La domenica della nonviolenza. 32



==============================
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
==============================
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 32 del 31 luglio 2005

In questo numero:
1. Ernesto Ferrero ricorda Cesare Cases
2. Giulio Schiavoni ricorda Cesare Cases
3. Loris Campetti ricorda Cesare Cases
4. Massimo Raffaeli ricorda Cesare Cases
5. Cesare Cases: Lessing in Italia. Con vespe
6. Antonio Gnoli intervista Cesare Cases in occasione degli ottant'anni
(2000)

1. MEMORIA. ERNESTO FERRERO RICORDA CESARE CASES
[Dal quotidiano "La stampa" del 28 luglio 2005.
Ernesto Ferrero e' scrittore ed operatore culturale, gia' direttore
editoriale della casa editrice Einaudi. Opere di Ernesto Ferrero: segnaliamo
particolarmente (a cura di), Primo Levi: un'antologia della critica,
Einaudi, Torino 1997.
Cesare Cases, nato a Milano nel 1920, illustre germanista, saggista
acuminato, critico letterario - e dei costumi e delle ideologie -, docente
universitario, polemista e moralista, intellettuale critico di grande
acutezza, vivacita' e rigore, e' scomparso pochi giorni fa a Firenze. Tra le
principali opere di Cesare Cases: Marxismo e neopositivismo, Einaudi, Torino
1958; Saggi e note di letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1963; Patrie
lettere, Liviana, Padova 1973, Einaudi, Torino 1987; Su Lukacs, Einaudi,
Torino 1985; Il testimone secondario, Einaudi, Torino 1985; Il boom di
Roscellino, Einaudi, Torino 1990; Confessioni di un ottuagenario, Donzelli,
Roma 2000, 2003]

La carriera di Cesare Cases, scomparso ieri mattina, nella sua casa
fiorentina, sommo germanista cui va stretta ogni qualifica specialistica ed
ogni etichetta, comincia addirittura nel segno di Thomas Mann. Siamo nei
primi anni '50, il giovane professore alla Scuola ebraica della sua citta',
Milano, dove era nato nel 1920, ha gia' cominciato a collaborare con
Einaudi, quando un'occasione redazionale lo mette in contatto con Mann, il
quale scrive all'editore che quel suo collaboratore "padroneggia la lingua
tedesca con perfezione umiliante". Uno scopritore di talenti come Einaudi
non poteva lasciarsi sfuggire una segnalazione cosi' clamorosa, e arruolo'
Cases in redazione, giovandosi per anni di una competenza e affidabilita'
assolute, che si traducevano in una mostruosa capacita' di lavoro, alternata
all'insegnamento universitario che lo porto' a Cagliari, Pavia e a Torino.
Anni dopo Cases commentera' nelle sue gustose divagazioni autobiografiche
pubblicate da Donzelli che "da Einaudi non sapevano che di Mann si diceva,
come di Goethe, che l'esser lodato da lui equivaleva a un attestato di
mediocrita'". Durante un viaggio in Germania, divento' amico di Italo
Calvino. Ricordava: "Eravamo entrambi un po' avari, entrambi arrendevoli,
scarsamente litigiosi, di facile contentatura".
Basterebbe questo a dire lo humour leggendario di un uomo unico nel panorama
culturale italiano del secondo Novecento, indispensabile agli amici come
agli avversari. Era infatti ben lui a dire che molto si puo' imparare dai
nemici. L'eleganza della sua imprevedibile scherma intellettuale era tale da
strappare un sorriso d'ammirazione anche a chi non la pensava come lui. Se
dovessi trovargli un interlocutore ideale, direi Voltaire.
Cases ne avrebbe scelto sicuramente degli altri, magari Hoffmann o Novalis,
ma insisto a dire che il suo charme cosi' arguto, intessuto d'autoironia
prima ancora che d'ironia, era francese e illuminista, anche se fondato su
una granitica padronanza dei testi, da Goethe a Marx, dallo stesso Mann a
Musil, da Benjamin a Brecht, e naturalmente ai francofortesi, Horkheimer e
Adorno, proprio loro che avevano indicato nell'Illuminismo la fonte prima di
tante distorsioni operate in nome della ragione.
In Cases non c'era mai il sogghigno cosi' fastidioso della superiorita'
intellettuale. Sapeva troppe cose e aveva degli uomini una conoscenza cosi'
precisa e disincantata per atteggiarsi a profeta o maestro, per non sapere
che tutto si gioca su una fune sospesa sull'abisso. Mai allineato al gusto
dominante, alle mode culturali, alle parole d'ordine, gli piaceva anzi
giocare un ruolo ereticale del bastian contrario. Rifiutava invece quello
dell'apocalittico, preferendo dirsi agnostico. Caso mai in tarda eta' si
riconosceva qualche peccato d'ottimismo. Avvicinandosi il 2000, diceva di
osservare con "allibito stupore" certi progetti di "progresso sostenibile",
cari a Berlusconi come a D'Alema. Sentiva prossima l'estinzione della classe
degli intellettuali, ma la registrava con una pacatezza quasi divertita.
*
"Non bisognera' odiare i tedeschi, dopo", aveva detto Leone Ginzburg poco
prima di morire per mano dei nazisti. L'interesse di Cases per la
germanistica nasce proprio dallo scatto di un bastian contrario.
Traumatizzato dal fatto che proprio un Paese d'alta cultura avesse prodotto
il mostro del nazismo, scelse la via piu' impervia: occuparsi della cultura
che non aveva rispettato le attese e le speranze sue e dei suoi amici, e di
cui lo affascinava la stretta commistione tra letteratura e filosofia.
Costretto a rifugiarsi in Svizzera perche' ebreo, durante la guerra aveva
studiato chimica a Losanna e a Zurigo. La' aveva imparato un tedesco "un po'
libresco - diceva - perche' il tedesco autentico ha sempre una connotazione
dialettale".
Riteneva che gli errori e gli orrori della Germania fossero l'espressione di
una crisi epocale che riguardava tutti, non soltanto i tedeschi. Proprio
perche' avanzato, il Paese era diventato laboratorio di esperimenti
mostruosi in cui venivano a galla vecchie tensioni, un'avanguardia di segno
negativo che andava studiata, non demonizzata. Se la grande cultura tedesca
era nata in piccoli centri come Weimar, il virus del nuovo potere stava
annidato nel ventre di grandi citta' come Berlino, che guardavano con enorme
interesse alla modernita' americana, e ne copiavano gli aspetti peggiori,
diceva Cases, che riscontrava al di la' e al di qua dell'Atlantico le stesse
solitudini, lo stesso disorientamento.
Aveva cercato di utilizzare anche lui gli strumenti marxiani, ma lavorando
anche sui dubbi, lo scetticismo di fondo. Una societa' senza classi e' certo
un miraggio, e tuttavia resta "un'idea motrice che puo' dare le ali
all'umanita'. Senza di essa rimangono soltanto rassegnazione e passivita'".
Aveva portato in Italia Gyorgy Lukacs, il teorico di quel "realismo critico"
che cercava di ricuperare la grande letteratura borghese in vista di un
nuovo progetto sociale, il marxista che subiva il fascino di Thomas Mann e
di Musil. Cases ne ammirava la fedelta', perfino ingenua, a se stesso e alle
sue utopie. Ricordava: "Eravamo tutti, anche se non spudoratamente, dei
seguaci di Lukacs, il quale diceva che il peggiore dei socialismi era
comunque superiore al migliore dei capitalismi. Semplicemente vedevamo
un'alternativa che in realta' non c'era. E non c'era perche' il comunismo
era fondato sulla menzogna, tanto quanto la civilta' cristiano- borghese".
Era capace di una serena equanimita' verso le sue passioni "giovanili". Per
lui Adorno restava un grande, e Minima moralia, uno dei capolavori
filosofici del Novecento. Anche Brecht, oggi dimenticato, gli sembrava
grande scrittore e grande poeta, "nonostante i suoi limiti". Dei
contemporanei salvava due austriaci, Thomas Bernhard e Ingeborg Bachmann.
Non amava Grass, o la generazione degli anni Sessanta.
Possiamo congedarci almeno provvisoriamente da Cases adottando quel che lui
diceva di Paul Celan: un artista che era si' riuscito a rappresentare "il
disastro in cui viviamo", ma aveva anche affermato il "nucleo solido" della
poesia, la sua capacita' di resistenza, qualcosa cui ci si puo' aggrappare
anche nei momenti di sconforto. A questo "nucleo solido" della grande
letteratura come strumento di conoscenza etica Cases e' rimasto pacatamente
fedele sino ai suoi ultimi giorni.

