Nonviolenza. Femminile plurale. 25



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 25 del 18 agosto 2005

In questo numero:
1. Franco Pantarelli: La domanda di Cindy Sheehan
2. Margarete Durst: La forza della fragilita'. La nascita in Hannah Arendt

1. PERSONE. FRANCO PANTARELLI: LA DOMANDA DI CINDY SHEEHAN
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 agosto 2005.
Franco Pantarelli e' corrispondente da New York del quotidiano.
Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey in Iraq; dal 6 agosto staziona con
una tenda a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush sta trascorrendo le
vacanze, con l'intenzione di parlargli]

Il luogo e' desolato: un'immensa pianura su cui il sole di mezzogiorno
incrudelisce, qualche arbusto che spunta qua e la' tutto rinseccolito,
alcune macchie di alberi che appaiono in lontananza invitanti e
iraggiungibili, e una temperatura che toglie la voglia di fare qualsiasi
cosa. Solo un ricco signore in grado di permettersi un ranch con ogni
immaginabile tipo di comfort potrebbe amare un posto cosi', e infatti il
ranch in cui la dozzina di persone stipate in un pulmino si sta dirigendo
appartiene proprio a un signore ricco e potente, il piu' potente della
terra: George W. Bush. Nel bagagliaio ci sono i cartelli che loro contano di
agitare appena arrivati a destinazione. Dicono: "Io sono per la pace, Bush
no", "Questa guerra puzza", "Qualcuno alla Casa bianca mente", e tanto per
non lasciare dubbi su cosa pensino del loro presidente, la "ragione
sociale", chiamiamola cosi', del pulmino e' "Impeachment Trip", a indicare
che vogliono Bush processato e destituito come "criminale", parola
ricorrente anche nei cartelli di cui sopra. Quando arrivano a Crawford, la
cittadina che da' il nome alla localita', ad accoglierli ci sono altre
decine di persone, piu' gli inviati dei giornali e delle tv mandati a
"coprire" la presenza di Bush, arrivato qui per una delle sue frequenti
vacanze. Loro quel posto lo odiano perche' si muore dal caldo; perche' per
una volta che Bush si degna di parlare con loro ci sono giorni e giorni di
attese inutili; perche' alla "Casa bianca estiva", come lo chiamano, non ci
sono gli stessi ritmi di quella di Washington, la norma del briefing
quotidiano non c'e' e quindi anche i portavoce presidenziali si fanno vedere
solo di tanto in tanto; perche' perfino i membri del governo - che almeno
una capatina devono farla ogni tanto - appena finita l'incombenza provvedono
a dileguarsi in gran fretta e non hanno nessuna voglia di intrattenersi con
loro e insomma non c'e' mai materiale per un articolo o un servizio per la
tv.
*
Stavolta pero' i giornalisti qualcosa da fare ce l'hanno. Sul pulmino
infatti c'e' Cindy Sheehan e con lei il "pezzo" e' garantito. Chi e' Cindy
Sheehan? E' una signora di 48 anni che abita a Vacaville, cittadina del Nord
della California, e che della politica finora si era interessata, e neanche
tanto, solo durante le campagne elettorali. Quando Bush aveva deciso di
invadere l'Iraq lei non era d'accordo soprattutto perche' temeva che suo
figlio Casey, 23 anni, membro del primo battaglione, 82mo reggimento di
artiglieria, prima divisione cavalleria di stanza a Fort Hood, Texas,
finisse per essere mandato laggiu'. Lui si era arruolato per pagarsi
l'universita', mica per andare davvero a combattere. Poi era accaduto
proprio che Casey era dovuto partire per l'Iraq. Lei aveva trepidato, aveva
pregato che non fosse destinato a nulla di pericoloso, aveva cercato di
tenersi in contatto con lui e ogni volta che ci era riuscita aveva fatto
sforzi tremendi per non coprirlo di raccomandazioni, finche' un giorno le
era arrivata la notizia che aveva posto fine alle trepidazioni, alle
preghiere e alla speranza: il 4 aprile 2004, durante la famosa "offensiva"
di Sadr City, l'unita' di cui faceva parte Casey, che intanto di anni ne
aveva compiuti 24, era stata attaccata a colpi di missili a spalla e armi
leggere e lui era entrato a far parte delle casualties, le perdite.
Cindy e suo marito erano piombati nella disperazione, niente sembrava
riuscire a scuoterli dalla depressione che li aveva avvolti, finche' due
mesi piu' tardi avevano ricevuto una specie di offerta di diversivo
attraverso una lettera del Dipartimento della Difesa. Il presidente - diceva
la lettera - stava per recarsi in visita nella base militare di Fort Lewis,
che si trova nello stato di Washington, non molto lontano da Vacaville, e
aveva espresso il desiderio di incontrare alcuni familiari dei caduti. Se
loro erano disponibili, il Pentagono avrebbe provveduto a tutto. Loro
avevano deciso di andare e proprio quell'evento, l'incontro con Bush, viene
ora indicato da Cindy come il momento che ha trasformato il suo dolore in
rabbia e la sua tristezza in militanza: contro la guerra e contro Bush.
Cosa era accaduto, infatti, in quell'incontro? Che Bush aveva mostrato di
non conoscere - ne' di essere interessato a conoscere - il nome di suo
figlio; che parlava con loro allegramente, con battute di spirito "come se
si fosse a un party", e che si rivolgeva a lei chiamandola "mamma", cosa che
la mandava in bestia. Poi, forse rendendosi conto che quella che stava
usando non era la "cifra" giusta, il presidente si era fatto serio e aveva
detto di non riuscire neppure a immaginare di perdere una persona cara "come
una zia o uno zio". Cindy lo aveva interrotto, gli aveva fatto presente che
lei aveva perso il figlio e che lui doveva pur avere un'idea di cosa volesse
dire, visto che ha due figlie. "Gli dissi: 'Mi creda, mr president, lei non
vorrebbe essere in una condizione simile'. Lui rispose 'Ha ragione, non
vorrei', e io replicai 'Bene, grazie per averci messo me in quella
condizione'".
*
Cosi' Cindy era entrata nella schiera di quelli per cui tallonare Bush
dovunque vada e gridargli la propria opposizione alla guerra e' diventato
una specie di mestiere non retribuito. Durante la campagna elettorale lo
aveva seguito un po' dappertutto nei suoi "incontri con gli elettori",
dovendo accontentarsi di agitare un cartello vicino all'ingresso perche'
potevano entrare solo persone attentamente selezionate. Una volta pero', nel
New Jersey, era riuscita a intrufolarsi, gli aveva gridato "Hai ucciso mio
figlio", ed era stata quasi linciata dai selezionati.
