro il comportamento celava una difesa, un
desiderio di affermazione positiva o il bisogno di uscire da una posizione
minore - non e' raro, per esempio, conoscere uxoricidi che per anni erano
stati posti in posizione minore dalle loro mogli - l'errore sta in come una
spinta, legittima, viene tradotta in azione. Ogni volta che noi, ad un
bambino picchiato da un compagno, diciamo di "ridargliele indietro" stiamo
preparando un potenziale autore di reato. Si tratta di capire, e di
sperimentare, che affermare se stessi e' diverso dal prevaricare gli altri.
*
- Elena Buccoliero: E' diverso per te lavorare con autori di violenza
privata o politica?
- Pat Patfoort: I criminali non sono cattiva gente. Sono persone che hanno
fatto cose cattive. D'altra parte, io in tanti anni non ho mai conosciuto
persone veramente malvagie. Per i terroristi vale lo stesso discorso, ma io
ho bisogno di lavorare di piu' su me stessa per accostarmi a loro. Ricordo
bene il caso di un veterinario ucciso dalla mafia del mio paese cinque anni
fa, perche' si era rifiutato di pagare il pizzo. Questo caso mi aveva
toccato moltissimo. Era un eroe per me. Tempo dopo ho conosciuto in prigione
un certo Carl che sapeva tutto sul commercio delle armi. Un tipo simpatico,
intelligente. Come fai a sapere tante cose?, gli ho chiesto, e cosi' ho
scoperto che aveva scritto un libro sulle armi da fuoco. Bene, Carl aveva
venduto l'arma che aveva ucciso quel veterinario. Come e' stato possibile?,
mi sono chiesta. Ed ecco la storia: il padre di Carl e' morto quando lui era
solo un bambino, e' stato adottato da un mercante di armi. A dodici anni
sapeva tutto il possibile sulla merce del nuovo padre. Questa era l'unica
cosa che sapeva fare davvero bene. In prigione, alcuni anni piu' tardi, e'
diventato cosciente della propria storia.
*
- Elena Buccoliero: Si', ma non credi che in questo modo si finisca per
giustificare qualsiasi comportamento, anche il piu' crudele?
- Pat Patfoort: Ti racconto ancora una storia. Yussef era un ragazzo di 17
anni, nordafricano. Quando l'ho conosciuto era in carcere perche' aveva
ucciso una signora anziana per rubare in casa sua. Ascolta la sua storia.
Yussef veniva picchiato dal padre, non amato dai suoi familiari. Cercava
fuori casa l'affetto che non sentiva intorno a se'. Ha incontrato un gruppo
di amici e per la prima volta ha avuto la sensazione di essere parte di
qualcosa di piu' grande di lui, ma anche il gruppo lo ha posto in posizione
minore. Avrebbe fatto di tutto pur di essere accettato. "Scommetto che tu
non sei capace di rubare", gli hanno detto. E lui ha voluto dimostrare che
invece si', era un duro come gli altri. Entra nella casa dell'anziana
signora, gli altri fuori che lo aspettano. Yussef picchia questa signora,
lei si difende, lui la uccide. Come posso non piangere per la tragedia di
questa donna, per la tragedia di Yussef che a 16 anni ha rovinato la sua
vita quando voleva solo essere amato, voleva solo esistere per qualcuno? No,
non e' una scusa. Non ci sono giustificazioni per un omicidio, ma ci sono
delle ragioni che devono essere cercate, anche perche' questo ci permette di
lavorare sulla prevenzione.
*
- Elena Buccoliero: Come si svolgono i laboratori in carcere?
Tengo gruppi di nove persone e lavoro con loro per dieci settimane, due
volte alla settimana, con qualche altro incontro piu' avanti, di verifica
sul lavoro del gruppo.
*
- Elena Buccoliero: Che risultati hai riscontrato?
- Pat Patfoort: In genere ci sono illuminazioni repentine a cui seguono
delle ricadute, e poi delle lente riprese di ognuno dentro al proprio
percorso di vita. E' proprio come se inizialmente, quando spiego il modello
m-M, chi mi ascolta adottasse per la prima volta un'altra prospettiva e
scoprisse molte cose di se'. Poi il tempo passa e ognuno e' portato a
rientrare nella vita di sempre. E' allora che il cambiamento inizia davvero,
sempre con lo sguardo rivolto a quella piccola luce intravista
inizialmente...
*
- Elena Buccoliero: Immagino che i tuoi allievi possano avvicinarsi anche
per opportunismo: sconti di pena, permessi...?
- Pat Patfoort: I prigionieri vengono ai miei gruppi per scelta e la loro
prima motivazione e' poter mostrare il diploma del corso al giudice del