2. MEMORIA. GIULIO SCHIAVONI RICORDA CESARE CASES
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 luglio 2005. Giulo Schiavoni, nato nel
1940, germanista e saggista, e' docente di letteratura tedesca
all'Universita' del Piemonte Orientale a Vercelli; ha insegnato anche nelle
universita' di Torino, Ferrara e Messina. Tra le opere di Giulio Schiavoni:
Hermann Broch, La Nuova Italia, Firenze 1976; Walter Benjamin. Sopravvivere
alla cultura, Sellerio, Palermo 1980; Guenter Grass, La Nuova Italia,
Firenze 1980; Walter Benjamin. Il figlio della felicita', Einaudi, Torino
2001]

Lo sapevamo ormai appartato, costretto a convivere con le difficolta'
crescenti che gli imponeva la malattia. E ci rammaricavamo di non poter
ormai contar piu' come un tempo sui suoi interventi: sulle sue uscite
pubbliche, sulla ricchezza delle prospettive che ogni volta - in tono sia
pure arguto, polemico o addirittura caustico - riusciva a dischiudere, e su
quel dono dell'ironia che e' divenuto una dote sempre piu' rara nel mondo
della critica letteraria e della letteratura militante, poiche' di fronte al
conformismo imperante - diceva Cesare Cases - i critici non possono far
finta di niente, ma devono piuttosto uscire dall'imperturbabilita' e tenere
"l'indice puntato". Era una gioia poter veder ancora comparire - di tanto in
tanto - il suo nome a fianco di qualche sia pure sporadica recensione.
Giacche' non importava l'argomento: erano comunque interventi che ci davano
l'idea di cosa si potesse intendere per vera critica; offrivano sempre
spunti di riflessione, mantenevano aperte le questioni, le ragioni del
vivere; ogni sua nota era anche un modo di tener desta e viva la memoria, di
mantenersi (e di mantenere) guardinghi, in una disincantata fedelta'
all'impegno civile, senza enfasi o trionfalismi soverchi.
*
Non a caso, con il passare degli anni Cases e' divenuto il testimone sempre
piu' melanconico di un mondo frammentario. Il suo itinerario biografico e'
sicuramente straordinario, e puo' essere letto come una silloge della
cultura del dopoguerra. S'era formato, sui vent'anni, a Zurigo (per sfuggire
alle persecuzioni razziali in quanto ebreo), a contatto con le opere di
Lukacs e Lucien Goldmann, dunque in un clima tutt'altro che provinciale. E
si era laureato a Milano con una tesi su Juenger (relatori Antonio Banfi ed
Enzo Paci), riedita nel '97 dalla Nuova Italia: una tesi dedicata a uno
scrittore allora (e tuttora) scomodo, che nel '42 Giaime Pintor aveva
definito "forse il maggiore scrittore tedesco di oggi" considerandolo pero'
incapace di dire alcunche' alla propria generazione (Cases ha ribadito nella
premessa alla ristampa del lavoro che l'evoluzione ideologica del "suo"
autore s'era arrestata all'immediato dopoguerra).
Aveva poi optato per l'attivita' di saggista e di consulente editoriale
dell'Einaudi, collaborando peraltro via via negli anni a importanti riviste
quali "Societa'", "Passato e presente", "Il Contemporaneo", "Quaderni
piacentini", "Mondo operaio", "Lo Spettatore Italiano", "Nuovi Argomenti",
"L'Espresso" e "L'indice". A questa attivita' aveva affiancato quella di
studioso di cultura tedesca apprezzato a livello internazionale, come
professore di letteratura tedesca dapprima all'universita' di Cagliari e poi
all'universita' di Torino. E proprio quale germanista aveva approfondito
soprattutto autori del '700 tedesco come Lessing e Goethe e poi del '900,
come specialmente Thomas Mann, Friedrich Duerrenmatt, Max Frisch e Bert
Brecht (basta ricordare gli importanti volumi Note e saggi di letteratura
tedesca, Einuadi 1963, oppure Thomas Mann, Studio Tesi 1983). Aveva inoltre
contribuito decisamente a far conoscere in Italia autori come Theodor
Adorno, Walter Benjamin, Peter Szondi e in particolare Georg Lukacs, il suo
"maestro" riconosciuto, con il quale aveva avviato un decisivo carteggio (Su
Luka'cs. Vicende di un'interpretazione, Einaudi 1985). In occasione dei suoi
ottant'anni aveva rievocato in un libro-intervista curato da Luigi Forte
(Memorie di un ottuagenario, Donzelli) i propri incontri con Lukacs e
Adorno, Einaudi e Calvino, Contini e Gadda.
*
Cesare Cases prediligeva la forma frammentaria. Ne offrono una riprova in
particolare la sua grande raccolta di "saggi e interventi" militanti sulla
cultura del Novecento disseminati nell'arco di un trentennio intitolata Il
testimone secondario (Einaudi, 1985) e la raccolta di "satire e polemiche"
Il boom di Roscellino (Einaudi 1990). Per comprendere l'atteggiamento
adottato da Cases e' giusto forse soffermarsi proprio sulla suggestiva e
assai moderna prospettiva del "testimone secondario", secondo un'immagine
inventata da lui stesso: quella in cui espressamente si poneva il marxista
critico. Con un'umilta' che non rinunciava comunque a farsi polemica nei
confronti dell'eccessiva fiducia nel ruolo degli intellettuali in vista
della trasformazione del mondo, questa metafora intendeva salvare la
funzione critica di chi "per caso" si trovi a passare in vicinanza di eventi
giudicati importanti; essa mirava a valorizzare la funzione di chi "racconta
poco e con fatica, quando i supertestimoni hanno gia' spopolato" e non
rinuncia comunque a presentare alla collettivita' i pochi "granelli di
verita'" che faticosamente e' riuscito a racimolare. E' la testimonianza di
chi non pretendeva di aver visto "tutto" (e quindi di sapere tutto), ma
sapeva far tesoro di molteplici e minuscoli indizi e sintomi.
Questa testimonianza finiva per gettare persino un po' di scompiglio sia tra
le file degli amici che tra quelle dei nemici. Cases ad esempio vi poneva in
forse il concetto stesso di cultura, valorizzata quale esperienza, emozione,
curiosita', godimento nell'universo storico dell'uomo avvilito
dall'industria culturale. E del resto non si mostrava neppure supinamente
legato alla lezione di Lukacs, a proposito della rivendicazione della
"totalita'"; il problema non era tanto quello di "riprodurla" quanto
piuttosto quello di ripristinarla: dinanzi alla disarmante frammentarieta'
della vita, la totalita' - egli osservava - e' l'oggetto della nostalgia e
dell'utopia; essa va fatta riemergere da sotto le incrostazioni del reale.
D'altro canto per Cases era la stessa totalita' rappresentata dalla "forma"
Partito a essersi ormai incrinata, e cio' obbligava a guardare con occhi
disincantati le forme che la rappresentavano nei paesi del socialismo reale.
La totalita' diveniva cosi' per lui l'oggetto della nostalgia e dell'utopia.
Coloro che si poterono stringere attorno a Cases in occasione della lezione
conclusiva da lui tenuta all'universita' di Torino (fra i tanti presenti,
v'era anche il suo amico fraterno Franco Fortini) ricorderanno forse il
momento in cui, dopo aver rivisitato i suoi temi germanistici piu' cari,
egli seppe quasi spiazzarci tutti e sorprenderci con una gran virata sul
tema che forse costituisce il cuore di tutte le sue ansie morali piu'
profonde: quello dell'utopia, appunto: "E ora - egli concluse - auguro buona
utopia a tutti!".
E' proprio il tema dell'utopia - del resto - a farsi largo, risoluto e
toccante, in un suo intervento - originariamente apparso sul "Manifesto"
nell'agosto 1982 e ripreso nel Testimone secondario - a proposito di ebrei,
sionismo e antisemitismo in Italia. In quella splendida retrospettiva
storica dal titolo Che cosa fai in giro?, con una vena di malinconia Cases
si spingeva sino all'oggi di un Israele che seminava strage a Beirut
riconoscendo che gli ebrei non hanno "un rapporto semplice con il potere" e
che, ebrei o no, in fondo siamo tutti superflui di fronte ad esso.
Parole di un "ebreo non ebreo" (come una volta Cesare si defini') che
vorremmo serbare nel nostro cuore e nel nostro operare.

