La nonviolenza e' in cammino. 1179



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1179 del 18 gennaio 2006

Sommario di questo numero:
1. Norberto Bobbio: Non uccidere
2. Antonio Gnoli intervista Raimon Panikkar
3. Nanni Salio: Una proposta politica nonviolenta
4. Augusto Cavadi: Religioni in dialogo, in Sicilia
5. Riletture: Enza Biagini, Simone de Beauvoir
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. MAESTRI. NORBERTO BOBBIO: NON UCCIDERE
[Il testo seguente, che nuovamente riproponiamo, e' quello del discorso
pronunciato a conclusione del dibattito sull'omonimo film di Claude
Autant-Lara (Torino, 4 dicembre 1961), pubblicato in "Resistenza", XV, n.
12, dicembre 1961, p. 4; successivamente ristampato in Norberto Bobbio, Il
terzo assente, Edizioni Sonda, Milano-Torino 1989, pp. 139-142. Norberto
Bobbio e' nato a Torino nel 1909 ed e' deceduto nel 2004, antifascista,
filosofo della politica e del diritto, autore di opere fondamentali sui temi
della democrazia, dei diritti umani, della pace, e' stato uno dei piu'
prestigiosi intellettuali italiani del XX secolo. Opere di Norberto Bobbio:
per la biografia (che si intreccia con decisive vicende e cruciali dibattiti
della storia italiana di questo secolo) si vedano il volume di scritti
autobiografici De Senectute, Einaudi, Torino 1996; e l'Autobiografia,
Laterza, Roma-Bari 1997; tra i suoi libri di testimonianze su amici
scomparsi (alcune delle figure piu' alte dell'impegno politico, morale e
intellettuale del Novecento) cfr. almeno Italia civile, Maestri e compagni,
Italia fedele, La mia Italia, tutti presso l'editore Passigli, Firenze. Per
la sua riflessione sulla democrazia cfr. Il futuro della democrazia; Stato,
governo e societa'; Eguaglianza e liberta'; tutti presso Einaudi, Torino.
Sui diritti umani si veda L'eta' dei diritti, Einaudi, Torino 1990. Sulla
pace si veda Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino,
Bologna, varie riedizioni; Il terzo assente, Sonda, Torino 1989; Una guerra
giusta?, Marsilio, Venezia 1991; Elogio della mitezza, Linea d'ombra, Milano
1994. A nostro avviso indispensabile e' anche la lettura di Politica e
cultura, Einaudi, Torino 1955, 1977; Profilo ideologico del Novecento,
Garzanti, Milano 1990; Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino
1993. Opere su Norberto Bobbio: segnaliamo almeno Enrico Lanfranchi, Un
filosofo militante, Bollati Boringhieri, Torino 1989; Piero Meaglia, Bobbio
e la democrazia: le regole del gioco, Edizioni cultura della pace, S.
Domenico di Fiesole 1994; Tommaso Greco, Norberto Bobbio, Donzelli, Roma
2000; AA. VV., Norberto Bobbio tra diritto e politica, Laterza, Roma-Bari
2005. Per la bibliografia di e su Norberto Bobbio uno strumento di lavoro
utilissimo e' il sito del Centro studi Piero Gobetti
(www.erasmo.it/gobetti)]

Mi propongo di chiarire il significato storico e il significato attuale
dell'obiezione di coscienza. Parto dalla definizione piu' generale:
l'obiettore di coscienza e' colui che rifiuta incondizionatamente la guerra.
Si badi: incondizionatamente, cioe' senza condizioni. In altre parole: e'
colui che non accetta nessuno dei tentativi che sono stati fatti per
giustificare la guerra.
Si dira': nulla di nuovo. Tutti condannano la guerra. La condannano, ma la
fanno. E poi, e' vero che tutti condannano la guerra? Siamo proprio sicuri
di essere tutti d'accordo che la guerra e' cosa da condannarsi
incondizionatamente?
Guardiamo la storia, la storia della nostra civilta' cristiana,
illuministica, umanitaria. Abbiamo sempre giustificato la guerra. Moralisti,
filosofi, teologi sono andati a gara a escogitare teorie per giustificare la
guerra. E la guerra, sinora, c'e' sempre stata. Noi l'abbiamo giustificata
proprio perche' c'e' sempre stata. E, del resto, come e' possibile resistere
alla tentazione di dare una giustificazione di quello che e' un elemento
costitutivo, essenziale, della nostra storia? Poiche' parte della storia e'
storia di guerre, se noi non riuscissimo a giustificare la guerra, la storia
ci apparirebbe o come un immenso errore o come una assurda follia. Per non
dover credere che la storia umana sia una storia sbagliata o assurda,
filosofi, moralisti e teologi hanno dovuto giustificare la guerra.
E' stata giustificata in tanti modi. Ne indico quattro.
Anzitutto con la distinzione, accolta per alcuni secoli dalla teoria del
diritto internazione, tra guerre giuste e ingiuste. Si dice: non tutte le
guerre sono uguali; vi e' guerra e guerra. Alcune guerre sono un male, altre
non lo sono. Sono un male, per esempio, soltanto le guerre di conquista, non
le guerre di difesa.
Seconda giustificazione: la guerra e' un male minore. Tutte le guerre sono
un male, ma vi possono essere malanni peggiori della guerra, la perdita
della liberta', dell'onore nazionale, della fede avita. Qui siamo di fronte
a un conflitto di valori. La guerra rappresenta solo la negazione di un
valore, quello della pace. Ma la pace e' il valore supremo? Non vi sono
altri valori piu' alti della pace? La liberta', la giustizia, l'onore, la
religione?
Terza giustificazione: la guerra e' un male (non si dice se maggiore o
minore, e non si fa piu' un confronto con qualche altro valore) ed e' un
male necessario. Necessario perche' senza guerra non c'e' progresso, non
c'e' sviluppo storico. La storia procede per affermazioni e negazioni: se
non ci fosse la negazione, non ci sarebbe neppure l'affermazione. E' la
concezione dialettica della storia, oppure la concezione della guerra come
molla del progresso. Il pacifista Kant aveva fatto l'elogio dell'antagonismo
e della guerra. Chi volesse raccogliere un bel florilegio di elogi della
guerra come momento necessario dello sviluppo storico, non avrebbe che
l'imbarazzo della scelta.