prossimo processo, per esempio di secondo grado, sperando che venga
diminuita la pena. A me tutto questo non interessa. Io chiedo la
partecipazione, e basta. Non m'importa del motivo iniziale per cui le
persone vengono al gruppo. Ho incontrato una volta un terrorista musulmano
che ha partecipato alle prime due sessioni e poi e' scomparso. Continuava a
dire che erano tutte stupidaggini. Beh, qualche tempo dopo e' ricomparso e
ha seguito tutto il percorso. Cio' che lo ha fatto ritornare, e' che non si
era sentito giudicato.
*
- Elena Buccoliero: E' necessario un lavoro su se stessi per relazionarsi
serenamente con persone che possono aver commesso anche reati davvero gravi?
- Pat Patfoort: Il percorso e' lungo per ognuno di noi. Trentacinque anni fa
a Bordeaux ho incontrato Lanza Del Vasto. Ricordo bene quel momento. Era
inverno, c'era poca gente. E' stato per me una fonte di grande ispirazione,
anche se poi non ho condiviso tutte le sue posizioni. Dopo di allora credo
di aver fatto tanto, per i miei bambini e mio marito, e poi per i miei
amici, le persone che ho intorno. Dopo qualche tempo ho cominciato a
chiedermi: quale influenza ho io? Ecco, credo che il passaggio fondamentale
sia stato proprio in questa acquisizione di consapevolezza.
*
- Elena Buccoliero: Generalmente il compito piu' difficile e' proprio con le
persone piu' vicine.
- Pat Patfoort: Lo so bene. Io sono cresciuta in posizione maggiore. Una
famiglia dell'elite francese, benestante, con ottime possibilita' di
istruzione. Per mio padre era tassativo "non sposare un fiammingo". Solo da
ragazza mi sono resa conto della mia storia, che era molto fortunata ma
anche molto dura, perche' per buona parte della mia vita sono stata
terrorizzata da mio padre, e cioe' in posizione minore davanti a lui. Me ne
sono accorta dopo la nascita del mio primo figlio, avevo gia' trent'anni, e
da quel momento ho deciso di compiere un percorso insieme a lui. Sono andata
a trovarlo da sola, spesso, per un paio d'anni. Per prima cosa gli ho
chiesto di parlarmi di lui, di come era cresciuto, di che cosa gli altri si
aspettavano da lui - e piano piano, con dolcezza perche' non si ritraesse,
sono riuscita a rivelargli quanto io fossi da sempre terrorizzata da lui. E'
stata una liberazione cosi' grande... Ed e' stato un dono, perche' dopo
pochi anni mio padre e' morto. Ora molte persone mi dicono che sono stata
fortunata a poter vivere questo, ma io credo invece di essere stata brava e
coraggiosa, perche' ho voluto che questo percorso si compisse. Non ci
sarebbe mai stato senza la mia determinazione. Io credo che, come me, anche
molte altre persone potrebbero lavorare su se stesse in questi termini, per
rimarginare le ferite attraverso la consapevolezza e la riconciliazione.
*
- Elena Buccoliero: Nell'autunno scorso hai svolto dei laboratori sui
conflitti in Cecenia. Puoi affidarci un ricordo di quell'esperienza?
- Pat Patfoort: Ho lavorato con russi e ceceni nello stesso laboratorio, e'
stata un'esperienza fortissima. Ricordo bene una donna russa il cui fratello
era stato bruciato vivo nella sua macchina, rivedo la sua emozione. Riuscire
per la prima volta a pensare che questa cosa tanto orribile era accaduta
perche' dall'altra parte c'erano non degli oppositori ma un popolo con delle
rivendicazioni che potevano avere una loro verita'. L'ultimo giorno poi e'
stato emozionante. Ho chiesto a due russi e a due ceceni di mettersi uno di
fronte all'altro e di cercare di parlarsi per soddisfare le esigenze
reciproche. In certi momenti e' stato durissimo.
*
- Elena Buccoliero: E tu che cosa hai imparato da questa esperienza?
- Pat Patfoort: Mi sembra di essere diventata piu' umana. Ho imparato molto
sui ceceni, la mia relazione con questo popolo e' letteralmente cambiata. Ho
imparato ancora una volta a lottare contro le mie paure e i miei stereotipi.
E ho acquisito una convinzione ancora piu' forte che e' importantissimo
costruire una via per la nonviolenza, anche solo con un bambino di due anni.
Non c'e' niente di impossibile da risolvere, io ne sono convinta,
soprattutto in educazione. Si possono svolgere seminari anche molto
difficili, e questo dara' potere e speranza alle generazioni future. E'
bello poter pensare di costruire relazioni armoniose per i propri figli.