3. MEMORIA. LORIS CAMPETTI RICORDA CESARE CASES
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 luglio 2005. Loris Campetti, nato a
Macerata nel 1948, e` laureato in chimica e ha lavorato come insegnante
nella scuola; lavora come giornalista dal '78, per circa dieci anni ha
diretto la redazione torinese del "Manifesto", attualmente e' responsabile
delle pagine d'inchiesta e di storia dello stesso giornale]

La prima volta che invitai a cena Cesare Cases riuscii a fare ben due
figuracce. Come tanti, lo consideravo un maestro. Maestro di vita. Lo sapevo
laico, ma in segno di rispetto per l'amico-maestro ebreo, curai di non
preparare pietanze a base di maiale ne' mescolai carni con formaggi. Glielo
dissi, quando arrivo': avevo allestito una cena a base di molluschi e
crostacei. Con sguardo serio mi spiego' che crostacei e molluschi sono
frutti proibiti, molto proibiti. Imbarazzato, gli chiesi: "E adesso?".
Cesare esplose in una risata: "Adesso ce li mangiamo", e si mise a sgusciare
sapientemente gamberi e cicale, capesante e vongole. Bella figura: scambiare
Cases per un uomo che obbedisse ai precetti, lui, il piu' laico degli ebrei
torinesi, forse non solo torinesi. Cesare Cases e' stato un uomo libero,
creativo, curioso. Sapeva parlare, oltre che scrivere, e quando parlava
incantava l'ascoltatore che non si sentiva intimorito dal suo sguardo
intenso. Ha diretto magistralmente "L'Indice", secondo i molti che hanno
lavorato con lui, perche' sapeva (e leggeva) tutto. Ma non basta saper tutto
per dirigere bene, e' necessaria un'altra dote rara: la generosita', la
generosita' intellettuale assoluta di chi trovava naturale mettere a
disposizione il suo sapere. Cases diceva quel che pensava. Le sue critiche -
e' stato anche un fustigatore della sinistra - pero' non offendevano perche'
avevano per bersaglio i contenuti, non la persona, l'"altro". Anche se dure,
le sue polemiche erano portate con ironia e autoironia, cioe' con
leggerezza. Leggerezza e discrezione hanno dato autorevolezza alla sua vis
polemica che ha avuto un'influenza importante nella cultura italiana.
"Buona utopia a tutti": con queste parole aveva concluso nel maggio del 1990
la sua lectio magistralis su Schiller all'Universita' di Torino, in un'aula
magna gremita all'inverosimile di amici e giovani studenti. Anticipando la
domanda che forse i suoi studenti non si sarebbero neanche sognati di fare -
ma che cos'e' questa utopia che ci augura? - Cases spiego', forse pensando
alle parole di Montale (una sola cosa sappiamo, "quel che non siamo, quel
che non vogliamo"): "E' solo in un orizzonte religioso che gli agnelli
saranno adottati dalle tigri e dai cani, o forse anche attraverso qualche
manipolazione genetica, ma questa e' proprio il tipo di utopia che non
vogliamo". E allora? Allora "nemmeno Marx ha voluto precisare che cosa sia
una societa' senza classi". Il presente da cui l'utopia aiuta a fuggire e'
segnato dall'immanenza di Pluto, per intenderci dall'immanenza del
capitalismo. L'utopia e' un viaggio oltre l'immanenza di Pluto e del "regno
della moda".
Cases era legato alla realta' e appassionatamente schierato contro le
tendenze dominanti. Al tempo della caduta del muro di Berlino e
dell'unificazione tedesca, la sua fu una delle poche voci critiche, cioe'
dubbiose, fuori dal coro entusiastico globale. Cesare moderava gli
entusiasmi anche legittimi, interrogandosi con qualche angoscia sul futuro
della Germania, dove finche' ha potuto camminare si e' sempre recato per
passeggiare nella solitudine dei boschi. Qualcuno critico' l'ebreo
settentenne per il suo flash-back sulla "Grande Germania" e l'avversione
alla "santificazione del dio mercato". Il dubbio era (e') un'eresia. Dunque,
chi non si accontentava di gioire per la liberazione dal giogo stalinista e
si arrovellava su futuro e utopia era pazzo. Peggio, stalinista.
Sull'unificazione tedesca, il 3 ottobre del '90 Cases scrisse un lucidissimo
editoriale sul "Manifesto" che iniziava cosi': "Per essere il piu'
impopolare possibile bisognera' cominciare con il nazismo...". Il titolo era
un inno al dubbio, cioe' alla ragione: "C'e' da aver paura?". Questo
giornale e' orgoglioso di averlo avuto tra i suoi collaboratori. Un
collaboratore speciale, un intellettuale vero a cui potevi chiedere
un'opinione su tutto, dalla Fiat alla Palestina, dal Pci ad Adorno. Ce ne
vorrebbero molti di collaboratori cosi'.