Intanto pero' la sua attivita' instancabile veniva notata, il suo candore
commuoveva e suscitava solidarieta', e la sua popolarita' cresceva in modo
inversamente proporzionale a quella di Bush e della sua guerra. Ora che gli
estimatori del presidente si sono ridotti al lumicino (il 38 per cento,
secondo l'utimo sondaggio) il nome di Cindy lo conoscono tutti, tanto che ha
gia' avuto l'"onore" di attacchi furibondi, secondo il piu' perfetto stile
repubblicano.
Eccoci cosi' a quel pulmino che arriva a Crawford accolto da simpatizzanti e
giornalisti. "Sono qui - dice Cindy - perche' voglio parlare con il
presidente Bush. Voglio che mi spieghi perche' mio figlio e' morto". A
spingerla, dice, e' stato l'ultimo discorso pronunciato da Bush in uno dei
momenti piu' cupi per le truppe americane: la morte in pochi giorni di oltre
venti marines. Senza parlare specificamente di quei morti, il presidente ha
detto che "i nostri uomini e le nostre donne che hanno perso le loro vite in
Iraq e in Afghanistan sono morti per una nobile causa". Bene, dice Cindy,
"voglio che mi dica con precisione quale sarebbe questa nobile causa".
Stringi stringi, commenta il "New York Times", "il successo della signora
Sheehan dipende dal fatto che la sua e' la domanda che si pongono milioni di
noi".
Il pulmino comincia a muovere verso il ranch di Bush e dietro di esso si
forma una fila di una ventina di automobili con i simpatizzanti e i
giornalisti, oltre ovviamente agli uomini della polizia locale che comunque,
guidati da un capitano di nome Kenneth Vanek, per ora si limitano a
"controllare la situazione". Dopo qualche miglio - nessuno sa con esattezza
quanti ne manchino per arrivare al ranch - il capitano Vanek ferma il
convoglio e dice che da li' in poi bisogna proseguire a piedi, mentre si
fanno vedere anche gli uomini del "servizio segreto", che nonostante il nome
e' il piu' palese che ci sia, visto che si tratta delle guardie del corpo di
Bush.
*
Cindy non vuole storie, accetta di proseguire a piedi, ma l'ordine del
capitano e' piu' specifico: non si puo' "ostruire il traffico", bisogna
camminare al di la' del ciglio stradale, il che vuol dire in un fossato
tanto accidentato che si inciampa continuamente. Per un po' i "marciatori"
si adeguano. Poi i giornalisti si ribellano, ritornano sull'asfalto e il
capitano Vanek non dice nulla. Dopo un po' lo fanno anche i manifestanti e
lui blocca tutto. Perche'? "Perche' siete entrati nella strada ostruendo il
traffico". Ma se lo fanno i giornalisti perche' non possiamo farlo noi?
"Perche' i giornalisti sono qui per raccontare, non per manifestare". Cindy
e gli altri si accampano, in attesa di non si sa bene di cosa, e per un po'
la battaglia diventa quella di difendersi dal sole costruendo improvvisati
ombrelloni o dirigendosi verso uno dei rari alberi.
Dopo un paio d'ore ecco che qualcosa si muove: un'automobile scortata,
proveniente dalla direzione del ranch, si sta avvicinando. Tutti si
eccitano, gli amici di Cindy preparano i cartelli, i giornalisti pregustano
il colloquio fra Cindy e Bush, i cameramen si preparano a riprenderlo, ma
nell'automobile il presidente non c'e'. A incontrare Cindy ha mandato il suo
consigliere per la sicurezza nazionale, Stephen Hadley, e il vice capo del
suo staff Joe Hagin. Loro parlano, Cindy aspetta educatamente che abbiano
finito e poi replica: "Non me ne vado finche' non vedo il presidente. Voglio
sapere qual'e' la nobile causa per cui mio figlio e altri 1.800 giovani come
lui sono morti. Se il presidente torna a Washington senza avermi ricevuto
andro' ad accamparmi davanti alla Casa bianca", e loro non possono far altro
che tornare a riferire al loro capo. Il quale intanto se ne sta chiuso nel
ranch come un pavido assediato e quando proprio deve muoversi si serve
dell'elicottero.
Prima o poi pero' qualcosa dovra' pure inventare, dicono un po' tutti. Oggi
per esempio e' previsto che si rechino al ranch Condoleezza Rice e Donald
Rumsfeld e lo scopo ufficiale di quell'incontro e' "fare il punto sulla
guerra". Sarebbe strano non farlo seguire da una conferenza stampa e sarebbe
strano che nel corso di essa i giornalisti non lo interpellino su come
intende comportarsi con Cindy Sheehan. Poi, per domani, il suo programma
prevede che vada a partecipare a una festa per raccogliere soldi a favore
del partito repubblicano. Non avrebbe senso andarci in elicottero perche' la
festa si svolge in un ranch simile al suo a poche miglia di distanza. Il
problema e' che la sua dimora e quella del riccone texano che organizza la
festa sono unite da una strada nel mezzo della quale c'e' proprio
l'accampamento di Cindy Sheehan, sicche' il modo in cui Bush si rechera' dai
suoi adoratori e' materia di scommesse. Cosa puo' mai combinare una
"semplice donna", quando ha la morte nel cuore e la domanda giusta sulle
labbra.

2. RIFLESSIONE. MARGARETE DURST: LA FORZA DELLA FRAGILITA'. LA NASCITA IN
HANNAH ARENDT
[Dal sito: http://mondodomani.org/filosofiatorvergata riprendiamo il
seguente testo, che supponiamo versione elettronica senza apparato
bibliografico del testo di Margarete Durst, La forza della fragilita'. La
nascita in Hannah Arendt, pubblicato in "Fenomenologia e societa'", n.
3/2001, a. XXIV, pp. 32-50.