Quarta giustificazione: la guerra non e' ne' un bene ne' un male. E' un
fatto. Essendo un fatto, e' quello che e'. Non si discute: lo si accetta. Fa
parte del nostro destino o se volete, del disegno della provvidenza. Anche
Croce si inchinava alla tremenda maesta' della guerra, e l'immanentista
Gentile la chiamava "dramma divino". Se la guerra e' inevitabile, non
possiamo far nulla contro di essa. Magari non provocarla, ma quando scoppia
per ragioni imprevedibili e insondabili, bisogna fare il proprio dovere.
Riflettiamo su questa frase: fare il proprio dovere. Fare il proprio dovere
significa in questo contesto accettare il proprio destino, accettare la
condanna di essere uomini.
Ho voluto soffermarmi brevemente sulle principali ideologie della guerra,
perche' solo cosi' entriamo nel vivo del problema agitato dagli obiettori di
coscienza. In termini generali, si puo' dire che l'obiettore di coscienza e'
colui che non accetta in principio nessuna di queste, e di altre possibili
giustificazioni. L'obiettore di coscienza e' colui che, affermando che la
guerra e' violenza e che la violenza e' un male assoluto, conclude che la
guerra e' un male assoluto.
Primo: per l'obiettore non vi sono guerre giuste e ingiuste. E la guerra di
difesa? Anche la guerra di difesa e' violenza. E poi chi ha il diritto di
distinguere la guerra di offesa da quella di difesa? Esiste nella storia dei
rapporti tra gli stati l'innocente? Chi e' stato il primo colpevole? Chi
sara' l'ultimo innocente? O non e' forse vero che la ferrea catena di
guerre, in cui consiste la nostra storia, ci rende impossibile risalire alla
prima radice del male? E allora non bisogna spezzare questa catena? Ma per
spezzarla occorre pure che qualcuno cominci. L'obiettore di coscienza e'
colui che dice: comincio io, e accada quel che deve accadere.
Secondo: la guerra non e' un male minore; e' puramente e semplicemente un
male. Non bisogna fare il male, ecco tutto. E poi non e' il male minore,
perche' tutti i mali si generano dalla violenza. E non vi e' bene che possa
essere barattato con la perdita della pace, perche' la pace e' la condizione
stessa del fiorire di tutti gli altri valori.
Terzo: la guerra non e' un male necessario. Puo' ben darsi che, dopo la
guerra, la storia umana faccia un passo innanzi. Ma quanti ne ha fatti
indietro per causa della guerra? Tanto orrenda e' la situazione di guerra,
che, tornata la pace, ci sembra di aver fatto un passo innanzi. Ma come
possiamo sapere quale sarebbe stato il destino dell'uomo se non ci fossero
state guerre? Come possiamo saperlo se le guerre ci sono sempre state? Come
possiamo paragonare il progresso storico attraverso le guerre col progresso
storico attraverso la pace, se sino ad ora l'umanita' ha conosciuto soltanto
il primo e non anche il secondo di questi due corsi?
Quarto: la guerra non e' un fatto inevitabile. Dipende da noi, dalle nostre
passioni che possiamo reprimere, dai nostri interessi che possiamo
conciliare, dai nostri istinti che dobbiamo correggere e frenare. Se abbiamo
saputo eliminare le guerre tra individui, tra comuni, perche' dovrebbe
continuare a sussistere la guerra tra gli stati? Perche', dal semplice fatto
che un evento e' sempre stato, dobbiamo dedurne che sempre sara'? Dov'e'
scritto e chi l'ha scritto?
Ho voluto riassumere brevemente (e imperfettamente) alcuni eterni motivi
dell'obiezione di coscienza, perche' oggi ci troviamo di fronte a una
situazione nuova, a una vera e propria svolta della storia umana, di fronte
alla quale l'obiezione di coscienza, il dir di no alla guerra, assume un
significato piu' attuale, piu' vasto, piu' universale. La situazione nuova
e' quella che e' determinata dalla corsa spaventosa verso gli armamenti
atomici. La situazione e' nuova, perche' per la prima volta nella storia la
guerra totale puo' portare all'annientamento della vita sulla terra, cioe'
della storia stessa dell'uomo.  Ci vuole un certo sforzo d'immaginazione per
comprendere che questo puo' accadere: ma questo sforzo dobbiamo farlo.
Di fronte all'evento possibile della distruzione della storia, ogni
giustificazione della guerra diventa impossibile. Siamo in una condizione in
cui non possiamo piu' accettare la guerra. Il che significa che siamo
diventati, che dobbiamo diventare tutti quanti potenzialmente obiettori di
coscienza. L'alternativa e' questa: o l'obiezione di coscienza, nel senso di
impossibilita' morale di accettare la guerra, o la possibile distruzione del
genere umano. Se vi paiono un po' troppo apocalittiche queste mie
considerazioni, vi invito a ragionarvi su.
Primo: di fronte alla possibile catastrofe atomica non vi sono piu' guerre
giuste o ingiuste; una guerra, qualunque essa sia, che puo' provocare la
scomparsa della vita sulla terra, e' ingiusta.
Secondo: e' semplicemente stolto considerare la guerra, che puo' avere una
simile conseguenza, come un male minore: non ci sono alternative possibili.
Di fronte alle guerre del passato puo' avere ancora un senso parlare di
alternativa tra la pace e la liberta', tra la pace e la giustizia, tra la
pace e l'onore. Ma di fronte alla guerra atomica, quale alternativa potrebbe
ancora concepirsi? O la liberta' o il suicidio universale? Chi beneficerebbe
di questa liberta'?
Terzo: la guerra non puo' piu' essere considerata come un male necessario,
come uno strumento di bene. Quale bene, se dopo non c'e' piu' nulla? La
guerra atomica non e' un mezzo per raggiungere qualche altra cosa, ma un
fine, anzi, meglio, e' la fine.
Quarto: la guerra non puo' piu' essere considerata come un fatto
inevitabile, a meno che si accetti come fatto inevitabile (badate,
inevitabile), l'autodistruzione dell'uomo.
Forse qualcuno potrebbe considerare che con questa considerazione io sia
andato fuori tema. Ma riflettiamo: obiezione di coscienza significa rifiuto
di portare armi. Ora quando nel concetto di arma rientra una bomba che, come
si legge nei giornali, ha da sola il potere esplosivo di meta' di tutte le
bombe gettate nell'ultima guerra, mi domando se il portar armi non sia
diventato un problema di coscienza non solo per l'obiettore che protesta in
nome della sua fede religiosa, ma per ciascuno di noi, in nome
dell'umanita'. Obiezione di coscienza significa letteralmente quella
situazione in cui la nostra coscienza ci vieta col suo imperativo di
compiere un'ingiustizia. Se interroghiamo la nostra coscienza, non possiamo
piu' rifiutarci di riconoscere che oggi - questa e' dunque la conclusione
cui volevo giungere - siamo, almeno in potenza, tutti quanti obiettori.