4. MASSIMO RAFFAELI RICORDA CESARE CASES
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 luglio 2005. Massimo Raffaeli scrive
di critica letteraria sul quotidiano "Il manifesto" e su vari periodici]

Pare sia esistita una corrispondenza risalente alla meta' degli anni
cinquanta in cui Thomas Mann, rivolgendosi al suo editore italiano Giulio
Einaudi, gli chiedeva chi mai lo aiutasse a scrivere lettere in un tedesco
cosi' superbo ed elegante da risultare offensivo per qualunque scrittore suo
connazionale. Offensivo e' una parola ben lontana dalle qualita' umane di
Cesare Cases ma davvero somiglia a lui il paradosso che la rende possibile.
Semmai Cases poteva apparire un mite extraterrestre: rare volte si era visto
infatti in Italia un accademico, anzi un fuoriclasse della germanistica, uno
studioso di rigore inflessibile (sempre meticoloso nella disamina del testo:
i carteggi con Franco Fortini e Sebastiano Timpanaro ci dicono che sapeva
incalzarli e talvolta batterli sul loro terreno, fosse un'espressione latina
o la scansione di un verso) ma che nel frattempo rimanesse un uomo libero,
insofferente di ogni conformismo e gergo corporativo, un intellettuale
militante capace di incarnare, sia pure depurato dal filisteismo che tanto
avversava nei suoi tedeschi, l'antico motto umanistico per cui se un uomo e'
un uomo allora deve interessargli tutto quanto si riferisca all'umano.
Riconosceva di non avere mai scritto una dissertazione rotonda, puntellata
di note e apparati, tanto meno di avere firmato una monografia "comme il
faut", se si esclude la tesi di laurea su Ernst Juenger. Preferiva la
forma-saggio che gli si attagliava esemplarmente e gli permetteva sia le
larghe parentesi e le aperture magnanime (alla Lukacs, di cui resta il
massimo studioso e interprete nel nostro paese) sia le ellissi e le punte
epigrammatiche (alla Karl Kraus, altra luce della sua costellazione) il cui
affondo pungente sapeva commemorare anche negli schemi parziali della
saggistica, come il corsivo e l'aforisma, dove anche faceva scintillare il
proprio stile.
*
Di suo Cases ci metteva una speciale ironia, vale a dire la capacita' di
proteggere il ragionamento, specie al momento della vibrazione, nel giusto
distacco dall'oggetto.
Si trattava di un'ironia laica, primordiale, che solo di rado e a ragion
veduta si inoltrava nel sarcasmo; e tuttavia, anche qui, il sarcasmo si
temperava di buonumore e smaltiva la possibile offesa magari traducendo il
greve fardello dell'erudizione in apologo e divertissement: Carlo Emilio
Gadda, ad esempio, ha raramente avuto in settant'anni di bibliografia pagine
che fossero, per lucidita' e pregnanza, all'altezza di quelle dedicate al
Pasticciaccio ora raccolte in Patrie lettere (Einaudi 1987); eppure quelle
pagine medesime ne erano la critica piu' acuminata, in forma di radicale e
strepitosa eversione. Ha scritto a proposito un pari di Cases, e cioe' Pier
Vincenzo Mengaldo, nei Profili di critici del Novecento (Bollati Boringhieri
1998): "Nulla sarebbe piu' ingiusto ed errato che prendere queste continue
fuoriuscite nell'ironia come vacanze, autodifese o anche semplici sfiati...
l'ironia ben altrimenti che essere un condimento o un divertito ornamento,
e' connaturata alla nascita stessa del saggismo nell'accezione moderna,
facendo tutt'uno - come gia' mostrava esemplarmente l'antesignano e
archetipo Montaigne - con la sua origine scettica. Intridendo il saggio,
l'ironia allude alla trascendenza inafferrabile della verita', e la addita
con tanta piu' forza quanto piu' la scinde ambiguamente dai soggetti
empirici e dalle occasioni che pretenderebbero di contenerla".
*
Restano i grandi contenitori della sua saggistica, volumi quali Il testimone
secondario (1985), il gia' citato Patrie lettere, Il boom di Roscellino.
Satire e polemiche (1990), tutti curati per Einaudi in maniera impeccabile
da Luca Baranelli, primi di una serie che poi l'editore ha voluto
interrompere senza motivo plausibile; e, insieme con un sapido libretto di
memorie (Confessioni di un ottuagenario, Donzelli 2000), restano i
ragionamenti con antichi e moderni compagni di via, dall'abate Galiani a
Italo Calvino, da Primo Levi ai filosofi della Scuola di Francoforte. A loro
chiedeva qualcosa che si asteneva, per orrore della retorica, dal nominare
per esteso, e cioe' la verita', quella che esigeva da se stesso nell'atto
dello scrivere e del rivolgersi a qualcuno, persuaso (con pochissimi altri,
marxisti inclusi, nel secolo che ha gelidamente celebrato l'autonomia
dell'arte) del fatto che la verita' della letteratura non sta affatto nel
cerimoniale della letteratura ma sempre e comunque nell'esperienza
dell'umano, nella parzialita' di ogni testimonianza che, in quanto tale,
reclama la totalita' espressiva.
Solo una volta Cesare Cases ha deciso di mostrare spazio e tempo da cui si
originava la sua passione per la verita', nel racconto autobiografico Cosa
fai in giro? (1978, ora in Il boom di Roscellino), centrato sulla vicenda
delle leggi razziali, cinquanta pagine, quasi un breve romanzo di
formazione, dove il nitore vitreo del ricordo serba tutto il pulsare
dell'umanita' ferita, negata, vulnerata a morte. Forse lo hanno letto in
pochi ma e' uno dei grandi racconti del nostro Novecento.

5. TESTI. CESARE CASES: LESSING IN ITALIA. CON VESPE
[Dal sito www.vivariumnapoli.it riprendiamo il seguente articolo apparso
come recensione del libro a cura di Lea Ritter Santini, Gotthold Ephraim
Lessing e i suoi contemporanei in Italia ("Biblioteca Europea" 11, Vivarium,
Napoli 1997, pp. XII + 189, lire 40.000) sul quotidiano "Il sole - 24 ore"
del 13 aprile 1997, col titolo "Viaggio in Italia non solo tra vespe". Per
un accostamento a Gotthold Ephraim Lessing cfr. Nicolao Merker, Introduzione
a Lessing, Laterza, Roma-Bari 1991]