Margarete Durst e' docente universitaria e saggista; tra i suoi temi di
ricerca degli ultimi anni: affettivita' e cognizione: paradigma dialogico e
comunicazione empatica; genealogie e generazioni nelle filosofie della
differenza di area femminista; e' autrice di numerosi saggi pubblicati in
volume e in rivista. Ha scritto del suo lavoro: "I miei studi si polarizzano
su due indirizzi tra loro convergenti: uno teoretico-epistemologico e uno
storiografico, entrambi caratterizzati da una spiccata apertura al rapporto
interdisciplinare tra filosofia e scienze umane, in particolare
psicologia/psicoanalisi. Per quanto riguarda la prima direttrice mi sono
concentrata soprattutto sull'interazione tra le forme della razionalita' e
quelle dell'affettivita', con particolare riferimento ai concetti di
narcisismo e di empatia, che sono alla base della comunicazione tacita e
degli assetti motivazionali profondi. Lungo la seconda direttrice ho
affrontato alcuni aspetti problematici della filosofia itialiana del
Novecento, inerenti in particolare all'attualismo gentiliano e ai suoi
sviluppi in alcuni seguaci di Gentile, in particolare in Guido Calogero. Il
mio interesse per l'interazione tra le forme della razionalita' e
dell'affettivita' e per l'incidenza che essa ha sul piano cognitivo,
motivazionale e relazionale, mi ha portato ad analizzare - avvalendomi dei
miei studi di area psicologico-psicoanalitica - gli aspetti dell'ideazione
creativa, dell'euristica scientifica e dell'orientamento etico-valoriale.
Sugli stessi temi mi sono inoltre confrontata con gli apporti teorici
provenienti dall'area femminista, anche indagando il piu' ampio territorio
dell'attivita' filosofica al femminile sotto il profilo sia epistemologico
che storiografico". Tra le opere di Margarete Durst: Dialettica e Bi-logica.
L'epistemologia di Ignacio Matte Blanco, Marzorati, Milano 1988; Gentile e
la filosofia nell'Enciclopedia italiana. L'idea e la regola, Pellicani,
Roma, 1998; Guido Calogerero. Dialogo, educazione, democrazia, Seam, Roma
2002..
Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva
di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe
all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le
massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne
ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista
rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel
1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti
tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l
'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione
originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951),
Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen
(1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti,
Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli,
Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e'
apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di
brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano,
1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969.
Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra
amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975,
Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio
Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2.
1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita'
e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la
biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri,
Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt,
Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah
Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah
Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della
polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt,
Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su
Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah
Arendt, Giuntina, Firenze 2001. Per chi legge il tedesco due piacevoli
monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono:
Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999;
Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000]

1. La fragilita': un contrassegno della condizione umana
La fragilita' contrassegna sia le fondamentali categorie della riflessione
di Hannah Arendt, quali l'azione, la volonta', il pensiero, il giudizio, sia
i caratteri della condizione umana che quest'autrice considera strutturali,
cioe' nascita, mortalita', pluralita', apparire, mondanita', sia, ancora, le
figure, a suo avviso esemplari, quali quelle del paria e del parvenu.
D'altronde, focalizzare l'attenzione, come appunto fa la nostra autrice, sul
grumo iniziale di vita rappresentato dalla nascita - in cui l'estrema
esposizione dell'esistenza alla precarieta' e alla contingenza si palesa in
maniera ineludibile e radicale - comporta necessariamente il far leva sulla
fragilita', sfruttandone la forza, cioe' il potere di aprire una prospettiva
di senso sulla realta' non solo del nuovo essere che viene al mondo ma della
vita umana tout court.
Nel suo apparire, cosi' evidentemente non-autosufficiente e bisognoso di
cura ogni neonato/a pone, senza saperlo, un interrogativo al mondo - che per
Arendt e' sinonimo della molteplicita' degli uomini che abitano la terra -
sui limiti e percio' stesso sulle possibilita' intrinseche alla condizione
umana. Infatti, solo attraverso un riconoscimento che ne ratifichi
l'appartenenza all'umanita' l'uomo o la donna che viene al mondo puo' dirsi
tale, ed entrare cosi' a far parte della storia inserendosi in un contesto
di rapporti e in una sia pur minimale tradizione; contesto e tradizione che
per l'effetto riflessivo tipico di ogni riconoscimento si trovano a
misurarsi con quella nuova presenza. L'interrogazione verte appunto sul
paradosso che la capacita' innovativa intrinseca alla vita umana, e che si
palesa con immediata evidenza nella nascita, emerga da una tessitura che
sembra seguire un disegno precostituito.
*
In questione e' il nesso tra liberta' e necessita' e la stessa dimensione
spazio-temporale dell'esistenza; infatti, lo schema lineare che vede in
sequenza passato, presente e futuro, quindi il succedersi delle generazioni,
viene alterato dalla sovrapposizione e dall'intreccio dei tre tempi, come
delle diverse generazioni, a partire appunto dalla nascita in cui ciascuno/a
di noi appare subito uguale e diverso da tutti gli altri, compresi i piu'
prossimi.
Pur essendo la risultante di vissuti altrui, quindi di atti permeati di
speranze e ricordi, chi nasce non coincide con essi e manifesta la sua
unicita' a livello non meramente naturale ma propriamente comunicativo in
quanto entra a far parte del gioco riflessivo prodotto dal mutuo
riconoscimento. Quest'alchimia di differenza e uguaglianza e' un segno
tangibile di come ogni essere umano sia un'individualita' plurale legata
inscindibilmente all'infinita molteplicita' degli uomini.
Il futuro che s'intravede nella nascita e' intriso di un passato che lo
vincola senza riuscire a controllarlo, e pur se previsto rimane
imprevedibile rappresentando tanto l'ignoto quanto l'atteso: cio' che e'
anticipato dall'immaginazione e cio' che piu' ci sorprende. Da parte sua il
passato, magari occultato nei meandri della memoria fino a risultare
inesistente, puo' riaffiorare senza preavviso nel presente modificandone il
corso e concorrendo per tale verso all'imprevedibilita' del futuro. Tutto
cio' si condensa nella semplice presenza di un/una neonato/a in cui
convergono sia un precipitato di accadimenti ormai irreversibili sia la
novita' di una vita ancora tutta da scrivere. Serialita' e ripetizione
procedono in tal modo all'unisono con differenza e innovazione, ne' ci si
puo' appellare a qualche logica per giustificare questa specifica modalita'
umana di vivere: ad un tempo soggetta ed affrancata alla e dalla specie che
richiama la naturalita'.
*
Si puo' allora dire che nella sua "piccolezza" ogni neonato/a agisce al pari
di un "punto archimedeo" nei confronti dell'intera visione dell'esistenza,
in quanto ci permette di percepire sia la differenza tra animalita' e
umanita', quindi tra naturalita' e storia, sia la loro unione.
Anche per questo la fragilita' e' un attributo peculiare della nascita, come
di tutti i caratteri fondamentali dell'esistenza che da essa prendono avvio.