2. RIFLESSIONE. ANTONIO GNOLI INTERVISTA RAIMON PANIKKAR
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 7 gennaio 2006.
Antonio Gnoli e' giornalista della pagina culturale del quotidiano "La
Repubblica" e saggista; ha anche curato l'edizione italiana di testi di
Alexandre Kojeve per Adelphi e di Carl Jacob Burckhardt per Bompiani. Opere
di Antonio Gnoli: con Bruce Chatwin, La nostalgia dello spazio, Bompiani
2000.
Raimon (Raimundo) Panikkar e' nato a Barcellona nel 1918 da madre spagnola e
padre indiano; laureato in chimica, filosofia e teologia, ha insegnato in
molte universita' europee, asiatiche ed americane; e' uno dei principali
esperti di studi interculturali. Opere di Raimon Panikkar: tra i suoi
numerosi libri cfr. Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi 1988;
Trinita' ed esperienza religiosa dell'uomo, Cittadella, Assisi 1989; La
torre di Babele, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi)
1990; La sfida di scoprirsi monaco, Cittadella, Assisi 1991; Ecosofia: la
nuova saggezza, Cittadella, Assisi 1993; Saggezza stile di vita, Edizioni
cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1993; La pienezza dell'uomo.
Una cristofania, Jaca Book, Milano 1999; Pace e interculturalita', Jaca
Book, Milano 2002; Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003; La nuova
innocenza, tre volumi, Servitium, Palazzago (Bg); L'esperienza della vita,
Jaca Book, Milano 2005; La porta stretta della conoscenza, Rizzoli, Milano
2005. Si vedano anche gli atti del seminario animato da Panikkar su Pace e
disarmo culturale, L'altrapagina, Citta' di Castello (Pg) 1987 (con
interventi tra gli altri di Ernesto Balducci, Fabrizio Battistelli, Luigi
Cortesi, Antonino Drago, Achille Rossi). Opere su Raimon Panikkar: Achille
Rossi, Pluralismo e armonia: introduzione al pensiero di Raimon Panikkar,
L'altrapagina, Citta' di Castello (Pg) s. d. ma 1990]

Raimon Panikkar e' un uomo coltissimo, i cui interessi spaziano dalla
filosofia alla religione, alla scienza. Nato a Barcellona, da padre indiano
e madre spagnola, Panikkar ha vissuto per lungo tempo in India. E'
considerato il piu' autorevole studioso in grado di mettere a confronto
religioni diverse. E' un fautore del dialogo interculturale. Splendide le
sue traduzioni dal vedico. Il suo nuovo libro La porta stretta della
conoscenza (a cura di Milena Carrara Pavan, Rizzoli, Milano 2005) e' un
tentativo di far dialogare scienza e religione.
*
- Antonio Gnoli: Professor Panikkar e' davvero possibile il dialogo fra due
forme di sapere che per il fatto di voler essere dominanti, tendono a
escludersi?
- Raimon Panikkar: Perche' sia un dialogo sensato e alla pari, ambedue le
parti devono spogliarsi dalla pretesa di esclusivita'. Occorre, insomma,
maggiore umilta'. E l'umilta' e' una virtu' intellettuale, non solo morale.
*
- Antonio Gnoli: Come si fa a essere umili se i linguaggi di scienza e
religione parlano di oggetti diversi? La scienza lascia fuori dio, la
teologia a sua volta guarda al regno delle quantita' con occhio severo.
- Raimon Panikkar: Siamo esseri storici e come tali subiamo i pregiudizi. E'
un pregiudizio immaginare che la scienza possa risolvere ogni cosa. Cosi'
come e' un pregiudizio della tradizione occidentale identificare la
religione con la chiesa. Da un punto di vista indu' sarebbe inconcepibile.
*
- Antonio Gnoli: Per un indu' cos'e' una religione?
- Raimon Panikkar: Una forma di vita, meglio: la consapevolezza di una forma
di vita.
*
- Antonio Gnoli: Ma un teologo e uno scienziato come possono parlarsi?
- Raimon Panikkar: Al teologo direi di non dimenticare il mondo fisico che
e' altrettanto reale del mondo teologico. Allo scienziato suggerirei di non
ridurre tutto all'esperimento. C'e' qualcosa di piu' profondo dello
sperimentabile.
*
- Antonio Gnoli: E perche' la scienza dovrebbe rinunciare all'idea di avere
un punto di vista piu' persuasivo sul mondo?
- Raimon Panikkar: Perche' non c'e' un solo modo per avvicinarsi alla
verita'. E soprattutto percha' la vita umana non si lascia strumentalizzare.
Siamo talmente abituati al dominio della tecnica scientifica, da
considerarla lo strumento principe per comprendere la vita umana. Ma non e'
cosi'.
*
- Antonio Gnoli: Lei dice basta con la dittatura del pensiero strumentale
che fonda la sua forza sul calcolo. Che cos'e' che non va nel suo metodo?
- Raimon Panikkar: Bisogna liberarsi dall'ossessione dei perche', e
dall'idea che esista una causa finale. La ragione se e' presa in senso
assoluto toglie la liberta'. Non la favorisce.
*
- Antonio Gnoli: Ma e' piuttosto difficile vivere in un mondo come il nostro
e non chiedersi mai perche'.
- Raimon Panikkar: Attenzione. Sono le azioni ultime, come l'amore
autentico, che si fanno senza un perche'.
*
- Antonio Gnoli: Liberta' da tutto tranne che dal proprio cuore?
- Raimon Panikkar: Si e' liberi in quanto non diamo una ragione alle nostre
decisioni.
*
- Antonio Gnoli: Siamo nel campo della fede o della follia.
- Raimon Panikkar: E' solo l'Occidente che vuole giustificare ogni cosa,
trovare una spiegazione per tutto.
*
- Antonio Gnoli: E' il primato del logos.
- Raimon Panikkar: Ma anche il rifiuto dello spirito. L'Occidente ha creduto
che passando dal mito al logos acquisisse una forma di conoscenza superiore.
In realta' non si e' accorto che ha solo mitizzato la ragione. Bisogna
decostruire le proprie certezze. Sapendo che le nostre conoscenze sono
relative.
*
- Antonio Gnoli: C'e' differenza tra relativita' e relativismo?