I confronti sono sempre odiosi, Lessing viaggio' in Italia per otto mesi,
dal maggio al dicembre 1775, come accompagnatore del principe Leopoldo di
Braunschweig-Lueneburg, il figlio piu' giovane del duca di Woltenbuettel,
uno degli innumerevoli principotti tedeschi del tempo di cui lo scrittore,
passata la quarantina e abbandonate le velleita' d'indipendenza, si era
ridotto a fare il bibliotecario del duca di Braunschweig-Wolfenbuettel.
Giunto a Vienna (senza il permesso del padrone) nella speranza di
incontrarvi la fidanzata Eva Konig, lo scrittore vi aveva invece incontrato
il figlioletto del padrone stesso, e non gli era rimasto altro che
trasformarsi da bibliotecario in precettore e cicerone ambulante.
Non erano certo i presupposti migliori per un viaggio. Ma si trattava pur
sempre di Lessing! E della bella Italia! Come mai la scintilla non scocco'?
Perche' scoccasse non era nemmeno necessario interessarsi di belle arti o di
letteratura latina e italiana (discipline in cui non si puo' mettere in
dubbio la competenza di Lessing). Bastava per esempio essere massoni, come i
due illustrl viaggiatori che giunsero a Napoli proprio pochi giorni dopo che
Ferdinando di Borbone aveva messo la massoneria fuori legge. Allora la
massonerla era di moda in Germania e in Austria, ma proprio per questo era
osteggiata dal ministro Bernardo Tanucci, in odio alla regina Maria
Carolina, figlia dell'imperatore e sorella di Maria Antonietta. Invece le
poche pagine che il fratello di Lessing, Karl, pubblico' postume sotto il
titolo "Diario del viaggio in Italia" contengono quasi soltanto elenchi di
libri e menzioni di visite ad antiquari e dotti generici. Sembra quasi che
il bibliotecario si sia detto: bibliotecario mi volevate e bibliotecario
saro', anche davanti al piu' bel paesaggio italiano. Gli italiani gli resero
pan per focaccia perche', nonostante la loro germanomania, di Lessing si
occuparono poco fino alla seconda guerra mondiale (tra le eccezioni c'e' il
bel "profilo" Formiggini scritto da Paolo Milano).
La cultura di sinistra segno' la svolta. L'illuminismo torno' di moda, e ci
mettemmo tutti come un sol uomo ad occuparci di Lessing, capintesta Paolo
Chiarini che si sobbarco' la non lieve fatica di tradurre e commentare tutta
la Drammaturgia d'Amburgo. Ma passate le sbornie ideologiche Lessing e' ora
affidato alle mani sapienti di una comparatista di mestiere, Lea Ritter
Santini, oscillante tra la sua patria Bologna e l'Universita' di Muenster,
in Vestfalia, dove insegna germanistica e letterature comparate. I suoi
saggi lessinghiani sono raccolti in un volume Lessing e le vespe. Il viaggio
in Italia di un illuminista, (Bologna 1991).
Per chi non lo sapesse, il titolo si riferisce a una famosa favola
lessinghiana in cui i moderni italiani che si vantano di discendere dagli
antichi romani vengono paragonati a vespe che uscendo dalla carogna di un
cavallo esclamano: "Da quale nobile animale abbiamo tratto origine".
Questi saggi sono strettamente connessi a un'esposizione organizzata
dall'autrice a Napoli (presso l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici)
e a Wolfenbuettel (presso la Biblioteca Ducale di cui Lessing fu
bibliotecario) e di cui sono usciti in entrambe le lingue cataloghi
riccamente illustrati. Qui si trovano anche il testo e la prima traduzione
italiana (a cura di Paola Barbon) del diario in questione. Sempre a Napoli
si e' tenuto il simposio di cui il presente volume raccoglie gli atti,
dovuti a studiosi stranieri e italiani (oltre a Paolo Chiarini e alla
curatrice figurano parecchi studiosi del Settecento piemontese, cio' che non
meraviglia, dato che Torino negli appunti di viaggio fa la parte del leone),
e d'interesse spesso nient'affatto specialistico.
*
C'e' intanto da rispondere al quesito: perche' Lessing ha avuto cosi' poco
da dire sull'Italia e sugli Italiani? Perche' le vespe rimanevano vespe? Ma
quella delle vespe e' poco piu' di una battuta per prendere in giro la boria
del dotti italiani, che allora doveva essere veramente insopportabile,
finche' all'epoca del Leopardi dovettero riconoscere che i tedeschi la
sapevano piu' lunga di loro sugli antichi romani.
In realta' Lessing aveva la massima stima per i nuovi intellettuali italiani
che non rientravano in quello schema, per esempio Baretti e Denina (che
conobbe personalmente a Torino). Se avesse incontrato l'Alfieri,
probabilmente si sarebbero piaciuti per analogia di carattere, nonostante le
cattive esperienze del conte astigiano in Germania.
Dopo tutto, poco prima di andare in Italia, Lessing aveva scritto un dramma
antitirannico (o, come oggi si ritiene, diretto contro la pavidita' della
borghesia tedesca), ambientato in uno staterello italiano e ispirato alla
leggenda di Virginia, da cui di li' a poco l'Alfieri avrebbe tratto una
delle sue piu' famose tragedie. Le analogie tra i due Paesi evidentemente
non gli sfuggivano: entrambi rimasti legati al frazionamento feudale,
entrambi in preda a principi magari non malvagi, ma rovinati dall'esercizio
assoluto del potere, come l'immaginario principe di Guastalla escogitato da
Lessing. Oltre a tutto, c'era anche un interesse politico che avvicinava
alle vespe l'autore dell'Emilia Galotti.
E se questa che ci e' rimasta non fosse che una scaletta parziale
(cominciata a Torino, quando Lessing aveva gia' visitato due celebri sedi
universitarie, Pavia e Bologna, nonche' Venezia), che Lessing intendeva
rimaneggiare piu' tardi? Pressappoco come fece poi Goethe, che attese la
bellezza di trent'anni prima di rimaneggiare e dare alle stampe nel suo
Viaggio in Italia quanto aveva vissuto e annotato o descritto agli amici? Ma
non abbiamo nessuna prova che ci fosse altro materiale scartato dal fratello
Karl, e poi Lessing non era Goethe e non poteva passare tanto facilmente da
un genere all'altro. Anzi c'e' chi pensa anche in questo volume che Lessing
non potesse scrivere una relazione del viaggio in Italia senza infrangere il
divieto da lui stesso decretato che proibisce la letteratura descrittiva.
Nel Laocoonte egli aveva infatti rovesciato il detto oraziano "ut pictura
poesis", mostrando con buoni argomenti come la differenza tra la poesia e le
arti figurative consistesse nel fatto che queste descrivono stati,
situazioni, mentre la poesia racconta delle azioni. La poesia narra, la
pittura descrive, quindi erra chi fa della poesia descrittiva, e un poeta
contemporaneo, Wieland, parla di un personaggio che entra in un bosco "che
descriverei se Lessing non mi tirasse per le orecchie".
Le sue tirate d'orecchi non hanno impedito a molti poeti di fare eccellenti
descrizioni, ma non si puo' pretendere che proprio Lessing si mettesse a