Va comunque osservato che per quanto la nascita, al pari del telescopio,
permetta una diversa focalizzazione sul mondo rispetto a quella che offre
l'osservazione della vita in fasi non altrettanto primarie, essa, a
differenza dello strumento galileiano, e' centrata sulla terra, intesa come
habitat comune della molteplicita' degli uomini che sono tutti radicati
nella fisicita'. Il "corpo celeste" su cui si punta il telescopio non e',
per Arendt, analogo al corpo del/la neonato/a, che, non a caso, funge non da
strumento ma da occasione per un'esperienza conoscitiva ed esistenziale
fondamentale quale e' quella che ci introduce alla scoperta della condizione
umana. Diversi sono anche i due modi di guardare, pur potendo essere lo
sguardo puntato sul cosmo animato da interesse non meno profondo e
appassionato di quanto non sia quello che si posa su una vita umana al suo
inizio.
La vis socratica di cui e' pervasa la riflessione della nostra autrice
comporta uno scarto tra la comprensione delle realta' umane, che
appartengono al mondo, e delle realta' fisiche, che coinvolgono una
dimensione piu' convenzionale ed astratta della conoscenza. L'attaccamento
alla terra quale teatro delle umane vicende accentua il modo critico con cui
l'allieva di Heidegger e Jaspers considera le scienze e la tecnica,
riconducendo per intero ad uomo e donna la responsabilita' del loro uso, il
che investe la politica di un ruolo fondamentale. A questa impostazione
teorica, ed alla differenza qualitativa tra i fatti della scienza e
dell'esistenza che ne consegue, si collega una distinzione tra accadimenti
ed eventi inconciliabile con qualsiasi genere di storicismo e, per contro,
consona ad un approccio pluriprospettico alla storia, tale da disarticolarne
i blocchi per lasciarne emergere le complesse stratificazioni.
*
Da tale punto di vista ritorna la similitudine tra nascita e "cannocchiale",
l'una e l'altro capaci di offrirci una nuova visione della realta' ed
entrambi fragili anche per la sproporzione tra la loro effettiva consistenza
e la portata della loro capacita' esplicativa. Si tratta di una fragilita'
ambigua perche' carica di una forza che puo' volgere in bene come in male,
sempre in relazione al rispetto della condizione umana, che e' quanto piu'
interessa alla nostra autrice, cioe' di ognuno di quegli aspetti necessari a
che la vita possa dirsi tale. Al pari dello strumento antesignano di ben
piu' complessa tecnologia, che puo' indurre uomo e donna a perdere il loro
baricentro nel mondo e percio' stesso il senso dei limiti che li mantiene
ancorati alla pluralita', la nascita puo' indurre ad atteggiamenti di
onnipotenza quasi che un essere umano potesse farsi a proprio piacimento.
Anzi, paradossalmente, data anche la sua carnalita' che sembra distanziarla
dall'algida tecnologia dello strumento, la nascita puo' essere anche piu' a
rischio di manipolazioni estrinseche, finalizzate a forme di
auto-affermazione negatrici dell'identita' propria e/o altrui, come si
vedra' meglio esaminando le figure del paria e del parvenu.
Il problema e' quello di riuscire a fruire di esperienze cosi' significative
che ci permettano un accesso veritiero al mondo sia umano che fisico senza
trattarle solo come mezzi a scopo utilitaristico.
*
Occorre sottolineare come per Arendt tutti gli aspetti con cui si manifesta
la vita umana a partire dal suo "inizio" costringono in certo modo a
riconoscere nella fragilita' il contrassegno di una forza, innanzitutto
perche' indicativa di uno snodo tra necessita' e possibilita' che vincola la
liberta' umana dandole nel contempo consistenza.
In questa prospettiva porre in rilievo la fragilita' non significa
appellarsi in prima istanza al piccolo e al debole per farne la chiave di
lettura di un mondo uso a lasciare nell'ombra, quando non a disprezzare,
debolezza e piccolezza. Lo sguardo arendtiano e' in effetti attento a
captare il nucleo di autentica forza insito nella fragilita', che fa di
questa un attributo di valore da accostare a prezioso. Tale forza e' legata
innanzitutto all'emergenza che acquista agli occhi di qualcuno una realta'
per il suo essere esposta all'insussistenza e per il conseguente senso di
perdita che si accompagna all'idea di una simile eventualita'.
Cio' significa che la fragilita' che qui interessa non e' un connotato della
natura umana ma e' legata ad un contesto relazionale e riguarda, quindi, la
condizione umana: l'essere di ciascun/a uomo e donna sempre in un infra, in
un inter-esse, in un rapporto d'alterita' che ci fa appunto declinare
l'individualita' al plurale, il che esclude il solipsismo come l'assolutismo
perche' garantisce tanto l'unione quanto la distanza tra gli individui. Il
fatto che parlare della fragilita' implichi un rapporto e un contesto
relazionale sottolinea il carattere della pluralita' come proprio della
condizione umana, tanto piu' che e' sempre all'interno di un rapporto e di
un contesto relazionale che si definisce il tipo di fragilita' con cui si
avra' a che fare, e che questa sara' quindi considerata piu', o meno, o per
nulla preziosa.
*
Non e' infatti scontato che la non autosufficienza caratteristica di cio'
che appare fragile attivi, in chi ad essa presta attenzione, gli
atteggiamenti di tutela e cura necessari ad ovviare un danno che puo' anche
non essere avvertito come perdita. Oltre che all'indifferenza la non
autosufficienza puo' dare adito alla prevaricazione, suscitando sentimenti
di potere e di sopraffazione. Per considerare positivamente un connotato
inequivocabilmente indicativo di precarieta' quale e' la fragilita' occorre
in altri termini una disposizione a lasciarsene contagiare riscoprendo nella
non-autosufficineza un valore, che in quanto tale merita rispetto,
innanzitutto in quanto segno del legame che si ha l'un/a l'altro/a.
Fragilita', non-autosufficienza e limite procedono di pari passo con
pluralita', cioe' con la realta' della condizione umana.
Arendt non si occupa dunque della fragilita' in se' ma del modo in cui essa
appare nella sfera mondana per il fatto basilare che la vita di ogni uomo e
donna e' intrecciata a quella degli altri; non riconoscere nella fragilita'
quale sinonimo di non autosufficienza un attributo sia pur embrionale di
valore comporta pertanto un misconoscimento dell'assoluta rilevanza del
mondo, cioe' della pluralita' che accomuna ogni singolo essere umano a tutti
gli altri.