- Raimon Panikkar: Enorme. Il relativismo distrugge se stesso. Ai suoi occhi
una cosa vale l'altra. Ma non e' cosi'. La relativita' invece e' la
consapevolezza che qualsiasi cosa io possa dire ha un senso e ha una pretesa
di verita' in relazione a un contesto del quale io non sono completamente
consapevole.
*
- Antonio Gnoli: E che ruolo gioca la fede?
- Raimon Panikkar: Ogni uomo ha fede. Solo gli animali non ne hanno. Ogni
uomo e' consapevole di non sapere tutto, sa che davanti a lui c'e' l'ignoto.
Non capisce il mistero ma ne e' profondamente consapevole. E questa
consapevolezza e' la descrizione fenomenologica della fede.
*
- Antonio Gnoli: Lei distingue la fede dalla credenza.
- Raimon Panikkar: La credenza e' l'interpretazione culturalmente,
psicologicamente e personalmente condizionata della nostra apertura al
mistero.
*
- Antonio Gnoli: La fede ha bisogno della credenza?
- Raimon Panikkar: Puo' farne a meno. Mentre la credenza ha bisogno della
fede. Il guaio e' che se io identifico la mia fede con la mia credenza
allora divento un fanatico. Di qui le crociate, l'inquisizione,
l'intolleranza, l'assolutismo. Detto in modo filosofico, la fede non ha
oggetto. Capisco che per un occidentale che ha sposato in pieno il pensiero
razionale questo puo' sembrare una bestemmia.
*
- Antonio Gnoli: Se si puo' arrivare a dire che la fede non ha oggetto,
allora possiamo anche affermare che Dio non esiste.
- Raimon Panikkar: Lo possiamo dire. E' solo idolatria immaginare che Dio
sia un oggetto. Io non posso dire ne' che Dio esiste ne' che non esiste.
*
- Antonio Gnoli: Con quest'ultima affermazione verrebbe da concludere: di
che cosa stiamo parlando?
- Raimon Panikkar: Vede, c'e' subito lo smarrimento, il tono liquidatorio.
E' ovvio che stiamo discutendo del mistero. Ma non possiamo parlarne se nei
nostri discorsi non c'e' amore. Nel senso piu' ampio amore e' uscire da se
stessi. L'amore e' centrifugo, la conoscenza e' centripeta. E' un doppio
movimento senza il quale non riusciremo mai a penetrare il mistero.
*
- Antonio Gnoli: Lei parla di tre occhi: quello dell'intelletto, della
sensibilita' e della fede. Qual e' il piu' importante?
- Raimon Panikkar: Devono funzionare insieme. Guai a ridurre un essere umano
solo alla parte razionale.
*
- Antonio Gnoli: Ma se la ragione non guida c'e' il rischio che le passioni,
anche le peggiori, prendano il sopravvento. Come le tiene a bada?
- Raimon Panikkar: Diro' che sono troppo indiano: non reprimendole,
rendendomi conto che siccome questi istinti e queste forze stanno in me
occorre prenderne coscienza. Questa e' la vera contemplazione. Che non ha
niente a che vedere con il vuoto. Ho vissuto tanti anni fuori dal mondo
occidentale e ho capito che l'Occidente non e' un modello da imitare. C'e'
una felicita' innata altrove che qui non trovo.
*
- Antonio Gnoli: E' l'elogio dei poveri di spirito?
- Raimon Panikkar: Beati coloro che non dipendono dalla volonta', il dogma
fondamentale dell'occidente. In sanscrito non esiste la parola "volonta'".
La famosa preghiera: "padre nostro che sei nei cieli, sia fatta la tua
volonta'...", presuppone un Dio volenteroso, legislatore. Per l'India e' un
controsenso. L'insegnamento del buddismo tende a escludere la volonta'.
*
- Antonio Gnoli: Il buddismo chiama la volonta' desiderio. Come si fa a non
desiderare?
- Raimon Panikkar: Distinguo tra aspirazione e desiderio. Il desiderio e'
condizionato dall'esterno. Mentre l'aspirazione e' qualcosa che viene da
dentro ed esce fuori. E' chiaro che se il mio cuore non e' puro, il
desiderio finira' con il prevalere.
*
- Antonio Gnoli: Lei non usa mai la parola etica. Perche'?
- Raimon Panikkar: Primo perche' non sono un esperto di etica. E poi in ogni
etica vedo la tentazione di assolutizzare le proprie regole. Abbiamo
certamente bisogno di un ethos ma questo non va legalizzato ne'
assolutizzato. Dio non e' un legislatore, non c'e' una legge ultima che egli
ha proclamato e alla quale attenersi.
*
- Antonio Gnoli: Detta da un sacerdote e' un'affermazione paradossale.
- Raimon Panikkar: Dio non fa leggi, non ho detto che non esiste.
*
- Antonio Gnoli: Da' l'impressione di avere abbracciato una forma di
panteismo. E' cosi'?
- Raimon Panikkar: A mio parere il panteismo e' un errore per difetto. Per
il panteismo tutto e' divino. Che poi cio' che noi chiamiamo la divinita' si
esaurisca in quel tutto aperto alla consapevolezza, questo e' cio' che rende
il panteismo piccolo. Quando i vecchi presocratici dicevano che microcosmo e
macrocosmo si corrispondono sapevano quello che volevano dire. Sapevano che
ogni uomo non e' un mondo in piccolo, ma un piccolo mondo, nel quale vive
tutta la realta'. E' questa la divinita' umana, e in tal senso la divinita'
e' in ciascuno di noi. Come dice il Vangelo: "voi siete dei".

3. RIFLESSIONE. NANNI SALIO: UNA PROPOSTA POLITICA NONVIOLENTA
[Ringraziamo Nanni Salio (per contatti: info at cssr-pas.org) per averci messo
a disposizione come anticipazione il testo estratto dalla registrazione del
suo intervento al convegno su "Come intervenire nella realta' per superare i
conflitti e costruire percorsi di pace. La ricerca e la metodologia della
nonviolenza si confrontano con la politica", svoltosi a Pontedera il 14
maggio 2005, i cui atti sono in corso di pubblicazione a cura del Centro per
la pace di Pontedera. Giovanni (Nanni) Salio, torinese, nato nel 1943,
ricercatore nella facolta' di Fisica dell'Universita' di Torino, segretario
dell'Ipri (Italian Peace Research Institute), si occupa da alcuni decenni di
ricerca, educazione e azione per la pace, ed e' tra le voci piu' autorevoli
della cultura nonviolenta in Italia; e' il fondatore e presidente del Centro
studi "Domenico Sereno Regis", dotato di ricca biblioteca ed emeroteca
specializzate su pace, ambiente, sviluppo (sede: via Garibaldi 13, 10122
Torino, tel. 011532824 - 011549005, fax: 0115158000, e-mail:
regis at arpnet.it, sito: www.cssr-pas.org). Opere di Giovanni Salio: Difesa
armata o difesa popolare nonviolenta?, Movimento Nonviolento, II edizione
riveduta, Perugia 1983; Ipri (a cura di Giovanni Salio), Se vuoi la pace
educa alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1983; con Antonino Drago,
Scienza e guerra: i fisici contro la guerra nucleare, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1984; Le centrali nucleari e la bomba, Edizioni Gruppo Abele, Torino
1984; Progetto di educazione alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino
1985-1991; Ipri (introduzione e cura di Giovanni Salio), I movimenti per la
pace, vol. I. Le ragioni e il futuro,  vol. II. Gli attori principali, vol.