descrivere il cupolone del Brunelleschi o il Mose' di Michelangelo, emulando
cosi' quel Winkelmann contro cui aveva sovente polemizzato; e di cui (come
scrive a un amico) non voleva affatto "seguire le orme" andando in Italia,
se non altro perche' costui si era servito dell'amicizia dei cardinali per
disporre delle opere d'arte, fino a rinunciare al suo protestantesimo. Tutto
sommato, la migliore supposizione e' quella di Lea Ritter Santini, che in un
saggio intitolato Diario italiano oppure lettere sull'Italia ricorda che fra
le traduzioni di Lessing rimaste inedite e poi andate perdute c'era un
misterioso Schreiben ueber den Charakter der italiener, senza indicazione
d'autore. Secondo le ricerche della nostra studiosa, l'autore di questo
scritto, apparso in traduzione francese nella "Bibliotheque italique" di
Ginevra sarebbe il conte bergamasco Pietro Calepio, ben noto per i suoi
rapporti con gli svizzeri, e in particolare con Johann Jacob Bodmer, con il
quale ebbe un carteggio sulla tragedia che interesso' anche Lessing. Questi
avrebbe pensato si' a scrivere un libro sull'Italia, ma non del tipo del
Viaggio in Italia goethiano, bensi' una descrizione degli "usi e costumi"
degli italiani in forma di lettere, secondo l'esempio del Baretti, del conte
Calepio, tradotto da Lessing, e del capostipite di tutta questa letteratura
"comparativa" cioe' le Lettres sur les Anglois et les Francois del bernese
Ludwig Beat von Muralt. Questa ipotesi, suffragata da alcuni riscontri
puntuali, spiegherebbe meglio delle altre il carattere provvisorio e
parziale degli appunti italiani. Il libro getta una luce anche in recessi
meno problematici, ma dove non avremmo mai sperato aiuto da Lessing.
Sappiamo che in Italia egli compro' un buon numero di libri da portare a
Wolfenbuettel, ma chi e' andato poi a leggerli? Pochi eruditi che non si
lasciano spaventare da titoli spesso ostici come i nomi degli autori. Per
esempio Piano ovvero ricerche filosofiche sulle lingue di Diego Colao Agata.
Chi era costui? Sembra un nome inventato. Invece e' esistito davvero e il
libro succitato, apparso a Napoli nel 1774, e' ispirato alle teorie di Vico,
anzi non fa mistero di essere spesso un'epitome di quel "sublime" pensatore.
*
Ora, sull'introduzione del Vico in Germania grava un'ombra di mistero che
nemmeno un libro recentemente dedicato all'argomento e' riuscito a
dissipare. La polemica del Vico contro il razionalismo cartesiano e le sua
supposizione che le favole poetiche fossero il primo linguaggio
dell'umanita' cosi' come quello dei bambini sembrano anticipare quanto i
tedeschi andarono pensando in proposito a partire da Hamann. Il quale il 21
novembre 1777 scrive a un suo corrispondente di aver ricevuto da un suo
amico di Mantova una copia della Scienza nuova. Dopo un mese esatto ne
scrive anche a Herder.
Ci siamo, dunque, penserebbe uno sprovveduto: Hamann si entusiasma per il
Vico, trasmette il contagio a Herder e cosi' sorgono e prosperano in
Germania la filosofia della storia e la filosofia del linguaggio. Senonche'
nulla di questo e' vero. Perche' quel che scrive Hamann a Herder e' di
essere deluso dal Vico in quanto sperava che fosse un fisiocrate, mentre
invece aveva trovato un filologo. Insomma, non l'aveva letto, o non lo aveva
letto con abbastanza attenzione; altrimenti si sarebbe accorto che quel
filologo aveva molto da dirgli. Neanche di Goethe e di Hegel si hanno prove
che avessero letto il pensatore napoletano. Neanche Lessing l'aveva letto;
ma aveva letto Diego Colao Agata. Tanto gli basto' per essere quel mediatore
che invano si era cercato in Hamann e in Herder. Mediatore di un mediatore,
se si vuole, ma nessuno se ne sarebbe accorto se uno degli studiosi
mobilitati da Lea Ritter Santini, Stefan Matuschek, non avesse letto
(probabilmente per la prima volta dopo Lessing) il testo che egli stesso
definisce con una litote "non molto noto" dell'Agata.
Del resto sono altrettanto poco note le pagine lessinghiane che testimoniano
di questo influsso, cioe' quelle pubblicate in appendice all'edizione da lui
procurata degli scritti di un suo giovane amico, morto precocemente per
suicidio, Karl Wilhelm Jerusalem. Qui non c'e' da chiedersi "chi era
costui"? perche' tutti i lettori del Werther sanno che Goethe si ispiro' a q
uesto personaggio per la seconda parte del suo celebre romanzo. Ora, due
degli studi di Jerusalem concernevano la filosofia del linguaggio, di cui
Lessing non si era finora occupato, ma su cui dichiara di aver discusso piu'
volte con l'autore.
La grande questione allora dibattuta era se il linguaggio fosse invenzione
umana o fosse stato concesso da Dio all'uomo tutto in una volta con un
miracolo. La posizione di Lessing nella postfazione a Jerusalem e'
intermedia. "La lingua puo' essere stata insegnata al primo uomo: egli puo'
esserci arrivato proprio come ancora adesso ci arrivano tutti i bambini. Se
ci si domanda: attraverso cosa? Attraverso chi? Attraverso rapporti con
creature superiori, attraverso la condiscendenza del Creatore stesso...
Smettetela di pensare che quel rapporto, che perfino quella condiscendenza
sia un miracolo, cio' che venne prodotto da quel miracolo non era miracolo,
accadde invece tutto in maniera cosi' naturale come accade ancora quando i
bambini coniano i vocaboli".
Se questo non e' Vico, gli assomiglia come due gocce d'acqua. Il dio che
l'illuminismo aveva fatto uscire dalla porta rientra dalla finestra come
educatore del genere umano. Non basta. Siccome a Lessing stava molto piu' a
cuore la filosofia della religione della filosofia del linguaggio, ecco che
lo schema dell'origine del linguaggio diventa quello dei primi paragrafi
dell'Educazione del genere umano, lo scritto composto nel 1776, poco dopo il
ritorno dall'Italia, in cui si descrive il processo della civilta' come
avviato dalla divinita', finche' l'uomo ne ha bisogno prima di acquisire la
capacita' di autoeducarsi.
Si era spesso, se non sempre, sospettata la difficolta' di scindere, secondo
quanto vuole una certa tradizione nazionalistica, l'illuminismo di origine
franco-inglese da un preteso irrazionalismo di marca prussiana, alleabile
tutt'al piu' all'italiano Vico. Dimostrando che il pateracchio o inciucio
italo-prussiano non passava attraverso i pretesi irrazionalisti Hamann e
Herder, ma proprio attraverso il massimo esponente dell'illuminismo tedesco,
rispetto al quale gia' Hegel (e proprio citandolo in un saggio sul carteggio
di Hamann) attestava a Lessing di vivere "in ben altre profondita' dello
spirito", questo volume da' un altro colpo alla pretesa di stabilire dei
compartimenti stagni tra i grandi filoni del pensiero settecentesco.