*
Affiora in tal modo una prima forma di forza di tipo sostanzialmente passivo
che la fragilita' riesce ad esercitate sull'altro, attirandone l'attenzione
in quanto segnale di una carenza, un bisogno e una potenziale dipendenza:
tutti fattori intrinsecamente ambigui, perche' nel risvegliare sentimenti di
protezione, sprigionando una specie di affinita' elettiva tra chi tutela e
chi e' tutelato, possono indurre a rapporti lesivi dell'autonomia e
dell'identita'.
Ancora una volta il contesto relazionale risulta cruciale perche' solo il
radicamento nel mondo e nella pluralita' che esso comporta ci fa sentire
quanto sia vitale il nesso tra limite e possibilita', cosi' da non farci
prevaricare la fragilita' e da non rendercene succubi. Cio' significa che il
modello dei rapporti basati sul principio dell'uguaglianza nella differenza
ha nella pluralita' il suo codice genetico, perche' la pluralita' e' di per
se' indicativa di differenza e impegna a riconoscere nel diverso un pari a
livello dei diritti umani alla liberta' e all'autonomia.
Oltre alla forza che si e' detta passiva la fragilita' ne esercita una piu'
direttamente attiva per il semplice fatto di mostrarsi come tale, cioe' di
apparire come un indice palesa di precarieta'. Ed e' proprio nell'apparire
che si annida la sua forza in senso piu' attivo intorno a cui si coagulano
gli atteggiamenti di apprezzamento e di cura; tale forza si rende visibile
nelle situazioni vitali esemplificate in maniera ottimale dalla nascita. Per
questo la nascita naturale, nella sua concretezza fattuale, mantiene per
Arendt un aspetto fondante rispetto ad ogni sua possibile trasformazione in
termini di natalita', cioe' di capacita' creativa espressa in forma
simbolica.
*
La nascita e' dunque segno per eccellenza della "fragilita' delle cose
umane", da non intendere, come si e' detto, in senso naturalistico o
essenzialistico, bensi' come un carattere connesso all'interazione sociale,
per cui chi agisce non e' meramente "uno che fa" ma sempre e nello stesso
tempo "uno che subisce", come appunto si vede nel rapporto tra genitori (o
chi per loro) e figli. Anche per questo si puo' considerare la nascita come
la matrice dell'autentico agire, infatti se "un solo atto [anche il piu'
piccolo nelle circostanze piu' limitate] e qualche volta una sola parola,
basta a mutare ogni costellazione di atti e parole", cio' "deriva dalla
condizione umana della natalita'", ed analogamente "il cominciamento
inerente alla nascita puo' farsi riconoscere nel mondo solo perche' il nuovo
venuto possiede la capacita' di dar luogo a qualcosa di nuovo, cioe' di
agire".
Azione e nascita, cosi' strettamente legate l'una all'altra, sono entrambe
segnate dalla fragilita' e hanno per questo il potere di richiamare ciascun
essere umano alla realta' della sua condizione e a non considerare nulla di
cio' che attiene all'umano come irrilevante. Non a caso, analogamente a
quanto accade per la nascita che funge da detonatore, in chi di essa
partecipa, di un bisogno di vita tanto originario da suscitare i sentimenti
empatici alla base della cura, l'azione esercita un effetto simpatetico su
chi la vede e provoca ammirazione. Le relazioni che l'azione presuppone e
stabilisce tendono a espandersi, "a forzare tutte le limitazioni e a varcare
tutti i confini", non perche' le persone implicate costituiscano una
"illimitata moltitudine" ma per l'intrinseca pluralita' di ciascun essere
umano venuto, che viene e che verra' al mondo.
Il non saper riconoscere nella fragilita' un indicatore di umanita'
rappresenta allora una forma di ottusita' molto grave perche' lede la
capacita' di avviare il nuovo e di recepire la novita' dell'autentico
inizio, che e' sempre imprevisto e imprevedibile.
*
Un simile modo d'intendere la fragilita', dando rilievo positivo alla
precarieta', porta a non considerare la contingenza solo nella prospettiva
dell'annullamento, come tende a fare la filosofia esistenziale che misura la
vita nel confronto con la morte; quest'ultima rientra ovviamente tra le
caratteristiche della condizione umana che la nostra autrice ritiene
fondamentali, ma nell'ottica arendtiana, mirata a cogliere la positivita'
del limite, non puo' venire assolutizzata: nascita, terra, pluralita',
azione, discorso concorrono a metterci di fronte all'ineludibilita' del
limite che e' per noi condizione di possibilita'. Il paradosso di una vita
limitata e aperta alla possibilita', necessitata e libera, individuale e
plurale e' per Arendt un fatto esperibile ma non logicamente dimostrabile,
che ci fa riconoscere nella precarieta' un valore, perche' implica
l'apparire quale emergenza - cominciamento -, senza di cui non si da'
autentico inizio.
L'insistenza sulla connessione tra cominciamento, in senso non meramente
temporale ma causale, e apparenza - che e' fattore indispensabile a che la
vita si esplichi in conformita' alla condizione umana e non alla mera
sopravvivenza animale -, non fa che ratificare l'importanza dell'emergere,
dell'essere esposti, cioe' di tratti indubbiamente marcati dalla precarieta'
e quindi evocativi anche di morte, ma non per questo indirizzati alla morte.
Essi rappresentano piuttosto degli indicatori della inequivocabile capacita'
che hanno gli esseri umani di iniziare qualcosa di nuovo a partire dal fatto
che vengono al mondo e mettono altri esseri umani al mondo.
*
In questo senso la forte sottolineatura arendtiana della contingenza,
connessa all'interpretazione dell'"esserci" quale specifica modalita'
dell'esistere, si discosta dall'alveo heideggeriano da cui pure prende le
mosse. Come e' noto, il pensiero della nostra autrice e', sotto questo
profilo, piu' influenzato da quello agostiniano, che essa non inserisce
nella sua rapida ricapitolazione della filosofia esistenziale, che prende
avvio con Kierkegaard. Ogni qualvolta parla della nascita, che per lei
costituisce una categoria fondamentale della condizione umana, Arendt
richiama Agostino, valorizzandone la capacita' di focalizzare la portata
essenzialmente innovativa di un fatto cosi' elementare e quotidiano che
s'impone quale autentico initium a livello di senso comune. Una simile
concezione della nascita influenza il modo in cui ella guarda alla storia,
che e' appunto costellata di eventi, ciascuno unico ed irripetibile eppure
sostanzialmente uguale agli altri, suscettibili tutti, ognuno alla propria
maniera, di cambiare il corso dell'insieme. L'imprevisto che ogni neonato/a
porta con se', imprevisto che nel contempo scandisce la successione di
episodi tanto similari da risultare prevedibili, introduce uno scarto nella
ripetizione degli accadimenti che intacca alla radice la pretesa di una
ricostruzione univoca della storia, costringendoci a declinarla, anch'essa,
al plurale: non piu' storia ma storie, non solo plurime ma aperte alla
possibilita' di interrompersi e frantumarsi, proliferando in segmenti i cui
intrecci sono suscettibili di dar luogo a nuove ramificazioni.