4. MAESTRE. INGEBORG BACHMANN: TUTTI I GIORNI
[Ancora una volta riproponiamo il seguente testo, da Ingeborg Bachmann,
Poesie, Tea, Milano 1996, p. 31 (la traduzione e' di Maria Teresa
Mandalari). Ingeborg Bachmann, scrittrice e poetessa austriaca (Klagenfurt
1926 - Roma 1973) di straordinaria bellezza e profondita', maestra di pace e
di verita'. Opere di Ingeborg Bachmann: versi: Il tempo dilazionato;
Invocazione all'Orsa Maggiore; Poesie. Racconti: Il trentesimo anno; Tre
sentieri per il lago. Romanzi: Malina. Saggi: L'elaborazione critica della
filosofia esistenzialista in Martin Heidegger; Ludwig Wittgenstein; Cio' che
ho visto e udito a Roma; I passeggeri ciechi; Bizzarria della musica; Musica
e poesia; La verita' e' accessibile all'uomo; Il luogo delle donne.
Radiodrammi: Un affare di sogni; Le cicale; Il buon Dio di Manhattan.
Saggiradiofonici: L'uomo senza qualita'; Il dicibile e l'indicibile. La
filosofia di Ludwig Wittgenstein; La sventura e l'amore di Dio. Il cammino
di Simone Weil; Il mondo di Marcel Proust. Sguardi in un pandemonio
Libretti: L'idiota; Il principe di Homburg; Il giovane Lord. Discorsi: Luogo
eventuale; Letteratura come utopia. Prose liriche: Lettere a Felician. Opere
complete: Werke, 4 voll., Piper, Muenchen-Zuerich. Interviste e colloqui:
Interview und Gespraeche, Piper, Muenchen-Zuerich. In edizione italiana cfr.
almeno: Poesie, Guanda, 1987, Tea, Milano 1996; Invocazione all'Orsa
Maggiore, SE, Milano 1994, Mondadori, Milano 1999; Il dicibile e
l'indicibile. Saggi radiofonici, Adelphi, Milano 1998; Il buon Dio di
Manhattan, Adelphi, Milano 1991; Il trentesimo anno, Adelphi, Milano 1985,
Feltrinelli, Milano 1999; Tre sentieri per il lago, Adelphi, Milano 1980,
Bompiani, Milano 1989; Malina, Adelphi, Milano 1973; Il caso Franza,
Adelphi, Milano 1988; La ricezione critica della filosofia di Martin
Heidegger, Guida, Napoli 1992; In cerca di frasivere, Laterza, Roma-Bari
1989; Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, Adelphi, Milano 1993.
Opere su Ingeborg Bachmann: un'ampia bibliografia di base e' nell'apparato
critico dell'edizione italiana di Invocazione all'Orsa Maggiore, cit.]