6. MATERIALI. ANTONIO GNOLI INTERVISTA CESARE CASES IN OCCASIONE DEGLI
OTTANT'ANNI (2000)
[La seguente intervista e' apparsa sul quotidiano "La repubblica" del 30
gennaio 2000. Antonio Gnoli e' giornalista della pagina culturale del
quotidiano "La Repubblica" e saggista; ha anche curato l'edizione italiana
di testi di Alexandre Kojeve per Adelphi e di Carl Jacob Burckhardt per
Bompiani. Opere di Antonio Gnoli: con Bruce Chatwin, La nostalgia dello
spazio, Bompiani 2000]

Il professor Cesare Cases, germanista illustre e polemista eccelso, compira'
ottant'anni nel mese di marzo. E' l'occasione per tornare a incontrarlo.
L'ultima volta che ci vedemmo fu a Torino, alcuni anni fa. Da qualche tempo
vive in una zona bella di Firenze: una casa con giardino dalle parti di
Forte Belvedere. Un enorme sanbernardo insieme a un altro cane malandato mi
accolgono piu' incuriositi che sospettosi. Il professore incede con piccoli
passettini. Veste con un completo grigio e ha l'aria impeccabile. La trovo
bene, dico. "Se si soffermasse sui miei occhi non sarebbe cosi' sicuro o
cosi' gentile. Li guardi, stanno perdendo la loro funzione", replica il
professore. Dice tutto questo senza amarezza, semplicemente constatando il
fatto.
Chiedo se e' mai vissuto prima d'ora in questa citta'. "No, mai. Un periodo
della mia vita sono stato a Pisa. Era la meta' degli anni Cinquanta,
insegnavo in un liceo. Vita quieta e interessante".
Interessante perche'?
"Per le frequentazioni. Ci vedevamo spesso con Timpanaro,figura
straordinaria e appartata. E poi Cantimori, un intellettuale che ha scritto
cose di livello assoluto e che e' morto come un attore in palcoscenico,
cadendo da una scala in mezzo a un mare di libri".
Cosa le piaceva di lui?
"Il suo contributo ai movimenti ereticali italiani e' fondamentale".
Stimava anche i saggi del periodo fascista?
"A parte che era un fascista di sinistra, devo dire che i suoi lavori sul
pensiero di destra erano eccellenti. Su Juenger ad esempio ci intendemmo a
meraviglia".
Lei perche' si interesso' a Juenger?
"Perche' dovendo preparare una tesi di laurea, pensai di farla su un autore
che un po' conoscevo. Mi aveva favorevolmente colpito l'analisi juengeriana
del lavoratore. Li', per vie totalmente diverse dal marxismo, passava una
certa idea di ricostruzione del decadimento della borghesia".
Solo questo la colpiva?
"No, direi che e' interessante almeno fino a quando non si inventa la figura
dell''anarca', roba che va bene in un supermercato per ricchi".
Sento una vena polemica che riaffiora. Le piace ancora fare satira?
"Mi piace a volte guardare nel fondo dell'ego forte".
E cosa ci trova?
"Molte cose ridicole".
Ci dia una definizione di satira.
"Una risposta gliel'avrei data volentieri vent'anni fa. Oggi mi lascia
indifferente. Pensi a quante chiacchiere si sono fatte sui rapporti fra
satira e ironia".
Non ama piu' lavorare sui postulati?
"E' un'impresa vana. Se si guarda oggi alle grandi costellazioni che si sono
succedute nella seconda meta' del secolo - la fenomenologia, il marxismo,
l'esistenzialismo, lo strutturalismo - si vedra' che e' restato ben poco.
Anche se continuo a non considerarle dei fantasmi".
In fondo in poco piu' di un ventennio, tra gli anni Settanta e Ottanta, e'
stata fatta tabula rasa di molte cose. Il pensiero non entusiasma, l'azione
e' stanca. Siamo allo sbando o no?
"Non sono di questo parere. Credo che quella che un tempo si chiamava 'la
battaglia delle idee' abbia ancora una sua importanza. Trovo deleterio un
certo disfattismo ideologico che circola e deprecabile l'idea che non
pensare sia meglio del pensare. Non le pare?".
Io, se mi permette, trovo invece un po' curioso questo appello alla
battaglia delle idee.
"E perche'? Le rispondo da ebreo. Sa cosa ci distingue dagli altri? Il fatto
che per noi il messia non e' ancora arrivato. La battaglia delle idee, per
la quale ho ancora del tenero, ha senso proprio perche' si aspetta sempre il
messia".
Ma non ritiene che il cristianesimo ha le sue buone ragioni per non
aspettare piu' il messia?
"Comprendo cio' a cui allude. L'operazione di San Paolo che non per nulla
era ebreo aveva una sua legittimita'. In fondo non puoi dire: sto aspettando
il messia, e poi non vederlo mai arrivare. C'e' dunque una parte di ragione
nel cristianesimo che si puo' capire meglio con l'idea di famiglia".
In che senso?
"Una volta un avvocato mi chiese perche' noi ebrei eravamo cosi' fissati con
la famiglia. Dissi che era vero, bastava guardare alla vicenda di Kafka,
alla sua fatica di staccarsi dalla famiglia. E poi aggiunsi che per un
cristiano e' tutto piu' semplice, perche' c'e' un Dio che ha avuto un
figlio. Mentre noi non abbiamo questo figlio, Dio incombe su di noi".
Ma cos'e' meglio?
"Dire come fa il cristianesimo che il messia e' giunto, comporta una
menzogna fondamentale. C'e' quella bellissima parabola chassidica in cui un
ebreo chiede a un altro ebreo se il messia e' arrivato. E quello dice:
aspetta un momento che guardo. Poi apre la finestra, si affaccia e vede che
la piazza e' vuota, nessuna manifestazione di tripudio, nessuna folla che
esulta. Si rivolge all'amico e gli dice: non e' ancora arrivato, continuiamo
ad aspettare".
Come fa uno spirito laico a convivere con l'idea di promessa messianica?
"Beh, non e' detto che uno spirito laico non coltivi una propria attesa, una
propria utopia non necessariamente religiosa".
Ma un'utopia ha qualcosa di religioso, implica una fede...
"Piu' che una fede, direi una disperazione. Vede, noi siamo qui a parlare di
attese, di aspettative. Ma i miei ottant'anni sono una bella eta' e
francamente non ho piu' la forza di reagire in modo costruttivo al presente.
E allora capita che ci si abbandoni a una speranza di cui si sa nel proprio
cuore che non e' verosimile, ma che d'altra parte e' l'unica possibile. Fra
tenere la finestra chiusa e aprirla, preferisco quest'ultimo gesto".
La disperazione, a cui allude, apre a Dio?
"Per me no. Pero' so che anche quando gridavo troppo forte che non credevo
in Dio, ho sempre avuto l'opposizione del mio amico Fortini il quale in
qualche modo credeva. Allora, se Dio esiste tanto meglio, ma non credo che
esista. E se un messia arrivera' non sara' qualcuno inviato da Dio. So che
questa affermazione mi mette per alcuni aspetti nei guai".
Nei guai per il contrasto con le sue radici ebraiche?
"No, gli ebrei atei sono un fenomeno frequente. L'ebraismo non comporta la
credenza nella divinita', comporta solo la credenza nel possibile avvento
del messia".
Comporta, a volte, un sottile rapporto con la teologia. Pensi a Walter
Benjamin..
"Si', ma le diro' che non ho mai avuto particolare simpatia per questo
aspetto del pensiero di Benjamin, cosi' come del pensiero di Leo Strauss che