Lo scarto che il nuovo di cui la nascita e' segno immette nel succedersi
delle vicende umane non significa, pero', automaticamente frattura perche'
esso puo' dar luogo anche alla ripresa di una qualche storia piu' o meno
remota rimasta interrotta. Il passato puo' cosi' tornare a nuova vita e
impregnare di se' il presente avviandolo a cambiamenti fino ad allora
imprevisti capaci di preparare un futuro diverso, che magari era stato
considerato, fino ad allora, alla stregua di un sogno inattuabile.
*
Il quadro che si delinea e' difficile da ricondurre ad una cornice, eppure
non possiamo dire che esso sia solo abbozzato o che risulti frammentato e
poco decifrabile. La post-modernita', a cui e' stata ricondotta la
riflessione arendtiana, puo' certo influenzare la proposta teorica di questa
autrice facendocela apparire ad un tempo precisa e imprecisa, appunto
perche' refrattaria alla pretesa esaustiva del sistema come a quella
assolutistica dell'essenzialismo. Il tratto piu' specificatamente arendtiano
di questa, in certo modo funambolesca, pratica di pensiero riguarda pero' la
modalita' di approccio alla questione essere umano, modalita' che, a mio
avviso, e' tipicamente antropologica, nel senso in cui l'antropologia si
dice pragmatica secondo l'accezione risalente a Kant. Gia' il riferimento al
testo kantiano, che, come e' noto, non propone una definizione univoca di
antropologia pragmatica, da' risalto alla complessita' dell'approccio di
Arendt e ci sposta sul versante fenomenologico, ma non trascendentale (nel
senso di propriamente apriori).
*
2. Il prezzo dell'identita': paria o parvenu?
Se la nascita costituisce un'iniziazione alla natalita' per chiunque, a
vario titolo, se ne lasci coinvolgere e ne partecipi, prima e seconda
nascita si configurano come poli di una medesima dinamica, per cui il senso
della vita, che si gioca sempre e per intero nella mondanita', e' legato
alla nascita sia come vita che ci viene da altri, senza essere ne' cercata
ne' scelta, sia come inizio di una nuova vita da un alveo preesistente. Per
questo parlare di prima e seconda nascita non implica la trascendenza della
vita umana rispetto al "mondo", alla "terra"; la distinzione sottolinea la
necessita' per ogni uomo e donna di accettare prendendone atto la realta'
della propria nascita considerandola come qualcosa di cui si e' tributari
agli altri e che occorre riconoscere per avviare un nuovo percorso. Per
questo nel "chi" si riassume e trascende tutto il passato di chi appunto
parla e agisce, come bene sintetizza l'espressione "il futuro alle spalle":
agire significa riaffermare il passato non per ripeterlo ma per innovarlo.
Per avere una "seconda nascita", testimoniando alla comunita' umana la
possibilita' di ri-iniziare la vita, bisogna dunque attingere alla prima
nascita, ma cio' non significa che tra l'una e l'altra intercorra un
rapporto dialettico, data anche l'avversione di Arendt per la dialettica di
matrice hegeliana. Si tratta di una dinamica interna alla natalita' quale
disposizione specificatamente umana alla vita, in cui confluiscono vissuti
che riguardano anche situazioni psichiche tanto primarie quanto basilari per
il processo di individuazione, sulle quali la nostra autrice non si
sofferma, perche' a suo avviso riguardano le radici nascoste dell'intimita',
da cui la vita trae forza solo se restano celate.
Viene pero' fatto di chiedersi: come pensare ad una dimensione pubblica, in
cui si verificano azione e discorso, e a una dimensione privata, invisibile
agli altri, se il mondo e' per intero mondo dell'apparenza, e se la nascita,
quale "prima radice" di azione e discorso, e' initium dell'apparire del
"chi"?
La distinzione tra sfera pubblica e privata, che Arendt elabora sul modello
della vita nella polis, non risolve il problema dell'interiorita', cioe' di
cosa sia necessario al formarsi del senso del se' e dell'Io che sostiene la
personalita'. L'anima, che, sempre per Arendt, e' sede della vita emotiva,
non puo' essere coltivata solo lasciandola svolgere nell'oscurita' e
salvaguardando l'ambito privato della vita, benche' cio' sia quanto mai
necessario. All'acutezza nel cogliere gli attentati alla personalita' che
vengono dall'assetto sociale fa cosi' da contraltare una mancanza di
considerazione per gli aspetti psicologici della natalita', quindi
dell'ideazione creativa, e piu' in generale del sostrato affettivo
dell'attivita' pensante. Di certo l'atteggiamento pregiudizialmente critico
verso la psicologia e la psicoanalisi che caratterizza la nostra autrice
incide sul suo approccio all'interiorita', non facendole cogliere la
complessita' dell'elaborazione dei vissuti emotivi e la sua incidenza nelle
strutture del pensiero e del discorso sebbene ella insista sul fatto che il
dono della nascita puo' fruttificare nel tempo solo attingendo al contesto
di natalita' della relazionalita' primaria.
*
Il riconoscimento della vita come data, come storia ricevuta in eredita' che
indipendentemente da qualsivoglia preferenza va accettata, mentre ci
inserisce nella storia di altri apre il campo a possibilita' impreviste. La
semplice ricezione della nascita puo' infatti disporre a scoprire "chi" si
e' non come mera risultante di fatti remoti, soprattutto allorche'
costituisce una scoperta e non una mera acquisizione. Infatti la conoscenza
non e' mai neutra e non lascia invariato l'ordine delle cose in cui si
attua, tanto piu' quando si tratta dei connotati primari della propria
biografia, rispetto ai quali la ragione calcolante puo' rivelarsi
inadeguata. Intorno al grumo del semplice dato anagrafico si condensano
vissuti emotivi che possono impegnare intensamente la nostra capacita' di
imparare ad apprendere dall'esperienza.