La guerra non viene piu' dichiarata,
ma proseguita. L'inaudito
e' divenuto quotidiano. L'eroe
resta lontano dai combattimenti. Il debole
e' trasferito nelle zone del fuoco.
La divisa di oggi e' la pazienza,
medaglia la misera stella
della speranza, appuntata sul cuore.

Viene conferita
quando non accade piu' nulla,
quando il fuoco tambureggiante ammutolisce,
quando il nemico e' divenuto invisibile
e l'ombra d'eterno riarmo
ricopre il cielo.

Viene conferita
per la diserzione dalle bandiere,
per il valore di fronte all'amico,
per il tradimento di segreti obbrobriosi
e l'inosservanza
di tutti gli ordini.

5. MAESTRE.SIMONE WEIL: QUASI SEMPRE
[Da Simone Weil, L'ombra e la grazia, Rusconi, Milano 1996, p. 141 (la
traduzione - pubblicata primieramente nel 1951 - e' di Franco Fortini).
Simone Weil, nata a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu professoressa,
militante sindacale e politica della sinistra classista e libertaria,
operaia di fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i fascisti,
lavoratrice agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a
lavorare per la Resistenza. Minata da una vita di generosita', abnegazione,
sofferenze, muore in Inghilterra nel 1943. Una descrizione meramente esterna
come quella che precede non rende pero' conto della vita interiore della
Weil (ed in particolare della svolta, o intensificazione, o meglio ancora:
radicalizzazione ulteriore, seguita alle prime esperienze mistiche del
1938). Ha scritto di lei Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe
imitare la sua dedizione al martirio, o se l'augurerebbe per i propri figli
o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serieta' come
vita, Simone Weil ci commuove, ci da' nutrimento". Opere di Simone Weil:
tutti i volumi di Simone Weil in realta' consistono di raccolte di scritti
pubblicate postume, in vita Simone Weil aveva pubblicato poco e su periodici
(e sotto pseudonimo nella fase finale della sua permanenza in Francia stanti
le persecuzioni antiebraiche). Tra le raccolte piu' importanti in edizione
italiana segnaliamo: L'ombra e la grazia (Comunita', poi Rusconi), La
condizione operaia (Comunita', poi Mondadori), La prima radice (Comunita',
SE, Leonardo), Attesa di Dio (Rusconi), La Grecia e le intuizioni
precristiane (Rusconi), Riflessioni sulle cause della liberta' e
dell'oppressione sociale (Adelphi), Sulla Germania totalitaria (Adelphi),
Lettera a un religioso (Adelphi); Sulla guerra (Pratiche). Sono fondamentali
i quattro volumi dei Quaderni, nell'edizione Adelphi curata da Giancarlo
Gaeta. Opere su Simone Weil: fondamentale e' la grande biografia di Simone
Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994. Tra gli studi cfr.
AA. VV., Simone Weil, la passione della verita', Morcelliana, Brescia 1985;
Gabriella Fiori, Simone Weil, Garzanti, Milano 1990; Giancarlo Gaeta, Simone
Weil, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992; Jean-Marie
Muller, Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1994; Angela Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, Edb, Bologna
1997; Maurizio Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano 1994]

Si puo' essere ingiusti per volonta' di offendere la giustizia o per errata
lettura della giustizia. Ma quasi sempre si da' questo secondo caso.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 74 del 27 luglio 2006

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