per certi versi e' analogo. Non lo so. Ma per dirla in modo molto semplice,
in me gioca l'esser nato e vissuto in Italia, un paese in cui non c'e' la
religione. Machiavelli l'aveva detto: il popolo e' senza religione. E'
scettico, e io credo di avere assimilato questo scetticismo".
Trova che sia un bene o un male tutto questo?
"Io l'ho sempre sentito come una benemerenza. Si puo' dire quello che si
vuole degli italiani, ma credo che nonostante le forme di antisemitismo che
ci sono state era difficile persuadere un italiano che l'ebreo e' un essere
qualitativamente diverso da lui. E cio' depone a favore degli italiani".
Si parla di scetticismo in un periodo in cui la religione e' in pieno
rigoglio...
"E' alla mentalita' che occorre guardare. E' il gusto della menzogna, del
credere e del non credere, che salva gli italiani e li rende accettabili di
fronte a un imperversare di fanatismi. Ho paura di elogiare un po' troppo il
cattolicesimo, ma trovo interessante questo fenomeno religioso in cui il
dovere e' soprattutto un fatto di pura esteriorita'".
Chi trovava nell'esteriorita' del cattolicesimo una grande forza seduttiva
era Carl Schmitt.
"Ma lui trovava una grande forza anche nel nazismo!".
Lei e' molto critico nei suoi riguardi.
"Era un figlio di buona donna".
Solo questo?
"La prima volta che lessi qualcosa di Schmitt mi pare fu attraverso le
traduzioni di Cantimori, poi cominciai a leggerlo in originale. E mi venne
in mente che non sarebbe stata una cattiva idea di scrivere un libro e
intitolarlo La messa dei Nibelunghi. Eravamo subito dopo la guerra e ricordo
che proposi questa cosa a Laterza, il quale mi incoraggio' a portarla
avanti. Il libro doveva essere costituito da una celebre triade: Juenger,
Heidegger e Schmitt. Ma poi non ne feci piu' nulla".
Ma lei cosa pensa di questa triade?
"Ne penso male. Come triade preferisco Hegel, Marx e, perche' no?, Nietzsche
che ha avuto grandi intuizioni".
Pensare male di certi autori non ci esime dal considerare la loro forza. E'
possibile imparare dal nemico? Mi riferisco a un articolo che lei scrisse
alcuni anni fa.
"Si', era un articolo su Benjamin il cui nemico era Klages. Penso che si
possa imparare dal nemico, il nemico puo' vedere cose che io non vedo.
Quindi, per fare un esempio, il crinale conservatore e anticapitalista che
si e' prodotto in Germania negli anni Venti e Trenta lo considero
ragionevolmente stimolante".
E ormai acquisito anche dalla sinistra. Secondo lei esiste ancora una
distinzione fra pensiero di destra e di sinistra?
"Ci sono singoli pensatori la cui consistenza pero' francamente mi sfugge.
Ma chiedersi oggi se esiste un pensiero di destra o di sinistra, mi pare
impresa vana. Se non altro perche' dubito che ci sia un pensiero".
Ma in passato la distinzione aveva un senso?
"Non c'e' dubbio, e aggiungo che esistevano passaggi sotterranei da una
sponda all'altra. Per esempio Bachofen e' alla radice sia del pensiero di
destra, come quello di sinistra. Fu letto con profitto da Benjamin e dai
nazisti come Baeumler".
Parlando di sinistra, mi viene in mente che lei per un certo periodo e' stat
o iscritto al Pci, e' cosi'?
"Si', rimasi iscritto fino al 1959, poi ne uscii".
Perche' non usci' con la grande crisi del 1956?
"Perche' a quell'epoca studiavo in Germania Orientale. Vi arrivai una
settimana prima della rivolta di Budapest e assistetti a tutto: al disgelo
prima e poi al ricongelamento. L'ultima cosa che vidi come testimone fu la
seduta del partito in cui si scomunico' Ernst Bloch".
Che sensazione le dava stare nel partito comunista?
"Per noi rappresentava una garanzia di potere, soprattutto intellettuale.
Eravamo tutti, anche se non spudoratamente, dei seguaci di Lukacs, il quale
diceva che il peggiore dei socialismi era comunque superiore al migliore dei
capitalismi. Semplicemente vedevamo un'alternativa che in realta' non c'era.
E non c'era perche' il comunismo era fondato sulla menzogna, tanto quanto la
civilta' cristiano- borghese".
Che ne e' di quella illusione?
"Spazzata via".
Quando ha avuto la sensazione o la certezza che la scena era cambiata?
"Negli anni Ottanta. Ma per una ragione che le apparira' strana...".
La dica.
"Mi sono accorto che si parla sempre delle solite cose. Non si fa che
pensare a tutto quello che e' accaduto nella prima meta' del Novecento. E'
un continuo elaborare un lutto di qualcosa accaduto tanto tempo fa. Cosi'
rispuntano le stesse facce: Benjamin, Lukacs, Marcuse, Adorno, Kraus e
altri. Li si cucina in salse diverse. Un giorno li si stramaledice, un altro
li si esalta".
Parte di loro lei li ha anche conosciuti personalmente, frequentati.
"Ma era normale, anche se oggi qualcuno si sorprende, poniamo, del fatto che
qualche volta hai scambiato le tue opinioni con Adorno".
Che impressione le fece quest'uomo?
"Era di una intelligenza fuori dal comune. Piccolo, tondo, grasso, gli occhi
vivissimi e parlava un tedesco meraviglioso".
C'era in lui un lato femminile?
"So che da giovane aveva avuto esperienze omosessuali. Si diceva di un suo
rapporto con Krakauer. Ma femminile non mi e' mai sembrato".
Alludevo a una specie di civetteria del suo pensiero.
"Non lo so. So pero' che era molto pieno di se' e a pensarci bene ne aveva
anche il diritto. Mi chiedo quale libro sia accostabile a Minima moralia,
che io considero uno dei grandi capolavori filosofici del Novecento. Adorno
e' stato un grande".
Una grandezza diversa poniamo da quella di Lukacs.
"In Lukacs agiva molto di piu' la tradizione. Lui aveva inventato il
concetto di decadenza, credeva nel progresso filosofico. Cose rispetto alle
quali Adorno era fortemente critico".
E tutto questo ha ancora un senso oggi?
"Diciamo un po' meno. Ma loro insieme ad altri sono stati i miei compagni di
viaggio".
Verso dove?
"Oggi non e' piu' cosi' importante la meta, l'importante e' aver viaggiato.
Anche se nei viaggi che ho intrapreso c'era sempre il problema dell'attesa".
Torna la questione del messia...
"Il mio coetaneo Wojtyla celebra grandi conciliazioni universali. Dipendera'
dalla scarsa potenza dei miei occhi, ma non vedo prospettive imminenti. Se
attesa c'e', sara' lunga ed estenuante".
Intanto come passa le sue giornate?
"Sto aspettando che maturi la cataratta. Ho un occhio ancora buono e gli
oculisti mi assicurano che presto tornero' a vedere bene. Come passo le
giornate? Leggendo con enorme fatica, e guardando ahime' la televisione.
Questo mi da' l'idea della dissoluzione in cui stiamo precipitando".
Auguri Professor Cases.
"Anche a lei".

==============================
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
==============================
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 32 del 31 luglio 2005