III. Una prospettiva mondiale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1989; Le
guerre del Golfo e le ragioni della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1991; con altri, Domenico Sereno Regis, Satyagraha, Torino 1994; Il
potere della nonviolenza: dal crollo del muro di Berlino al nuovo disordine
mondiale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995; Elementi di economia
nonviolenta, Movimento Nonviolento, Verona 2001; con D. Filippone, G.
Martignetti, S. Procopio, Internet per l'ambiente, Utet, Torino 2001]

I. Relazione
Cominciamo da una osservazione preliminare, di carattere generale, che
prende spunto dal titolo stesso del nostro incontro. Non si tratta di
"superare i conflitti", ma di imparare a trasformarli creativamente e
costruttivamente con i metodi della nonviolenza. Il conflitto e' una
condizione specifica della natura umana, individuale e sociale. Nell'ambito
della ricerca per la pace non si attribuisce un significato negativo al
termine conflitto: non e' sinonimo ne' di violenza ne' di guerra, ma un
rischio e un'opportunita' che devono essere gestiti e trasformati
positivamente. A partire da queste precisazioni,  proponiamo un confronto
che non e' tanto con la politica in astratto, quanto con uomini e donne che
hanno compiti e responsabilita' specifiche nell'ambito della politica
istituzionale.
Cosa vuol dire trasformare i conflitti con il metodo della nonviolenza?
Dobbiamo tutti quanti intraprendere un percorso di alfabetizzazione se
vogliamo acquisire competenze che ci permettano di confrontarci
concretamente su questo tema. Osserviamo infatti che normalmente i nostri
rappresentanti politici pensano che la modalita' prevalente per affrontare i
conflitti sia l'uso dello strumento militare. Anche quando si spingono sino
a invocare il dialogo, lo fanno in modo retorico. In realta', in tempo di
pace essi preparano solo ed esclusivamente lo strumento militare, che prima
o poi viene impiegato nel fare la guerra. Se vogliamo uscire dalle
ambiguita', dobbiamo quindi rivolgere all'intera classe politica la seguente
domanda: "Siete intenzionati o meno a realizzare concretamente le condizioni
perche' in tempo di pace si costruiscano delle alternative che rendano
possibile l'intervento di prevenzione della guerra, di interposizione nel
caso in cui essa comunque esploda e di riconciliazione quando sia finita?".
In altre parole ancora: "Volete abbandonare la logica del 'si vis pacem para
bellum' e imboccare la strada opposta: 'se vuoi la pace prepara la pace'?"
Questa e' una domanda previa, alla quale ci aspettiamo venga data una
risposta positiva che comporti un impegno concreto per affrontare la
questione anche in termini economici.
Quasi quindici anni fa, a partire dal 1991-1992, alcuni gruppi di base
avviarono una campagna internazionale "Per la prevenzione della guerra in
Kosovo". Essa opero', anche con qualche parziale successo, nella quasi
totale indifferenza e ignoranza della classe politica: una ignoranza tanto
abissale quanto funesta. Quando infatti si giunse al 1998, dopo le
recrudescenze della guerra tra governo serbo e Uck, quel che fu fatto lo
sappiamo: ci fu un intervento esclusivamente militare, promosso dalla Nato,
con giustificazioni del tutto infondate. Oggi la situazione e' sempre tesa,
sull'orlo perenne della guerra, ma ancora una volta nessuno di coloro che
caldeggiarono l'intervento militare se ne preoccupa piu' di tanto (per un
aggiornamento si veda la serie di articoli "ex-Yugoslavia-Kosovo" nel sito:
http://www.transnational.org/sitemap.html). La violenza ha prodotto altra
violenza e la guerra non ha risolto nessun problema.
*
Non possiamo limitarci a fare della retorica su questi temi, ma dobbiamo
concretamente avviare un progetto di vera e propria "transizione" dallo
strumento militare, prevalentemente offensivo, ad altri strumenti di
intervento che siano, almeno in un primo momento, anche misti, ovvero
militari e civili, ma esclusivamente difensivi.
Non siamo infatti in grado di abolire da un giorno all'altro l'intero,
mastodontico, complesso militare-industriale costruito nel corso degli anni,
ma possiamo innescare un processo di riconversione, progettabile in tempi
concreti e ragionevoli.
Per limitarci a un solo esempio, osserviamo che il lavoro dei Corpi Civili
di Pace italiani e internazionali e' stato avviato da oltre vent'anni, con
risultati a dir poco sorprendenti, esclusivamente dal basso, con
modestissime risorse senza alcun appoggio istituzionale. Basti pensare ai
molteplici gruppi dalle Pbi (Peace Brigades International), che sono
intervenuti con successo in Guatemala, e oggi sono presenti nello Sri Lanka
e in Colombia, un paese dilaniato da una endemica guerra civile dove
ciononostante e' sorta l'importante esperienza delle Comunita' di pace, di
cui quella di San Jose' de Apartado' e' la piu' nota. Oppure, si pensi alla
straordinaria esperienza delle Donne in nero, presenti nelle principali aree
di guerra, dai Balcani al Medio Oriente, in Israele-Palestina, per limitarci
ai casi piu' noti.
*
Una seconda riflessione, anch'essa di ordine generale, riguarda il grande
arcipelago dei movimenti per la pace considerato nel suo insieme. Se da un
lato esso ha realizzato una ricchissima molteplicita' di iniziative, grandi
e piccole,  dall'altro non ha saputo finora elaborare una piattaforma
politica congiunta. Questo e' un grosso limite. Ci sono ovviamente molte
proposte, forse persino troppe, ma non sono assunte in modo unitario e
coerente da quell'insieme variegato di gruppi che costituiscono il
cosiddetto movimento per la pace. Non esiste sinora un vero e proprio
progetto politico su cui far convergere tutte le nostre modeste energie. Si
assiste invece a una dispersione di iniziative, che non riescono a creare in
tempi ragionevoli quella "massa critica" necessaria per far breccia nel muro
di gomma della politica.