Quando comprendere significa assumere, patire rivivendola, la relazione di
parentela che e' all'origine della nostra singola vita, l'appropriazione di
noi stessi passa attraverso il riconoscimento degli altri che sono parte di
noi, e che con il loro peso ci danno la possibilita' di liberare
potenzialita' solo nostre, che una volta liberate ci fanno sentire diversi
ed unici. In tal senso conoscere la nascita puo' rappresentare un'esperienza
paragonabile ad una nuova nascita, non solo per se stessi ma anche per chi,
assistendovi, ha l'occasione di scoprire, o riscoprire, la propria
natalita'. La forza aggregante di una simile comprensione e' l'amore, che
agisce come un peso (il pondus agostiniano) per la volonta', portandola a
risolvere il suo interno conflitto tramite uno spostamento che modifica la
messa a fuoco di se stessi e del mondo.
*
Quando, interrogata sull'origine del suo interesse per la politica, Hannah
Arendt introduce "la peculiarita' del mio [suo] ambiente famigliare", ci
indica il luogo delle origini da cui ha preso avvio il suo personale modo di
interessarsi alla politica, cioe' ad una dimensione precipuamente umana
della vita. Solo nella presa di coscienza della propria condizione umana,
del proprio essere - in quanto nati - legati all'ineluttabilita' del dato si
puo' attingere alle potenzialita' dinamiche dell'initium presenti nella
nascita. Tale interazione si rende palese allorche' ci si manifesta davanti
agli altri senza tradire ne' ripetere passivamente la propria storia.
Per questo nel mostrarsi del "chi" l'agente si rivela non solo agli altri ma
anche a se stesso: egli scopre aspetti ignorati della sua identita' che
l'azione gli pone davanti. Agire ha, da questo punto di vista, un potere
rivelatore ed implica l'esperienza di sentirsi e viversi come nel contempo
uguali e diversi da se stessi; il che ci riconduce alla nascita quale luogo
per eccellenza di unioni paradossali, tra necessita' e liberta', tra
unicita' e pluralita', tra passato e futuro: unioni che intessono la vita
quotidiana.
*
Dal modo con cui ciascuno di noi si rapporta alla nascita, traendone o meno
stimolo per una appropriazione di se' rinnovatrice, dipende gran parte della
possibilita' di avere un'esistenza autonoma, irriducibile alle altre, ad
essa intrecciate e congiunte. E' questo lo snodo in cui Arendt situa la
differenza tra il paria e il parvenu, le due figure in cui l'estraneita' di
ogni individuo agli altri, pur nella comune appartenenza umana, si
caratterizza in forma di emarginazione, costringendo ciascuna di esse ad un
confronto radicale con la propria nascita, che e' appunto fonte di
emarginazione. La considerazione della nascita, che s'impone prima o poi ad
ogni essere umano, costituisce dunque per il paria e il parvenu l'esperienza
piu' diretta ed immediata del vivere con gli altri nella scena mondana; e
tale impatto, che segna una insopprimibile differenza tra loro e il mondo,
e' cosi' incisivo da renderli estremamente sensibili sul piano esistenziale,
cioe' verso i tratti salienti della condizione umana. Nel paria questa
sensibilita', che di per se' tenderebbe alla tenerezza (intesa come empatia
verso ogni forma di marginalita'), puo' sfociare in violenza, dunque in una
forza intrisa di fragilita', tesa alla difesa di un'identita' che si sente
minacciata e offesa. Nel parvenu invece tale sensibilita' comporta una
fragilita' che espone alla violenza dell'altro, non diretta ma subdola, in
quanto lo induce a barattare la sua identita' autentica con una funzionale
all'accettazione sociale.
*
Nel descriverci le due figure, in cui si condensano delle situazioni
esistenziali comuni ad ogni essere umano, Arendt evidenzia come sia la
debolezza del parvenu che la forza del paria dipendano da quanto si e'
ricevuto, o non si e' ricevuto, con la nascita, cioe' dall'avere o meno
avuto la possibilita' di fruire dell'esperienza di "sentirsi a casa
propria". L'Heimatgefuhl costituisce quel nucleo intimo dell'identita'
personale che funziona da "prima radice", in assenza della quale si cresce
come sospesi in aria, rimanendo sempre esposti alle pressioni esterne. Tale
radicamento non solo e' alla base del processo d'individuazione ma permette
di sostenere il confronto con l'avversita', perche' da' linfa nel momento
della prova, quando il mondo si presenta estraneo e nemico.
Da tale punto di vista, il disconoscimento della nascita imposto dalla
societa' trova nel paria una resistenza che attinge all'intima
consapevolezza di fare parte di un mondo diverso, il cui valore e'
inattaccabile dall'esterno; laddove il parvenu brama di appartenere alla
societa' che non accetta la sua identita' perche' non ha un'autentica
esperienza interiore di "chi" egli sia. Il "sentirsi a casa propria" non ha
avuto modo, nel suo caso, di rendersi abbastanza consistente per sostenere
il rifiuto che gli oppone il mondo sociale dominante. Accomunati da un
medesimo rapporto con la sfera del sociale, giocato appunto sul versante
dell'emarginazione, il paria e il parvenu si differenziano l'uno dall'altro
per come rispondono a tale situazione determinata dal dato biografico con
cui si viene al mondo. Quel mondo, costituito dalla pluralita' degli uomini
da cui il mondo sociale pretenderebbe escluderli, senza accorgersi che
rispetto ad esso non ha alcuna autorita' perche' ha rinunciato a proporsi
come dimora per la pluralita' umana.
*
E' dall'accettazione da un lato e dal rifiuto dall'altro della propria
nascita che i due prototipi dell'esistenza emarginata assumono la veste
rispettivamente di paria e di parvenu.
Il primo, ratificando le sue origini, guarda la societa' da cui e' escluso,
costringendo quella societa' a guardarlo e riconoscerlo; egli instaura cosi'
un rapporto critico e di conflitto ma non occultante i connotati essenziali
della sua esistenza, ed in tal modo, ad un prezzo certo anche molto, quando
non troppo, elevato, salva il nucleo della sua identita' e tutela la sua
dignita'.
A fronte di questa, la posizione del parvenu e' piu' debole, benche' la
scelta di rinnegare le origini e di assumere un tipo di vita estranea e in
certo modo forzata gli consenta l'accesso ad una societa' rispetto a cui la
semplice appartenenza e' gia' occasione di privilegio.
L'albero con le radici in aria, di cui Rahel Varnaghen e' l'esempio,
rappresenta simbolicamente l'esistenza del parvenu, che puo' si' esplicarsi,
mettendo rami e fronde, ma rimane sempre esposta al rischio della
catastrofe, cioe' della completa cancellazione. La vita del paria, al
contrario, ha radici profonde ma rischia di rimanere avviluppata in se
stessa, senza poter dare frutto; per quanto mutilata, essa pero' non
soccombe completamente e puo' tornare a svilupparsi alla luce del sole.