*
Infine intendo sottolineare un terzo e ultimo aspetto: il nostro ruolo non
puo' limitarsi a quello dei pompieri che intervengono solo quando il fuoco
e' stato appiccato. Certamente anche questa funzione e' importante, ma
dobbiamo renderci conto che alla radice dei processi che portano alle guerre
ci sono cause molto evidenti, che oggi sono ancor piu' manifeste che in
passato.
Una delle prime e piu' importanti e' il ben noto complesso
militare-industriale-scientifico-corporativo, cosi' chiamato perche' e' una
rete di interessi che comprende molteplici soggetti. Esso e' particolarmente
potente e ramificato negli Usa, ma possiede una notevole influenza anche nel
nostro Paese. Fu nientemeno che il presidente Eisenhower a denunciare sin
dagli anni '60 del secolo scorso, il pericolo crescente che tale complesso
comportava per la democrazia. Oggi e' sotto gli occhi di tutti che cosa e'
successo: propaganda, complotti, bugie, promozione della guerra, colpi di
stato, violazione delle leggi internazionali, torture, massacri, sono
all'ordine del giorno di questa mostruosa struttura. Ma c'e', anche in casa
nostra, anche nella cosiddetta sinistra, chi ritiene che si debba sostenere
e rilanciare l'industria bellica, invece che riconvertirla, e aumentare
ancora la spesa militare perche' "negli ultimi anni... per la difesa si e'
speso poco e alla difesa si e' chiesto molto" (si veda l'intervento di Marco
Minniti al convegno indetto dai Ds su "Le nuove sfide della difesa
italiana", in www.vita.it/attach/61273.pdf). Questa strada e' la ricetta
sicura per il fallimento e il disastro.
*
Una seconda causa di ordine strutturale e' la non sostenibilita'
dell'attuale modello di sviluppo, sorretto da una concezione economica  del
tutto astratta, slegata dalla realta' e funzionale prevalentemente a una
operazione di dominio dei paesi ricchi su quelli impoveriti e delle classi
sociali ricche su quelle emarginate.
Tutta la storia del Medio Oriente degli ultimi cinquant'anni e'
sostanzialmente legata alla necessita' di controllare le fonti petrolifere,
indispensabili per alimentare il folle e insostenibile progetto di crescita
economica dei paesi industrializzati. Con l'ingresso di Cina e India nello
scenario internazionale, questa necessita' e' diventata ancora piu'
impellente e problematica. Anche l'Italia, nel suo piccolo, vi partecipa,
come rivela il dossier ufficiale secondo il quale l'intervento in Iraq e la
nostra presenza a Nassirya siano stati sollecitati e motivati dall'interesse
dell'Eni al petrolio iracheno.
La cortina fumogena di spiegazioni false, di menzogne colossali e di
propaganda e' di una superficialita' tale che ci si dovrebbe indignare
doppiamente: per la falsita' in se' e perche' siamo trattati come degli
imbecilli privi di capacita' di intendere e di volere.
*
Rivolgiamo allora un'altra domanda ai politici, e a noi stessi: abbiamo
intenzione, o meno, di progettare e avviare una seconda "transizione", che
ci permetta di  sganciare la nostra economia dal petrolio e piu' in generale
dalle fonti fossili e nucleari? Le ragioni sono tante e sempre piu'
impellenti: climatiche, di equilibrio, indipendenza e sicurezza
internazionale, di stabilita' economica. Sapremo agire per tempo, per
evitare di ritrovarci nell'arco di qualche decennio in una situazione
ingovernabile, o continueremo con i soliti bla bla inconcludenti?
*
II. Risposte nel dibattito
In un arguto articolo pubblicato sull'"Unita'" qualche anno fa, Giangiacomo
Migone ricorda che quando era al liceo lui e i suoi compagni si preparavano
spesso per un'interrogazione all'ultimo momento e il  professore di latino
li rimproverava dicendo loro "Bisogna avere studiato", intendendo che non
basta studicchiare all'ultimo momento per essere preparati. Rivolgendosi a
proposito della vicenda del Kosovo ai suoi colleghi di partito e piu' in
generale a tutti i politici, Migone dice loro la stessa cosa: bisogna avere
studiato, ovvero non si possono affrontare le questioni di politica estera
all'ultimo minuto, senza neppure sapere dov'e' e cos'e' il Kosovo!
L'ignoranza non paga. Da un'indagine fatta tra i parlamentari europei
risultava che la stragrande maggioranza non sapeva neppure dove fosse il
Kosovo. Questa ignoranza fa il paio con la totale mancanza di attenzione e
di conoscenza verso quanto e' stato pensato, elaborato e studiato, da almeno
quattro decenni, nel campo della peace research su scala internazionale. Non
pretendo che si prendano per oro colato questi studi, ma almeno che non
vengano ignorati, e se non si e' d'accordo si dica perche', in modo
argomentato e non generico. La responsabilita' di questo atteggiamento si
estende oltre che ai politici anche agli accademici che raramente sono
disposti a mettere in discussione le loro idee e i paradigmi acquisiti.
Per quanto riguarda il Kosovo, occorre ricostruire correttamente i fatti.
Nell'ottobre del  1998, quando ormai una parte dei giochi era gia'
precostituita, vennero create artificiosamente le condizioni per intervenire
militarmente, perche' quella era la posizione caldeggiata dagli Stati Uniti
per i loro interessi geostrategici (si veda la gigantesca base aerea di
Blondsteel, la piu' grande del mondo fuori dai confini nazionali, costruita
dagli Usa in tre mesi, nel 1999, subito dopo l'intervento e oggi adibita a
prigione per sospetti terroristi, cfr. l'articolo Una Guantanamo in Kosovo,
ne "La Repubblica" del  28 novembre 2005). La situazione era pesante,
persino drammatica, ma non si trattava certo di genocidio. Sarebbe stato
possibile inviare una consistente forza di interposizione civile, non
armata, o anche mista, ma ci si e' ben guardati dal farlo. Non si invio'
neppure un numero sufficiente di osservatori, e molti di quelli inviati si
seppe poi che erano agenti al servizio della Cia per individuare gli
obiettivi da colpire. Le commissioni d'inchiesta che dopo la guerra avevano
il compito di stabilire il numero delle vittime accertate ne trovarono, per
fortuna, un numero di gran lunga inferiore, di almeno un fattore dieci,
rispetto a quanto ventilato a sostegno della propaganda interventista. Il
grande esodo dei kosovari di lingua albanese, che sembro' giustificare
l'ordine di intervento, fu provocato dai bombardamenti della Nato e non
dall'esercito o dalle milizie serbe. La popolazione fu costretta e invitata
a fuggire proprio per giustificare ulteriormente l'intervento. E gli aerei
Nato colpirono piu' volte obiettivi civili, definiti, al solito, come
"effetti collaterali".
Un bellissimo video,  Women in Black, da' un'idea concreta di cosa sarebbe
stato possibile fare sin dal capodanno di due anni prima per abbattere il
regime di Milosevic, che certamente non intendiamo difendere o giustificare,
ma che non e' stato affatto l'unico responsabile di quanto e' accaduto. Il
video mostra le sequenze di una straordinaria manifestazione a Belgrado che
avrebbe potuto essere l'avvio di una transizione democratica, se fosse stata
sostenuta opportunamente a livello internazionale. Il che avvenne dopo
l'attacco militare ad opera del movimento Otpor (resistenza, in serbo),
certamente discutibile, parzialmente cooptato e finanziato dalla Cia, che
tuttavia seppe rovesciare Milosevic dopo le fallimentari elezioni che
seguirono alla fine della guerra. In seguito, questa esperienza e' stata
esportata altrove (Georgia, Ucraina, Kirghizistan) con le cosiddette
"rivoluzioni colorate". Sembra che la Cia abbia scoperto che qualche volta
conviene esportare la democrazia con movimenti pseudo-nonviolenti: costa
meno che fare la guerra. Nonostante tutti i limiti di queste rivoluzioni
manipolate dall'alto, si puo' ritenere pragmaticamente che sono pur sempre
il male minore rispetto alla guerra. Ma in Iraq non e' stata scelta questa
strada, che pure era ampiamente praticabile.
Come ha scritto giustamente qualche giornalista, i missili in Iraq, come
quelli in Kosovo, "sono partiti cinquant'anni fa", perche' non si possono
combattere guerre di questo genere se non progettandole con largo anticipo.
I sistemi d'arma impiegati richiedono decenni per essere realizzati, non
sono certo disponibili all'ultimo momento. Sono frutto di una
pianificazione, di una strategia che coinvolge l'intero complesso
militare-industriale-scientifico-corporativo. La guerra non e' affatto
l'extrema ratio, come sostengono farisaicamente i politici, ma la prima e
unica ratio.
*
Per queste, e altre, ragioni e' assolutamente indispensabile modificare
l'attuale modello di difesa, seppure attraverso obiettivi intermedi.
Ai politici chiediamo dunque se nei prossimi programmi elettorali del 2006
sono o meno disposti a impegnarsi per trasferire il 5 % del bilancio delle
spese militari alla costruzione di Corpi Civili di Pace, alla realizzazione
di un modello di difesa difensivo e nonviolento, alla costruzione e
diffusione di una autentica cultura della pace e della nonviolenza in tutti
i settori della societa'. Questa modesta percentuale e' pari a circa un
miliardo di euro. Pur essendo irrisoria per il bilancio dello stato, e' una
somma incredibile per i modestissimi bilanci dei movimenti per la pace che
mai hanno avuto a disposizione risorse istituzionali di tale entita' per
realizzare i loro progetti. Chiediamo dunque impegni precisi e concreti, che
permettano di avviare qui e ora la transizione dalla difesa offensiva a
quella esclusivamente difensiva e parallelamente a quella nonviolenta. Le
forze politiche devono esprimersi su questi tematiche.
*
Questo sarebbe un primo e decisivo passo per avviare la riconversione del
complesso militare industriale, che oggi e' il pericolo numero uno delle
democrazie.
Nel corso di un seminario che si e' svolto qualche tempo fa presso il Centro
"Sereno Regis" di Torino, un noto e autorevole docente di relazioni
internazionali, Luigi Bonanate, intervenuto durante la presentazione di uno
dei suoi ultimi lavori (La politica internazionale tra guerra e terrorismo,
Laterza, Roma-Bari 2005) osservo' che e' indispensabile abolire il segreto
militare, uno strumento che oggi viene usato per falsificare tutta quanta
l'informazione relativa alla politica internazionale, per tramare
nell'ombra, per mettere in pericolo le nostre democrazie, per promuovere
occasioni di guerra, per perpetrare l'ingiustizia, i massacri, gli omicidi
mirati.
Le strutture militari in generale, e i servizi segreti in particolare, sono
di fatto  entite' criminali, dove si salvano solo poche persone, che vengono
emarginate e talvolta uccise. Per un funzionario onesto come Nicola
Calipari, ve ne sono altri mille prezzolati che complottano.
I nostri parlamentari non possono limitarsi a dichiarare la loro buona fede
(quando esiste). Hanno l'obbligo di documentarsi e di rispondere
puntualmente alle nostre richieste, nonche' alle critiche che provengono
dalle fonti piu' autorevoli e informate. Non ho mai sentito nessuno di loro,
nessuno dei dirigenti e dei segretari di partito rispondere alle
documentatissime critiche di autori come Johan Galtung (Ci sono
alternative!, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1989; Pace con mezzi pacifici,
Esperia, Milano 2000), William Blum (Rapporto dall'impero, Fazi, Roma 2005),
Ekkehart Krippendorff (Critica della politica estera, Fazi, Roma 2004).
Forse e' chiedere troppo, ma per fare politica estera, e non solo, "bisogna
avere studiato!".

4. INCONTRI. AUGUSTO CAVADI: RELIGIONI IN DIALOGO, IN SICILIA
[Ringraziamo Augusto Cavadi (per contatti:acavadi at lycos.com) per averci
messo a disposizione questo suo articolo apparso nell'edizione palermitana
del quotidiano "La Repubblica" il 17 gennaio 2006. Augusto Cavadi,
prestigioso intellettuale ed educatore, collaboratore del Centro siciliano
di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo, e' impegnato nel
movimento antimafia e nelle esperienze di risanamento a Palermo, collabora a
varie qualificate riviste che si occupano di problematiche educative e che
partecipano dell'impegno contro la mafia. Opere di Augusto Cavadi: Per
meditare. Itinerari alla ricerca della consapevolezza, Gribaudi, Torino
1988; Con occhi nuovi. Risposte possibili a questioni inevitabili,
Augustinus, Palermo 1989; Fare teologia a Palermo, Augustinus, Palermo 1990;
Pregare senza confini, Paoline, Milano 1990; trad. portoghese 1999; Ciascuno
nella sua lingua. Tracce per un'altra preghiera, Augustinus, Palermo 1991;
Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad. portoghese 1999; Le nuove
frontiere dell'impegno sociale, politico, ecclesiale, Paoline, Milano 1992;
Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa puo' fare ciascuno di noi qui e
subito, Dehoniane, Bologna 1993, nuova edizione aggiornata e ampliata
Dehoniane, Bologna 2003; Il vangelo e la lupara. Materiali su chiese e
mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia. Materiali di
studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro siciliano di
documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Essere profeti oggi. La
dimensione profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1997;
trad. spagnola 1999; Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco,
Torino 1998; Volontari a Palermo. Indicazioni per chi fa o vuol fare
l'operatore sociale, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato", Palermo 1998, seconda ed.; voce "Pedagogia" nel cd- rom di AA.