Entrambe le figure sono costrette ad amputare da se' qualcosa di essenziale:
per il parvenu le basi della propria storia, quell'inizio a cui attinge la
natalita', per il paria i legami sociali, le relazioni fuori del ghetto che
danno ossigeno e permettono la crescita, cosi' come le radici garantiscono
l'ancoraggio alla terra da cui si trae nutrimento.
Ma perche' si e' costretti a simili amputazioni? E perche' la societa' opera
al suo interno una scissione cosi' grave, che intacca alla radice la
possibilita' di immaginare un mondo comune per l'universale pluralita' degli
uomini? Non si tratta, anche in questo caso, di un'incapacita' di pensare la
nascita, di considerare la condizione umana della natalita'?
*
Paria e parvenu rappresentano dei casi limite, in certo modo dei tipi
ideali, mentre nella concretezza della vita le posizioni non sono cosi'
nette, non solo perche' lo sviluppo delle cose puo' portare a cambiamenti e
rovesciamenti, ma perche' la stessa persona puo', lungo la sua intera
esistenza, vivere in maniera ambigua, portandosi dentro piu' anime e
comportandosi un po' da paria e un po' da parvenu. Nel caso di Rahel
Varnhagen, esempio di una vita da parvenu che si riscatta, pur tragicamente,
riassumendo la propria identita' di paria, la metamorfosi avviene
dall'interno, per il lavorio di una coscienza dilacerata, il cui conflitto
emerge prima a tratti e poi in maniera eclatante. L'ebraismo diventa in tal
modo cifra di un'ambiguita' esistenziale comune a tutti gli uomini, che
nell'ebreo si fa radicale: quella di sentirsi nel contempo dentro e fuori
del mondo terreno e storico di cui si e' parte senza appartenervi. Nessuna
delle metafore della vita umana preferite dalla cultura postmoderna
corrisponde pienamente a questa condizione di cui l'ebreo e' cifra in quanto
ha un'identita' immediata per nascita: si e' ebrei perche' nati ebrei,
quindi di madre ebrea. Il radicamento nella nascita e l'appartenenza ad un
mondo e' quindi per l'ebreo inequivocabile, e per tale verso cosi' naturale
da comportare una piu' forte istanza di auto-appropriazione e, quindi, di
giustificazione su un piano di universalita' della sua differenza. In tal
senso l'ebreo e' necessario al mondo, visto che la sua immediata "identita'
per nascita" lo porta ad un investimento piu' diretto sul fronte della
ricerca della natalita' in senso propriamente umano, e non meramente
naturalistico.
*
La forte considerazione della nascita puo' pero' anche sfociare nell'hybris
della diversita', e rendere piu' difficile la seconda nascita, in cui
l'esplicitazione del "chi", coinvolgendo la sfera pubblica, si fa segno
della comune appartenenza umana. Da qui, anche, il difficile e controverso
rapporto di Arendt con il sionismo. Ma di certo ella non fu bloccata dalla
sua ambiguita' esistenziale visto che seppe risolverla nell'azione e nel
discorso, come d'altronde era stata educata a fare. Rispetto all'ambiguita'
l'una e l'altro sono senza dubbio discriminanti, in quanto avvengono nel
momento della scelta necessaria, quando occorre mostrarsi in maniera univoca
per non minare il nucleo profondo della propria identita', dando modo alla
singolarita' e alla pluralita' di congiungersi.
Arendt ritiene che per quanto difficile tale scelta sia vitale perche' ci
da' la possibilita' di dare nuova vita a cio' che siamo. Si capisce quindi
perche' ella estenda a Walter Benjamin quanto Jacques Riviere dice di
Proust, parlandone come di un "inesperto del mondo" e, in quanto tale,
"totalmente incapace di modificare le condizioni della sua vita che erano
diventante letali per lui". "L'inestricabile intreccio" nel quale era
avvolta la vita di Benjamin non ebbe modo di risolversi in un'azione
discriminante, ed egli si trovo' "costretto" nell'assurda posizione "'sulla
cima dell'albero', da dove le tempeste potevano essere meglio individuate
che non dal porto riparato, benche' i segnali angosciosi del 'naufragio' di
quest'uomo... non venissero quasi rilevati".
*
Il mondo che emargina uomini come Benjamin non e' quello in cui l'individuo
"si coniuga al plurale" perche' partecipa di una comune umanita'. Ma la
rinuncia ad agire per rivendicare il proprio diritto a vivere in un mondo
umano, in cui l'individualita' di ciascuno, compresa la propria, possa
manifestarsi pienamente nella sua dimensione di pluralita', quindi a livello
pubblico, intacca la possibilita' stessa della vita.
Nella sua riflessione sulla violenza, confrontandosi soprattutto con Fanon e
con Sartre, Arendt lavora continuamente intorno al problema di come sia
possibile agire per un mondo umano in una situazione di radicale fragilita'
quale e' quella prodotta dall'emarginazione, consapevole dei rischi cui e'
esposta ogni azione che e' insieme tanto necessaria quanto estrema. Da
questo punto di vista si avverte nel paria il pericolo che incombe su tutti
"i dannati della terra" di votarsi ad un eroismo disperato.
Per scansare tale pericolo Arendt fa ricorso per un verso all'immaginazione,
che facendoci "vedere" un mondo ci infonde speranza, permettendoci di agire
anche in una prospettiva di lungo periodo; per altro verso si appella alla
ragionevolezza, intesa come ragion pratica che si nutre, nutrendola, della
comunicazione tra gli uomini, soprattutto lavorando sulle zone di confine
tra territori diversi, non in maniera diplomatica ma dialogica. La
ragionevolezza, il buon senso, si accompagnano a sentimenti profondamente
umanitari, come l'amicizia, quell'amicizia che Arendt provo' anche per il
funzionario di polizia che l'aveva arrestata: un uomo dal "viso cosi' aperto
e onesto" da ispirarle fiducia, la stessa fiducia che lei aveva suscitato in
lui alla prima occhiata.
La breccia nel muro che ci separa puo' dunque essere aperta da un rapporto
interpersonale giocato sugli affetti. Si tratta di una prima radice che per
incidere sulla scena del mondo deve potersi tradurre in azione, allargando
le sue finalita' ad un orizzonte piu' ampio che vada al di la' della
dimensione privata della vita.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 25 del 18 agosto 2005