VV., La Mafia. 150 anni di storia e storie, Cliomedia Officina, Torino 1998,
ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici. Naufragio della politica e
indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie del
Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; Volontariato in crisi?
Diagnosi e terapia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2003; Gente bella, Il
pozzo di Giacobbe, Trapani 2004; Strappare una generazione alla mafia, DG
Editore, Trapani 2005. Vari suoi contributi sono apparsi sulle migliori
riviste antimafia di Palermo. Indirizzi utili: segnaliamo il sito:
http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con bibliografia completa)]

Hans Kueng, il teologo fieramente critico da decenni nei confronti di Joseph
Ratzinger e che comunque il neo-eletto papa ha voluto invitare a cena in
segno di stima, lo ha ribadito da decenni (anche nel recentissimo Scontro di
civilta' ed etica globale, Datanews, Roma 2005): "Non c'e' pace tra le
nazioni senza pace tra le religioni. Non c'e' pace tra le religioni senza
dialogo tra le religioni". La sua preoccupazione e' condivisa da quanti
intuiscono che la dimensione simbolico-culturale s'intreccia,
inestricabilmente, con la dimensione socio-politica ed entrambe concorrono a
determinare il corso effettivo della storia.
Se e' vero che la nostra isola ha costituito nel passato e continua a
costituire un crocevia di migrazioni (ufficiali ed ufficiose), il compito di
favorire questo dialogo interreligioso le spetta in maniera peculiare. Non
e' dunque strano che, in queste settimane, Palermo ospitera' una serie di
iniziative centrate proprio su questo obiettivo.
*
Si e' iniziato domenica 15 nella chiesa di S. Mamiliano in Santa Cita (via
Squarcialupo, 1): alcuni salmi biblici commentati a turno, con intermezzi
musicali e poetici, da esponenti di varie comunita' cristiane (cattolici,
greco-ortodossi, valdesi-metodisti, anglicani ed evangelici della
riconciliazione). Laddove, nell'immaginario collettivo, cristiano equivale a
cattolico, e' stato possibile (direi quasi scenograficamente) rendersi conto
della pluralita' di presenze cristiane nel nostro territorio. Il fatto poi
che queste diverse organizzazioni religiose, non di rado in sana dialettica
reciproca, riescano a trovare momenti di riflessione comune non puo' che
costituire un segno incoraggiante per chi e' convinto che le differenze non
vadano percepite come minaccia bensi' come risorsa.
Per quanto importante, il dialogo all'interno dell'arcipelago cristiano
sarebbe drasticamente insufficiente se si fermasse davanti alle frontiere
con le altre religioni. Per questo e' stato rilevante l'incontro di ieri,
presso il Liceo "Umberto I", con Bruno Segre su "Ebraismo e laicita'". Il
relatore non e' solo un noto studioso dell'ebraismo in Italia, ma anche
attivo presidente dell'associazione "Amici di Neve' Shalom".  E' questo il
nome ebraico di un villaggio (situato in Israele, su una collina a meta'
strada tra Gerusalemme e Tel Aviv) che ha anche il nome arabo Wahat
al-Salam: entrambe le denominazioni significano "osai di pace". E' infatti
il laboratorio pionieristico in cui  venticinque famiglie di ebrei e
venticinque famiglie di palestinesi, in tutto centosessanta uomini e donne,
da trent'anni coabitano e lavorano gomito a gomito. Con l'orgoglio, ma anche
la fatica, di considerare Neve' Shalom / Wahat al-Salam la loro casa comune.
Dal ceppo ebraico-cristiano e' derivata, grazie alla creativita' di un
geniale mercante arabo del VII secolo, la terza grande religione del Libro.
Molto opportunamente, dunque, il dialogo fra ebrei e cristiani si allarga
all'islam, la versione del monotesimo che maggiori preoccupazioni - talora
fondate, molto spesso infondate - sta suscitando in Occidente. Oggi, sempre
nella nostra citta' (questa volta nell'Auditorium del "Centro educativo
ignaziano" di via Piersanti Mattarella) avra' luogo un dibattito a due voci
(tra il gesuita Samir Kalil Samir e l'editorialista di "Repubblica" Khaled
Fuad Allam) su "Cristianesimo e islam: conflitto di civilta' o integrazione
pacifica?".
*
Come e' stato acutamente osservato dal filosofo Luigi Lombardi Vallauri,
sarebbe da ingenui rallegrarsi per la sola notizia che ebrei, cristiani e
islamici imparino a parlarsi. Non e' secondario, infatti, sapere cosa si
dicono. Qualora infatti la convergenza, teorica ed operativa, dovesse
avvenire verticisticamente tra le gerarchie piu' conservatrici delle tre
confessioni religiose, il risultato sarebbe una temibile triade cementata da
una comune ispirazione integralista, se non addirittura fondamentalista. Ben
diverso si squadernerebbe il panorama qualora il dialogo si realizzasse
anche, e soprattutto, a livello di base e con uno spirito di ricerca, di
autocritica, di apertura alle ricchezze altrui. Senza la convinzione che la
propria tradizione teologica possieda tutta la verita' e soltanto la
verita'. In una parola: se tra credenti nell'unico Dio ci si incontrasse per
approfondire, insieme alla fede, la propria piu' genuina laicita'.

5. RILETTURE. ENZA BIAGINI: SIMONE DE BEAUVOIR
Enza Biagini, Simone de Beauvoir, La Nuova Italia, Firenze 1982, pp. 192.
Una bella monografia su una delle pensatrici e delle testimoni piu'
rilevanti della cultura del Novecento.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini@t
in.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1179 del 18 gennaio 2006

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